venerdì 12 settembre 2014

La foresta dei simboli

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Generalmente[1] si ritiene che sia molto difficile definire che cosa sia un simbolo. Esistono molte diverse accezioni, corrispondenti ad altrettanti punti di vista disciplinari o specialistici. Ciascun settore culturale ha prodotto le proprie definizioni e i propri usi, senza preoccuparsi di operare gli opportuni collegamenti con gli ambiti confinanti. Il risultato è che il concetto di simbolo vive in una specie di limbo pieno di fraintendimenti e, soprattutto, di sovraccarichi.
Uno degli approcci preliminari, molto ripetuti nella letteratura, riguarda l’origine storica e filologica del termine. È stato spesso raccontato che “simbolo” deriva dal latino symbolus e symbolum, derivante a sua volta dal greco σμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo». Questo sostantivo proviene dal verbo συμβλλω «mettere insieme, far coincidere» (composto di σν «insieme» e βλλω «gettare»). Per spiegare questa curiosa etimologia, altrettanto spesso viene riportato che, secondo un antico uso greco, il termine designava uno strumento di controllo o di riconoscimento, ottenuto spezzando irregolarmente in due parti un oggetto rigido (per es., una moneta, un coccio, una medaglia), in modo che chi ne avesse una, il segno, potesse farsi riconoscere facendola coincidere con l’altra, il contrassegno.
Un passo avanti decisivo è stato realizzato quando la definizione del simbolo è stata ricondotta nell’ambito di una teoria generale dei segni, o semiotica. Il simbolo rientrerebbe nella categoria dei segni, ma avrebbe, dal canto suo, alcune caratteristiche del tutto particolari. Così recita, infatti, la Treccani: «Nell’uso moderno il termine designa qualsiasi cosa (segno, gesto, oggetto, animale, persona), la cui percezione susciti un’idea diversa dal suo immediato aspetto sensibile. L’originaria funzione pratica, prevalente ma non esclusiva (anche la già ricordata medaglia spezzata «sta in luogo di»), è sostituita dalla funzione rappresentativa e simbolo si identifica con segno. Ma in certi usi (come in quello comune) simbolo tende a significare qualcosa di non tanto facilmente interpretabile come un segno, qualcosa di più vago e ambiguo, ricco di una pluralità di riferimenti indeterminati ed eterogenei, e anche come qualcosa di più complesso che rinvia a realtà importanti o remote».[2]
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Come è stato ampiamente chiarito dalla semiotica, un segno non è una cosa in sé, bensì un rapporto, istituito da un codice, tra un significante e un significato.[3] In quanto codificato, il segno è intelligibile, pur con qualche indeterminazione, a patto di conoscere le regole di codifica utilizzate per produrlo. I significati dei segni sono dunque istituzioni culturali del tutto convenzionali. Sui significati dei segni ci si può dunque accordare; il significato può sempre essere disambiguato, purché si abbia la voglia di farlo e si disponga delle risorse necessarie. Gran parte della comune attività culturale consiste proprio nel chiarimento dei significati. Secondo Wittgenstein, ad esempio, l’intera filosofia ha a che fare con il chiarimento dei significati, la filosofia sarebbe così una sorta di “terapia del linguaggio”.
Il simbolo appartiene indubbiamente al mondo dei segni, ma esso possiede, come suggerisce la definizione riportata, alcune caratteristiche sue particolari che lo collocano in una terra di confine. Come il segno non è una cosa ma è in realtà un rapporto, una funzione segnica, così anche il simbolo è concepibile come un analogo rapporto, che potremmo definire come funzione simbolica. La specificità del simbolo rispetto al segno sta nel suo particolare tipo di codificazione, nel particolare tipo di legame che collega il significante al significato. Non si tratta di un vero e proprio codice, si tratta piuttosto di una connessione di tipo vago, di una connessione che non è esplicitata, di tipo enigmatico, che non può essere chiarita o definita più di tanto, e dunque che non può essere compiutamente de-codificata e comunicata in termini razionali. Esso è dunque il risultato di una codifica poco precisa, poco rigorosa. Per questo, per intendere il simbolo spesso si ritiene di dover fare uso di particolari facoltà, diverse dalla ragione. Ha osservato Zagrebelsky che il simbolo «rinvia a qualcosa che non possiamo costatare ma solo intuire».[4]
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Il carattere vago della connessione tra significante e significato costituisce dunque una debolezza dal punto di vista del segno codificato, tipico della semiotica. Eppure sembra essere decisamente questa la caratteristica propria del simbolo e dunque, se così ci possiamo esprimere, la sua specificità in termini di funzione simbolica. Si potrebbe dunque anche avanzare l’ipotesi che i segni, semioticamente intesi, abbiano dalla loro una serie indiscutibile di vantaggi e che quindi siano destinati alla lunga a sopravanzare i simboli, a metterli da parte. I simboli potrebbero così apparire come il retaggio di epoche primitive, in cui la cultura umana non aveva alcuna consapevolezza e alcuna padronanza dei propri procedimenti. Il fatto che si continui a ricorrere ai simboli vuol dire evidentemente che, in talune circostanze, siamo disposti a rinunciare alla chiarezza del rapporto tra significante e significato per istituire una connessione tra un significante e qualcosa di poco noto, d’indefinito, qualcosa che c’è e non c’è, qualcosa di enigmatico e misterioso. Si tratta di capire quali vantaggi (o svantaggi) possiamo ottenere da questa rinuncia.
Se la semiosi è stata considerata come il regno delle cose che possono essere usate per mentire,[5] il simbolico può essere analogamente concepito come il regno delle cose che possono essere usate per evocare degli elementi indefiniti, degli oggetti dalla natura incerta. Per apprezzare la differenza, si consideri che una menzogna, per avere successo, deve essere comunque precisa e circostanziata; un simbolo, per essere efficace, deve invece evocare significati che siano fuzzy, sfumati, indeterminati. In simbolo non denota, bensì connota, ma lo fa in modo vago, insolito, sorprendente, misterioso.
Se questa è la situazione, non sarebbe meglio allora fare a meno dei simboli e concentrarci sui segni che sono dotati di regole di codifica relativamente chiare? Non sono forse i simboli forme di comunicazione ingannevoli da cui è meglio guardarsi? A cosa servono? Entro quali limiti possono essere utili?
Di un comune segno sappiamo dire se e come esso significhi o non significhi qualcosa. Possiamo ad esempio dire con certezza che “csxmzerfgh” non significa nulla in lingua italiana. Poiché i simboli invece non abitano in un universo codificato trasparente, di qualcosa che funzioni come simbolo siamo anzitutto sfidati a scoprire cosa significhi, siamo cioè invitati a scoprire (o a inventare) il tipo di codice che può chiarire il riferimento del simbolo.
Così spiega Zagrebelsky: «Il segno simbolico, rinviando a qualcosa che è al di là della sua materialità, non è né vero né falso, nel senso delle scienze esatte. Si sottrae a qualunque prova di verità o di verificazione […]. Per questo, nella distanza che separa il “qui e ora” del segno dal “non ancora qui e ora” del segnato che ci s’accinge a decifrare s’apre lo spazio vertiginoso per la libera intuizione, per l’immaginazione poetica, per l’esperienza estetica, per l’estasi mistica, per il contatto con Dio o con la natura, per l’immedesimazione essenziale dell’individuo nel tutto, e quindi per il suo annichilamento nella percezione della propria nullità, ovvero per la sua assolutizzazione attraverso il trascendimento di sé nell’universale. Nulla è deciso a priori. Tutto è indefinitamente possibile».[6]
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Il simbolo dunque rinvia a qualcosa di vago che deve essere ricostruito, cioè riempito di contenuto, attraverso strumenti prevalentemente intuitivi, o comunque non logici. Insomma, mentre il comune segno può essere facilmente decodificato – si pensi alla rapidità con cui comprendiamo il linguaggio o leggiamo i numeri – il simbolo richiede un supplemento di lavoro interpretativo che deve essere profuso utilizzando svariati strumenti mentali che non sono definiti a priori. Tra gli strumenti mentali che vengono usati per interpretare il simbolo giocano un ruolo molto importante le marche emotive.[7] La funzione simbolica può infatti operare nell’ambito di forti investimenti emotivi (come del resto qualsiasi contenuto della coscienza). Ciò indubbiamente rende l’attività interpretativa ancora più incontrollabile. Si badi bene che il fatto che un simbolo implichi un investimento emotivo non significa minimamente che esso corrisponda a qualcosa di reale.[8] Possiamo investire emotivamente simboli che sono falsi, cui non corrisponde proprio nulla. Questa capacità è necessaria, poiché altrimenti non saremmo animali culturali.
Abbiamo detto che il segno dispone di un codice che ne permette la disambiguazione. Il simbolo non dispone di un codice, molto più vagamente il simbolo si materializza, come simbolo, in un contesto. Solo il contesto culturale (che può tuttavia essere qualsiasi cosa) permette di produrre il rinvio tipico della funzione simbolica a qualche significato (anche se taluni simboli possono avere una dimensione privata).
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Accade tuttavia che il riferimento cui punta il simbolo possa essere oggettivato, cioè trattato come una cosa realmente esistente, soprattutto quando il simbolo è condiviso. Infatti: «… il simbolo può diventare oggettivo, quando i suoi significati sono codificati in una norma significante generalmente accettata o subita. Ecco come, dunque, il segno assume il valore di un simbolo nell’esperienza comune. Il passaggio attraverso il quale dal segno inteso singolarmente si passa alla medesima percezione di ciò a cui esso allude da parte di due persone, di più persone, di tutte le persone, quello è il momento in cui il segno diventa veramente simbolo, come fatto psichico di natura sociale. L’esperienza individuale di significato è scesa in un’esperienza collettiva che supera gli individui come tali e gli lega in un rapporto di per sé invisibile, ma reso visibile nel segno simbolico. Il simbolo è il punto di passaggio dalla soggettività all’oggettività dei significati. Attraverso il simbolo, il singolo dischiude la visuale a un mondo che è suo, ma non soltanto suo: è comune, crea e riflette comunanza di credenze e comunità di esperienze. Diventa un potente fattore spirituale di integrazione sociale…».[9]
Sempre secondo Zagrebelsky, l’elemento simbolico è importante per la costruzione delle rappresentazioni collettive: “Siamo in presenza di fatti in realtà immateriali, ma con quest’espressione non dobbiamo intendere l’abbaglio, illusione, inganno. I simboli non ci parlano di verità, ma di credenze collettive e queste credenze sono fatti e realtà essenziali per la vita in comune, cioè per qualsivoglia società”.[10] La spiegazione di Zagrebelsky è di tipo funzionale: «... l’umanità ne ha bisogno come di un’esigenza primaria della sua esistenza e persistenza nella forma di una vita in comune. “Tutto ciò che è sociale consiste in rappresentazioni collettive”, cioè in simboli: non è necessario essere un Émile Durkheim per concordare con questa affermazione. Si deve sottolineare questo punto: il “sociale” e il “politico” non esisterebbero senza rappresentazione. Se le società fossero fatte di materia empirica o razionale, non ci sarebbe posto per il linguaggio simbolico».[11]
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Spesso è stato sottolineato un legame assai stretto tra il simbolo e il mistero. Il mistero è ciò che non deve essere detto, ma può anche essere considerato come “qualcosa d’indicibile”, qualcosa che si colloca oltre il linguaggio consuetudinario, qualcosa per la cui comprensione occorre costruire ex novo un codice, che può essere un codice così personale e privato da non essere comunicabile ad altri. Una funzione simbolica, appunto. Un altro legame assai stretto è quello tra il simbolo e il sacro. Il sacro è lo straordinario, ciò che è opposto all’ordinario o al profano. Lo straordinario spesso possiede le caratteristiche degli oggetti evocati attraverso i simboli: è indefinito, misterioso, inafferrabile, enigmatico. È chiaro che il simbolo ha molto a che fare con ciò che comunemente chiamiamo sacro.
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Le diverse teorie che si occupano del simbolismo vanno soggette a oscillazioni decisamente preoccupanti per chi voglia comprendere questo fenomeno con un po’ di chiarezza. Può accadere che tutti i simboli siano ridotti a segni e quindi non trovino più alcuna loro specificità, oppure può accadere che pressoché tutti i segni (intesi come contenuti culturali) siano ridotti a simboli, per cui tutta la cultura sarebbe da considerarsi come eminentemente simbolica. In tal caso la nozione di segno rimarrebbe riservata solo alle espressioni meramente tecniche e utilitaristiche. Ci troviamo dunque di fronte a una situazione imbarazzante, per cui tutto è simbolo, oppure nulla è simbolo.
Un tentativo teorico interessante che permette di definire con qualche precisione il rispettivo ambito di competenza del semiotico e del simbolico è stato compiuto dall’antropologo Dan Sperber nella sua opera Le symbolisme en général del 1974. L’originalità della teoria di Sperber sta nel considerare il simbolismo non tanto a partire dall’infinita varietà dei prodotti culturali che possono essere considerati simbolici o non simbolici, quanto a partire dai meccanismi cognitivi attraverso cui i simboli vengono generati. Secondo Sperber, infatti, la capacità umana di produzione dei simboli sarebbe riconducibile a uno specifico meccanismo cognitivo, di carattere piuttosto basilare ed elementare.
Secondo la descrizione cognitivista, la mente non è un blocco unitario, ma va piuttosto considerata come un insieme di processi funzionalmente differenziati. Il processo mentale più immediato, in cui ci imbattiamo più direttamente, è quello costituito dalla memoria di lavoro: si tratta di una memoria a breve termine di carattere non specifico dal punto di vista contenutistico (può accedere a tipi assai svariati di informazioni, da quelle sensoriali, alle emozioni, fino ai costrutti linguistici e simbolici,…), che opera molto velocemente, ma che ha una ridotta portata, ed è in grado di focalizzare solo poche informazioni per volta, quelle che di volta in volta ricadono nel campo della nostra attenzione. Entro la memoria di lavoro si sviluppa la nostra attività mentale qui e ora. Dati i limiti di portata della memoria di lavoro, essa si serve, come deposito, della memoria a lungo termine, in cui vengono continuamente riposti e ripescati i contenuti che sono utilizzati di volta in volta.
Se le cose stanno così, è chiaro che le modalità di strutturazione e di accesso della memoria a lungo termine sono oltremodo rilevanti. L’accesso ai contenuti della memoria a lungo termine può avvenire essenzialmente in due modi: in modo semiotico e in modo non semiotico. L’accesso semiotico è quello che avviene tramite un codice preciso: si pensi a quando interpretiamo i termini del linguaggio, oppure quando ci fermiamo di fronte al semaforo rosso. L’interpretazione in base a un codice è di norma veloce, sicura e precisa; in questi casi siamo sicuri di avere ben capito il significato dell’informazione che stiamo elaborando. Può accadere però che la decodifica di tipo semiotico non abbia successo, allora abbiamo a disposizione un accesso alternativo, di tipo non semiotico, molto più lento, molto più insicuro e aleatorio. Quando un input, dopo una prima scansione della nostra memoria, non corrisponde assolutamente nulla di preciso, non appartiene cioè al tipo di comunicazione codificata, esso viene messo tra parentesi, cioè viene fatto diventare esso stesso un oggetto di interpretazione. In questo caso riconosciamo implicitamente di non possedere alcun codice per quel tipo di input e proviamo allora a cercare tra i contenuti della memoria a lungo termine qualcosa che possa avere con esso qualche tipo di legame, un legame di qualsiasi tipo, al fine di sciogliere l’incongruenza. Veniamo così a trovarci in una situazione abbastanza indeterminata, dove possono nascere associazioni insolite, si possono fare scoperte, formulare ipotesi azzardate, tenere le soluzioni in sospeso.
I contenuti depositati nella nostra memoria a lungo termine sono a loro volta fondamentalmente strutturati in due modi. Sperber ha proposto la distinzione tra il sapere semantico e il sapere enciclopedico. Il sapere semantico è costituito di proposizioni di carattere analitico (“ il leone è un animale”) e sono governate fondamentalmente dalla logica deduttiva; il sapere enciclopedico invece si fonda sulla varietà del mondo e può quindi esprimersi solo in forma di un insieme di proposizioni di carattere sintetico, nel senso che producono una qualche conoscenza nuova.[12] Esse sono governate dalle regole dell’induzione. Si tratta di proposizioni che sono vere o false a seconda dello stato del mondo e nessuna regola semantica permette di valutarne la veridicità. Si tratta di una distinzione che funziona nella maggior parte dei casi, anche se possono esistere casi dubbi. I contenuti enciclopedici che possediamo possono essere connessi alle nostre esperienze in generale, ai nostri apprendimenti, alle nostre esperienze strettamente autobiografiche, alle nostre fantasie, ai nostri desideri, ai nostri sogni. In ciò dovremmo includere anche materiale simbolico già elaborato che abbiamo appreso dalla nostra cultura.[13]
In genere attribuiamo a questi oggetti presenti nella nostra memoria certe marche di realtà: questa cosa l’ho vista in sogno; questa esiste davvero nel mondo sensibile e possono costatarlo tutti direttamente; questa cosa so che esiste, ma per verificarla dovrei avere un microscopio elettronico; quest’altra è stata inventata in un romanzo e può essere condivisa con chi ha letto il romanzo; questa cosa non è verificabile ed esiste solo per quelli che ci credono (ad esempio l’anima). Non sono escluse neppure le narrazioni, di qualunque tipo. Non sono escluse, anzi, sembra abbiano un ruolo importante, le marche emotive, le quali hanno la caratteristica di essere in grande misura private, cioè vissute in prima persona e difficilmente comunicabili.
Ebbene, l’esplorazione della memoria a lungo termine, alla ricerca di qualche interpretazione per l’input che abbiamo messo tra parentesi, può portarci a evocare qualcuno dei molteplici materiali che possediamo in memoria (nelle forme più svariate). Alcune evocazioni saranno subito scartate, mentre altre si presenteranno con qualche plausibilità. Queste evocazioni plausibili diventeranno per noi il significato dell’input misterioso che avevamo ricevuto. Si tratta dunque, solo a questo punto, di istituire ipoteticamente una nuova codifica. Se farà storia, se si affermerà in noi e attorno a noi, nella nostra cultura, a quell’input faremo poi sempre corrispondere questo nuovo significato simbolico, a questo punto senza pensarci troppo, diventerà una interpretazione simbolica cui attribuiremo una qualche marca di realtà.[14]
Insomma, il simbolo punta a dei significati che, in mancanza di meglio, abbiamo costruito fortunosamente con i materiali sparsi della nostra memoria a lungo termine e, quindi anche, con i materiali che la nostra cultura ci mette a disposizione. Spesso il legame tra l’input e il significato attribuito è destinato tuttavia a restare piuttosto vago e indeterminato, o comunque è destinato a essere messo spesso tra parentesi. È chiaro che il simbolismo difetta nel campo della codifica e che esso può essere proprio considerato come un modo per aggirare i problemi della codifica.
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Secondo la teoria di Sperber i fenomeni simbolici non sarebbero dunque dei segni a pieno titolo e non seguirebbero dunque le regole della significazione. Le caratteristiche proprie del simbolismo vanno ricavate per differenza nei confronti dei meccanismi della significazione. Si tratta anzitutto di capire quali tipi di dati vengano utilizzati nei processi simbolici. Nel simbolismo l’informazione in input può giungere attraverso tutti i sensi, separatamente o congiuntamente, motivo per cui si tratta di informazione che non ha proprietà sistematiche. Si tratta addirittura di informazione che può assumere valore soltanto per chi è in grado di riconoscerla. Non esistono criteri rigorosi di inclusione o di esclusione. Per questo motivo, non ci può essere nulla di generale nel simbolismo; vi sono anche dei dati idiosincrasici, legati all’esperienza individuale che non appartengono a un patrimonio comune e che influenzano la costruzione del dispositivo simbolico.
«Il simbolismo è in massima parte individuale e ciò, nell’ambito di una concezione semiologica del simbolismo, è doppiamente incomprensibile: in primo luogo, un sistema di comunicazione funziona solo nella misura in cui il codice che lo sottende sia essenzialmente identico per tutti; in secondo luogo, un codice definisce tutti i suoi messaggi in modo esauriente. Il simbolismo, che è un sistema conoscitivo non semiologico, non è sottomesso alla restrizione di questo tipo».[15] «I dispositivi simbolici possono dunque variare da individuo a individuo molto più di quanto non avvenga nel caso del linguaggio, benché i dati di partenza varino forse meno».[16]
È interessante l’osservazione di Sperber secondo cui, di conseguenza, non possono esistere lingue simboliche. «Un individuo che impara una seconda lingua interiorizza una seconda grammatica, e anche se si possono rilevare certe interferenze, è sorprendente quanto esse siano limitate. I dati simbolici, invece, qualunque sia la loro origine, si integrano nello stesso individuo».[17] È come se ciascun simbolo costituisse e istituisse un linguaggio a se stante, il che è come dire che non c’è alcun linguaggio: «Si costruisce sempre un solo dispositivo simbolico, che l’esperienza può modificare ma non duplicare».[18]
Ugualmente, non si impara il simbolismo nello stesso modo in cui si impara a parlare. Non si può mai affermare di avere imparato un dispositivo simbolico, come si può affermare di avere imparato una lingua. «Essendo conoscitivo, il simbolismo resta per tutta la vita un dispositivo di apprendimento».[19] Insomma, nell’ambito del simbolismo, c’è un apprendimento continuo e si rende necessario un continuo cambiamento, anche se molte società tradizionali tendono a fissare il simbolismo per impedire qualunque cambiamento. «Il dispositivo simbolico,... non può operare su nuovi dati senza esserne modificato: esso non è soltanto l’oggetto di un apprendimento, ma uno dei suoi oggetti è precisamente l’apprendimento continuo».[20]
Dunque il sapere simbolico non è un sapere linguistico codificato. Ma non è neppure un sapere enciclopedico. Il sapere simbolico assomiglia a prima vista al sapere enciclopedico (e utilizza proposizioni che sono indubbiamente proposizioni sintetiche). Tuttavia, mentre nell’ambito del sapere enciclopedico si tenta in ogni modo di evitare le contraddizioni, «Le proposizioni simboliche non sono articolate in eguale maniera e non sono oggetto di uno sforzo analogo; non per questo sono incoerenti tra loro, ma la loro coerenza è d’altra natura ed esse coesistono senza difficoltà accanto proposizioni enciclopediche che le contraddicono, direttamente o per implicazione».[21]
La conoscenza simbolica e la conoscenza enciclopedica vengono a trovarsi giustapposte, ma non vengono mai messe a confronto. È come se la conoscenza simbolica vivesse in un suo mondo a parte. Chi è portatore di entrambi i tipi di conoscenza ritiene che possano essere entrambe vere e che in qualche modo - anche se non si sa come - l’incongruenza possa essere risolta.
Posso sapere che qualcosa è vero senza sapere nulla di questo qualcosa. Dunque il dispositivo simbolico usa proposizioni che appartengono all’enciclopedia, ma queste vengono messe tra parentesi, sono ritenute vere o valide di per sé, cioè non vengono mai confrontate effettivamente con il resto dell’enciclopedia. «... dire che le rappresentazioni simboliche sono tra virgolette, è anche dire che il sapere simbolico non verte sull’oggetto di quelle rappresentazioni, ma ha invece quelle rappresentazioni come oggetto».[22] L’enciclopedia non viene usata in quanto tale, ma viene soltanto evocata, oltretutto in modo parziale. Per gli scopi del simbolismo, è sufficiente che l’aspetto enciclopedico specifico che viene evocato riesca a riempire la lacuna avvertita al momento dell’input.[23]
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Prenderemo ora in considerazione alcuni aspetti specifici del procedimento che avviene quando riceviamo un input che dà origine a un processo di simbolizzazione. «Il trattamento simbolico sembrerebbe […] comportare due aspetti: da un lato, uno spostamento dell’attenzione o focalizzazione; dall’altro, una ricerca nella memoria o evocazione».[24] Sperber ha fornito una descrizione del meccanismo psicologico che interviene nella simbolizzazione. Quando focalizziamo la nostra attenzione su un’informazione nuova e questa informazione viene trasferita nella memoria di lavoro, cerchiamo di produrre una connessione tra la nuova informazione e quanto è già contenuto nella memoria a lungo termine. Se la connessione riesce, i contenuti connessi nella memoria a lungo termine vengono trasferiti nella memoria di lavoro e si crea una connessione tra la nuova informazione e le informazioni precedenti. «Può tuttavia accadere che il lavoro del dispositivo concettuale non riesca a rendere in tal modo pertinente la nuova informazione […] ciò che rimane è una rappresentazione concettuale non assimilabile, che viene messo tra virgolette per divenire oggetto di una seconda rappresentazione, simbolica questa volta».[25]
Quando la focalizzazione non viene soddisfatta (perché non si trova nulla nella memoria a lungo termine che la soddisfi), l’attenzione si concentra allora sulla stessa condizione di non soddisfazione (al vuoto che abbiamo trovato nella memoria) e questo stesso vuoto diventa un nuovo punto focale. Questo nuovo punto focale diventa il centro di un nuovo tentativo di esplorazione della nostra memoria a lungo termine per tentare di trovare qualche connessione. «L’evocazione consiste nel passare in rassegna e nel verificare le informazioni contenute in quel campo […] se l’impiego di un concetto in una rappresentazione concettuale permette di convocare direttamente la voce enciclopedica che adesso si riferisce, una rappresentazione messa tra virgolette e la focalizzazione che l’accompagna permettono, per parte loro, di delimitare un campo nel quale può trovarsi l’informazione richiesta. Il simbolismo dà luogo quindi a un secondo modo d’accesso alla memoria: un’evocazione che si adatta là dove la convocazione fallisce […]. Nella terminologia della psicologia cognitiva moderna, il fallimento di un processo sequenziale dà l’avvio a un processo parallelo, invertendo così l’ordine normale dei processi cognitivi. […] È essenziale capire che una rappresentazione simbolica determina una condizione focale e un campo di evocazione, ma non determina i percorsi dell’evocazione».[26] Questo è il motivo per cui l’interpretazione del simbolo sembra avvalersi di facoltà non razionali.
«Le rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite valutate, costituiscono l’input del dispositivo simbolico. In altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l’output difettoso del dispositivo concettuale. L’elaborazione delle rappresentazioni concettuali difettose da parte del dispositivo simbolico avviene in due tappe: in primo luogo, esso ne modifica la struttura focale, facendo passare il centro dell’attenzione dalle proposizioni che descrivono la nuova informazione alle condizioni non soddisfatte che hanno reso difettoso alla rappresentazione; quindi esplora la memoria passiva alla ricerca di informazioni in grado di ristabilire la condizione non soddisfatta. Quando questo processo d’evocazione riesce, le informazioni così trovate sono sottoposte al dispositivo concettuale che ricostruisce, in base a esse e alla condizione precedentemente non soddisfatta, una nuova rappresentazione concettuale. Questa è l’interpretazione della rappresentazione simbolica iniziale».[27]
In sintesi, «Si hanno quindi tre operazioni: collocazione tra virgolette di una rappresentazione concettuale difettosa - focalizzazione sulla condizione soggiacente responsabile del difetto iniziale - evocazione in un campo della memoria delimitato dalla focalizzazione».[28] Ugualmente, sempre a sostegno dello stesso argomento, scrive Sperber: «... malgrado l’eterogeneità e la differenza, ricompare […] un’identica struttura generale: messa tra virgolette di una rappresentazione concettuale insufficiente; focalizzazione sulla condizione responsabile di quell’insufficienza; evocazione di un campo delimitato mediante la focalizzazione. Il dispositivo simbolico si rivela quindi come un meccanismo molto generale, sotteso ad attività intellettuali estremamente diverse».[29]
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Il modello proposto da Sperber autorizza a interpretare le elaborazioni simboliche a livello individuale. Tuttavia, come l’antropologia continuamente ci avverte, accade che i simboli siano spesso condivisi da gruppi di individui, comunità, culture. Si tratta dunque di comprendere come il processo cognitivo della simbolizzazione individuale possa produrre simboli collettivi condivisi, come possa cioè costruire delle rappresentazioni collettive di carattere simbolico. Ciò può avvenire, secondo Sperber, attraverso il processo dell’apprendimento.
«Restano due ipotesi possibili: o gli individui sono per natura forniti di molteplici condizionamenti universali, di “archetipi” che consentono loro di interpretare ogni informazione simbolica indipendentemente dalle altre e sempre allo stesso modo; oppure - ed è l’ipotesi che io sostengo - gli individui sono dotati solo di un dispositivo simbolico generico e di una strategia di apprendimento. Tale strategia consiste nel cercare mediante quei meccanismi di cui sopra il trattamento più coerente e sistematico per le diverse informazioni con le quali essi si trovano a doversi confrontare. Nell’ambito di questa ipotesi, la diversità delle credenze, dei riti, ecc., e la loro ripetizione, lungi dall’apparire assurda o contingente, si rivela necessaria poiché essa soltanto permette - in mancanza di istruzioni esplicite o di schemi innati - di comprendere in che modo l’esperienza del simbolismo culturale possa condurre, almeno parzialmente, a un orientamento comune dei membri di una stessa società».[30]
Dunque, gli input che scatenano il processo della simbolizzazione possono essere comunemente diffusi, possono appartenere a quegli “universali della condizione umana” che spesso sono stati sottolineati. Tuttavia le singole comunità, le singole culture godono di una grande autonomia nell’elaborazione cognitiva che avviene sulla base degli specifici contenuti enciclopedici della cultura comune.
«Le forme universali del simbolismo si presentano quindi in condizioni critiche universali e con una focalizzazione universale; invece, i campi di evocazione determinati dalla focalizzazione differiscono in larga misura da una società all’altra, divergono a seconda del punto di vista particolare adottato in una società e variano quando quella società cambia».[31]
«Le manifestazioni del simbolismo culturale, violano sistematicamente gli stessi principi universali del sapere enciclopedico e, di conseguenza, proprio là dove esse appaiono opposte e in contraddizione, ancora meglio mettono a fuoco nella stessa direzione e illuminano, attraverso i loro stessi paradossi, i campi d’evocazione dai contorni simili, campi nei quali ogni cultura mette ciò che sa; campi che ogni individuo percorre guidato dal suo timore e dal suo desiderio. Nessuna significazione nei miti universali, ma, grosso modo, una focalizzazione universale, un campo d’evocazione culturale e un’evocazione individuale».[32]
«Lo studio transculturale del simbolismo ha quindi come oggetto le rappresentazioni simboliche reperibili in culture diverse, le loro condizioni critiche, le loro convergenze, gli elementi universali (o comuni a un’area culturale) del sapere enciclopedico che rientrano nel campo dell’evocazione. Lo studio del simbolismo in una particolare cultura può basarsi su questi primi risultati parziali per poi completarli con una descrizione degli elementi idiosincrasici del campo dell’evocazione. Concepiti in questi termini, i due metodi operativi, anziché entrare in conflitto, devono necessariamente procedere di pari passo. I fenomeni simbolici universali non hanno due interpretazioni contraddittorie - una costante e universale, l’altra variabile e specifica per ciascuna società -, ma piuttosto una struttura focale universale e un campo d’evocazione variabile».[33]
La teoria del simbolismo di Sperber dunque rende conto sia delle analogie transculturali di certi materiali simbolici, sia delle loro irriducibili specificità; rende conto sia della tendenza di certi materiali a conservarsi e a diffondersi, oppure della tendenza a produrre, su questi stessi materiali, delle innovazioni anche profonde. Si può dunque fare a meno dell’ipotesi di strutture ontologiche profonde, come gli archetipi (come in Jung), oppure di codici generativi del materiale simbolico e mitologico (come in Lévi-Strauss).
 
(*) Questo articolo deriva dalla fusione di due miei precedenti interventi sull’argomento del simbolismo.
 
12/09/2014
                                                                                 Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
1975 Eco, Umberto
A theory of Semiotics, Indiana University Press. Tr. it.: Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975.
 
1974 Sperber, Dan
Le symbolisme en général, Hermann, Paris. Tr. it.: Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino, 1981.
 
1967 Turner, Victor
The Forest of Symbols. Aspects of Ndembu Ritual, Cornell University Press, Ithaca. Tr. it.: La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia, 1976.
 
2012 Zagrebelsky, Gustavo
Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino.
 
 
NOTE
 
[1] Il titolo riprende ovviamente, come metafora, il noto Turner (1967). Presento qui i primissimi passi di un approfondimento sulla tematica del simbolismo in relazione alle rappresentazioni collettive e alla cultura.
[2] Cfr. Enciclopedia Treccani di filosofia.
[3] Cfr. U. Eco 1975.
[4] Cfr. Zagrebelsky 2012: 4.
[5] Cfr. Eco 1975.
[6] Zagrebelsky 2012:11-12.
[7] È quel che s’intende quando si dice che il simbolo viene esperito o vissuto.
[8] Anche se tendiamo facilmente a conferire un senso di realtà a ciò a cui abbiamo associato una forte emozione.
[9] Zagrebelsky 2012: 13.
[10] Zagrebelsky 2012: 15.
[11] Zagrebelsky 2012: 16.
[12] La distinzione tra analitico e sintetico che qui si usa è quella kantiana.
[13] I piccoli nella nostra cultura, fino a una certa, età possono essere convinti che esistano davvero esseri come la Befana o Babbo Natale. In una certa fase possono vivere in entrambi i mondi, sia come se esistessero, sia come non esistessero. Anche gli adulti possono fare molte concessioni sull’esistenza di questi esseri, come in occasione delle feste.
[14] Ad esempio, si consideri un essere che intervenga e si faccia presente solo in sogno. Possiamo ritenere fermamente che esista, ma il fatto che si presenti solo in sogno lo mette al riparo da qualsiasi esame di realtà.
[15] Sperber 1974: 86.
[16] Sperber 1974: 86.
[17] Sperber 1974: 87
[18] Sperber 1974: 87.
[19] Sperber 1974: 88.
[20] Sperber 1974: 89.
[21] Sperber 1974: 93.
[22] Sperber 1974: 107.
[23] Un bambino intervistato disse a Piaget che le montagne servono a far tramontare la luna. Il fatto che simili espressioni possano sembrarci espressioni poetiche la dice lunga anche sui legami tra il simbolismo e la poesia.
[24] Sperber 1974: 116.
[25] Sperber 1974: 117.
[26] Sperber 1974: 118.
[27] Sperber 1974: 137.
[28] Sperber 1974: 119.
[29] Sperber 1974: 186.
[30] Sperber 1974: 132.
[31] Sperber 1974: 134.
[32] Sperber 1974: 136.
[33] Sperber 1974: 135.