giovedì 29 gennaio 2015

D’après Charlie

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1. Una costante che si ritrova nella storia recente delle società occidentali è l’irruzione improvvisa di fratture sociali e culturali, talvolta anche assai gravi, dovute a meccanismi di sradicamento da parte di vari gruppi di individui. Non si tratta soltanto di fenomeni di devianza individuale, ma di interi gruppi sociali che assumono una posizione di scontro radicale nei confronti della loro stessa società.  Si tratta di un fenomeno che è riconducibile ad alcuni problemi strutturali che le società occidentali incontrano nella loro riproduzione sociale e culturale. Esse, infatti, (almeno da quattro o cinque secoli) hanno rinunciato ai meccanismi di riproduzione governati rigorosamente da norme e istituzioni tradizionali e li hanno sempre più affidati alle scelte individuali e agli automatismi della mano invisibile. Beninteso, questi automatismi sono decisamente preferibili ai vecchi meccanismi fondati sull’eredità, sulla tradizione, sulle caste e quant’altro. Accade tuttavia che talvolta, senza alcun motivo apparente, i meccanismi di cui sopra falliscano il loro scopo, generando così gruppi sociali che non si riconoscono nella loro stessa società, che talvolta si ribellano contro di essa o che addirittura operano attivamente e violentemente per la sua distruzione. Sono gli sradicati radicali violenti di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
1.1. Per costituire simili gruppi occorre anzitutto una condizione strutturale di sradicamento in termini sociali ed economici. Si tratta di una condizione oggettiva, la quale tuttavia, è bene non scordarlo, viene tuttavia sempre interpretata soggettivamente da coloro che vi sono coinvolti. Si tratta dunque di una condizione strutturale percepita. Ciò tuttavia non basta. Perché questa condizione obiettiva si traduca in radicalismo violento occorre che questi gruppi abbraccino una visione del mondo radicale e violenta. Questa è dunque una condizione aggiuntiva di tipo culturale necessaria affinché si possa effettivamente generare una frattura sociale e culturale.
Queste distinzioni invero alquanto scolastiche sono utili per andare oltre a una visione meccanica dei fatti sociali, per comprendere come non sempre lo sradicamento di per sé sia in grado di generare il radicalismo violento. Se esso ha in effetti maggior facilità di impatto su individui che sono in condizioni di sradicamento, esso gode di una autonomia relativa e può penetrare anche dove lo sradicamento è minimo o dove non c’è per nulla (questo perché le visioni del mondo hanno una certa indipendenza dalle condizioni materiali dei loro portatori).
1.2. Un esempio tipico, in ambito storico, di sradicamento sociale è costituito dai narodniki, gli studenti figli della borghesia e della nobiltà russa del secondo Ottocento che, con confuse motivazioni religiose o ideologiche, rifiutavano la loro classe d’origine e andavano verso il popolo per emanciparlo. Questo movimento rifletteva certamente una situazione sociale oggettiva tipica degli intellettuali russi dell’epoca, ma fu ispirato da una visione del mondo radicale, peraltro dotata di forti connotazioni religiose, e generò al proprio interno anche una componente che decise di usare la violenza per accelerare la trasformazione sociale, giungendo in ultimo fino al nichilismo e al terrorismo.
Il movimento anarchico, del resto, con le sue ampie oscillazioni tra pacifismo e attivismo violento, costituisce un altro esempio di come lo sradicamento possa, seppure non necessariamente, coltivare il radicalismo e la violenza. Per fare un altro esempio, un’ampia presenza di gruppi di sradicati di questo genere si possono ritrovare nel Risorgimento italiano, in quello strato di attivisti, perseguitati politici, rivoluzionari che si sono impegnati per i più diversi obiettivi politici e sociali. Lo stesso vale per la storia del movimento operaio.
 
2. Nella recente storia italiana, parallelamente alla traumatica modernizzazione del dopoguerra e del periodo del boom economico, abbiamo assistito alla formazione, negli anni Sessanta e Settanta, di un complesso di movimenti che avevano, come loro base comune, proprio lo sradicamento sociale. Operai immigrati nelle grandi metropoli del Nord, studenti con un retroterra operaio e contadino che popolavano le scuole secondarie e le università, privi di una tradizione culturale e privi di prospettive d’inserimento sociale, ma anche sottoproletariato urbano e piccola criminalità. Il tutto era collocato in una società culturalmente conservatrice, bigotta, perbenista, opportunista e inautentica. Nel volgere di pochi anni i socialmente sradicati hanno finito per aderire a ideologie radicali, per lo più appartenenti alla famiglia ideologica del marxismo, hanno sviluppato un’opposizione radicale, determinando una vera e propria frattura sociale e culturale che ha lacerato il Paese per più di un decennio. In quel contesto, una parte dei radicali ha giustificato e praticato la violenza come forma di lotta politica.
2.1. Il ricorso alla violenza come forma di lotta politica avvenne in modo non uniforme, secondo un’ampia gamma di modalità, dall’autodifesa fino alla lotta armata e al terrorismo. Naturalmente il ricorso alla violenza diventava possibile grazie alla condivisione di specifiche narrazioni ideologiche che giustificavano la violenza stessa. Non si trattava dunque di una violenza immotivata: nella mente dei perpetratori della violenza c’erano delle argomentazioni, talvolta anche assai elaborate e sofisticate che avevano un retroterra storico e culturale. Nel giustificare la violenza si faceva ricorso ad alcune tradizioni storiche del movimento operaio, ma anche alla tradizione della Resistenza contro il nazifascismo (ma c’erano anche coloro che si rifacevano alla tradizione del fascismo). C’erano poi i riferimenti alle rivoluzioni contemporanee, diffuse nel resto del mondo, alle lotte di liberazione dei popoli oppressi. Il tutto era sintetizzato in alcuni miti e in alcune figure, come Che Guevara, ma erano anche assai popolari personaggi come Castro, Mao, Ho Chi Minh o Malcom X.
2.2. Nell’ambito delle narrazioni ideologiche più diffuse, l’uso della violenza pareva inevitabile ai più. Una delle canzoni più note all’epoca aveva come ritornello: “… lotta, … lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, …”. Non è che tutti quelli che la cantavano pensassero seriamente di darsi alla milizia clandestina, ma tutto ciò mostra una disponibilità all’uso della violenza nella lotta politica o, come minimo, una disponibilità alla sua giustificazione.
Di fronte a una diffusa accettazione dell’uso della violenza in politica, ci si divideva poi, in effetti, circa l’opportunità delle specifiche modalità di attuazione: violenza ammessa come autodifesa, violenza da parte delle masse nelle piazze, oppure violenza pedagogica da parte delle avanguardie, fino alla lotta armata clandestina o al terrorismo. La scelta delle modalità di attuazione della violenza non di rado dava luogo a sottili disquisizioni dottrinarie.
In questo variegato panorama è comunque accaduto che tra gli sradicati radicali alcuni si siano dati alla clandestinità, abbiano formato dei gruppi organizzati, magari anche in concorrenza tra di loro, si siano procurati armi, si siano esercitati militarmente, abbiano preso contatti con altri movimenti armati di mezzo mondo (dai Paesi Baschi, all’Irlanda, alla Palestina), abbiano cercato di realizzare un loro programma politico militare. Del resto gli scontri con le forze dell’ordine, che spesso avvenivano nelle piazze, costituivano una palestra di selezione e addestramento. Chi non si tirava indietro nello scontro era popolare, era applaudito e diventava un leader riconosciuto. Su scala minore accade anche oggi.
2.3. La vicenda italiana di allora mostra con chiarezza come una condizione di marginalità economica e sociale non sia sufficiente a produrre gruppi di sradicati radicali e violenti. Perché questo avvenga, è necessario che, alla situazione di marginalità sociale,  si aggiunga la diffusione e la condivisione di particolari narrazioni ideologiche che interpretino e spieghino la marginalità percepita nei termini di una assoluta divergenza di interessi, di una netta frattura sociale, che istituiscano uno spartiacque radicale tra “noi” e “loro”, che costruiscano una nuova identità collettiva, che annuncino la battaglia radicale tra il bene e il male, per la costruzione dell’uomo nuovo, per l’instaurazione di un nuovo ordine sociale.
Grazie a queste narrazioni ideologiche, in un clima di effervescenza collettiva, può diffondersi rapidamente la percezione di una frattura sociale e culturale ultimativa che, sul piano esistenziale, è accolta come una scoperta, come una rivelazione, come il ribaltamento del punto di vista quotidiano o come una conversione. È accaduto così che giovani “di buona famiglia”, “bravi ragazzi” si siano inaspettatamente, da un giorno all’altro, radicalizzati fino a praticare la violenza o il terrorismo, tra la sorpresa e l’incredulità dei benpensanti. 
 
3. Questi elementi di analisi possono essere utili per comprendere quanto sta accadendo oggi in molte società europee, in connessione con i recentissimi attentati terroristici in quel di Parigi. I nuovi sradicati che rischiano un processo di radicalizzazione sono oggi prevalentemente i giovani figli di immigrati, di seconda generazione, che hanno la cittadinanza di qualche paese europeo, che parlano perfettamente la loro lingua nazionale, che sono stati educati nelle scuole pubbliche del loro paese, che sono del tutto simili ai loro coetanei. A questi si possono aggiungere altri giovani il cui sradicamento è dovuto ad altri fattori, magari anche di tipo più personale. Si tratta comunque di ragazzi per molti aspetti del tutto occidentalizzati. Le cronache hanno fornito dovizia di particolari sulla loro infanzia, sui loro gusti musicali, sulla loro vita quotidiana. Costoro spesso non hanno ricevuto un’educazione religiosa, si sono ritrovati in una condizione di possedere magari una generica identità religiosa ma senza alcuna pratica. Non hanno neppure ricevuto particolare educazione di tipo politico ideologico.
La radicalizzazione progressiva di questi gruppi, che – non dimentichiamolo – sono, a tutti gli effetti, formati da cittadini europei, oggi avviene principalmente grazie alla scoperta e all’interiorizzazione di una serie di narrazioni politico religiose appartenenti all’Islam radicale. Per questi giovani l’incontro con l’Islam radicale viene vissuto come una riscoperta delle origini, come un revival, come una rinascita spirituale.  Le cronache parlano di giovani convertiti all’Islam, di ragazzi e ragazze che sono andati in Siria a combattere con lo Stato islamico, di rapper che sono diventati dei feroci tagliagole.
3.1. L’elemento determinante per la costituzione effettiva dei gruppi e la loro radicalizzazione è il processo di socializzazione, di formazione e indottrinamento, che è legato agli intrecci imprevedibili di relazioni interpersonali e alla disponibilità di informazioni. Le reti di relazioni interpersonali e Internet quindi possono – com’è stato fatto notare da più parti – giocare un ruolo importante nell’adesione a questi gruppi. Socialità e informazione (due dogmi della nostra modernità) invece di avere conseguenze positive possono avere, in questo caso, terribili effetti disgregativi. Per i giovani europei che cadono nelle reti si tratta di una esperienza assolutamente simile a tutte le altre conversioni. Si tratta cioè di una completa ristrutturazione della propria visione del mondo, di un capovolgimento dei valori, di una nuova diponibilità all’impegno e al sacrificio totale. Tutto quel che si credeva prima viene ora riconsiderato e rifiutato. Si diventa perfezionisti, intransigenti e si è disposti a mettere in pratica la nuova identità, anche a costo del sacrificio estremo.
3.2. Si sente spesso dire che il facile successo dell’indottrinamento da parte dell’Islam radicale sia dovuto a un vuoto di valori che l’occidente propina ai suoi giovani, al disagio esistenziale, alla ricerca di qualcosa di solido, di una fede in cui credere. Più che di vuoto di valori si può parlare di clamoroso insuccesso nei processi educativi. Il cosiddetto “vuoto di valori” su cui si fa tanta retorica è soltanto una condizione di colossale ignoranza, di colossale insufficienza culturale, che i nostri sistemi educativi non sono riusciti a estirpare.
Per comprendere adeguatamente questo punto, basterà domandarsi com’è stato possibile che un’intera generazione di intellettuali e di giovani del dopoguerra abbia potuto aderire al marxismo. Non si trattava tanto di un generico “vuoto di valori” quanto del fatto che la cultura legittima del tempo era ormai così inadeguata e degradata che anche una filosofia priva di fondamenti come il marxismo poteva sembrare una grande novità. Poteva sembrare scientifica. Giovani e intellettuali non avevano a disposizione alcuna argomentazione valida per rifiutarla, anzi sembrava loro di avere buone argomentazioni per accoglierla. Effettivamente, se l’Islam radicale riesce a persuadere dei giovani educati nel nostro paese, vuol dire che le sue narrazioni possono apparire loro come più persuasive e più adeguate alla realtà vissuta dell’educazione che hanno ricevuto.
 
4. Che fare allora? La riflessione sulla vicenda del terrorismo nostrano può darci forse qualche suggerimento. Si dovrebbe ricordare che la lotta armata in Italia è stata sconfitta non quando sono venute meno le condizioni materiali economiche e sociali che facilitavano la costituzione dei gruppi radicali, ma quando nel Paese, e soprattutto nella stessa sinistra, cui i brigatisti si rivolgevano, ha cominciato a farsi strada prima di tutto una condanna morale e poi una condanna politica. Ciò è avvenuto approssimativamente dopo l’assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978. Per molti di quelli che consideravano i brigatisti come “compagni che sbagliano” quello è stato un vero trauma morale che li ha costretti fuori dagli infingimenti, li ha costretti a prendere posizione. Intanto, però, tra il 1968 e il 1978 erano passati dieci anni, dieci anni di ambiguità, di “se” e di “ma”. Anni di sangue e di vite spezzate. Pare che certe idee pericolose, che hanno per conto loro una grande capacità di diffusione virale, che hanno un grande appeal, debbano provocare una grande catastrofe perché si cominci a identificarle per quello che sono, a tenerle seriamente a distanza e a combatterle. Solo i grandi traumi collettivi sembra possano scacciare certe idee pericolose dalla testa dei loro portatori.
 
5. Se gli attentati di Parigi sono stati un trauma collettivo per molti di noi, non sembra che questo sia valso del tutto per il mondo islamico. Si veda la recrudescenza di manifestazioni anti occidentali, dalla Cecenia, all’Africa, all’Asia. Certo, le comunità degli immigrati, le comunità islamiche in Europa si sono ufficialmente dissociate, ma con un mucchio di “se” e di “ma”. Ma quelli che hanno fatto gli attentati – si osserva - non sono musulmani, ma quelli di Charlie se la sono cercata, ma non bisogna offendere il Profeta, ma non si deve attaccare ciò che è sacro, ma ci vuole il rispetto, ma ci dovete accogliere e non trattarci come stranieri. Anche il papa ha detto che, a offendere la mamma, ci si può attendere un pugno in faccia.
Insomma, sembra proprio di poter concludere che la vicenda di Parigi non abbia prodotto, nel mondo islamico, lo stesso effetto di ripulsa morale che nel nostro Paese ha avuto l’assassinio di Moro. La conclusione poco consolante è che non possiamo a tutt’oggi aspettarci che il mondo musulmano nel suo complesso sconfessi, isoli e denunci i radicali violenti.
5.1. Occorre ricordare che nelle situazioni di frattura sociale e culturale – come nel caso del terrorismo italiano - per uno che passa all’azione violenta, ce ne sono migliaia che osservano, condividono e coltivano le idee radicali che giustificano quell’azione. Come, ad esempio, quelli che stanno a guardare e però in cuor loro plaudono, pensando che in fondo “quelli di Charlie se la sono cercata”. Il problema dunque non è tanto di rimuovere le condizioni materiali dello sradicamento, quanto di battere la fabbrica delle idee radicali, che è fatta di simboli, di contatti, di relazioni interpersonali, di centri di aggregazione, di figure carismatiche, di pubblicazioni, di viaggi di addestramento, di raccolte fondi e meccanismi di finanziamento. Peraltro oggi la più potente fabbrica di idee radicali e violente esiste fisicamente e si presenta come IS, come il nuovo califfato. È ovvio che per battere la fabbrica delle idee radicali sarà anche necessaria una modifica della nostra politica estera, altrimenti la fabbrica continuerà a funzionare e a produrre i suoi effetti.
5.2. La difficoltà è accresciuta dal fatto che la fabbrica e il mercato delle idee radicali che dobbiamo assolutamente combattere, questa volta, a differenza che nel caso del terrorismo italiano, si presentano sotto la forma di una “vera” religione e non di una semplice ideologia politica. Ogni tentativo di smantellare le idee dell’Islam radicale appare così, immediatamente, come un’operazione anti religiosa che non di rado finisce per suscitare la solidarietà dei religiosi, di tutti i religiosi, cattolici compresi, interessati quanto mai a difendere la sacralità delle religioni e la moralità dei comportamenti guidati dalla fede (solo così si capisce l’uscita del papa).
Su questo punto occorre fare la massima chiarezza. Che solo l’Islam moderato sia una religione e che invece l’Islam radicale non lo sia è una penosa distorsione prospettica del nostro papposo buonismo politically correct. L’Islam radicale è una religione a pieno titolo, ha un libro sacro, ha la sua morale pubblica e privata (la shari’a, magari presa un po’ più alla lettera degli islamici all’acqua di rose), ha i suoi imam, ha i suoi santuari, ha le sue cerimonie, ha i suoi fedeli, ha i suoi martiri, ha i suoi eserciti e ora ha anche il Califfato. Anche se può non piacerci, ci possono essere nel mondo, ahimè, religioni a pieno titolo che predicano la violenza e la guerra e vanno prese per quello che sono. Oggi combattere l’Islam radicale e violento significa anche combattere contro una specifica religione e non semplicemente contro un’ideologia politica. Significa combattere contro una religione arcaica e medievale che non ammette la libertà di coscienza, i diritti individuali e che non conosce la separazione tra potere politico e potere religioso. La democrazia occidentale è del tutto incompatibile con la shari’a. È proprio per questo che siamo costantemente attaccati dalla jihad fondamentalista. Dobbiamo farcene una ragione.
Certo, combattere contro l’Islam radicale e violento non deve significare combattere contro tutto l’Islam (è l’Islam radicale che pretende di rappresentare tutto l’Islam). La convinzione tuttavia che i radicali violenti siano pochi e i moderati siano la maggioranza è tuttavia un’altra penosa distorsione prospettica del nostro buonismo.  Il problema è che oggi l’Islam è profondamente diviso e che nessuno è in grado di dire quale sia il vero Islam. Oggi nell’Islam è in atto una vera e propria guerra di religione – del resto le abbiamo avute anche in Europa - volta proprio a definire quale sia il vero Islam. Fino a quando non si saprà chi ha vinto e chi ha perso, non potremo sapere se l’Islam è una religione di pace o una religione di guerra, se è una religione di tolleranza o d’intolleranza, se è una religione politicamente totalitaria o se è una religione compatibile con la democrazia. Non possiamo continuare a confondere i nostri desideri con la realtà.
Fino allora dovremo rassegnarci a un Islam dal duplice volto, un volto ambiguo, amichevole e seducente ma anche ostile e pericoloso. Come al solito, durante le guerre civili ci sono le zone grigie, ci sono quelli che stanno a guardare, che sono di solito la maggioranza. Sarebbe un colossale errore d’ingenuità scambiare la zona grigia per l’Islam buono e moderato. La zona grigia aspetta solo di vedere chi vince, per schierarsi da una parte o dall’altra, e proprio per questo evita di intervenire.
Gli islamici moderati, ammesso che esistano, ammesso che contino qualcosa, ammesso che abbiano capito che sono loro per primi a essere precipitati e coinvolti in una guerra di religione (invece di sostenere, come amano fare spesso, che il terrorismo non li riguarda), dovrebbero loro per primi essere interessati a tracciare una chiara linea di demarcazione nei confronti dei radicali violenti, una linea di demarcazione che però oggi proprio non si vede.
5.3. Una diffusa corrente interpretativa degli avvenimenti che stanno interessando il mondo islamico sostiene che tutto quel che avviene sia dettato da conflitti d’interesse a livello di potere e di danaro (o di petrolio) e che la religione sia soltanto una giustificazione estrinseca, sia solo frutto di una astuta strumentalizzazione da parte dei contendenti. Insomma le religioni sarebbero solo dei pacchetti ideologici da mettere e dismettere, da usare a seconda delle strategie di machiavellici centri di potere. Si tratta di posizioni miopi che rifiutano di riconoscere il ruolo delle componenti culturali nella spiegazione dei fatti sociali. È davvero curioso che il realismo politico finisca per non vedere le responsabilità della componente religiosa in quel che sta  succedendo. Sarebbe come pensare che Lutero abbia fatto la Riforma (che peraltro ha dato luogo proprio a una lunga e sanguinosa guerra civile) in quanto agente prezzolato dei banchieri tedeschi contro i banchieri di Roma. Il realismo politico non riesce a spiegare la rapida virale diffusione dell’Islam radicale, non riesce a spiegare la sua diffusione nel cuore stesso dell’Europa presso i cittadini europei e la disponibilità di molti islamisti radicali alla guerra santa e al martirio.
 
6. Fino a quando la fabbrica delle idee radicali e violente rimarrà in funzione, sarà sempre possibile la formazione di gruppi pericolosi per la nostra sicurezza, sarà sempre possibile, per l’Islamismo radicale internazionale, ritenere di poter catturare alla propria causa i giovani figli di immigrati di seconda generazione, allo scopo di creare una grave frattura sociale e culturale nel cuore stesso delle società europee. Si tratta di un progetto esplicito, neanche tanto segreto, che è stato più volte enunciato e ora è tradotto in pratica (si veda in proposito quanto recentemente sostenuto da Gilles Kepel – cfr. La Repubblica del 18/1/2015). I nostri ordinamenti democratici (e le nostre filosofie buoniste dell’accoglienza e del rispetto) non faranno altro che favorire oggettivamente questi folli progetti. Le contromisure che stiamo prendendo sono ridicole, più propagandistiche che sostanziali (anche perché, come al solito, per le cose serie non troviamo mai i soldi). Questi gruppi non avranno alcun problema a operare nella clandestinità, fino a quando potranno nuotare nella zona grigia, potranno godere della neutralità, dello sguardo indifferente o addirittura benevolo dei molti che non passeranno mai all’azione ma che, al momento opportuno, saranno sempre disposti a girarsi dall’altra parte. Fino al prossimo botto clamoroso, che riaccenderà la discussione.
Il problema di fondo sta nel fatto che le idee radicali e violente si battono solo contrapponendo loro idee migliori, che facciano immediatamente apparire le idee radicali stesse come delle enormi stupidaggini. Questa, a onor del vero, è sicuramente la parte in cui siamo attualmente meno preparati.
 
28/01/2015
                                                                               Giuseppe Rinaldi