domenica 28 settembre 2014

Eccellenza e rumore

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Chi si occupa oggi di cultura si trova inevitabilmente di fronte a una serie di questioni di fondo di primaria importanza e di difficile soluzione. Si tratta di questioni che riguardano il significato stesso dell’attività culturale, un significato che sembra vada progressivamente sempre più smarrendosi.
Sembra che nel campo culturale sia in atto un preoccupante processo d’inflazione che funziona, più o meno, secondo questa regola: più la cultura viene messa a disposizione di cerchie di pubblico sempre più ampie, più questa perde di valore, più si degrada. Sembra che sia proprio la diffusione stessa della cultura a generare questa perdita di valore. L’inflazione della cultura sembra essere uno degli effetti principali della sua stessa generalizzazione a livello di massa.
Se questo è vero, probabilmente c’è qualcosa che non va nell’obiettivo, che appartiene da sempre alla prospettiva democratica, di distribuire a tutti la cultura. Deve esserci qualcosa che c’è sfuggito, che non abbiamo ben capito. Quel che c’è sfuggito, probabilmente, è che la cultura sembra vivere fondamentalmente sulla differenza. La cultura è complessità ordinata e l’ordine è difficile da creare, da mantenere e da riprodurre. Proprio per questo la complessità crea la differenza tra chi l’ha e chi non l’ha. Lo stesso concetto si può dire, in altro modo, affermando che la cultura è eccellenza e che l’eccellenza, per sua intrinseca natura, è piuttosto rara. Se questo è vero, l’idea di distribuire a tutti l’eccellenza non può che essere un’idea sconsiderata, non può che distruggere la cultura stessa. Quando tutti avessero la stessa cultura non ci sarebbe più differenza, quindi non ci sarebbe più cultura.
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Nelle nostre società contemporanee è effettivamente avvenuta un’imponente distribuzione della cultura di base, cioè il possesso medio di una serie di abilità che possono essere utilizzate nella vita di tutti i giorni. Leggere, scrivere, contare, eccetera. Questa cultura di base mette in grado l’uomo medio di essere consumatore: mette in grado di prendere la patente, di leggere i libretti delle istruzioni degli apparecchi, di seguire una canzonetta, oppure di vedere un programma televisivo, di fare la dichiarazione dei redditi, di andare a votare. È indubbio che, rispetto alle generazioni precedenti, la cultura di base si sia innalzata considerevolmente, anche se è valutazione comune che il livello medio attuale (soprattutto in Italia) sia ancora piuttosto insufficiente, soprattutto se confrontato con quanto accade in altri paesi.[1] La diffusione di Internet pare abbia ulteriormente moltiplicato la sensazione di una crescita imponente della cultura di base: chiunque può avere a disposizione in ogni momento una quantità colossale d’informazione in qualsiasi formato, scritto, visivo o audiovisivo.
Ebbene, questa imponente crescita, peraltro insufficiente come s’è detto, della cultura di base pare proprio stia uccidendo la nozione della cultura come differenza. La generalizzazione a un’ampia fascia della popolazione della cultura di base ha prodotto una colossale illusione prospettica, ha prodotto la convinzione che sia stato finalmente realizzato il sogno di una cultura uguale per tutti e che quindi non ci sia nessun’altra cultura da conquistare. La nozione della cultura come differenza, come eccellenza, è anzi accusata di essere una sopravvivenza di altre epoche, una concezione elitaria, autoritaria, antidemocratica, una concezione sorpassata. Nei giorni nostri, anche grazie alle nuove tecnologie, tutti sarebbero ormai in grado di produrre cultura. La cultura di base diffusa dà il senso dell’uguaglianza e – attraverso le nuove tecnologie – il senso dell’onnipotenza. Cosa ci può essere di altro? In questa nuova situazione, è pur vero che la complessità e l’eccellenza non sono del tutto ignorate, anche perché talvolta sono piuttosto utili, ma vengono sempre più confinate e catalogate nella categoria della specializzazione. Lo specialista è l’utile idiota da sfruttare quando serve, ma lo specialista non ha nulla da insegnare di culturalmente rilevante. Anzi, talvolta lo specialista viene considerato come unilaterale, ottuso. Si riconosce dunque  che la differenza di eccellenza c’è, ma è legata a una specializzazione, per cui questa, in fin dei conti, non conta come differenza culturale.[2]
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Grazie a questa generalizzazione della cultura di base sembra dunque che oggi si viva in una società dove, rispetto a un passato recente, non ci sia più alcuna carenza di cultura: chiunque lo desideri, con un minimo di investimento, pur non potendo diventare immediatamente uno specialista, può frequentare, acquisire qualunque tipo di esperienza culturale. La cultura è a disposizione di tutti e tutti possono scegliere. Siamo cioè in presenza di un mercato culturale che potremmo definire maturo.
Grazie proprio alla maturità del mercato culturale, oggi ci troviamo di fronte a un campo indistinto, il campo della cultura di massa, popolato da un’enorme varietà di proposte, tutte in via di principio accessibili, talvolta estremamente differenziate al proprio interno, con bassissimi costi di accesso, cui ciascuno può accedere a seconda del desiderio momentaneo, delle proprie abitudini, dei propri progetti. Ciascuno sceglie sul mercato della cultura secondo la legge di Dember, sceglie cioè quei prodotti culturali che siano compatibili con il proprio massimo livello di inner complexity. Questa situazione, peraltro, fa sì che 1) gli individui tendano a riprodurre costantemente la propria posizione sul proprio specifico mercato culturale locale e che, quindi, 2) si formino tra gli individui delle barriere invisibili che non sono determinate da alcuna costrizione esterna ma sono determinate esclusivamente dalle loro scelte volontarie. Possiamo immaginare una specie di forza di gravità nascosta che tende a far sì che ciascuno continui a ruotare e a rimanere indefinitamente all’interno del proprio tipo di consumi.
Naturalmente accade spesso che queste isole di consumo culturale non siano prettamente individuali ma che siano condivise da gruppi di comuni conoscenti e frequentatori, non necessariamente nel senso di una presenza fisica (sono ormai ampiamente possibili anche gruppi di tipo virtuale). I social network sono l’esempio tipico di questa tendenza alla segmentazione delle relazioni, dei linguaggi e del consumo culturale. Possiamo dunque presumere che, in ciascuna isola di consumo, si stia determinando una tendenza verso la stabilità e una scarsa propensione al cambiamento. In una situazione del genere, qualunque fatto nuovo può appena smuovere le acque e poi tutto torna come prima. Il cambiamento può avvenire soltanto in seguito a qualche tipo di crisi, oppure in seguito all’immissione sul mercato di qualche prodotto particolare che sia in grado di sfondare il confine delle isole e di attrarre un numero rilevante di consumatori.
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Una questione rilevante è dunque costituita proprio dal fatto che la cultura è assimilata a merce sul mercato e che l’individuo si percepisce come consumatore di una merce. Poiché la cultura non è certo un bene primario, necessario alla sopravvivenza (come il cibo,...), la domanda di cultura sarà costantemente piuttosto debole e quindi il mercato sarà in un certo senso guidato dall’offerta, la quale tuttavia deve tener conto delle diverse isole. Una situazione dunque di offerta sempre più polverizzata che cerca di adattarsi ai livelli di complessità interna degli individui che sono sempre più diversi e imprevedibili.
In una situazione di questo genere la cultura diventa un equivalente della merce allineata sugli scaffali di un supermercato, in attesa del compratore. È questa, in un certo senso, la situazione delineata dai teorici del postmoderno. Tutto si equivale, non è più possibile istituire gerarchie di valori, tutte le vecchie gerarchie di valori vengono travolte, vengono meno tutti i confini e tutte le regole, si creano continuamente combinazioni o contaminazioni tra elementi talora assai eterogenei, la cui consistenza ha una durata assai breve. Qualunque tentativo volto a imporre un ordine, una struttura, una gerarchia è destinato al fallimento per la resistenza da parte delle isole. Quel che rimane è un gioco combinatorio che si alimenta da se stesso, che costruisce e distrugge continuamente le proprie forme, usando le deiezioni più disparate. È il trionfo della logica del bricolage. Dal punto di vista del pubblico questi processi sono guidati da atteggiamenti momentanei, da frazioni dell’io, dalle emozioni e dai sentimenti. Una qualunque logica organizzatrice è destinata a essere messa in secondo piano. Dal punto di vista dei produttori si apre il campo dell’uso manipolatore del mercato culturale: si tratta tuttavia di una manipolazione morbida, che consiste essenzialmente nel dare a ciascuno quello che ciascuno in fondo vuole o crede di volere, momento per momento, moda dopo moda.
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L’universo delle infinite gerarchie potenzialmente presenti sul mercato culturale elimina dunque qualunque gerarchia, qualunque eccellenza. Se la verità non esiste più (si veda Vattimo) allora non resta che ricorrere al condizionamento, alla persuasione o al potere. Per esistere culturalmente non occorre tanto seguire canoni o mostrare qualche tipo di eccellenza, poiché questi non sono più riconoscibili; bisogna invece mettersi in qualche vetrina, bisogna proporsi a qualche tipo di pubblico, bisogna mettersi in qualche canale. Bisogna insomma esercitare qualche tipo di attrazione, persuasione o potere. Per giunta, la capacità di stare sulla scena non può che essere sempre momentanea, per cui qualsiasi posizione conquistata è sempre minacciata. Può sempre comparire un attrattore più forte che ruba la scena. È il trionfo della cultura istantanea.
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Se è vero che la cultura sta principalmente nella differenza, nella complessità, nell’eccellenza, si prospetta allora l’esigenza di riconoscere, contro queste tendenze alla massificazione, che non c’è cultura senza forma, senza gerarchie (comunque queste gerarchie si vogliano produrre e conservare). Illudersi che la giustapposizione di elementi sparsi senza alcuna gerarchia sia cultura è soltanto demenziale. Un progetto culturale è sempre una proposta, parziale e arbitraria fin che si vuole, di organizzazione gerarchica. Il dibattito culturale verte proprio intorno ai criteri, alle regole. Solo così si costruisce un canone. Chi invece dà per scontato che il canone non c’è (o che non c’è più, o che non è più possibile, o che se c’è deve essere distrutto) si limiterà a fare il collezionista di oggetti che luccicano, come le gazze, ma questi, una volta presi tutti insieme, costituiranno soltanto un mucchio. Il fatto che il mucchio sia democraticamente distribuito non lo rende meno mucchio.
La legge dell’entropia spiega che è molto facile distruggere le complessità organizzate. Le cose si distruggono addirittura da sole. Non altrettanto facile è costruire, generare la complessità e l’eccellenza implica un enorme dispiego di energia e di sforzi. Tutti i canoni, tutti gli ordini, tutte le regole possono facilmente essere distrutti. Qualcuno può anche trovare bello l’atto distruttivo, ma il caos in sé non può, per definizione, avere alcuna bellezza. Il caos è come la notte in cui tutte le vacche si somigliano.
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La preponderanza dell’uniformità entropica ha portato, e sta sempre più portando, all’emarginazione di quella che era considerata la cultura delle élites, la cultura della distinzione, la cultura legittima. Con risultati che sono difficili da prevedere in tutte le loro conseguenze.
Quando c’era la cultura legittima c’era comunque una gerarchia ben precisa. Si trattava indubbiamente di una gerarchia legata al potere politico, alle divisioni in classe. Una gerarchia che escludeva pesantemente gli estranei, che era anche usata per opprimere. Per molto tempo la religione ha impersonato la cultura legittima, o comunque ne ha costituito parte fondamentale. Il caso più clamoroso è il possesso della tecnica della scrittura, che ha assicurato per secoli il predominio di certi gruppi sociali su altri. La gerarchia istituita comportava tuttavia anche un certo ordine nella conoscenza e nelle relative applicazioni. Implicava dei modi di essere. In molti casi queste forme di ordine, nate originariamente in ambienti intellettuali ristretti, sono diventate elementi indispensabili dell’identità individuale. Basti pensare alla coscienza socratica.
La presenza della differenza ha naturalmente creato la possibilità del sovvertimento, della rivoluzione. Nel passato molti sovvertimenti della gerarchia culturale stabilita avvenivano tramite la conquista. Il nuovo padrone imponeva i suoi criteri, i suoi gusti. Ma anche in passato si conoscono casi in cui i conquistati hanno colonizzato culturalmente i vincitori. Il caso più clamoroso è quello dei greci nei confronti dei conquistatori romani. Ma vale anche per gli ebrei nei confronti dei romani.
A partire dall’età moderna si è affermato il sogno del sovvertimento radicale della gerarchia culturale stabilita, per la costruzione di una nuova società e con ciò di una nuova cultura: il sogno della rivoluzione. Se alcune rivoluzioni hanno avuto qualche parziale successo, va detto che la maggior parte delle rivoluzioni ha fallito miseramente, ha fallito proprio e soprattutto in campo culturale. L’eliminazione radicale della vecchia cultura per fare da zero «l’uomo nuovo» si è rivelato un progetto folle e irrealizzabile. Possiamo citare l’esperimento delle comuni cinesi, l’esperimento criminale in Cambogia dei Khmer rossi. Ma possiamo anche citare le controculture degli anni Sessanta. Il cambiamento culturale è per sua natura un cambiamento lento. Può darsi che oggi, grazie alla velocità del web ci possa essere una qualche velocizzazione. Il fatto è che spesso i cambiamenti imposti dall’esterno sono superficiali e sotto il velo dell’apparente modernità spesso si nascondono drammaticamente elementi arcaici che sono pronti a riprendere il loro posto.[3]
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Quando si parla di cambiamento culturale si pensa al passaggio da una strutturazione a un’altra, diversa e nuova. Insomma il passaggio tra due canoni, tra due orizzonti gerarchici. Tuttavia, come aveva già perfettamente colto De Martino, non sempre c’è la transizione a un nuovo ordine. Sempre più spesso, nella società contemporanea, sembra che si manifestino dei fenomeni di pura perdita dell’ordine, di appiattimento, di destrutturazione. Ebbene, per i nichilisti, per i teorici della «società liquida» e per i comunitaristi sembra che la condizione della destrutturazione, dell’appiattimento, dell’anomia e del disordine, sia la condizione normale, il futuro che ci aspetta. Qui si vede con chiarezza il masochismo di certi intellettuali che hanno fatto dell’anti intellettualismo la loro ragione di vita. I teorici della cultura di massa, della cultura come supermarket, hanno rinunciato all’ordine, credendo di avere scoperto che non c’è alcun ordine assoluto. La perdita dell’assoluto li ha sconvolti e ha bruciato loro il cervello. Certo che non c’è alcun ordine assoluto, sullo sfondo della comunicazione c’è soltanto il rumore. Costoro, una volta scoperto che la comunicazione non è un assoluto, hanno pensato di fare del rumore il loro assoluto. La cultura è lavoro, fatica, elaborazione, costruzione lenta e tenace. I profeti del rumore assoluto si divertono soltanto a sfasciare quel che i volenterosi (che sono rimasti in pochi) cercano di costruire. «Vedete? Ve lo dicevamo che sotto c’è soltanto il rumore!»
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Questa esaltazione della perdita dell’ordine è dovuta al fatto che la società di massa e la cultura di massa hanno proditoriamente confuso il pluralismo politico con il relativismo culturale. Per costoro il pluralismo politico talora rasenta l’anarchismo, e comunque implica la fine di ogni distinzione, di ogni eccellenza culturale, di ogni differenza. La perdita dell’ordine è vissuta come una liberazione dalle catene, come una sorta di improbabile emancipazione.
Il fatto che, in una società democratica, valga il principio «una testa un voto» non implica certo che in realtà tutti siano effettivamente uguali. Anzi, il principio suddetto può essere condiviso solo se si procede ad astrarre da tutte le differenze che caratterizzano i singoli. Possiamo considerare gli individui come uguali proprio perché ci imponiamo implicitamente di non tener conto di una miriade di differenze, che ci sono. Tra queste differenze, c’è proprio la differenza culturale, quella che è il grado di generare l’eccellenza.
È senz’altro vero anche che la democrazia politica implica la libertà di coscienza, cioè la libertà di decidere in base alla propria coscienza. Si tratta di un principio sacrosanto. Il quale principio tuttavia, nella società di massa, viene comunemente esteso con grande generosità, dal campo politico al novero delle credenze e, più in generale, all’ambito della cultura. Si ritiene quindi di avere il diritto di credere in qualsiasi cosa, si ritiene che qualsiasi elemento di cultura sia legittimo, purché condiviso da qualcuno (in tal caso si formerebbe una comunità). Si profila così la possibilità che ogni gruppetto si costruisca la propria cultura insindacabilmente (è la tesi del relativismo culturale e delle teorie comunitaristiche).
Ora, uno degli elementi fondamentali che caratterizzano la democrazia – anche se è spesso stato considerato come un implicito – è che per decidere intorno al bene comune gli individui debbano discutere, confrontarsi, ragionare. In una situazione di estrema frammentazione comunitaristica non sarà possibile alcuno spazio pubblico di discorso condiviso che abbia un minimo di regole e di efficacia. Ci sarà solo lo scontro degli interessi delle varie prospettive: ciascun gruppo porterà avanti, con il massimo della pressione, le proprie richieste particolaristiche e non ci sarà alcun interesse a produrre regole e gerarchie universalistiche. Qualunque canone sarà visto come una imposizione autoritaria.
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La scienza non è democratica, perché non basta che siano in tanti a sostenere una certa ipotesi. Una minoranza, con un esperimento ben congegnato, in ogni momento può smentire la maggioranza. Le leggi scientifiche, per fortuna, non si decidono con il voto. Su questo almeno si può essere tutti d’accordo. Il fatto è – e ciò non viene quasi mai riconosciuto - che lo stesso vale per la cultura, per la complessità e per l’eccellenza. Se il consumo culturale può essere pluralistico e sottoposto ai gusti della massa, non è vero però che la cultura è riconducibile a un mero pluralismo e che, quindi, una maggioranza possa essere chiamata a dettare legge in fatto di cultura. Non è detto che la maggioranza sia in grado di riconoscere l’eccellenza (si pensi sempre alla legge di Dember). Anzi, se l’eccellenza fosse immediatamente riconosciuta dalla maggioranza, probabilmente questa non sarebbe più un’eccellenza. L’eccellenza va soggetta alla legge dell’inflazione culturale: quando la possiedono tutti, non vale più in quanto eccellenza.
Il problema dunque è analogo a quello che si presenta nel caso della scienza. Se esista cioè un criterio di gerarchizzazione in base al quale valutare il risultato ottenuto. Per la scienza l’idea è che, in un modo o nell’altro, ci sia un «mondo esterno» con cui le teorie scientifiche hanno a che fare. Per la cultura, più in generale, l’idea è quella che la cultura possieda dei meccanismi di selezione e di adattamento. Una specie di meccanismo di prova ed errore, radicato nella natura, nella storia e nella società stessa, che in un certo senso «risponde» ai costrutti culturali determinandone la compatibilità o la falsificazione. Se questo è vero, questo vuol anche dire che non tutte le «culture» sono altrettanto bene adattate. Non tutte sono equivalenti.[4] Ci sono degli elementi culturali che sono obiettivamente regressivi e che pertanto vanno messi da parte.[5] Non si può conservare e riprodurre tutto indifferentemente (come alcuni vorrebbero). Ci sarà un motivo per cui certe specie si sono estinte. Bisogna recuperare un punto di vista in cui abbia ancora un senso domandarsi quale sia la cosa migliore da farsi, quale sia la cosa assolutamente da evitare. L’idea dell’evoluzione culturale – che si sta affermando contro tutte le chiacchiere relativiste – implica riprendere a confrontarsi con la nozione del valore, tanto bistrattata. Non certo nel senso di valori assoluti, ma nel senso di ciò che è meglio in termini di adattamento.
 
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Se la cultura di base può essere (giustamente) accresciuta quanto si vuole, quanto è possibile, la cultura autentica, come del resto la scienza, non potrà mai essere completamente democratizzata e distribuita uniformemente. Questo perché, se deve esserci cultura, ci deve sempre essere uno scarto tra l’eccellenza e il resto. E questo scarto, paradossalmente, deve essere il più ampio possibile. Incolto, oggi, non è soltanto chi non ha la cultura di base, incolto, soprattutto oggi, è colui che non è in grado di apprezzare l’importanza di questo scarto. Chi non capisce che questo scarto deve essere mantenuto perché è la fonte stessa della ricchezza culturale, della dinamica della cultura. L’eccellenza non ha mai fine, ed è bene che sia così. Le società più progredite sono quelle che sanno riconoscere l’eccellenza, la sanno produrre e riprodurre, la sanno selezionare attraverso il confronto e la critica. Le società più progredite sono quelle che sanno mettersi costantemente in una relazione di dipendenza nei confronti dell’eccellenza.
 
28/09/2014
                                                                      Giuseppe Rinaldi
 
 
NOTE
 
 
[1] Le statistiche sulla diffusione dell’alfabetizzazione nel nostro Paese sono sconsolanti.
[2] Usare Bach o Beethoven per fare la pubblicità a una marca di automobili o alla pasta Barilla è un modo per far conoscere Bach e Beethoven sterilizzandone però la differenza culturale.
[3] Ciò è dovuto al fatto che il mondo esterno può anche cambiare velocemente, ma il mondo interno (le identità individuali) non cambiano altrettanto facilmente, sono il frutto di stratificazioni avvenute nel corso della educazione, della vita intera. Gli individui sono conservatori, perché incamerano quel che esperiscono e lo conservano.
[4] Il motivo di questa non equivalenza sta nel fatto che le culture non sono sistemi chiusi autoperpetuanti. Le culture sono sempre sistemi aperti, in interazione con un ambiente, che è sempre un elemento altro, una entità estranea che ha il potere di dire di «sì» oppure di dire di  «no». Nessuna cultura controlla tutte le variabili del proprio ambiente, nessuna cultura è autosufficiente. Tutte le culture sono esposte alle dure smentite della realtà. E non vale sostenere che la nozione stessa di realtà è un prodotto culturale. Certo, ci sono culture che vanno soggette alla tracotanza della autosufficienza. Altre sono più attente a venire a patti con il loro ambiente. Si vedano, in proposito, i lavori di Diamond. 
[5] In questi giorni, in alcune zone africane infestate dall’ebola, gruppi appartenenti alle popolazioni locali hanno assaltato gli ambulatori e le postazioni dei medici e degli infermieri, alcuni dei quali sono stati massacrati. La loro tesi è che l’ebola non esiste, è un’invenzione dei colonizzatori bianchi, e che l’ebola sia solo una scusa per occupare il loro territorio. Curiosamente queste tesi sono molto simili a quelle dell’epistemologo Latour, il quale spiega che i concetti scientifici sono arbitrari e fabbricati nei laboratori. Se prevalessero queste tesi (che sono prettamente ipotesi culturali) buona parte dei territori dell’africa sarebbero spopolati e la loro cultura sparirebbe a causa della dura legge della selezione naturale.