giovedì 30 settembre 2021

Come le “competenze” stanno distruggendo l’educazione

1. Introduzione

Da qualche tempo,[1] nel linguaggio aziendalese – pedagoghese che va per la maggiore ha fatto comparsa una magica triade: “conoscenze”, “capacità”, “competenze”. La triade si presenta talvolta camuffata sotto altre sembianze. La più nota è: “sapere”, “saper fare” e “saper essere”. Non manca neppure la variante “conoscenze”, “capacità”, “atteggiamenti”. Ma si possono anche trovare altre combinazioni. Spesso e volentieri la triade viene anche divinamente rappresentata mediante un triangolo con uno degli elementi per ciascun vertice. Talvolta, in aggiunta alla triade, si fa anche accenno alla “padronanza”, che dovrebbe, secondo taluni, corrispondere a una “competenza eccezionale”. In ogni caso, pur con le sue numerose varianti, la triade imperversa in tutte le sedi dove si affrontino questioni di progettazione educativa e viene considerata come una soluzione definitiva al problema dell’ingegneria curricolare.

Se s’interpellano gli appassionati cultori della triade per avere una definizione chiara e distinta di ciascun elemento della triade stessa, e quali siano le relazioni che intercorrono tra gli elementi, si otterranno tuttavia quasi sempre risposte vaghe, definizioni complesse e confuse,[2] e comunque contrastanti tra loro. Forti della loro ormai diffusa popolarità di massa, i seguaci della triade vi guarderanno tuttavia con compassione, come se foste ormai uno degli ultimi esemplari di una strana fauna che non crede all’evidenza e che passa la vita a cercare il significato delle parole. Purtroppo, nei dizionari specializzati e nella letteratura scientifica nazionale non si riuscirà facilmente a trovare traccia della triade, e men che mai si riuscirà a trovarne una definizione consolidata. Ugualmente, nei dizionari e nella letteratura scientifica internazionale (marcatamente quella anglosassone, da cui deriva gran parte della nostra psicologia dell’apprendimento e della nostra ingegneria curricolare) non si riuscirà facilmente a trovare i corrispettivi della triade. Viene il sospetto che si tratti di un linguaggio per intimi, il linguaggio di una setta nostrana cui si aderisce adattandosi alla regola del silenzio. A uso dei pochi che credono che valga ancora la pena di impegnarsi per chiarire il significato delle parole, tenteremo in questo saggio di fare qualche distinzione utile, se non per noi, almeno per i posteri, quando si accingeranno a studiare il nostro attuale stato di degrado delle scienze dell’educazione.

2. Le conoscenze

Il termine apparentemente meno problematico della triade è senz’altro “conoscenze”. Tuttavia occorre precisare che anche questo termine viene spesso impiegato dai laudatori della triade in maniera alquanto disinvolta. Conoscenza viene da loro spesso usato – lo si capisce dal contesto – nell’accezione stretta di “conoscenze contenutistiche”, intendendo con ciò riferirsi ai contenuti della conoscenza.[3] Nel Novecento in realtà sono state elaborate concezioni piuttosto diverse intorno alla “conoscenza” e il significato di questo termine non può essere dato per scontato. Piaget, ad esempio, rabbrividirebbe se sapesse che oggi, dalle nostre parti, la “conoscenza” è venuta a coincidere, senza alcun problema, con i contenuti della conoscenza. Egli, infatti, ha sostenuto che ogni conoscenza corrisponde a uno schema operativo, in altre parole – volgarmente – a ciò che siamo in grado di fare, vuoi con oggetti materiali, vuoi con oggetti simbolici. Una “conoscenza” rappresenta quindi, per Piaget, una sintesi a priori tra un elemento formale (uno schema operativo) e un elemento materiale (oggetti o simboli che vengono manipolati grazie allo schema operativo). Quindi, saper limare un pezzo di ferro, oppure saper danzare, oppure “sapere” la meccanica quantistica, saper recitare in teatro, sarebbero tutte “conoscenze”. La terminologia piagetiana non ha avuto alcuna fortuna nel nostro Paese, soprattutto nel campo della pedagogia, e chi oggi la volesse introdurre andrebbe incontro a serie difficoltà.

Val la pena tuttavia di esaminare meglio la questione, poiché il fatto di identificare i “contenuti della conoscenza” con la “conoscenza” tout court può creare diversi infortuni teorici. Ad esempio nell’ingegneria curricolare è spesso indispensabile distinguere tra i contenuti della conoscenza nella loro formulazione astratta, enciclopedica se si vuole, e i contenuti come effettivamente posseduti da un singolo individuo, in quanto memorizzati e eventualmente richiamabili per un qualche utilizzo. È chiaro che non è la stessa cosa “il teorema di Pitagora” come elemento generico della universale cultura geometrica e il “teorema di Pitagora” come è stato appreso e come viene in pratica utilizzato dall’allievo del secondo banco, della terza fila, di una certa classe. Nel primo caso abbiamo a che fare con un problema di catalogazione dei contenuti della conoscenza, nel secondo caso abbiamo a che fare con un apprendimento individuale com’è concretamente posseduto da un singolo allievo. Se non si vuol adottare un’immagine della mente come mero magazzino di contenuti,[4] occorre ammettere che, ad esempio, il fatto di avere compreso il teorema di Pitagora, di averlo elaborato e memorizzato, di saperlo richiamare alla mente, di saperlo spiegare a voce e di saperlo applicare in un contesto di problem solving rappresenti non solo l’acquisizione di un contenuto, bensì il possesso di una vera e propria abilità. Sotto questo profilo non c’è contenuto appreso che non sottenda anche qualche tipo di abilità. Possedere un contenuto implica sempre essere in grado di farci qualcosa. Come del resto si può anche sostenere che non esista abilità appresa che non sottenda qualche tipo di conoscenza contenutistica. Ecco che Piaget si prende la sua rivincita. Tuttavia, come già osservato, l’introduzione nel nostro paese della terminologia piagetiana sembra andare incontro a ostacoli insormontabili, per cui non resta che mantenere la distinzione tra “contenuti della conoscenza” e “abilità”,[5] dando per inteso che la “conoscenza” in senso piagetiano consisterebbe nell’applicazione di determinate abilità a determinati contenuti.

Stabiliamo allora, andando incontro ai seguaci della triade, la seguente convenzione. Intenderemo con i termini “contenuti”, o “contenuti culturali” quel complesso di informazioni che si ritiene debbano essere possedute da qualcuno in un certo momento del suo percorso formativo. Ciò può andar bene quando si compilano elenchi di contenuti che gli allievi dovrebbero imparare, o quando si progettano delle prove di controllo. Intenderemo con “abilità” le sole capacità operative (solo artificialmente separate dai loro oggetti) che possono anch’esse essere utilizzate per costituire elenchi. Tuttavia, com’è già stato ampiamente notato, non è possibile che si esercitino delle capacità operative senza gli oggetti rispettivi (materiali o simbolici che siano) o, se si preferisce, senza un contesto di esperienza.[6]

Per rispondere in qualche modo al problema che stiamo segnalando è entrata recentemente nell’uso (non si sa quanto durerà) una distinzione, che a nostro giudizio non risolve comunque il problema, tra “conoscenze dichiarative” e “conoscenze procedurali”, che si limita tuttavia a consacrare la fossilizzazione separata dei contenuti e delle abilità, giocando le une contro gli altri. Si veda l’uso che ne fa Maragliano.

3. Competenze

Gli altri due termini della triade (capacità e competenze), nelle varie definizioni che sono solitamente fornite, ahimè, si scambiano, continuamente tra loro e si confondono. Siccome però le definizioni fornite sono furbescamente vaghe,[7] spesso i fedeli della triade riescono a farla franca, a mantenersi solidi nelle loro convinzioni e ad allargare il novero degli adepti, grazie anche a numerosi corsi di aggiornamento ministeriali. Purtroppo negli aggiornamenti cosiddetti “a cascata” accade quello che capita nel gioco del telefono silenzioso: quella che all’inizio è una formulazione che possiede magari anche un minimo di chiarezza, passando di relatore in relatore, finisce per diventare un coacervo retorico, adottato poi di fatto dalla maggioranza in nome del principio di autorità.[8]

Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, cominciamo pure dalle competenze. La parola deriva dal latino compĕtere (da cŭm e pĕtere, con il significato originario di “dirigersi verso qc., cercare). I primi significati storicamente accertati sono quello di “gareggiare, misurarsi con qualcuno” e quello di “possesso di un’autorità riconosciuta per capacità, cultura, ecc., di parlare e giudicare su determinati argomenti”. Questi sono anche i principali significati rimasti a tutt’oggi. È appena il caso di ricordare anche il significato giuridico di “misura della potestà d’azione spettante per legge a ciascun organo giurisdizionale o amministrativo”. Secondo lo Zingarelli, è competente chi “ha la capacità, la preparazione e l’esperienza per compiere una data attività, svolgere un dato compito”. L’elemento comune a tutti questi percorsi di significato è quello dell’accertamento del possesso di un qualche elemento ritenuto utile. In sostanza, la competenza implica il possesso di un complesso di conoscenze contenutistiche e abilità, ma queste devono essere in qualche modo accertate e autorevolmente riconosciute. Va notata la stretta parentela della competenza con la competizione, ovvero una situazione di confronto, di concorrenza per distinguere i migliori dai peggiori, e con la competitività, ovvero la caratteristica di essere all’altezza di gareggiare con altri (chi non è competitivo, è fuori gara, ha già perso in partenza!).

Invano si cercherà il termine “competenza” nei dizionari più diffusi di psicologia.[9] Il glorioso Dalla Volta non lo riporta neppure, mentre l’Harrè (Harrè, Lamb, Mecacci 1986) lo riporta, ma solo esclusivamente riferito alla “competenza linguistica”. Esattamente lo stesso accade nel dizionario di Arnold, Eysench e Meili (1980), che rispecchia, più che altro, la cultura psicologica tedesca. Non c’è neppure nel recente Galimberti (1999).

 Sulla questione dell’uso di “competenza” nelle discipline linguistiche occorre un chiarimento. In inglese c’è effettivamente una distinzione interessante (che è stata recentemente importata nell’italiano aziendalese e pedagoghese creando un po’ di confusione) tra competence e performance.[10] Responsabili di questo uso sono i linguisti, i quali hanno inteso distinguere tra il possesso potenziale di una abilità linguistica e il suo esercizio effettivo (il parlante deve avere una competence linguistica potenziale, per eseguire poi le varie performance). Il Collins, l’autorevole dizionario della lingua inglese, esplicita, dal canto suo, che competence vuol dire “the condition of being capable; ability”. Evidentemente dalla linguistica anglosassone il termine competence è entrato nel pedagoghese italiano e ha rivaleggiato con il termine “abilità” precedentemente in uso. Spesso oggi, in italo – pedagoghese, si usa “competenza” perché è di moda, ma si vuol dire “abilità” (le competenze nella scrittura, le competenze relazionali…). Dunque – tolto lo specifico uso in linguistica – competenza, abilità e capacità sarebbero più o meno sinonimi. Più chiaro di così! La competenza così intesa non aggiunge o toglie assolutamente nulla a quanto già si significava con gli altri termini. Siccome “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” sarebbe consigliabile piantarla con la retorica vuota e concentrarsi sulle questioni autentiche!

4. Capacità

Capacità deriva invece dal latino cǎpere con il significato di prendere o comprendere. Capace in senso lato è dunque ciò che può contenere molte persone o cose (noi, del resto, abbiamo le “misure di capacità”). Di qui, il significato di essere abile, bravo, o di bravura. Secondo lo Zingarelli, sarebbe “l’abilità, idoneità a fare, ad agire, a comportarsi in un dato modo”. Insomma, capace è chi è abile, ovvero, sa fare qualcosa. In questo senso il “saper fare” qui funziona perfettamente, se il fare è riferito a comportamenti pratici, ma anche a operazioni intellettuali!). Secondo il Collins, capability significa “the quality of being capable; ability”.

Nello Arnold, Eysench e Meili 1980 si trova il termine “capacità”, ma dalla definizione si capisce chiaramente che si riferisce all’equivalente inglese di ability. Sfortunatamente, nell’Harrè la parola capacità non si trova proprio (in altri termini, la capacità non apparterrebbe al linguaggio specifico della psicologia anglosassone di cui l’Harrè è ottima espressione). Si trova però la sua consorella “abilità” (ability). Dall’Harrè, desumiamo tuttavia che l’abilità è la “capacità di eseguire un dato compito o di raggiungere un dato obiettivo”. Dunque si torna inequivocabilmente al fatto che l’abilità è né più né meno che una capacità!

Il vecchio seppur autorevole dizionario di psicologia del Dalla Volta (la prima edizione è del 1961) riporta entrambi i termini, ma con una differenza notevole di significato: abilità coincide in senso limitativo con “destrezza”, mentre capacità sarebbe “l’effettiva possibilità di svolgere un’attività o di condurre a termine un assunto, idoneità per un lavoro. Riguarda compiti motori e processi di pensiero, può esprimere tendenze innate o può essere prevalente frutto di apprendimento”. È chiaro che il Dalla Volta con il termine capacità intende quel che oggi intendiamo comunemente con abilità. In sostanza, probabilmente a causa dell’influsso della letteratura psicologica inglese, in italiano il termine abilità (che negli anni Sessanta era legato alla mera destrezza) è scivolato al posto del termine “capacità” (che è praticamente sparito dal linguaggio psicologico italiano). Oggi dunque in Italia siamo autorizzati a usare “abilità” intendendo con ciò quanto si intendeva quarant’anni fa con “capacità”. Si può tranquillamente usare “destrezza” volendo evocare quanto prima s’intendeva con la vecchia “abilità”.

5. Abilità

Per non lasciare nulla d’intentato, possiamo anche ricostruire il significato di “abilità”. L’aggettivo “abile” significa “capace, idoneo”, ovvero, quando usato come sostantivo, “capacità e idoneità a compiere qualche cosa in modo soddisfacente”. La parola deriva dal latino habēre, con il significato di “avere, tenere, possedere”. Abbiamo già ricostruito le vicende del significato di “abilità” nella psicologia italiana. Anche in inglese il termine viene comunemente e genericamente usato. Secondo il Collins, ability significa “possession of the qualities required to do something”. In inglese, come è noto, viene anche usato il termine similare skill, ma con il significato di “special ability in a task, esp. ability acquired by training”; ma anche “something, esp. a trade or tecnique, requiring special training or manual proficiency”. I sinonimi di skill sono proficiency, adeptness, expertness. In altri termini skill equivale a una specializzazione. Il termine italiano abilità possiede anche una connotazione di riconoscimento (quando si parla di “abilitazione”) che tuttavia sembra avere sempre avuto un peso secondario. Il termine “abilità”, tra quelli usati in italiano, è quello certamente oggi più neutro e generico, che esprime una constatazione di fatto; ce ne accorgiamo se consideriamo il suo contrario che è “inabile”. Noi ci spingeremmo magari a dire che un handicappato è “inabile” o “disabile”, ma non diremmo mai che è “incapace” o “incompetente”. Questo perché nel significato di “competenza” è molto più forte l’elemento valutativo e competitivo.

Per tutti i motivi precedentemente esposti, l’unica soluzione ragionevole – in italiano – sta nell’abbandonare al suo destino il termine “capacità”, usare sempre, in senso generico, “abilità” e riservare il termine “competenza” al significato di “abilità certificata” o, al più, certificabile, come è giusto che sia (a meno che non si stia operando nel campo specifico della linguistica). Naturalmente la scelta del termine non esime dal chiarire sempre bene qual è l’estensione semantica: in particolare, per quello che riguarda l’ingegneria curricolare, occorre sempre chiarire di che tipo di abilità si tratti.

6. Atteggiamenti

Un altro elemento spesso citato nelle triadi e nell’ingegneria curricolare nostrana è l’”atteggiamento”. La nozione di atteggiamento è estremamente complessa e ha sollevato innumerevoli dibattiti e obiezioni. Si tratta in realtà di una nozione elaborata nel campo della psicologia sociale e della sociologia, in seguito a innumerevoli discussioni, per cui è piuttosto rischioso utilizzarla senza le dovute cautele.

Le definizioni che sono state date di “atteggiamento” sono moltissime. Secondo uno dei manuali più noti e più tradizionali (Krech, Crutchfield e Ballachey 1970) un atteggiamento sarebbe una disposizione, “un sistema permanente di valutazioni positive, sentimenti, emozioni e tendenze all’azione pro o contro l’oggetto”. Perché si abbia un atteggiamento occorre almeno – secondo gli autori – una componente conoscitiva (un complesso di credenze e valutazioni), una componente affettiva e una disposizione all’azione. Per di più gli atteggiamenti, che hanno sempre un oggetto ben preciso, tendono a aggregarsi in orientamenti di più ampia portata che costituiscono poi i tratti di personalità più stabili.

Sul piano metodologico, l’atteggiamento è un costrutto non rilevabile direttamente (come accade invece di solito per i comportamenti), ma viene inferito proprio a partire da comportamenti espliciti che vengono considerati come indicatori dell’atteggiamento stesso: se un cittadino viene colto a versare oboli per i diseredati, se dedica una parte del suo tempo al volontariato, se si informa sulle condizioni dei popoli del terzo mondo, e simili, potremo inferire, da tutti questi indicatori, che possiede, ad esempio, un atteggiamento solidale. Ci aspetteremo allora che questo solidarismo si riveli anche in occasioni future, del tutto nuove. In altri termini l’atteggiamento consiste in una disponibilità o predisposizione a comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro. Uno dei problemi più difficili da risolvere, nella rilevazione degli atteggiamenti, sta nella corrispondenza tra gli indicatori e il costrutto (come sa qualunque studente abbia dato almeno un esame di psicologia o di statistica per le scienze sociali). Il fatto di essere portatore di atteggiamenti rende un individuo più prevedibile nei suoi comportamenti, per coloro che lo osservano, e permette all’individuo di avere già a disposizione una serie di risposte più o meno preconfezionate (risparmiandosi così la fatica di dover ogni volta porsi da capo tutti i problemi di scelta).

L’uso del termine “atteggiamento” in educazione pone però una marea di problemi che vengono sottovalutati sistematicamente. L’individuo è consapevole di tutti i suoi atteggiamenti, oppure gli atteggiamenti sono fondamentalmente inconsapevoli? Gli atteggiamenti che abbiamo appreso nella primissima infanzia sono in grado di strutturare tuttora il nostro comportamento, come ha sostenuto, ad esempio, con fondate argomentazioni, M. Rockeach? Si può cambiare atteggiamento? Se si può cambiare, come si fa? Un atteggiamento forse si può rendere cosciente, forse si può correggere. Si parla spesso di “maturare un atteggiamento”, ma cosa vuol dire? Un atteggiamento può essere esplicitamente insegnato, oppure è il risultato complessivo – indiretto – di molteplici esperienze?

In campo educativo, la nozione di atteggiamento può essere utilizzata descrittivamente per operare rilevazioni (attraverso gli opportuni indicatori, con tutte le cautele metodologiche del caso) sugli atteggiamenti diffusi (per conoscere la “situazione” degli allievi) oppure per tentare di insegnare nuovi atteggiamenti (sempre che ciò sia possibile!). Piuttosto curiosamente i pedagogisti non si sono quasi mai occupati del problema dell’insegnabilità degli atteggiamenti. In effetti spesso gli atteggiamenti, più che essere stati appresi in un frangente esplicito e specifico, risultano essere l’esito di processi non espliciti, di cui l’individuo non è spesso neppure cosciente. Come si diventa razzisti? Probabilmente ci si trova a essere razzisti come esito della propria socializzazione complessiva. Gli atteggiamenti, infatti, sono spesso appresi e interiorizzati attraverso forme di curricolo latente. Al più si può ammettere che una scuola che sia in grado di fornire una quotidiana esperienza complessiva (ad esempio una scuola ispirata al pluralismo e alla democrazia) possa sviluppare negli allievi atteggiamenti che vanno in quella direzione.

La psicologia sociale ha costruito varie teorie sulla formazione degli atteggiamenti e sul cambiamento degli atteggiamenti. Si è visto che se si può intervenire abbastanza facilmente sulla componente cognitiva dell’atteggiamento, ciò non è altrettanto vero per la componente affettiva e per la disposizione ad agire. Spesso sono i processi di identificazione con gruppi di riferimento che rendono più facile o ostacolano il cambiamento di atteggiamento.

Che differenza c’è tra atteggiamenti e abilità? Abbiamo visto che gli atteggiamenti sono dei costrutti interni complessi che predispongono a determinati tipi di comportamenti piuttosto che verso altri. Mentre un’abilità può essere posseduta, ma restare inoperosa, un atteggiamento (ad esempio, il razzismo) tenderà a influenzare una gran quantità di espressioni comportamentali. Un “atteggiamento critico” è la predisposizione che un individuo può avere verso tutte le cose con cui avrà a che fare (che si risolverà nel criticare spesso e volentieri), mentre la “capacità critica” è l’abilità di criticare, che non è detto che sia applicata. L’atteggiamento è più legato a un nucleo di preferenze (non necessariamente consapevole), mentre l’abilità – ancora una volta – ha una connotazione più neutra.

Chi scrive è convinto che sarebbe un bene che la scuola si occupasse anche degli atteggiamenti degli allievi e della formazione della personalità. Tuttavia è un dato di fatto che oggi la scuola non riesce neppure a prendere in considerazione e a trattare gli “atteggiamenti verso la scuola” che gli allievi sono indotti a sviluppare, proprio in relazione all’istituzione scuola stessa. Tradizionalmente la teoria degli atteggiamenti è legata non alla psicologia dell’apprendimento, ma alla psicologia della personalità. Ci sono comunque atteggiamenti più o meno radicati nella personalità, più o meno ampi (ricoprenti cioè ampia aree della personalità). Quando si pretende di mettere nel curricolo l’obiettivo di produrre negli allievi degli “atteggiamenti”, si vuole andare a modificare, orientare la personalità degli allievi. Come si vede, siamo molto lontani dalle “competenze certificabili”, ma anche dalle semplici “abilità”! L’unico modo di perseguire un simile obiettivo è comunque quello della scuola attiva di ispirazione deweyana, quella scuola che permettendo agli allievi di fare molteplici esperienze (spesso di problem solving autentico) favorisce poi – in un modo che non è controllabile a priori – di accumulare in ciascuno un deposito personale di quelle esperienze che a lungo andare può strutturarsi come complesso di atteggiamenti o come tipo specifico di personalità. Oggi nel nostro paese questo modello educativo, mai compiutamente realizzato,[11] sta per essere distrutto – come è noto – proprio dalla “scuola delle competenze”.

7. La padronanza

Concediamoci tuttavia un’ultima passeggiata nei boschi della triade. Un’ultima breve discussione circa la padronanza, termine assai poco usato in italiano, che presumiamo si riferisca, in inglese, al noto termine mastery (in italiano si potrebbe usare maestria, dominio, possesso, ecc.). Recita il Collins che mastery significa “outstanding skill; expertise”. Si sostiene, da parte dei fedeli della triade, che la padronanza sia legata a “competenze eccezionali”: tutti sanno guidare, ma solo Schumacher avrebbe la vera “padronanza”.[12] Dovrebbe essere sufficiente ricordare a costoro che uno dei movimenti (ormai storici) per insegnare tutto a tutti, nel mondo anglosassone, fu il mastery learning con cui si formulava proprio l’obiettivo, forse un po’ utopistico ma civilmente condivisibile, di dare a tutti proprio la padronanza. È abbastanza chiaro allora che padronanza generalmente non significa rara eccellenza! Ma allora perché – per definizione – solo pochissimi dovrebbero vedersi riconosciuta la padronanza nelle “competenze”?

8. Una prima sintesi

Dall’esame complessivo consegue una prima conclusione: che al posto del generico “conoscenze” sarebbe meglio – a meno che non si voglia evocare il significato piagetiano – parlare di “contenuti della conoscenza”; che siamo autorizzati a usare il termine “abilità” come termine di significato generico, e completamente avalutativo; che possiamo poi (oggi) usare “abilità” e “capacità” in modo assolutamente intercambiabile (anche se tra i due termini, abilità sembra tuttavia più preciso e coerente con la psicologia scientifica odierna); che l’uso di “atteggiamento” è sconsigliabile, a meno che non si vogliano affrontare tutti i complessi problemi che l’uso del termine comporta e a meno che non si rifiuti comunque la “scuola delle competenze” (è difficile sostenere che gli atteggiamenti siano competenze); che inoltre siamo autorizzati a parlare di “competenza” solo e soltanto tutte le volte che vogliamo sottolineare una connotazione valutativa e certificativa, quando intendiamo discriminare ufficialmente chi possiede una competenza da chi non la possiede.

9. Ma allora, perché la triade?

Ma allora, se il termine “abilità” bastava e avanzava, perché si sono rispolverate le capacità? Se le competenze non sono altro, secondo una certa lettura, che capacità (o abilità), perché riesumare un termine diverso e pretendere che significhi qualcosa di diverso? Se i due termini (capacità e competenze) non possiedono un uso sostanziale nella psicologia dell’apprendimento perché sono stati imposti ai danni di altri termini sicuramente più diffusi, consolidati e meno equivoci? Poiché la triade è ormai considerata come indiscutibile, i suoi sostenitori hanno qua e là avanzato varie giustificazioni a posteriori. Esaminiamole.

C’è in molti sostenitori della triade un tentativo maldestro di spiegare che tra capacità e competenze ci sarebbe una gradazione di complessità: le capacità sarebbero piuttosto elementari e di tipo piuttosto manuale (avvitare, limare, scorrere un elenco telefonico in ordine alfabetico, …),[13] mentre le competenze sarebbero piuttosto complesse (di ordine più generale e intellettuale),[14] come ad esempio giocare a tennis o guidare una barca (peccato che, per Harrè, giocare a tennis sia un’abilità!). Una convenzione del genere potrebbe anche andar bene, ma chi vuol proporre al mondo scientifico una simile distinzione, deve fornire anche una norma: dove finiscono le capacità e dove cominciano le competenze? Nessuno ha mai provato seriamente a battere questa strada, anche perché quelli che ne parlano preferiscono rimanere nel vago. Per sostenere la legittimità di una differenza in base al criterio della complessità non vale neppure rifarsi all’inglesismo competence: in linguistica la competenza linguistica è considerata tale sia al livello più elementare, che al livello più complesso: sarà una competence semplice o complessa, ma sarà pur sempre una competence.

Un secondo tentativo di distinzione pretende che le capacità siano piuttosto elementari e che le competenze siano invece non ben definite caratteristiche di fondo della personalità, tentando forse in tal modo di rendere così l’inglese attitude, solitamente tradotto proprio con il nostro termine “atteggiamento”. In tal caso viene a generarsi una ovvia sovrapposizione con gli atteggiamenti. Questa tendenza raggiunge il patetico quando si sostiene che le competenze siano il “saper essere”, inaugurando una psico–metafisica del tutto nuova!

Una terza scappatoia consiste nel sostenere che le competenze sarebbero l’unione di specifiche conoscenze e di specifiche capacità per risolvere problemi specifici.[15] Nulla di male a sostenere una simile tesi (non fosse per l’appesantimento terminologico), ma questa è la performance! Se le competenze coincidono con la performance, allora le competenze non avrebbero nulla di generale, consisterebbero solo in una serie, appunto, di performance!

10. La prospettiva della formazione professionale

C’è un’unica situazione nella quale il processo di apprendimento assomiglia allo schema della triade: è l’addestramento professionale. Il termine “competenza” è, infatti, legato (e questa è la sua vera origine nel nostro Paese) al mondo delle professioni e del lavoro. Si cercano lavoratori che siano competenti, sul mercato del lavoro si fanno valere le proprie competenze (ovvero il bagaglio acquisito delle varie abilità). Certo, le competenze si acquisiscono anche. Ma “acquisire una competenza” significa avere già in mente un uso professionale, avere già in mente di chiedere un riconoscimento. Mi posso preparare in inglese, nell’uso del computer e alla fine sarò riconosciuto competente attraverso una qualche patente o qualifica. È difficile, in questa logica, sostenere, ad esempio, che scrivere con ortografia corretta sia una competenza (può essere un’abilità necessaria, tra tante altre, per una persona che voglia fare la segretaria o la traduttrice, ed essere così riconosciuta come una segretaria competente).

Nell’addestramento professionale s’insegnano diverse capacità (o abilità) specifiche (si insegna a limare, a fare un circuito elettrico...). Di capacità in capacità si arriva alla fine che l’apprendista può essere definito (secondo un progetto esplicitato di formazione professionale) competente in un determinato settore.[16] Diventerà elettricista competente, oppure operatore competente di computer o di macchine utensili, e come tale andrà a cercare un adeguato riconoscimento alla sua competenza raggiunta e certificata. Dietro la triade intravediamo allora il mito dell’ingegnerizzazione dell’educazione, della riduzione dell’educazione ad addestramento, sia nella versione laica (“conoscenze”, “capacità”, “competenze”) che nella versione mistica (“sapere”, “saper fare”, “saper essere”). Un mito volontaristico che nel suo vago farfuglìo ha già compiuto molti danni e tutto ha combinato meno che raggiungere l’agognata efficacia nell’ingegneria curricolare e, per noi poveri mortali, un po’ di chiarezza!

11. Come si descrive o si prescrive quello che facciamo

Dopo esserci concentrati sulla pars destruens, qualche lettore potrebbe essere desideroso di avere a disposizione un apparato di concetti chiari e distinti che possano permettere una progettazione curricolare rigorosa ed efficace. Non mi sottrarrò all’incombenza con le solite scuse che si adoperano a questo punto,[17] anche se la ricostruzione concettuale dovrà partire un po’ da lontano, anche se dovrò ribadire concetti tutto sommato decisamente non nuovi.

Tutto quello che comunemente gli esseri umani fanno viene solitamente colto attraverso due prospettive fondamentali: azioni e comportamenti. Com’è noto, grossomodo utilizziamo “azione” quando vogliamo mettere in rilievo l’intenzionalità del soggetto, usiamo invece “comportamento” quando vogliamo oggettivare quanto stiamo prendendo in considerazione. Questa distinzione è stata assai poco evidenziata nelle attuali scienze dell’educazione, con esiti spesso disastrosi. Tuttavia è innegabile che, nel mentre intendiamo riferirci a attività osservate dall’esterno, oggettivate, possiamo essere autorizzati a utilizzare il termine “comportamento”.

Comportarsi deriva dal latino cŭm e portăre, e assume il significato – per quel che ci riguarda – di “procedere in un certo modo”; il comportamento è dunque il modo di procedere. Indubbiamente i comportamenti possono essere descritti dall’esterno e identificati più o meno concretamente (“Tizio ha mangiato un panino”; “Caio ha letto un giornale”, oppure, più astrattamente, “mangiare un panino”, “leggere un giornale”).

I comportamenti dopo essere stati identificati, possono essere classificati in vari gruppi. Talora una classificazione di massima può essere d’aiuto per identificare i comportamenti stessi. Siamo in grado di costruire classi di comportamenti (comportamenti criminali, comportamenti civici, comportamenti pericolosi, ...). È chiaro che il criterio di classificazione dei comportamenti non è indifferente (potrei ad esempio essere interessato a tutti i comportamenti che, in italiano, iniziano con la lettera “c”, ma la cosa sarebbe da tutti definita come bizzarra). In campo educativo, i comportamenti verranno classificati in base a criteri utili per scopi educativi. Ad esempio si possono elencare i comportamenti desiderati e quelli indesiderati, i comportamenti per i quali occorre una lunga esercitazione, oppure quelli per i quali l’esercitazione è poco rilevante.

Cosa significa genericamente che un comportamento (“leggere”, “danzare la samba”, “fare una divisione”) è stato appreso? Significa che l’individuo in un certo senso lo ha fatto proprio, ovvero si è costruito al proprio interno uno “schema” (una impronta comportamentale) grazie al quale egli è diventato in grado di riprodurre a piacere il comportamento (più volte, e adattandosi alla situazione specifica). In alcuni casi lo schema interno può necessitare di essere “allenato”. Lo schema interno (comunque sia generato o memorizzato, qui non ci interessa) che ci permette di riprodurre un determinato comportamento è – per tornare alla triade - la “abilità”, o se si vuole la “capacità”. È chiaro che noi non siamo in grado di rilevare direttamente lo schema interno. Dobbiamo passare per l’osservazione esterna. Dall’esterno, se noi osserviamo una determinata occorrenza di un comportamento da parte di un soggetto, concluderemo che quel soggetto è capace di quel comportamento. Osserviamo Pippo che legge una lettera e concluderemo che Pippo “è capace di leggere”, sa leggere. Facile ed elementare, no? Eppure questi principi elementari sembrano del tutto ignorati nell’attuale dibattito sulle competenze.

Finora non ci siamo pronunciati intorno al valore o all’utilità delle abilità: si pensa che una “abilità sia di per sé buona poiché è appresa, ma ci si dimentica che anche, ad esempio, il condurre una rapina può essere un’abilità. È chiaro che in campo educativo si tenderà a perseguire la formazione di quelle abilità che siano ritenute positive e a scoraggiare quelle ritenute negative. Sebbene sia strano, ci sono apprendimenti che hanno un valore negativo![18] Le abilità ritenute utili o valide saranno prescritte, le altre saranno scoraggiate o addirittura contrastate.

12. Costrutti, valutazioni e certificazioni

È chiaro anzitutto che tutto ciò che in qualche modo viene posseduto in termini potenziali (si tratti di abilità, capacità, competenze o qualunque altra cosa) non verrà direttamente osservato, ma verrà inferito a partire dal comportamento (probabilmente in base alle performances o prestazioni).[19] Sono, infatti, le effettive prestazioni che permettono di inferire che l’individuo in questione ha la possibilità presunta di ripetere quelle stesse prestazioni più volte, nei più vari contesti. Spesso non basta una singola prestazione, ma occorrono più prestazioni (a seconda del livello di complessità di quanto viene inferito). In sostanza abilità, capacità, competenze, o qualunque altra cosa, sono praticamente delle ipotesi che noi facciamo sugli individui che esibiscono determinate prestazioni (un certo numero di volte o almeno una volta). Se uno mi dimostra in più occasioni di avere una certa dimestichezza con l’inglese, allora concluderò che “è capace di parlare l’inglese”, oppure che “è competente nella lingua inglese”; se questa ipotesi viene registrata ufficialmente da qualche istituzione, allora l’individuo potrà ricevere una certificazione di competenza. Per procedere a una certificazione tuttavia occorre che siano definiti da qualche autorità degli “standard di prestazioni” dai quali poter inferire determinati livelli di competenza da certificare.

13. Cosa non sono e cosa effettivamente sono le competenze

Il pasticcio delle competenze deriva dalla sovrapposizione arbitraria (si potrebbe dire dalla confusione) di vari ordini di questioni o di significati.

Anzitutto occorre definire a quale livello ci si pone. Abbiamo anzitutto il livello della classificazione astratta di qualsivoglia elemento (siano abilità, capacità o competenze...). Qui il risultato sarà un catalogo, una classificazione logica, un complesso di elenchi, come quelli cui ci ha abituato Bloom con le sue tassonomie. Sono questi elenchi che possono essere utilizzati per produrre i curricoli nell’ingegneria curricolare. Abbiamo poi il livello della produzione o esternazione individuale di qualsivoglia elemento (siano abilità, capacità o competenze...); ma questa esternazione individuale sarà in ogni caso sempre una prestazione o un complesso di prestazioni. Abbiamo poi, in ultimo, il livello dell’attribuzione del possesso di un determinato elemento (in termini di costrutto) da parte di un determinato individuo (inferito dalle prestazioni). A questo livello si tratta in ogni caso di attribuzione di costrutti!

Occorre in secondo luogo definire quale tipo di scopo descrittivo o prescrittivo ci si pone. È chiaro che se ci si limita a descrivere si evita di valutare e di preferire; se invece si prescrive, si sta istituendo una norma (va da sé che per istituire una norma occorre avere l’autorità per farlo).

Dall’incrocio tra i livelli e gli scopi possiamo ottenere la seguente tipologia che ci sarà d’aiuto nel dirimere le questioni fondamentali.


 

SCOPO PREVALENTE

DESCRITTIVO

(da parte di un osservatore)

PRESCRITTIVO

(da parte di un’autorità riconosciuta)

LIVELLO LOGICO

A. DEFINIZIONE DI TASSONOMIE

Tassonomie di abilità, (di capacità), di conoscenze. Tassonomie descrittive di obiettivi

D. DEFINIZIONE DI STANDARD

Standard di abilità, di conoscenze (o di competenze) prescritti da un’autorità

LIVELLO DELLA PRESTAZIONE INDIVIDUALE OSSERVABILE

B. RILEVAZIONI DI PRESTAZIONI

Osservazione della prestazione del singolo individuo (si parla di rilevazione, talvolta anche di misurazione ).

E. VALUTAZIONE DI PRESTAZIONI

Valutazione della prestazione del singolo individuo (alla luce degli standard di prestazione attesi, da parte di un’autorità riconosciuta, mediante prove, esami…)

LIVELLO DI COSTRUTTI NON DIRETTAMENTE OSSERVABILI

C. ATTRIBUZIONE DI ABILITA’

Abilità, (o capacità), conoscenze attribuite a un individuo in base alle osservazioni del punto B

F. ATTRIBUZIONE DI COMPETENZE

Competenze certificate e riconosciute attribuite da parte di un’autorità riconosciuta, dopo le valutazioni del punto E (prove, esami ufficiali, ecc…)


Caso A. Tassonomie di abilità o capacità. Qui il problema è quello di classificare in astratto i comportamenti degli allievi rilevanti per fini educativi. Si cerca di descrivere il complesso delle prestazioni, in altre parole ciò che ciascuno può essere in grado di fare. Per questo compito va benissimo il termine abilità; se si vuole lo si può sostituire con capacità, a patto di chiarire che si tratta esattamente della stessa cosa. Si tratta allora di identificare in astratto (identificare, classificare, catalogare) quali sono queste unità elementari, queste prestazioni (leggere, riassumere, limare, scrivere a macchina, tenere una conferenza, e simili). Risultato sono le note tassonomie, come quella di Bloom, o i vari elenchi di abilità (ad esempio come si faceva nel Mastery Learning). Questi cataloghi non sono né negativi né positivi: possiamo fare, infatti, anche un catalogo dei comportamenti devianti degli studenti. Il fatto che un comportamento entri in una tassonomia non significa che debba essere insegnato. La decisione di cosa insegnare o cosa non insegnare si fa solo in termini prescrittivi (vedi punto D.)

Caso B. Osservazione della prestazione del singolo individuo. È chiaro che, poiché nessuno è in grado di mettersi esattamente nei panni dell’allievo, sarà solo possibile rilevare dall’esterno le sue prestazioni (possiamo chiamarle anche performance). La rilevazione delle prestazioni può essere fatta attraverso tutti i metodi tradizionali che si trovano nei manuali su osservazione, rilevazione, misurazione delle prestazioni. Questa fase può essere più o meno occasionale, più o meno tecnicizzata. Queste rilevazioni servono a descrivere “oggettivamente” le conoscenze e le capacità degli allievi.

Caso C. Attribuzione a un individuo del possesso di abilità, capacità o conoscenze non direttamente osservabili. È chiaro che alcune caratteristiche rilevate (fase B) potranno essere considerate come indicatori di altre caratteristiche importanti ma non direttamente osservabili. Si tratta dei famosi costrutti. Sulla base degli indicatori rilevati nella fase B si potrà inferire (in base a definizioni operative precise) il possesso di determinate caratteristiche non direttamente osservabili. Alla fine della rilevazione degli indicatori (più o meno sistematica), si dirà che Pierino “sa leggere”, che “non sa autocontrollarsi”, che “è intelligente”, che “nel gruppo si comporta da gregario”, che “non conosce la lingua italiana”, che “è creativo”, etc... Qui abbiamo un significato attributivo o qualificativo nei confronti dell’individuo. Più in generale, dopo aver osservato in diverse occasioni le performance di un determinato individuo, si può presumere che egli possieda (più o meno sempre) la possibilità di mettere in atto quelle performance (più o meno simili, pur con qualche errore o variazione); in tal caso si attribuisce a quell’individuo il possesso della abilità, o conoscenza caratteristica.

È chiaro che l’attribuzione all’allievo di talune abilità e conoscenze non direttamente osservabili è l’anticamera della possibilità di attribuirgli il possesso della competenza, nei termini di una certificazione ufficiale (vedi fase F). Ma non è la stessa cosa! Se abbiamo rilevato male gli indicatori (fase B), possiamo essere indotti a ritenere che l’allievo possieda certe proprietà non osservabili (fase C), per cui in base al nostro potere gli certificheremo una competenza (fase F) che magari non ha. D’altro canto alcuni possono avere tutte le conoscenze e le capacità necessarie, ma possono non avere mai ottenuto il riconoscimento formale (ad esempio perché sono stranieri, perché non hanno più l’età per avere il riconoscimento ufficiale, perché erano assenti all’esame, ecc...). In tal caso non arriveranno mai alla fase F.

Caso D. Prescrizione di obiettivi, standard, ecc... Se le tassonomie ci offrono descrittivamente elenchi di abilità o conoscenze, in termini prescrittivi possiamo scegliere quelle che sono rilevanti (per ciascuna età dell’allievo, per ciascun indirizzo di studio, per ciascuna unità di lavoro scolastico...) e le possiamo imporre istituzionalmente. Nascono così gli standard prescrittivi. La presenza di standard prescrittivi è un passo essenziale per poter procedere poi alla valutazione degli allievi e al rilascio delle certificazioni.

 Qui si prescrive cosa si deve essere in grado di fare; in questo caso il termine da usare è effettivamente “competenza”. Le competenze in altri termini sono insiemi di abilità (o di capacità) o conoscenze che sono relativamente ben individuati e codificati (da qualche contratto di lavoro, convenzione, standard internazionale, ecc..) e che sono dunque prescritti. Diremo delle competenze del medico, dell’impiegato. Quindi si può usare il termine competenza solo quando ci si riferisce a un insieme di abilità che sono ben definite, convenute. Ad esempio si possono definire con precisione quali sono le competenze che deve avere un metalmeccanico di 5° livello, tanto che lui potrebbe dire che “certe cose non sono di mia competenza” (ovvero “non ci si può attendere che uno del mio livello faccia queste cose”). Nell’industria ci sono le “declaratorie”, veri e propri elenchi di abilità o capacità che il lavoratore deve avere per ricoprire un determinato livello. Le competenze quindi riguardano non l’individuo singolo, ma la posizione che l’individuo occupa. Un individuo, per essere riconosciuto competente, deve semplicemente essere in grado di ricoprire quella posizione.

Può essere interessante porsi il problema di come possano essere espressi gli standard. Gli standard di competenze si possono metter per iscritto in vario modo. Tradizionalmente ci sono tre modi: a) cataloghi di contenuti conoscitivi prescritti; b) cataloghi di abilità prescritte; c) cataloghi di problemi (pratici, teorici o teorico – pratici) che occorre prescrittivamente dimostrare di saper risolvere per essere dichiarati e certificati competenti. Forse a questa modalità appartengono le famose “abilità in contesto” di cui spesso si straparla; una abilità in contesto non è nient’altro che il vecchio problem solving della tradizione attivistica deweyana.

Può anche essere interessante domandarsi se ci sia una qualche differenza tra gli standard e gli obiettivi. La differenza c’è e deriva dal fatto che lo standard ha una connotazione prescrittiva molto più forte dell’obiettivo: mentre nella pedagogia attivistica un obiettivo può essere costantemente riformulato, adattato alla situazione, addirittura adattato alle esigenze di crescita di un singolo individuo, lo standard è una prescrizione politico burocratica che serva a discriminare coloro che hanno raggiunto lo standard da coloro che non lo hanno raggiunto. Lo standard detta una norma permanente. Da questa distinzione deriva che ci sono tantissime abilità o capacità che gli individui possiedono (che è altamente auspicabile che possiedano) che possono sviluppare e che non faranno mai parte di un quadro ufficializzato/ standardizzato di competenze!

Caso E. Valutazione della prestazione del singolo individuo (alla luce degli standard di prestazione attesi). Questo aspetto si identifica con la tradizionale valutazione sommativa delle prestazioni degli allievi. La valutazione naturalmente deve seguire all’osservazione o alla rilevazione (punto B), come hanno bene puntualizzato Gattullo e Giovannini 1989.

Caso F. Attribuzione all’individuo della certificazione di competenza (dopo una valutazione condotta in base agli standard). Dopo aver superato ufficialmente le prove previste (aver svolto cioè una o più volte complessi di performance in modo atteso, come definito dagli standard) chi ha l’autorità per farlo potrà rilasciare all’interessato certificati, patenti, titoli, o quant’altro. Nell’attuale dibattito italico sulle “competenze” traspare la clamorosa ingenuità di pensare che le abilità e le conoscenze di cui un allievo è capace (o incapace) si traducano completamente, sempre e obiettivamente in un riconoscimento di competenza. Ciò significa dare per scontato (e dunque trascurare) la fase della valutazione. In realtà l’esistenza di un mercato delle certificazioni di competenze (e addirittura di un mercato illegale delle certificazioni di competenza) pone serissimi dubbi sul funzionamento di un simile sistema. Se il sistema di certificazione non funziona, potrà accadere che sia dichiarato competente chi in realtà non lo è: ciò vorrà dire che le sue conoscenze e le sue abilità effettive non corrispondono a quello che gli è stato riconosciuto in termine di competenza. Accade assai spesso.

14. Cosa produce la scuola

L’analisi fin qui condotta ci riporta a un tema piuttosto centrale nell’attuale dibattito circa il destino del sistema scolastico italiano: in cosa consiste il prodotto del sistema scolastico? In cosa consiste cioè il “valore aggiunto” che l’allievo deve conseguire al termine del percorso scolastico.

Secondo una prima (e più vecchia tesi), il prodotto del sistema scolastico sarebbe prima di tutto l’educazione generale della persona. Quella che i greci chiamavano paideia. L’istruzione, cui mira fondamentalmente la logica della triade, è solo una parte dell’educazione (anche se ultimamente è assai forte la tendenza a ridurre l’educazione a mera istruzione). Tuttavia, a quanto pare, come crediamo di avere mostrato, neanche il campo della mera istruzione è completamente ingegnerizzabile, come vorrebbero i nostri sostenitori della triade. È un dato di fatto che solo in particolari momenti il sistema scolastico si occupa di rilasciare delle certificazioni, di riprodurre cioè anche delle competenze specialistiche certificate. Come quando si rilascia un attestato in inglese C1. È chiaro che una scuola che fondamentalmente abbia come fine l’educazione deve essere una scuola lunga, una scuola costosa, una scuola dove la dimensione comunitaria sia fondamentale (se vogliamo, possiamo citare il modello deweyano o il modello delle “scuole attive”). E dove le triadi contino il meno possibile.

Dal punto di vista di una seconda (e più recente tesi), il prodotto del sistema scolastico consisterebbe nella distribuzione di una serie di certificazioni di competenza (le competenze vengono in tal caso suddivise in unità, cumulabili e certificabili) che ciascuno può anche acquisire per proprio conto, indipendentemente da percorsi comuni. Un caso tipico è quello della università, dove il voto finale di laurea è computato sulla base di un certo numero di esami, i quali a loro volta sono computati in base allo studio di un certo numero di manuali, ciascuno dei quali con un determinato numero di pagine. Oppure in base a un certo numero di esercitazioni. Assistiamo qui, come già rilevato, al tentativo di estendere all’educazione nel suo complesso il linguaggio della formazione tecnico – professionale, tentativo che è la logica conseguenza del fatto di considerare la scuola come un’industria.

15. In conclusione

Sembra ovvio concludere che le “competenze” non possono di solito essere standard educativi perché ciò significherebbe degradare l’educazione alla certificazione. L’educazione mira allo sviluppo (libero) delle abilità e delle conoscenze di ciascuno, a partire dal livello in cui ciascuno si trova. Le competenze oggetto di certificazione rappresentano una presa d’atto ufficiale del fatto che certe abilità e conoscenze, ritenute buona cosa dai legislatori del momento, si possiedono o non si possiedono. Invece del libero sviluppo di ciascuno avremo l’adeguamento pedissequo a quanto definito importante da un gruppo di burocrati dell’educazione. Giova ricordare che negli USA vige da decenni un sistema di certificazione basato sui test. Ebbene, è stato denunciato che gli studenti ormai sono ridotti a studiare solo quello che serve per passare i test (si vedano le critiche di Gardner). Vogliamo ridurci in questo modo? Non impariamo proprio nulla?

Paradossalmente il discorso potrebbe valere se – al posto di un uso specifico in qualche settore specializzato – noi pensassimo alle competenze che devono avere tutti, le “competenze dell’uomo”. A parte il fatto che la frase suona male e fa sorridere, se ci fossero le competenze dell’uomo saremmo alla fine tutti competenti in quanto umani e allora non ci potremmo più dividere in competenti e incompetenti. Sarebbe comunque interessante individuare quale autorità potrebbe rilasciare un certificato di competenza “umana”. Mentre l’idea di uno sviluppo delle capacità o abilità dell’uomo suona molto meglio, implica – come deve essere in educazione – la connotazione di “libero sviluppo”. Molte capacità o abilità prettamente umane non saranno mai tradotte in competenze certificate, ciò non toglie che debbano essere perseguite in educazione. Si conferma ancora una volta che l’educazione in quanto tale è fortemente a–specifica, è gratuita, disinteressata. L’educazione non è formazione professionale. Ci si educa per crescere in quanto uomini, non per diventare competenti certificati in qualche settore o settorucolo. Dunque, prima e fondamentalmente si svilupperanno le capacità e le abilità dell’uomo. Ciò che gli ateniesi definivano con il loro termine paideia. Poi e solo secondariamente questo uomo, divenuto tale, potrà specializzarsi in qualche campo del sapere e diventerà allora (poiché riconosciuto, certificato, patentato) competente in qualche settore o professione, nella lingua inglese, nel diritto civile, nell’assistenza agli anziani, nella ristorazione, nella matematica pura, nell’arte medica, nella fisica teorica, o in qualsiasi altra cosa. Tutta la somma delle patenti possibili e immaginabili non riuscirà mai a definire quello che noi possiamo e dobbiamo liberamente realizzare di noi stessi, attraverso l’educazione. Una scuola che abbia smarrito questi principi ha smarrito se stessa.

 

BIBLIOGRAFIA 

1980 Arnold, W. & Eysench, H. J. & Meili, R.  (a cura di), Lexikon der Pychologie, Verlag Herder KG, Freiburg. Tr. it.: Dizionario di psicologia, Edizioni     Paoline, Roma, 1982.

1974 Dalla Volta, A., Dizionario di psicologia, Giunti - Barbèra, Firenze.

1999 Galimberti, U., Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano.

1983 Gardner, H., Frames of Mind. The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, New York. Tr. it.: Formae     Mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1995.

1989 Gattullo, Mario & Giovannini, Maria Lucia  (a cura di), Misurare e valutare l’apprendimento nella scuola media, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano.

1986 Harré, R. & Lamb, R. & Mecacci, L., Psicologia. Dizionario enciclopedico, Laterza, Bari.

1970 Krech, D. & Crutchfield, R. S. & Ballachey, E., Individual in Society. A Textbook of Social Psychology, Mc Graw Hill, New York. Tr. it.: Individuo e società. Manuale di psicologia sociale, Giunti - Barbèra, Firenze, 1970.

  

NOTE

[1] Questo saggio ha ormai una lunga gestazione, a partire da una prima bozza del 2001. La sua prima pubblicazione è avvenuta nel 2007 (versione 2.3 del 29/6/2007). Era nato da una reazione critica da parte mia nei confronti dell’andazzo che stava prendendo la scuola italiana e ancor più la pedagogia italiana (in seguito ai provvedimenti dei ministri Luigi Berlinguer e di Letizia Moratti). Da allora nulla è cambiato e le cose sono soltanto peggiorate. Lo ripubblico, in versione appena riveduta, all’inizio di un nuovo anno scolastico, con la speranza che possa essere di qualche utilità a chi abbia ancora il desiderio di domandarsi quale sia il senso dell’educazione e a che cosa serva la scuola. Versione 3.0 del 18/08/2021 (rev.).

[2] Ad esempio questa definizione è tratta da un corso di Rai educational, per conto del Ministero della Pubblica istruzione: “Le competenze costituiscono il fattore “terminale” di un comportamento professionale, quello dell’impatto con i compiti da eseguire, qualunque sia il livello di complessità, il fattore, cioè, che “si vede e si tocca con mano”. Ma, a monte delle competenze vi sono le “cose che non si vedono”, che costituiscono il patrimonio cognitivo della persona, le conoscenze, quindi il corredo teorico e tecnico-procedurale che sostiene ed esprimono le competenze, e le capacità, cioè l’attenzione continua e vigile della persona su ciò che è opportuno modificare, sui nuovi comportamenti da acquisire. In effetti, si sviluppa una continua e progressiva circolarità tra conoscenze, competenze e capacità. Si acquisiscono comportamenti (conoscenze più competenze), si mettono in discussione (capacità) e se ne acquisiscono di nuovi”.

[3] Questo uso è indubbiamente legato alla scuola della nozione e dell’esercitazione.

[4] Nonostante la ormai lunga storia della psicologia cognitivista, questa continua a essere l’immagine della mente della maggior parte dei nostri esperti di curricoli.

[5] La giustificazione della scelta del termine “abilità” al posto dei suoi termini concorrenti (capacità, competenze,..) verrà esplicitata più avanti.

[6] È nota la polemica di Piaget contro Bruner circa la possibilità di insegnare direttamente gli schemi operativi in modo avulso dall’esperienza autentica.

[7] È in forte sviluppo il “pensiero vago”, così come lo ha acutamente definito C. A. Viano.

[8] Tanto per aumentare la confusione, cito selvaggiamente da Internet: “nell’ambito di un testo dedicato alla formazione professionale, Pellerey ha definito competenza «l’insieme strutturato di conoscenze, capacità e atteggiamenti necessari per l’efficace svolgimento di un compito». Quaglino nell’ambito di un contributo che si riferisce in particolare alla formazione manageriale definisce invece competenza «la qualità professionale di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, doti professionali e personali»”.

[9] È davvero strabiliante la presunzione di coloro che si occupano di ingegneria curricolare nel nostro paese di poter fare a meno delle scienze, di quelle che una volta si chiamavano “scienze dell’educazione”. Il discorso intorno ai curricoli oggi viene condotto da conventicole che elaborano un loro linguaggio privato, gelosamente creduto e difeso come una fede o come una ideologia politica (o come una moda).

[10] Letteralmente performance significa “prestazione”. Nell’ambito delle teorie dell’apprendimento indica il comportamento manifesto, e dunque osservabile e misurabile, emesso dal soggetto in una situazione di apprendimento o di verifica dell’apprendimento.

[11] Si veda ad esempio l’analisi che fa Gardner del “Modello di Reggio Emilia” della scuola dell’infanzia, modello che poteva essere esteso all’intera scuola dell’obbligo attraverso il Tempo Pieno. Oggi il Tempo Pieno è diventata una scuola marginalizzata, in via di progressiva eliminazione, a causa degli alti costi e del veto posto ad opera dei sostenitori dei “curricoli identitari” di natura confessionale o ideologica, dei “difensori della famiglia” e dei difensori del libero mercato dell’istruzione.

[12] Un esempio autentico, tra i tanti che circolano sul Web, suona così: “Una competenza eccezionale dà luogo ad una padronanza. Un conto è veleggiare, ma altro conto è essere lo skipper di Luna Rossa!”.

[13] Ad esempio: “Le abilità sono esecuzioni semplici, applicazioni di istruzioni afferenti a contenuti dati (principi, ecc.), conseguite anche in seguito ad addestramenti mirati; non sono necessariamente coniugate con altre”.

[14] Ad esempio: “Le competenze sono insiemi coordinati e mirati di abilità intelligentemente coniugate e concluse; sono comportamenti esecutivi, osservabili e misurabili, prodotti dal soggetto, resi possibili dalle conoscenze e dalle abilità acquisite. Un elevato livello di competenza dà luogo alla padronanza. Le competenze implicano l’uso di strumenti naturali e/o artificiali, semplici e/o complessi, in certi casi anche l’interazione con altri soggetti, a seconda della tipologia della esecuzione”.

[15] Ecco un esempio, sempre dalla stessa fonte: “La competenza si può definire come un comportamento mirato all’esecuzione di un compito, comportamento che è la risultante di un insieme di conoscenze teoriche e di abilità tecnico-pratiche. Il livello dell’esecuzione può essere più o meno alto, più o meno semplice o complesso, a seconda della preparazione del soggetto in merito.” Qui, in più, apprendiamo anche una novità, che la competenza sarebbe “un comportamento”!

[16] Forse il disvelamento del mistero delle competenze sta in questo (sempre dalla stessa fonte): L’ISFOL, in ordine all’attuazione del DM 12 marzo 1996, concernente l’”adozione degli indicatori minimi da riportare negli attestati di qualifica professionali rilasciati dalle regioni e province autonome, con allegato modello di attestato”, individua tre tipi di competenze: di base, quali, ad esempio, in informatica, lingue, economia, sicurezza, organizzazione, diritto e legislazione, che sono fondamentali per il cittadino lavoratore; tecnico-professionali, costituite dai saperi e dalle tecniche che vengono ricavate dall’analisi delle attività operative che caratterizzano i processi cui ci si riferisce; trasversali, quali, ad esempio, diagnosi, comunicazione, decisione, problem solving, che sono essenziali al fine di produrre un comportamento professionale in grado di trasformare un sapere tecnico in una prestazione lavorativa efficace”. [La sottolineatura è nostra].

[17] Oggi si ama dire che la complessità dei problemi impone costrutti fluidi, dinamici, non definitivi, “approssimazioni verso...”, per cui è meglio “fornire solo alcuni spunti di riflessione...” e altre simili scempiaggini che si possono attribuire da un lato al “pensiero vago” e dall’altro all’improntitudine di certi relatori dei corsi di formazione che nei titoli dei loro interventi promettono, ma poi non mantengono.

[18] Secondo Twersky e Kahneman molti degli “errori” che facciamo comunemente sono frutto di apprendimenti.

[19] Ecco una pretesa chiarificazione che dovrebbe spiegare cosa s’intende per valutazione: “In linea di massima, si può dire che: le conoscenze si rilevano e si accertano con quesiti mirati orali e/o scritti; le competenze si rilevano e si accertano con sollecitazioni mirate alla soluzione di situazioni problematiche concrete, anche con l’eventuale utilizzazione di una strumentazione ad hoc; le capacità si rilevano e si accertano con sollecitazioni mirate alla soluzione di situazioni problematiche chiaramente definite in ordine alle opportunità e ai limiti (fattori, condizioni, tempi, ambiti organizzativi, risorse umane, et al.)”.

 







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