domenica 21 febbraio 2016

Umberto Eco

eco_pericoli_q

1. Quando ho letto sullo schermo della morte di Umberto Eco sono restato attonito per cinque minuti. Certo dispiaciuto, ma soprattutto stupito. Non era possibile che fosse morto Eco. Non avevo davvero mai pensato che Umberto Eco potesse morire. Per me era Eco e basta. Una presenza amichevole e costante che mi ha accompagnato per anni, a partire da quando sui banchi di scuola sfogliavo Quindici senza capirci granché. Una presenza che mi ha accompagnato a volte in forma assai impegnativa e totalizzante, come quando studiavo il suo Trattato, oppure in forma assai più lieve, quando leggevo le Bustine o qualcuno dei suoi romanzi. Quello che per me Eco ha sempre rappresentato è ancora tutto qui, dentro di me, non è mai sparito, anzi, è più vivo che mai. Per questo faccio fatica a credere che sia morto. Certo, la sua opera terrena è ormai conclusa, non ci saranno ulteriori aggiunte, non ci saranno più prime edizioni, nuovi articoli, saggi o interventi. E questa prospettiva produce senz’altro un terribile senso di vuoto. Una mancanza irreparabile. Ci aveva abituati troppo bene, con la sua presenza discreta, col suo fare uscire qualcosa ogni tanto, qualcosa che tuttavia continuava ad alimentare quel rivolo culturale che, in questo Paese sempre meno acculturato, era diventato per molti di noi un ossigeno indispensabile.

2. Personalmente l’ho incontrato pochissime volte, l’ho salutato al termine di qualche conferenza o di qualche presentazione di libro, gli ho stretto la mano forse un paio di volte e forse gli ho fatto anche qualche domanda. Il mio rapporto con Eco non è mai stato un rapporto di tipo personale. È stato però un intenso rapporto di tipo intellettuale attraverso i suoi scritti, piccoli o grandi che fossero, un rapporto che, proprio per questo, non può che collocarsi al di là della sua vita cronologica. È probabile che siamo in tanti a trovarci oggi in questa condizione di orfani del suo limpido pensiero. Non moltissimi però, altrimenti questo in cui viviamo sarebbe decisamente un altro Paese.

3. Eco è stato uno di quei pochi intellettuali che, di fatto, hanno saputo lanciare un’ancora di salvezza a quelli della mia generazione, almeno a quelli che l’hanno voluta raccogliere. Siamo cresciuti in tempi bui in cui si sono mescolati attivismi, nichilismi, disperazioni esistenziali e stupidi gesti romantici. In cui, dopo un lungo periodo di astinenza, ci sono stati gettati addosso i più diversi e improbabili prodotti culturali e subculturali. In cui abbiamo sperimentato le più incredibili affiliazioni, i più paradossali modelli di vita e di militanza. Una generazione che ha cercato di trovare la propria strada senza padri né maestri, attraverso l’utopismo, il ribellismo e magari anche attraverso la violenza. Ebbene, nella riflessione seguita al riflusso dei movimenti, la proposta culturale di Eco – critica, costruttiva, illuministica, pacata e ironica, e certo anche radicale - ha contribuito al ri-orientamento, alla una maturazione di una intera generazione. Ha fornito gli strumenti, per chi avesse voluto usarli, per demistificare, decodificare, oggi si direbbe “destrutturare”, la comunicazione, la cultura, ma soprattutto in modo specifico tutte le ideologie, quelle vecchie e quelle nuove. Eco ci ha permesso di vivere l’epoca ineluttabile della fine delle ideologie senza disperazione, mostrandoci una prospettiva più ampia, permettendo a noi ultimi arrivati di collocarci nella dimensione universale della storia e dello sviluppo della nostra cultura occidentale.

4. Eco – certo insieme ad altri – ci ha fornito un modello di intellettuale di cui avevamo disperatamente bisogno, in quel periodo abbastanza buio nel quale venivano alla luce tutti i limiti e le miserie degli intellettuali organici, quelli votati alla causa, quelli che non distinguevano l’insegnamento dalla propaganda, quelli che facevano carriera grazie alle clientele delle massicce organizzazioni culturali nazional popolari. Oppure in cui venivano alla luce tutti i limiti delle testimonianze enfatiche, del rifiuto del ruolo, del ribellismo ultra ideologico, del luddismo culturale, dell’ansia della traduzione pratica di slogan spiccioli che si possedevano ancorché solo superficialmente.

5. Non solo un modello d’intellettuale, ma anche e soprattutto un modello metodologico. Per avere qualcosa da dire, lasciava trasparire Eco, bisogna anzitutto studiare. Studiare indefessamente. Studiare in modo approfondito. Bisognava confrontare le diverse teorie, verificarle per quanto possibile; bisognava accettare la critica, soppesarla, trovare nuove argomentazioni. Cambiare eventualmente idea. Bisognava soprattutto separare i fatti dalle valutazioni. Esplicitare con chiarezza le argomentazioni proprie e quelle altrui. In altri termini, Eco ci ha insegnato che la verità non è un’opinione, che la verità, per quanto difficile e problematica, non è relativa.

La prosa scientifica di Eco è sempre stata per me (e credo per molti) un modello di trasparenza, di chiarezza, di rigore, di correttezza. Una vera e propria etica della scrittura. Questo atteggiamento deontologico emerge in modo chiarissimo in quel suo straordinario minore libretto che è Come si fa una tesi di laurea. Una prosa come quella di Eco, che era anche un modello di ricerca, di pensiero e di dialogo, non poteva che contrastare clamorosamente con la prosa vaga e retorica dei venditori di fumo che abitavano e che spesso ancora abitano le nostre istituzioni culturali.

6. Confesso che per me Eco è sempre stato soprattutto il filosofo, anche quando si è occupato d’altro, anche quando si è messo a fare il letterato. Accanto alla rivisitazione della grande cultura classica, accanto alla riscoperta della Scolastica medievale, c’è senz’altro in Eco un filone pragmatistico e analitico. Un filone che ho sempre in gran parte condiviso, a partire dai suoi primi scritti, fino agli ultimi. Fin da quando ne La struttura assente conduceva un’analisi serrata dello strutturalismo (che era l’ideologia del tempo) per smascherarne le componenti assolutistiche e metafisiche, fino a quando, poi, come in Lector in fabula, o nel saggio sui Limiti dell’interpretazione,   prendeva posizione contro certi sviluppi disinvolti e disfattisti dell’ermeneutica postmoderna. O, ancor più, fino a quando prendeva posizione contro le stranezze del pensiero debole, cui pure aveva dato qualche contributo, o contro la Heidegger renaissance (si veda il bellissimo saggio Sull’essere). C’è da dire, in aggiunta, che con Eco finisce decisamente il nostro stupido isolazionismo culturale. Eco ha sempre potuto assestare le sue posizioni filosofiche con grande cognizione di causa, con solide argomentazioni, grazie anche alla statura internazionale della sua visione culturale, avulsa dalle piccinerie e dai ristretti orizzonti delle scuole di casa nostra.

7. C’è in Eco poi il filo conduttore laico, democratico e pluralistico. Una componente culturale essenziale di cui il nostro paese soffre una grave  carenza, fin dai tempi del fallimento dell’Azionismo. In questo senso Eco ha sempre svolto un importante ruolo di formazione civile, in una miriade di suoi interventi, Bustine o scritti minori. Certo, si tratta d’interventi di formazione civile affatto diversi da quelli dell’inculcazione, della propaganda o dello spettacolo. Si è trattato di interventi che rispecchiano in pieno quella illustre seppur minoritaria prospettiva illuministica nostrana che ha avuto un primo manifesto in Politica e cultura di Bobbio e forse prima ancora nel Vittorini anti togliattiano. La militanza di Eco nell’associazione Libertà e giustizia ne è un’ulteriore riprova. Eco ci ha testimoniato che è possibile che la Cultura (con la maiuscola) possa assolvere un ruolo vitale di formazione civile senza scadere nella rissa, nel protagonismo o nello spettacolo. Per questo Eco è sempre risultato antipatico a tutti gli apparati politici nostrani, sia quelli della destra (per ovvi motivi) che quelli della sinistra ufficiale, passando financo per il centro.

8. Ci sarà davvero tanto tempo (e occorrerà tanto tempo) per fare un bilancio del profondo apporto culturale di Eco. Per fare un bilancio di tutto quel che gli dobbiamo. Personaggio e studioso poliedrico si è occupato di svariati argomenti in vesti altrettanto svariate. Sicuramente emergeranno luci e ombre, pregi e difetti. È normale. Questo non per sminuire l’opera di Eco, ma per distanziarmi dal coro di elogi indiscriminati che sta oggi scuotendo la nazione, anche da parte di coloro (di qua e di là) che non l’hanno mai sopportato, che l’hanno ignorato, o che, al momento buono non gli hanno mai tributato alcun effettivo riconoscimento. Da parte di coloro che non ne hanno mai letto neppure una riga. Siamo mediamente una nazione d’ignoranti (si vedano le statistiche), i quali quando  si trovano per sbaglio a dover celebrare un grande intellettuale finiscono inevitabilmente per trattarlo come se fosse un calciatore, magari di ritorno da una vittoria ai Mondiali.

9. Al di là di tutto, tornando alla dimensione personale, penso che Eco abbia saputo mostrare, con i fatti e non solo con le parole, a quelli come me, a quelli della mia generazione e forse chissà anche a quelli delle generazioni successive, che una missione dell’intelletto è ancora possibile. Forse è davvero molto difficile, ma è ancora possibile. Che c’è una buona vita che si può impiegare studiando, scrivendo, occupandosi di ricerca e di formazione civile. Che si può alimentare continuamente la propria curiosità, che ci si può formare una cultura enciclopedica senza farsi sopraffare, che si possono amare i libri antichi. Che per dare senso alla nostra vita abbiamo bisogno continuamente di confrontarci con tutta la cultura di coloro che sono venuti prima di noi. Ma soprattutto che possiamo governare la crescita della nostra mente, possiamo far crescere noi stessi e arricchire gli altri, stando a galla nell’oceano della comunicazione, imparando a nuotare nel mare dei segni,  interagendo in modo critico e produttivo con quell’universo della cultura che ci costituisce intimamente e a cui, però, solo talvolta e con fatica riusciamo a contribuire. Grazie Umberto!

 

Giuseppe Rinaldi

21/02/2016

venerdì 19 febbraio 2016

Contro il lavorismo

Siqueiros
1. La retorica del lavoro[1] che nel nostro Paese è oggi sbandierata da vari sindacalisti e uomini politici è diventata così autoreferenziale che ha ormai perso qualsiasi consapevolezza circa la propria origine storica e la propria ragion d’essere. Una vera e propria macchina impazzita che ha perso il senso della realtà. Il lavorismo poteva anche avere un senso nel periodo storico della lotta di classe, quando i lavoratori erano di fatto esclusi dal possesso di una piena cittadinanza. In quel contesto tuttavia, proprio a causa di quella esclusione, il mondo del lavoro ha cercato di farsi Stato producendo alcuni dei più drammatici esperimenti sociali e politici del Novecento. Insensibile al cambiamento dei tempi, immemore di quegli esiti tragici, oggi in Italia il lavorismo si contrappone a qualsiasi progetto autentico di riforma, tanto da costituire un serio ostacolo sulla via della modernizzazione del Paese. Si contrappone in modo miope anche all’Europa, contribuendo a rafforzare la nostra marginalità economica e politica. La totale perdita di senso della realtà sta conducendo il lavorismo verso scelte politiche disgreganti e autodistruttive. Allo scopo di impedire la moltiplicazione delle macerie umane e sociali, di cui abbiamo già bastevole quantità, val la pena ancora una volta di confrontarsi con le radici teoriche e pratiche dell’ormai obsoleta prospettiva lavorista.
1.1. Come punto di partenza, basterà ricordare che nella Bibbia il lavoro era considerato come una dannazione, come una punizione divina. Anche nel monachesimo, il lavoro, sia quello manuale sia quello intellettuale, era praticato come una forma di penitenza e, al più, di disciplina. Il lavoro manuale, per secoli, ha fatto parte di un regime di divisione che l’ha visto costantemente al posto più basso nella scala sociale. Il mondo medievale era diviso in oratores, bellatores e laboratores e questi ultimi erano coloro che stavano più in basso. In un lungo processo storico plurisecolare, il ribaltamento completo di questa prospettiva, condurrà proprio all’opposto, cioè all’esaltazione del primato del lavoro e dei lavoratori.
1.2. L’idea che «il lavoro rende liberi», ben prima che fosse affissa all’ingresso di Auschwitz, è stata elaborata, almeno in Europa, nel corso della trasformazione dei poveri in proletari, in quei due o tre secoli che hanno preceduto la rivoluzione industriale. In quel contesto, l’immoralità presunta dei poveri e delle canaglie veniva curata con il lavoro coatto, con la loro reclusione negli ospizi per i poveri, istituzioni totali che furono le antesignane delle fabbriche della rivoluzione industriale. Si riteneva che il lavoro coatto fosse formativo, fosse cioè in grado di redimere e che così potesse essere utile alla società e alla salvezza delle anime.
1.3. Con la sua applicazione industriale il lavoro coatto perse gradatamente il suo carattere di espiazione e divenne un elemento costruttivo, capace di formare la persona umana e di fondare una società buona. Su questa linea, i socialisti utopisti elaborarono l’ideologia della positività del lavoro, pur continuando a concepire le loro comunità ideali proprio sul modello degli ospizi coatti dei poveri. Si giunse al fine, con Marx, a un’identificazione esplicita dell’uomo con il lavoratore e a porre teoricamente e praticamente la questione dell’emancipazione dei lavoratori. Non era il caso che l’uomo si liberasse dal lavoro, ma che diventasse un lavoratore libero in una comunità di lavoratori. Il movimento operaio e il movimento socialista trasformarono così definitivamente l’antica visione del lavoro come dannazione in quella del lavoro come processo di realizzazione di sé e, più ampiamente, di realizzazione storica di una società giusta.
1.4. Questa concezione ha finito tuttavia per sviluppare una vera e propria «metafisica del lavoro» articolata e onnipervasiva che è appunto il lavorismo. Uso questo termine in senso descrittivo generico per indicare tutte quelle concezioni, teoriche e pratiche, che pongono il lavoro (e quindi i lavoratori) come primo fondamento della realtà storica, economica, sociale e politica. In Italia nella seconda metà del Novecento concezioni del genere sono state anche definite come operaismo. Credo che il termine lavorismo (per quanto poco usato nel nostro Paese) sia più adeguato per cogliere lo sviluppo di questa idea nel tempo, fino agli esiti odierni. Come si vede, si tratta di un’ideologia che viene da lontano. Un’ideologia che ancor oggi funziona così bene che tutti la condividono come se fosse qualcosa di naturale. Come si fa a esser contro il lavoro e contro i lavoratori? Il lavorismo fa senz’altro parte del nostro «mondo dato per scontato». Anche la nostra Repubblica, sulla carta, è «fondata sul lavoro».
1.5. Un contributo rilevante al lavorismo era stato fornito – si è già detto - dal socialismo utopistico e dal successivo positivismo. In quel contesto vennero esaltati i produttori uniti contro i parassiti sociali, lasciando aperta la questione se fossero possibili conflitti tra i diversi produttori. Solo nel socialismo tuttavia si realizzò l’identificazione esplicita del produttore con la figura del lavoratore manuale salariato. Solo il lavoro salariato era considerato effettivamente produttivo. Il possessore di capitale non lavorava, non era un produttore quindi non poteva che essere uno sfruttatore dei lavoratori. Rimase sospesa la questione se fossero produttivi i manager, i tecnici, gli impiegati e la schiera dei lavoratori intellettuali, gli scienziati, gli artisti, i religiosi e così via. La qual cosa darà luogo una serie di dibattiti e conflitti a non finire, del tutto sovrapponibili a quelli relativi ai confini sociologici della classe operaia. È quasi superfluo aggiungere che questi confini non sono mai stati definiti in maniera soddisfacente.
1.6. Alla promozione del lavorismo non fu estranea la cultura protestante, per la quale il successo (nel campo del lavoro, nel campo economico e finanziario, nel campo tecnico e scientifico) era un segno della predestinazione divina. Tuttavia nella visione protestante (poiché il successo era strettamente individuale) c’era un elemento di competizione individualistica che venne sempre combattuto dal movimento socialista. Così l’«etica protestante» divenne un elemento della cultura degli imprenditori, talvolta posta proprio in contrapposizione a quella dei lavoratori manuali. La via degli imprenditori era quella della competizione individualistica, in termini di mercato, mentre quella dei lavori manuali era quella della cooperazione collettiva.
1.7. Occorre precisare che l’autorealizzazione attraverso il lavoro, di cui parlavano il movimento operaio e il socialismo, non corrispondeva a un percorso di crescita individuale. Essa si poteva ottenere soltanto attraverso la via collettiva, attraverso la partecipazione alla comunità dei lavoratori, attraverso l’organizzazione sindacale e politica, attraverso la lotta per la trasformazione dell’intera società in una nuova società, a immagine dei lavoratori stessi.
Il progetto collettivo di emancipazione era reso possibile, in termini di realtà sociale di riferimento, dalle comunità occupazionali degli operai di mestiere. Migliaia di persone che svolgevano lo stesso lavoro, concentrati negli stessi luoghi di produzione, residenti negli stessi luoghi (i quartieri operai e le città industriali) e, soprattutto, dotati di una mentalità comune. Si sviluppò in tal modo, indipendentemente dalle specificità nazionali, senza che nessuno l’avesse messa in conto, una cultura dei lavoratori che era fondamentalmente la cultura delle comunità occupazionali. L’operaio di Pietroburgo, di Liverpool, di Lione, di Torino si assomigliavano perfettamente.
La maturazione dell’identità personale di lavoratore coincideva sia con la carriera professionale individuale che passava dall’apprendistato alla specializzazione sia con la carriera politica che passava attraverso la militanza nelle organizzazioni sindacali e politiche. Il corso di vita, oltre all’impegno produttivo, era legato alla partecipazione alle lotte e ai momenti di «dopolavoro» che avevano un significato di socialità, svago ma anche di formazione. È la situazione che corrisponde allo slogan socialista delle otto ore di lavoro, di riposo e d’istruzione. L’espansione di queste comunità seguì da vicino l’espansione, da un paese all’altro, della Rivoluzione industriale. Su questa base sociale aveva potuto anche nascere e svilupparsi l’idea di una Internazionale del lavoro.
1.8. Le comunità occupazionali furono così il terreno di sviluppo della coscienza di classe e della lotta di classe. Una malintesa teoria economicista ha sostenuto che fossero le «condizioni materiali» a causare la mobilitazione dei lavoratori. In realtà la mobilitazione diventava possibile perché i «proletari» erano diventati membri attivi di comunità occupazionali e di organizzazioni sindacali e politiche, condividevano la stessa cultura, e condividevano implicitamente proprio l’ideologia del lavorismo. Trasmettevano con successo la loro cultura e la loro ideologia alle generazioni successive, che avrebbero fatto lo stesso lavoro dei loro padri. Sul piano politico comparvero di conseguenza i partiti di classe che avevano un riferimento ben preciso alla massa dei lavoratori (perciò detti anche partiti di massa). Paradossalmente, dicono gli storici, la diffusione delle comunità occupazionali, contribuì a controllare e ad attenuare il radicalismo rivendicativo e politico e contribuì a finalizzare le lotte verso l’ottenimento di riforme sociali e verso l’integrazione del mondo dei lavoratori nelle comunità politiche nazionali (che non erano affatto lavoriste). Tipico, in questo processo, fu il movimento operaio inglese.
1.9. Fin dall’inizio il lavorismo, cioè la metafisica del lavoro, pur condividendo uno stesso nucleo teorico, fu attraversato da un’ampia gamma di orientamenti, da quelli più moderati a quelli più estremisti. Già i cartisti si erano divisi tra il «partito della forza morale» e il «partito della forza fisica». Lo stesso unionismo inglese fu considerato poco rivoluzionario e piuttosto integrato da molti lavoristi estremisti. Iniziò così una lunga storia di divisioni, spaccature, conflitti (non di rado sanguinosi, si pensi ad esempio al caso Noske) tra i lavoristi moderati e quelli estremisti. Ben presto ci si rese conto che la comune metafisica del lavoro, invece di unire, esacerbava le divisioni. Le spaccature in seno alla classe e la questione dell’unità di classe hanno animato i dibattiti attraverso i secoli. Il rovello teorico continuava a ruotare intorno alla natura del lavoro, ai confini della classe dei lavoratori, alla realizzazione della società futura dei lavoratori.
 
2. Il lavorismo doveva tuttavia ancora attraversare il periodo più buio della sua storia. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento, grazie al movimento socialista e comunista, soprattutto nei paesi second comers, soprattutto nei paesi più arretrati, la cultura occupazionale dei proletari (operai o lavoratori) tentò di diventare immediatamente cultura politica, nazionale e internazionale.[2] Pur influenzati da ideologie lavoriste che andavano differenziandosi sempre più, talvolta anche in aspro contrasto tra loro, i proletari aspiravano ora a «dirigere lo Stato», come la famosa cuoca di Lenin. Aspiravano concretamente a costruire una società e uno Stato a loro immagine e somiglianza. Ciò portò ai primi ingressi dei rappresentanti dei lavoratori nei parlamenti, che furono spesso considerati come una realizzazione deludente rispetto alle aspettative di cambiamento. Ma portò anche alla realizzazione del primo Stato lavorista della storia, l’Unione Sovietica. Purtroppo, ben prima di comparire come slogan sui cancelli di Auschwitz, il lavorismo fu l’ideologia che permise la schiavizzazione (e spesso l’assassinio) di milioni d’innocenti nei GULAG. Che piaccia o no, tutto questo è stato fatto da autentici lavoratori in nome del lavoro. Chi non ricorda il motto popolare secondo cui «Il peggior Stato socialista è sempre meglio del miglior Stato capitalista»?
2.1. L’aspetto metafisico rilevante della faccenda, al di là delle diverse modalità attraverso cui, secondo le teorie correnti, doveva avvenire la conquista del potere (movimento rivoluzionario, insurrezione, sciopero generale, dittatura del proletariato, elezioni democratiche), era che i lavoristi ritenevano che il proletariato fosse la classe generale,[3] fosse cioè, com’è ovvio, una parte della società ma che, tuttavia, per una serie di motivi che riposavano proprio nella metafisica del lavoro, essa possedesse  una sua propria natura (Marx parlava di essenza) tale che era destinata ad agire storicamente e a conquistare il potere di governare nell’interesse generale. Si noti che, dal punto di vista del democratico Rousseau, una nozione come quella di classe generale sarebbe stata considerata una contradictio in adjecto, perché la parte non può mai coincidere con il tutto, perché la presenza di parti organiche avrebbe frantumato la volontà generale.[4] Il lavorismo, insomma, non poteva che essere de facto una dottrina alquanto corporativa e dunque antidemocratica. Poiché a quell’epoca la democrazia era davvero poco diffusa, questo impaccio teorico non venne mai considerato dai lavoristi come un problema serio.
2.2. I lavoratori entrarono così nella politica nazionale (e internazionale) non come singoli individui, ma in quanto entità organiche, classi o corporazioni. Gli interessi da tutelare continuavano a non essere individuali, erano gli interessi della classe, ma ciò non creava problema poiché gli individui si risolvevano esattamente nella loro classe sociale.[5] La totalità sociale prevaleva sempre sull’individualità, che era considerata come una degenerazione ed era lasciata ben volentieri ai borghesi. Qualunque promozione di un interesse individuale sarebbe stato considerato come una sorta di tradimento nei confronti della classe. L’individualità doveva essere sacrificata in nome dell’interesse collettivo. I sindacati e i partiti politici potevano così essere sindacati di classe e partiti di classe.
2.3. Perché il modello funzionasse, occorreva che tra le comunità occupazionali, le organizzazioni sindacali e le organizzazioni politiche del proletariato (nazionali e internazionali) si producesse un’intelligenza comune, si producesse, come si espresse ad esempio Gramsci, una intellettualità collettiva. Solo l’intellettuale collettivo poteva fare la sintesi, poteva elaborare il progetto sociale e politico che – secondo il modello della classe generale – doveva essere tale da riorganizzare la società nell’interesse di tutti. Il nuovo modello di organizzazione sociale e politico, sorretto dalla conoscenza “scientifica” dei meccanismi economici, storici e sociali, prodotta dalle avanguardie sarebbe stato indiscutibilmente superiore a quello vecchio, sarebbe stato palesemente più efficace e più giusto. La stessa borghesia avrebbe dovuto arrendersi all’evidenza. Ancora nell’Italia del 1919 si poteva pensare che gli imprenditori fossero del tutto superflui e che gli operai, con la loro intelligenza collettiva, avrebbero potuto fare a meno degli imprenditori, governare la produzione e stare sul mercato. E si poteva magari «fare come in Russia», cioè realizzare una repubblica consiliare molto più «avanzata» dei sistemi democratici.
2.4. Tutto il Novecento è stato pervaso da questa utopia politica collettivista sviluppata a partire dal mondo del lavoro. La questione non trascurabile è che tutti gli esperimenti politico sociali ed economici che sono effettivamente stati organizzati in tal senso hanno fallito miseramente (Parigi 1871, Germania 1918, Unione Sovietica, Cina, Cuba, Iugoslavia, Cambogia,…).[6] In Cambogia l’ideologia lavorista portata all’estremo produsse sanguinosi massacri: bastava portare gli occhiali e non avere i calli alle mani per essere considerati nemici di classe ed essere ammazzati, poiché la nuova società non poteva attendere. Pol Pot da giovane aveva studiato a Parigi.
2.5. Lo stesso fallimento si è ripetuto a livello dei numerosi micro esperimenti sociali d’impronta più comunitaristica. Come avevano fallito, fin dalle origini, le comunità autonome dei socialisti utopisti, ancora negli anni Sessanta del Novecento hanno fallito anche le comunità alternative, le cosiddette «comuni», di tendenza più anarchica che statalista. Insomma, la teoria secondo la quale le comunità (quelle occupazionali dei lavoratori, ma anche quelle sociali) potevano diventare classe generale, tanto da poter strutturare la società e/o lo Stato nell’interesse di tutti, tanto da generare il tanto sospirato «uomo nuovo», pare abbia fallito miseramente alla prova dei fatti.
2.6. Si potrebbe pensare che tali cattivi risultati fossero conseguenza dell’ala estrema del lavorismo. Certo, c’è stato anche un lavorismo riformista, legato soprattutto alla socialdemocrazia, che ha conseguito storicamente una serie di successi importanti in termini di miglioramento delle condizioni dei lavoratori, di realizzazione di quegli interventi che vengono solitamente riassunti con il termine di Stato sociale. Questi successi tuttavia hanno implicato l’abbandono della metafisica del lavoro, o il suo relegamento a mera retorica residuale, poiché nulla distingue concretamente la prassi di costoro da quella di un qualsiasi partito d’impostazione liberal democratica.
Quello che è in questione qui non è tanto il conseguimento di alcuni obiettivi di carattere democratico da parte di partiti che hanno portato avanti una politica di riforme del lavoro,[7] quanto la coltivazione dell’ideologia, della metafisica del lavoro. Per molti di questi partiti la scelta del metodo democratico era solo un espediente tattico e l’obiettivo di portare il lavoro in quanto lavoro  al potere restava sempre valido. Per un lungo periodo quindi, una prassi riformista del tutto compatibile con la liberal democrazia ha convissuto con una metafisica lavorista che ne ha costituito il quadro ideologico di fondo. Il caso italiano è emblematico: nel dopoguerra i sindacati e i partiti della sinistra hanno sviluppato di fatto una prassi di riformismo democratico ma hanno continuato a coltivare una ideologia lavorista e classista. I lavoratori, prima di essere cittadini erano membri della classe. Proprio quest’aspetto ha indotto giustamente Scoppola a parlare di una «Repubblica dei partiti». E questa è senz’altro una delle radici dei mali profondi del nostro Paese.
 
3. Il problema che emerge da questa lunga e tormentata storia dell’ideologia o della metafisica lavorista è quello cui abbiamo già accennato: se la politica debba rappresentare soprattutto gli individui o soprattutto le collettività organiche (intese come classi o corporazioni). O si è rappresentati in quanto individui (come vuole la tradizione repubblicana e democratica) o si è rappresentati in quanto gruppo sociale (come vuole la tradizione classista e corporativista). Tertium non datur. La storia del Novecento sembra avere dato ragione a Rousseau, ha definitivamente chiarito che le rappresentanze classiste e corporativiste non possono funzionare.
La rappresentanza politica democratica è soltanto individuale e nella Repubblica si rappresentano solo e sempre interessi individuali che si fanno volontà generale attraverso il meccanismo democratico. In piena coerenza con questo dato di fatto, nel Novecento, i sindacati e i partiti di classe sono progressivamente spariti (anche se qualcuno li rimpiange). Ciò ha comportato la netta separazione tra la rappresentanza sindacale, relativa agli interessi particolari, e quella politica, relativa agli interessi generali. La «cinghia di trasmissione» ormai non aveva più senso. A essere rappresentati politicamente in democrazia sono esclusivamente i cittadini in quanto tali, che poi questi siano anche lavoratori dipendenti, la cosa è del tutto secondaria. Quando si parla retoricamente di «lavoratori», «cultura del lavoro», «mondo del lavoro», «classe lavoratrice» che va in cerca di rappresentanza politica, bisognerebbe tenere presenti i trascorsi storici che abbiamo succintamente riassunto, da cui sarebbe il caso di imparare qualcosa. Dietro a questi discorsi c’è sempre l’equivoco della parte organica che pensa di essere predestinata a farsi tutto sociale.
 
4. In ogni caso, al di là delle velleità e delle illusioni soggettive, occorre prendere atto del fatto che il panorama economico, sociale e culturale complessivo (per lo meno in Occidente) è oggi profondamente cambiato. Qualsiasi progetto di una classe sociale che pretenda, dalla propria specifica posizione, di diventare classe universale è reso del tutto impraticabile da una serie di nuovi assetti che sono venuti determinandosi.
 4.1. Intanto, cosa non trascurabile, sono sparite progressivamente le comunità occupazionali, cioè le basi sociali effettive del progetto lavorista, quelle realtà che assicuravano la riproduzione delle condizioni sociali e culturali del cosiddetto mondo del lavoro. Non ci sono più i quartieri operai. Le città industriali hanno oggi una fisionomia completamente diversa. Non ci sono più persone che faranno lo stesso lavoro per tutta la vita e che vivranno nello stesso luogo per tutta la vita. Non ci sono più apprendisti che imparano direttamente sul posto la specializzazione dall’operaio anziano. Sul piano culturale, l’etica del lavoro dell’operaio di mestiere è completamente sparita. Le organizzazioni sindacali e politiche non sono più luoghi di formazione della coscienza della classe lavoratrice.
4.2. Quel m0ndo era già stato messo in crisi, il discorso vale per tutto l’Occidente e specificatamente per l’Italia, dall’avvento del fordismo cioè della produzione di massa che avveniva in grandi concentrazioni fisiche di uomini e di macchine, con un processo produttivo rigido e conseguenti basse qualificazioni. Il fordismo aveva distrutto la professionalità individuale, aveva tagliato i tempi di apprendimento delle mansioni, aveva velocizzato il turn over individuale e l’uso di mano d’opera proveniente dalle campagne o dal meridione. Il fordismo aveva già lacerato dall’interno le comunità occupazionali tradizionali. Aveva già minato profondamente la «cultura del lavoro». Negli anni Sessanta e Settanta questa «nuova» classe operaia senza radici, senza tradizioni, senza cultura, è stata mobilitata da una serie di ideologie lavoriste ribellistiche, in tutta una gamma ben nota che andava dal cosiddetto operaismo fino alla lotta armata.
4.3. Lo Statuto dei lavoratori, che oggi nel nostro Paese è uno dei capisaldi delle battaglie dei lavoristi dell’ultima ora, è nato proprio nel contesto del fordismo e ha un senso solo nell’ambito delle rigidità tipiche del fordismo. È curioso il fatto è che i lavoristi di allora si spaccarono piuttosto profondamente proprio sullo Statuto dei lavoratori. La componente più estrema del lavorismo, che aveva ampio seguito, e che era senz’altro più rigorosa dei lavoristi odierni, considerava lo Statuto come un trucco revisionista per integrare il lavoro, per spezzare l’antagonismo della classe operaia.
4.4. Persa la guerra della lotta di classe condotta dai lavoristi più estremi, la piccola battaglia vinta dello Statuto è stata mitizzata e trasfigurata come una conquista da chi poi non ha saputo conquistare più nulla, da chi ha perso completamente il controllo delle trasformazioni che avvenivano sul lavoro. L’unico sindacato unitario nato nel contesto delle lotte, la FLM, è stata smantellata dalle burocrazie sindacali che hanno ripreso il controllo sull’elezione dei delegati, i quali ora sono praticamente dei nominati da parte delle varie sigle.
Oggi comunque il fordismo, che era il quadro organizzativo di riferimento, è progressivamente stato messo da parte. Esso tuttavia non ha lasciato il posto a un modello unico di lavoro industriale, ma a una miriade di modelli, alcuni molto avanzati e altri molto arretrati. Ciò ha comportato la frammentazione degli assetti economico sociali del lavoro, cosa che ha avuto a sua volta come conseguenza una più accentuata individualizzazione a tutti i livelli, una velocizzazione dei circuiti di persone, capitali merci e informazioni che sono tipiche delle globalizzazione. Insomma, il lavoratore tipico semplicemente non c’è più.[8]
Pretendere di applicare lo Statuto degli operai fordisti a tutte le mutevoli forme che il lavoro è venuto assumendo nel periodo post fordista, per giunta in un quadro di sindacato diviso, si è rivelato sempre più come un progetto impossibile. I sindacati degli operai fordisti non sono stati in grado di combattere e controllare la delocalizzazione, l’automazione, la precarizzazione. Non hanno saputo sviluppare un progetto di riforma del mercato del lavoro e si sono limitati a gestire contrattazioni sempre più deboli e una montagna di ore di cassa integrazione. I «diritti dei lavoratori» di cui parlano i lavoristi dell’ultima ora erano stati di fatto erosi profondamente ben prima della riforma dell’art. 18. E il sindacato ha solo e soltanto «aperto dei tavoli».
 4.5. Non esiste più una tipologia di individui omogenei, come era l’operaio di mestiere o l’«operaio massa». È un dato di fatto che oggi gli individui (quale che sia la loro posizione) sul piano sociale e culturale sono diventati assai più diversificati, tanto diversificati da essere sempre più irriducibili gli uni agli altri. Sono ormai tanto diversificati che qualunque tentativo di costringerli in una qualche categoria organica, oltre che irrealistico, costituirebbe una vera e propria forma di violenza. La diversità individuale è senz’altro ricchezza e ciascuno tiene alla propria diversità, ma la diversità rende difficile, talvolta impossibile, qualsiasi piano di azione collettiva.
L’immagine dell’uomo che talvolta emerge da certe sociologie postmoderne è del tutto fantasiosa e priva di riscontri empirici. Non ci troviamo di fronte a individui dall’Io disgregato tutti eguali (e quindi mobilitabili sulla base di esperienze e interessi comuni) ma di fronte a individui che, nei limiti delle loro possibilità, fanno continuamente delle scelte personali e lottano accanitamente per difendere la loro individualità.[9] Il declino del lavorismo è stato determinato dai processi di arricchimento dell’io resi possibili dal mercato e soprattutto dal mercato culturale e non dai processi di disgregazione.[10] Qualsiasi futuro progetto politico di sinistra non potrà che partire dalle istanze individuali dei singoli e non passerà mai più dalle istanze collettive organiche dei lavoratori manuali dell’industria. Il vecchio sogno marxiano di un meccanismo che producesse la mobilitazione delle masse e la rivoluzione, generasse l’uomo nuovo in modo automatico, a partire dalle condizioni materiali dell’alienazione e dell’oppressione, è stato destituito di ogni fondamento.
4.6. Qualsiasi pretesa di ricavare dalla multiforme realtà odierna del lavoro, dall’accentuato individualismo che lo contraddistingue, un nuovo modello di umanità, un nuovo modello di società, è praticamente impossibile. Un simile modello non c’è e non ci può essere. In questa nuova situazione c’è posto solo per aggregazioni momentanee, cioè per i movimenti single issue che nascono e muoiono continuamente. Possono venirsi a determinare coincidenze d’interessi tra ampie fasce della popolazione, ma queste saranno sempre momentanee e non strutturali, non avranno alcun fondamento «materiale» o  metafisico. In più, in termini di estremo disturbo, potrà esserci anche un ampio spazio per spinte corporative, o magari  per manifestazioni di disperazione individuale. Del resto sono spariti i partiti della classe operaia, non perché i partiti abbiano tradito (in effetti l’hanno anche fatto), ma perché quel mondo non c’è più, se c’è ancora da qualche parte non ha più nulla di generale da esprimere.
Qualsiasi invocazione al «mondo del lavoro» come fosse un mondo unitario, come se avesse qualcosa di unitario da dire o da esprimere, è solo flatus vocis. Il mondo del lavoro come mondo,[11] capace cioè di esprimere una cultura omogenea, un orientamento unitario, capace di porsi come classe generale, capace di agire storicamente, se mai c’è stato, oggi non c’è più.
4.7. Un’altra distinzione classica che sta venendo meno è quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Il lavoro che conta, quello che pesa ai fini dello sviluppo economico, è sempre più lavoro immateriale. La produzione si fonda sempre più sulla capacità creativa che sul numero di pezzi. Anche l’erogazione simultanea e comandata del lavoro è sempre meno importante. Sta venendo meno l’idea profondamente lavorista che ci sia un conflitto strutturale radicale tra capitale e lavoro. Accade sempre più spesso, di fronte al mercato globale, che imprenditori e operai facciano fronte comune per rimanere sul mercato. Soggettivamente nessun lavoratore si sente più «classe operaia». Molti lavoratori dipendenti sognano di mettersi in proprio non appena possono. C’è una fluttuazione continua tra lavoro dipendente e lavoro in proprio, e tra i vari settori del lavoro, dal terziario, all’industria, all’agricoltura, ai servizi.
4.8. Le carriere di «mestiere» in senso tradizionale sono sempre più rare. La carriera lavorativa individuale comporterà sempre più il passaggio attraverso molti lavori dalle caratteristiche molto diverse.  Coloro che sapranno ben gestire la propria carriera professionale, attraverso i molti diversi lavori potranno crescere.  Coloro che non sapranno farlo, saranno consegnati a passare da un lavoro precario all’altro. La condizione fondamentale affinché il cambiamento di lavoro non si traduca in precarietà è il livello di istruzione individuale e la professionalità accumulata. Il problema è che in Italia abbiamo i livelli di istruzione tra i più bassi dei Paesi OCSE e abbiamo un sistema di formazione professionale e di educazione degli adulti che è arcaico, nelle mani di soggetti spesso incapaci e corrotti. Non abbiamo istruzione tecnica di alto livello. Questa miserevole situazione non fa parte del «piano del capitale», non è un «attacco al lavoro», è solo colpa nostra. 
4.9. A ciò va aggiunto che oggi il lavoro, dal punto di vista soggettivo, spesso non è più l’aspetto centrale della vita. Ciò non vuol dire che il lavoro non sia importante. Vuol semplicemente dire che vale sempre meno il motto «Dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei». Il lavoro non costituisce più necessariamente l’identità primaria dell’individuo. Ci sono molte altre fonti di identità cui ciascuno può attingere fuori dal lavoro. Questo significa che individui che fanno lo stesso lavoro uno accanto all’altro possono essere diversissimi per esperienze precedenti, per formazione, per mentalità, per obiettivi, per le chances di sviluppo futuro, ecc. Anche e soprattutto questi elementi di diversità soggettiva contribuiscono a rendere sempre più difficile, se non impossibile, qualsiasi tipo di azione collettiva.
4.10. A questo quadro possiamo aggiungere che, in generale, è oggettivamente diminuita la forza di qualsiasi opposizione organizzata da parte di gruppi di lavoratori. La globalizzazione ha ormai internazionalizzato la concorrenza sui costi del lavoro, per cui l’arma più classica della classe operaia tradizionale e di quella fordista, cioè lo sciopero, non ha più alcuna capacità di pressione. È curioso, ed è una delle conseguenze del permanere dell’ideologia lavorista, il fatto che oggi in Italia non si fanno quasi più scioperi per i contratti di lavoro, ma si fanno scioperi politici contro le riforme del governo Renzi.
 
5. Uno dei simboli del lavorismo nostrano sta nell’art.1 della Carta costituzionale. Tutti i costituzionalisti hanno sempre riconosciuto che si tratta di un «articolo programmatico», si tratta cioè, al di là degli eufemismi, di una mera espressione ideologica. Si tratta di un articolo che non ha mai avuto alcuna conseguenza pratica, se non quella di soddisfare e alimentare la retorica lavorista. Il diritto di avere un lavoro non è un diritto esigibile, come può esserlo il diritto di voto. Lo Stato repubblicano non può dare il lavoro perché il lavoro non ce l’ha.
5.1. L’idea dello Stato datore di lavoro in Italia ha trovato concretizzazione nell’industria pubblica e nel pubblico impiego. Ebbene, sono falliti tutti e due. Il settore pubblico dell’industria ha dovuto essere progressivamente smantellato (male, ma lo si è fatto; si pensi all’Alitalia!). Quel che è rimasto mostra spesso i segni della corruzione e dell’improduttività. Il Pubblico Impiego italiano è noto per la sua arretratezza e appare tutt’ora come la palla al piede dello sviluppo economico. Molti hanno provato a riformare la nostra macchina parassitaria, clientelare e inefficiente del Pubblico Impiego senza riuscirvi. Molte delle resistenze «lavoriste» provengono oggi proprio dal pubblico impiego. Il mito dello Stato che crea occupazione nel nostro lavorismo non è tanto di marca keynesiana (Keynes è stato solo un recupero dell’ultima ora), quanto di marca vetero sovietica. Solo più la Corea del Nord persiste su questa strada.
5.2. Il problema è che nel nostro Paese, proprio a causa del lavorismo diffuso, non sono mai stati tracciati chiari confini tra Stato e mercato. Il questo modo, lo Stato non ha funzionato e il mercato neppure. Questi problemi altrove sono stati affrontati e risolti decentemente. Lo stesso modello sociale europeo incorpora l’«economia sociale di mercato» di matrice tedesca che presuppone una rigorosa distinzione tra Stato e mercato, facendo dello Stato il garante proprio del buon funzionamento del mercato. Questo perché solo quando il mercato funziona effettivamente come mercato può avere le sue ricadute «sociali». Inutile ricordare che le inefficienze della macchina amministrativa, la corruzione, l’economia criminale, la mancanza di concorrenza, la clientela e il mancato riconoscimento del merito non possono che distruggere qualsiasi sano mercato.
L’articolo 1 della Carta è l’emblema del pasticcio lavorista e della perversa commistione tra Stato e mercato che ha prodotto uno Stato inefficiente e un mercato altrettanto inefficiente. Il capitalismo assistito di cui abbiamo vissuto in tutti questi anni ne è la conseguenza più tipica. Si noti che il capitalismo assistito non è solo sinonimo di spreco, esso rovina il mercato e rovina le capacità concorrenziali del capitalismo stesso. Quando i sindacati poi chiedono «gli investimenti» trovano soltanto il vuoto pneumatico, trovano imprenditori incapaci o corrotti. Se si vuole un capitalismo sano, occorre accettare la «distruzione creatrice» e togliere di mezzo le imprese improduttive. Il problema non è quello di cambiare l’art. 1, perché come s’è detto, non ha alcuna conseguenza pratica. Il problema è di cambiare mentalità, che è la cosa più difficile del mondo.
 
6. Il lavorismo ha prodotto, e produce tuttora, nel nostro Paese, manifestazioni folkloristiche di vario genere che sono connesse alla «metafisica del lavoro» di cui si diceva. Ben lungi dall’essere dei residui inoffensivi, queste manifestazioni costituiscono ancor oggi degli impedimenti solidi sulla strada del cambiamento di mentalità. È perciò necessario prendere coscienza dell’entità e della pervasività di questi impedimenti, onde riuscire a pensare e agire più liberamente.
6.1. Una delle conseguenze della metafisica del lavoro è il senso di superiorità morale che normalmente viene associato al lavoro, ai lavoratori e a tutti i loro derivati. È un’eredità dell’ideologia dei produttori di storica memoria. In realtà il senso di superiorità compreso nella famosa frase «Io lavoro!» è del tutto fuori luogo. Lavorare è alquanto comune per cui non si vede dove stia la superiorità morale di chi lavora. Altra cosa sarebbe il senso morale di lavorare bene. Nel nostro paese purtroppo non c’è nulla di simile al perfezionismo dell’etica protestante. Non importa fare bene il lavoro, basta poter dire di avere un lavoro. Gli italiani sono tanto moralmente presuntuosi quando proclamano di lavorare, quanto sono poi pasticcioni e fancazzisti in pratica (questa è ovviamente una valutazione media e non esclude le lodevoli eccezioni). Basta scorrere le cronache quotidiane per compilare un elenco impressionante di assenteismo, di improduttività, di lavori fatti coi piedi, di lavori inutili. Gli elenchi si estendono a qualsiasi ramo, pubblico o privato, a qualsiasi settore, a qualsiasi area del Paese, dalle mansioni infime ai quadri dirigenziali. Dalle statistiche risulta che noi italiani lavoriamo sì molto (cioè ci sbattiamo molto), ma con risultati decisamente piuttosto scarsi (si vedano le statistiche comparate sulla produttività). Molto rumore per nulla.
6.2. La diffusa retorica del lavoro ha fatto sì che, di fronte al diritto al lavoro, qualsiasi altro aspetto rilevante della vita economico sociale venisse posto in secondo piano. Per difendere l’occupazione nel nostro Paese si è fatto di tutto. Si sono assunti lavoratori del tutto improduttivi pur di dare loro un salario, si sono fatte assunzioni spropositate, si sono assunti degli incapaci solo per motivi clientelari e, sempre per clientela, gli incapaci sono stati messi nei posti di maggior responsabilità.  I sindacati poi, specialmente nel Pubblico Impiego, hanno difeso fannulloni indifendibili. Si sono tenute in piedi imprese improduttive dai costi elevatissimi, prive di qualsiasi forma di concorrenzialità. Sono state tollerate varie forme di economia irregolare e di economia criminale. In nome dell’occupazione si è tollerata la presenza di fabbriche che producono veleni, distruggono l’ambiente e assassinano le persone. Il caso dell’ILVA di Taranto è un caso emblematico. Il fatto che l’attuale Presidente della Regione Puglia sia imputato (per ora solo imputato) per avere tentato ostacolare i controlli ambientali è del tutto illustrativo di un certo tipo di atteggiamento lavorista. Ancora una volta non importa che il lavoro sia produttivo, sia fatto bene, sia pulito, basta che sia un lavoro. L’industria di Stato e il pubblico impiego sono stati rovinati da questa mentalità.
 6.3. Il lavorismo poi ha sempre ambíto a che i lavoratori avessero un ruolo di guida politica dell’intera compagine nazionale. Un’implicazione di questa convinzione è che i lavoratori, in quanto lavoratori, dovrebbero per lo meno avere una qualche maggior scaltrezza o lungimiranza dal punto di vista politico. Nel nostro Paese, da un bel po’ di tempo a questa parte, i lavoratori dipendenti (statisticamente parlando) in realtà votano a destra. Il mondo dei lavoristi avrebbe dovuto concentrarsi assai su un fatto evidente come questo. I lavoratori padani hanno sostenuto la Lega Nord di Bossi nel suo progetto di democrazia etnica. Hanno votato in massa per Berlusconi. Insomma, non è più vero, se mai lo è stato, che i lavoratori sono di sinistra, che sono interessati alle riforme e al cambiamento.[12] Politicamente i lavoratori, nel nostro Paese, hanno fatto scelte politiche spesso contrarie ai propri interessi oggettivamente intesi. Ciò sembra implicare dunque che i lavoratori, in quanto lavoratori, non abbiano poi tanto le idee chiare su quali siano i loro autentici interessi, al di là dell’immediato tornaconto.
6.4. Un’eredità del vecchio mondo lavorista sta nella convinzione diffusa presso diverse categorie sociali che i lavoratori costituiscano una guida infallibile. Poiché a lungo andare si era favoleggiato della leadership dei lavoratori, molti politici e intellettuali della seconda metà del Novecento ebbero come massima aspirazione quella di porsi sotto la direzione della classe operaia. I movimenti degli studenti degli anni Settanta gridavano «Studenti e operai uniti nella lotta!». In Italia il lavorismo si camuffò come operaismo, un movimento che avrebbe dovuto rivoluzionare l’intera società, partendo dalle fabbriche e dalle piazze.  Il problema è che tutti quelli che sono andati alla ricerca della leadership operaia, anche nel periodo più acceso delle lotte, non l’hanno mai trovata e, se qualche volta l’hanno trovata, ne sono rimasti terribilmente delusi. Quelli che ci credono ancora oggi sono destinati altrettanto ad andare delusi.
6.4.1. Una volta delusi dalla leadership dei lavoratori, è tuttavia rimasto, nel popolo della sinistra, il bisogno di avere una classe, un gruppo sociale, come riferimento, come parte sociale capace di una prospettiva di liberazione universale, capace di produrre necessariamente il cambiamento della società.  Così si è andati alla ricerca di qualche altro soggetto collettivo capace di svolgere quella funzione di classe generale che era stata primamente attribuita ai lavoratori. Si è passati alle donne (dal vetero-femminismo fino a “Se non ora quando?”), agli immigrati, agli emarginati. C’è stato un tempo in cui anche i matti (con rispetto parlando) sono stati considerati come un soggetto rivoluzionario. Il problema è che tutti gli immaginifici soggetti sociali collettivi rivoluzionari che ci siamo inventati al momento buono non si sono mai comportati costitutivamente come forze di sinistra. Le donne hanno continuato a votare in massa per Berlusconi, nonostante il disprezzo che egli ha sempre manifestato per loro. I precari e gli emarginati non sono quasi mai schierati a sinistra e men che mai gli immigrati e gli studenti.
6.4.2. Altri più pervicaci hanno preso atto dell’impossibilità di trovare un soggetto collettivo in patria e sono andati a cercarlo nei multiformi movimenti rivendicativi, politico sociali dei paesi più arretrati. Nel nostro Paese il popolo della sinistra continua a infervorarsi per i soggetti rivoluzionari che vengono da fuori. Una sorta di sconcertante esterofilia politica. Ci hanno fatto una testa così con il comandante Marcos, con Porto Alegre, con Occupy Wall Street, con gli Indignados, e ora con Syriza e con Podemos. Guarda caso, quasi tutti movimenti da Terzo Mondo o, comunque, da paesi ancor più arretrati del nostro, cui noi guardiamo con gli occhi che brillano, segno soltanto della nostra colossale arretratezza mentale, del fatto che abbiamo sempre la testa girata all’indietro.
 
7. Una conclusione di ordine generale sembra imporsi inequivocabilmente. Dal sociale inteso come tale (cioè come il mondo pre-politico popolato di categorie organiche come lavoratori, donne, precari, disoccupati, emarginati, immigrati, studenti, e così via) non viene immediatamente fuori proprio nulla di politico. Il sociale è soltanto l’ultimo rifugio dei teorici deterministi, di coloro che cercano le leggi materiali oppure le basi materiali ineluttabili per fare la rivoluzione. Che da una certa condizione sociale derivi per miracolo la coscienza politica adeguata per quella stessa condizione è una pia utopia. Nella società dell’informazione, della conoscenza, dei media, dalla stessa condizione sociale può venir fuori qualsiasi cosa, cioè non può venir fuori proprio un bel niente. Pensare di usare il sociale contro il politico è solo analfabetismo sociologico e politologico.
 
8. Se le cose stanno così, ogni riproposta di politiche di classe, ogni nuova pretesa di fare dei lavoratori la classe universale che, tutelando se stessa, tuteli tutti, è destinata all’inconcludenza. Qual è allora la soluzione? Nelle sue linee generali la soluzione è addirittura banale, purché si voglia prenderla in considerazione. Si tratta di abbandonare una volta per tutte la prospettiva lavorista, con tutto quel che ne consegue, e sostituire il lavoratore con il cittadino. Il che implica, tra le altre cose, il transito di molti dei cosiddetti diritti dei lavoratori a diritti di cittadinanza.
8.1. Si tratta dunque di prendere atto finalmente di un’inversione del binomio lavoratore-cittadino che ha attraversato tutta la storia dell’Ottocento e del Novecento. Nei due secoli passati, nella concreta esperienza di vita, effettivamente prima si diventava lavoratori e poi, come lavoratori organizzati, cioè come collettivo, si poteva diventare lottando, semmai, anche cittadini di un qualche Stato nazionale. Ad esempio, i grandi partiti socialdemocratici del Novecento hanno organizzato le masse dei lavoratori e le hanno effettivamente rappresentate nei parlamenti. La cittadinanza effettiva (non solo quella nominale) era un lusso che pochi potevano permettersi. Storicamente, sindacati e partiti di classe, in quanto collettivi organizzati, hanno contribuito all’integrazione delle masse negli Stati nazionali.  Ora che le masse sono sparite in quanto masse, ora che questa lunga transizione verso la cittadinanza è decisamente terminata, dovremo assumere necessariamente che prima di tutto si è individualmente cittadini repubblicani e poi, semmai si potrà diventare, individualmente, anche lavoratori. Questo, paradossalmente, è l’unico modo per non abbandonare i lavoratori al loro destino.
La differenza fondamentale tra un cittadino greco o italiano e un cittadino svedese non starà tanto nel lavoro che fanno, quanto nelle prerogative di cittadinanza che sono loro messe a disposizione dalla loro appartenenza civica, quelle prerogative che fanno la differenza quanto alla possibilità di sviluppare liberamente un progetto di vita individuale, un’identità ricca e differenziata. Il nuovo modello di umanità è un modello di libera crescita e autorealizzazione individuale e non è determinato dal fatto di far parte di una classe o di una corporazione, quanto dall’avere delle autentiche chances di sviluppo e realizzazione in rapporto alla cittadinanza. Questa cosa banale gli immigrati l’hanno capita da tempo. Infatti fanno di tutto per ottenere la cittadinanza, non di un paese qualsiasi, ma di un paese che distribuisca le prerogative di cittadinanza migliori. Se si accontentassero solo del lavoro, potrebbero desiderare di fare gli irregolari vita natural durante.
8.2. Già, ma che fine farà il «diritto al lavoro?». A causa della scelta ineluttabile – che è stata fatta nel Novecento – dell’economia di mercato, non potrà mai essere che il lavoro sia un diritto immediatamente esigibile da parte del cittadino, poiché ciò farebbe, direttamente o indirettamente, dello Stato repubblicano il proprietario del lavoro e quindi ci troveremmo immediatamente in presenza di un capitalismo di Stato, con tutte le funeste conseguenze del caso. E ciò peraltro distruggerebbe il mercato, contaminandolo con lo Stato.
Lo Stato repubblicano allora deve regolare il mercato (senza interferire con le sue regole) in modo che esso funzioni effettivamente in quanto mercato e così produca tutti i benefici del mercato (e ciò sia chiaro non corrisponde al liberismo selvaggio – abbiamo già parlato di «economia sociale di mercato»!). Non c’è, nel mondo attuale, un modello economico, che funzioni effettivamente, diverso da quello tedesco o da quello scandinavo. Qualora i singoli cittadini abbiano delle conseguenze negative dal funzionamento di un effettivo libero mercato del lavoro (cioè non riescano a inserirsi nel mondo del lavoro, non trovino lavoro, rimangano senza lavoro, la loro qualificazione perda valore,…) allora lo Stato deve intervenire a sostegno del singolo cittadino (e non delle industrie decotte), che sarà considerato in quanto cittadino che ha dei diritti e non in quanto lavoratore (cioè membro di una classe o di una corporazione). Lo stesso principio si applica anche a coloro che per accidentalità varie venissero a trovarsi nella condizione di avere un reddito al di sotto di una certa soglia che possiamo qui qualificare genericamente come soglia di povertà (le soglie in realtà sono diverse ma non è il caso di entrare qui nei dettagli).
8.3. Le forme d’intervento di questo genere sono note da più di un secolo.[13] In quasi tutti gli Stati europei ci sono forme di tutela di questo genere. Sono conosciute genericamente come «reddito di cittadinanza». Un discorso simile, ma non uguale, è quello del «reddito minimo garantito» in funzione delle situazioni di povertà.[14] In diversi Paesi sono state sperimentate con successo varie forme di sostegno a coloro che hanno difficoltà sul mercato del lavoro. Sono i modelli che vanno sotto varie denominazioni, come ad esempio il modello di flex-security. Chi voglia saperne di più può leggersi i libri di Ichino.[15]
8.4. Una volta che si accetti di rovesciare la tutela dal blocco dei lavoratori intesi come classe, al cittadino allora il discorso cessa di essere sindacale,[16] classista e/o corporativo e diventa un discorso immediatamente e sanamente politico. In Italia oggi non c’è bisogno di rappresentare i lavoratori, o di rappresentare il lavoro (come dicono insistentemente Camusso e/o Landini), c’è bisogno di rappresentare i cittadini, c’è bisogno di una politica per tutelare tutti i cittadini nei confronti dei rischi connessi al mercato del lavoro. È chiaro che una prospettiva come questa renderebbe immediatamente obsoleti i sindacati, non i sindacati in generale (in Germania e in Svezia i sindacati stanno benissimo), ma soltanto quelli che ci ritroviamo in Italia.
Si tratta allora di studiare i modelli che ci sono già, che funzionano, si tratta di calcolare i costi e di reperire le risorse. Si tratta di smantellare in parte il vecchio modello delle tutele, che è ormai inutile e costoso. Una parte di quel che sta facendo il governo Renzi va proprio in questa direzione. Ci potranno essere dei limiti e dei difetti, si potrà fare meglio, ma il fatto è che questa è l’unica direzione possibile. L’obiettivo di rappresentare il lavoro rischia oggi soltanto di mettere in piedi una grossa lobby che mira a fare gli interessi di una parte (segnatamente dei lavoratori occupati) contro il resto, ricadendo nel classismo o nel corporativismo.
 
9. Oggi che la cultura del lavoro si è disgregata, perché si è individualizzato il lavoro, perché si sono disgregate le comunità occupazionali, perché non ci sono più le masse, perché ci sono soltanto individui, gli uni diversi dagli altri, irriducibili, ciascuno con il proprio personale obiettivo di crescita e realizzazione, dovrebbe fare un passo avanti la cultura politica. Il dibattito su quale tipo di essere umano si possa o si debba realizzare, quale tipo di società debba essere perseguito – se c’è – è un dibattito politico (oppure filosofico, oppure religioso), che non ha più niente a che fare in senso stretto con il lavoro e la sua metafisica. Purtroppo in Italia è venuta meno la cultura del lavoro (per le ragioni oggettive cui abbiamo accennato) ma non è cresciuta ugualmente la cultura del cittadino (per motivi legati ai limiti storici e culturali che sono solo nostri).  Mancando nel nostro paese un’autentica cultura del cittadino, la fine della cultura del lavoro, la fine del lavorismo, viene comunemente considerata, da alcuni, come la fine di ogni cultura. Solo per questo, oggi, l’invocazione della cultura del lavoro continua a essere uno stanco rituale di coloro che non sanno distaccarsi dal lavorismo e guardare oltre.
 
13/03/2015
19/02/2016 (rev.)
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
NOTE
 
[1] Questo articolo va letto in concomitanza con il mio altro articolo: Classe generale e interessi particolari. Può essere utile anche dare un’occhiata a Dal sociale non nasce niente. Sono tutti articoli pubblicati su questo blog.
[2] A questo processo contribuirono anche diversi intellettuali “transfughi” dalla loro classe. Secondo Marx la classe operaia internazionale sarebbe stata la erede della filosofia tedesca.
[3] Il termine è stato coniato da Hegel, ma è stato utilizzato in senso rivoluzionario da Marx.
[4] Spesso i socialisti e i comunisti hanno considerato la democrazia come una dittatura della maggioranza (magari alienata, condizionata, manipolata) ma non hanno mai seriamente riflettuto sull’incongruenza di una parte che (magia della dialettica) viene a coincidere con il tutto.
[5] Com’ebbe a dire Durkheim, nello stadio della solidarietà meccanica gli individui sono «tutti uguali».
[6] Anche i totalitarismi di destra – ove se ne dia correttamente un’interpretazione che non li riduca a mera reazione della borghesia contro il movimento operaio – hanno tentato di subordinare il singolo alla comunità (in nome della nazione e/o della razza). Il nazismo era nazional socialismo, è bene non dimenticarlo.
[7] Si possono ben fare delle riforme del lavoro senza essere lavoristi.
[8] Si è parlato di «attacco al lavoro» da parte del capitale, ma questa situazione non è il frutto di piani intenzionali da parte degli imprenditori. Si tratta di reazioni a situazioni di tipo economico sociale sempre nuove. Il mercato non ha piani.
[9] Su questo tema, ormai diversi decenni or sono, proprio Luciano Gallino, che oggi è uno dei maggiori sostenitori del postmodernismo sociologico, ebbe a scrivere un articolo il cui titolo è ancora oggi emblematico. Si tratta di L. Gallino, Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata, in Quaderni di Sociologia, vol. XXVIII, n.1, 1979. L’articolo è stato ristampato in L. Gallino, Della ingovernabilità, Comunità, Milano, 1987.
[10] La lettura in termini di disgregazione è possibile solo per coloro che hanno in mente soltanto la classe come elemento aggregativo.
[11] Qui mi riferisco a una tradizione filosofica che, in Italia ha avuto espressione in De Martino.
[12] Non è tuttavia neanche vero che chi non ha lavoro, o chi ha un cattivo lavoro sia per questo di sinistra. La miriade di coloro che cercano lavoro non è mai riuscita a esprimere una posizione politica chiara e ben definita, a partire dalla propria condizione economico sociale.
[13] Vedi in proposito: (2005) Van Parijs, Philippe &  Vanderborght, Yannick, L’allocation universelle, Éditions La Découverte, Paris.  Tr. it.: Il reddito minimo universale,  EGEA Università Bocconi Editore, Milano, 2006.
[14] Non parliamo qui del salario minimo garantito, che riguarda solo coloro che lavorano.
[15] Cfr. in particolare: Ichino, Pietro, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Mondadori, Milano 2011.
[16] Questo è l’unico vero motivo per cui i sindacati italiani guardano con diffidenza qualsiasi forma di reddito di cittadinanza.