venerdì 23 marzo 2018

Mediocrazia mediocre

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1. Da molte parti si sostiene che il postmoderno sia ormai finito. Sarà anche vero, ma i postmoderni continueranno a suonare le loro trombe ancora per un bel po’. Quando certi modi deleteri di pensare si affermano e s’insinuano nei meccanismi della riproduzione sociale e culturale, tendono poi a replicarsi indefinitamente. Un buon esempio di questa pervicace persistenza delle idee sbagliate è il volume - recentemente pubblicato in Italia - dal titolo Mediocrazia, del canadese Alain Deneault[1]  che si qualifica come filosofo e sociologo. Confessiamo di averlo acquistato attratti dal titolo e spinti da alcune recensioni che lo valorizzavano alquanto. Una fascetta rossa davvero invitante prometteva di spiegare al lettore «Come e perché i mediocri hanno preso il potere».

2. Intanto va detto che il libro di Deneault è in sé un’esemplificazione del suo stesso titolo, cioè della prevalenza ormai irrefrenabile della mediocrità un po’ in tutti i campi, compresa ahimè anche la saggistica filosofica e sociologica. Già l’articolazione complessiva dell’opera lascia alquanto perplessi. L’intero volume è preceduto da una lunga prefazione di 28 pagine che porta un titolo a sé stante alquanto sibillino e cioè: La politica dell’estremo centro. Si tratta di un saggio a parte, dall’andamento piuttosto erratico, che si occupa di svariati argomenti a sfondo politico, i quali però c’entrano poco o nulla con la mediocrazia e dei quali non siamo riusciti a cogliere bene il filo conduttore. Vi sono satireggiate un po’ tutte le forme di opposizione politica, vi si pretende di mostrare come la contrapposizione tra destra e sinistra sia ormai priva di senso e come – se abbiamo capito bene – i veri estremisti siano diventati i centristi, cioè coloro che – secondo l’Autore – oggi svolgono la funzione di riprodurre la mediocrità dei mediocri. A causa dei centristi estremisti il mondo sarebbe diventato unidimensionale e si caratterizzerebbe, appunto, come un mondo di mediocri. La prefazione termina con un paragrafo che pone una domanda intorno al che fare dalle vaghe assonanze leniniane. E questa è solo la prefazione.

3. Per il resto, il volume è costituito – come l’Autore ammette però soltanto in appendice - dalla «sintesi di articoli e contributi» già pubblicati separatamente altrove, in occasioni assai diverse. I contributi elencati sono – udite, udite - ben quarantaquattro. A questi contributi – beninteso fusi insieme e non brutalmente riportati in forma antologica – è stata preposta una Introduzione di 14 pagine (posta subito dopo la prefazione di cui abbiamo già detto). Dopo il corpo centrale del volume, che riprende gli articoli e i contributi suddetti, è collocato un capitolo finale - dal titolo La rivoluzione: rovesciare ciò che nuoce alla cosa comune - di 5 pagine, cui appartiene, ahimè, un ulteriore unico paragrafo, di 5-6 pagine, dal titolo Co-rompere (presumiamo sia questa la risposta al che fare iniziale!). Tutto qui.

4. Purtroppo per noi - che eravamo stati attratti dal titolo e dalla fascetta - soltanto l’introduzione e la conclusione del volume sviluppano effettivamente il tema in questione, cioè accennano alla nozione della mediocrazia, mentre tutto resto propone una casistica che dovrebbe al più illustrare la tesi principale. Sono cioè proposti, spesso con tono giornalistico, svariati esempi di impero della mediocrità, raccolti sotto grandi capitoli come Il «sapere» e la competenza, Il commercio e la finanza e Cultura e civiltà. La casistica è tuttavia esposta con un andamento assolutamente casuale, risultando appunto  - sospettiamo - dalla varietà dei quarantaquattro  contributi che sono stati usati per comporre il volume. Se uno volesse approfondire il concetto della mediocrazia come proposto nel titolo basterebbe, insomma, leggere l’introduzione e la conclusione e lasciar perdere tutto il resto. Il tutto per 18 euro. Si tratta dunque di un prodotto editoriale che non possiamo che definire mediocre. Ciò nonostante, pare che il libretto stia avendo un buon successo di vendite, tanto da essere stato catalogato come un long seller e da avere ottenuto buone recensioni. Anche questo bel posizionamento forse ha qualche connessione col titolo. Siccome i mediocri per definizione sono tanti, e per lo più poco considerati, quando si parli finalmente di loro questi non possono evidentemente mancare all’appuntamento. Compreso chi scrive, naturalmente.

5. Una seconda questione preliminare riguarda lo stile. In una parte del libro si sviluppa una serrata critica contro la «scrittura fallimentare» dell’odierna mediocre accademia, con dovizia di esempi. Purtroppo l’Autore stesso usa, ahimè, una prosa piuttosto “fallimentare”, priva di una decente strutturazione argomentativa, dove le questioni poste sono sviluppate per semplici associazioni di idee, invocando un caso specifico dopo l’altro. Può essere che ciò si dovuto al carattere compilativo del testo. Come del resto accade in molta sociologia postmoderna, l’Autore deve esser convinto che fare della generica letteratura o del generico giornalismo d’assalto permetta di penetrare in profondità gli argomenti trattati, in contrapposizione alla mediocre letteratura accademica da lui aspramente criticata, la quale lascerebbe invece le cose in superfice e sarebbe, per di più, complice del potere.

6. È un vero peccato, questo sfoggio di mediocrità editoriale e scritturale, perché l’argomento proposto da Deneault – per quanto non nuovo – è decisamente interessante e quanto mai attuale. Proprio per questo ci aspettavamo – almeno nel capitolo introduttivo – di trovare almeno una qualche definizione dei concetti impiegati e un minimo di rassegna della letteratura scientifica sulla problematica in questione. Evidentemente queste sono aspettative degne di un mediocre, poiché l’Autore non se ne è preso cura. L’Autore invece delle definizioni se la cava con una sensazionalistica dichiarazione di fatto compiuto: la mediocrazia indubitabilmente c’è. Afferma Deneault che: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere».[2] Insomma, dopo la dichiarazione di Deneault, anche se non è cambiato nulla, siamo ora in grado di vedere ciò di cui prima non ci eravamo mai accorti. Anche questo è uno dei tratti tipici della sociologia postmoderna, far vedere che le cose cambiano a seconda del punto di vista che si adotta. La conoscenza sociologica si ottiene saltando da un punto di vista all’altro. Più si salta, più si capisce come va il mondo.

7. Passi la dichiarazione di vittoria dei mediocri, ma cosa s’intende per mediocrazia? L’unico tentativo di definizione che siamo riusciti a trovare è il seguente: «Mediocrità è un sostantivo che indica una posizione intermedia tra superiore e inferiore, ovvero suggerisce uno «stare nel mezzo», una qualità modesta, non del tutto scarsa ma non eccellente; indica insomma uno stato medio tendente al banale, all’incolore, e la mediocrazia è di conseguenza tale stato medio innalzato al rango di autorità. La mediocrazia fonda un sistema nel quale la media non è più un’elaborazione astratta che permette di concepire in modo sintetico una situazione o un insieme di cose, ma una norma imperiosa che non basta osservare, bensì bisogna assimilare». Foucault sarebbe felice di sapere che non solo il discorso è sempre espressione del potere, ma che anche la media ha fatto quella stessa brutta fine. Avrebbero dunque preso silenziosamente il potere quelli che stanno nel mezzo, quelli che possiedono delle qualità  a metà strada tra superiore e inferiore.

8. Se Deneault avesse fatto con profitto un corso di statistica elementare, saprebbe che un fenomeno qualsiasi, quando è soggetto a una molteplicità di cause e interazioni, tende a distribuirsi secondo la curva di Gauss, quella che qualcuno chiama anche “campana” di Gauss. La curva a campana mostra senza pietà come in una popolazione qualsiasi la gran parte dei casi si distribuisce appunto attorno alla media, mentre solo una parte ristretta tende ad allontanarsi dalla media - in senso negativo, al di sotto della media o in senso positivo, al di sopra. Dunque accade purtroppo che i mediocri – quelli che possiedono qualità che stanno più o meno a metà strada tra il superiore e l’inferiore - sono sempre la maggioranza. Non si scappa. Non è che hanno preso il potere. In quanto maggioranza, il potere l’hanno sempre avuto. Se poi questa maggioranza di mediocri è «modesta», «non eccellente», «banale», «incolore» questo dipende dal giudizio soggettivo. Medio rispecchia una collocazione in termini descrittivi. Mediocre un giudizio di valore (che si fonda su un pregiudizio verso la medietà, quando si voglia invece esaltare l’eccellenza). È ovvio che non tutto ciò che è medio va considerato per forza mediocre. E viceversa. Evidentemente Deneault ignora tutte le pagine scritte in filosofia per dimostrare che la medietà va talvolta considerata positivamente, come testimonia del resto il motto In medio stat virtus che conoscono anche i bambini. Per lui lo stare nel mezzo è sempre negativo. Va bene, ma bisognerebbe spiegare almeno perché. È probabile per lo meno che i medi/mediocri - che appunto costituiscono sempre la maggioranza – non la pensino così, a meno che non si ipotizzi una diffusa lacerazione interiore del mediocre, il quale sappia bene di esserlo ma non riesca a non esserlo. Tra parentesi, comunque, a Deneault, dati i suoi presupposti, dovrebbe dar molto fastidio anche la democrazia che non è certo il governo dei migliori, bensì il governo delle maggioranze (e le maggioranze sono fatte per lo più di uomini medi/ mediocri).  Tuttavia va riconosciuto che l’Autore non se la prende direttamente con la democrazia, forse perché poi avrebbe dovuto dirci a quale altro sistema vadano le sue simpatie.

9. Leggendo attentamente, si capisce però che quello che dà fastidio a Deneault è il fatto che lo stato medio/mediocre sia «innalzato al rango di autorità», diventi cioè «una norma imperiosa che […] bisogna assimilare». Quindi sembra dargli fastidio che il livello medio sia consideratoun criterio di riferimento, un valore, e che questo sia imposto universalmente a fondamento del funzionamento sociale, a fondamento dell’attività istituzionale, delle imprese, della politica e della cultura. Insomma, oltre al complotto di Gauss che si presume operi per proprio conto, ci sarebbe un disegno nascosto – magari da parte di un oscuro potere foucaultiano – che costringe tutto e tutti alla mediocrità. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Come si fa a provare una simile tesi? A Deneault in realtà dà fastidio – anche se non lo dice esplicitamente – la tendenza alla standardizzazione, cioè il tendenziale azzeramento di ogni scarto dalla media. Se la prende insomma con il solito nemico, il condizionamento da parte della razionalità strumentale, la gabbia di ferro, la razionalità che rende possibile la costruzione delle grandi organizzazioni burocratiche e della società complessa. Possiamo capire come l’imposizione di uno standard possa essere considerato come un fatto odioso, soprattutto per chi abbia una mentalità libertaria, ma da ciò non consegue che lo standard imposto sia sempre quello medio.  Deneault si dovrebbe studiare Taylor e Stakanov.

10. Poniamo pure che un riferimento al valor medio sia disdicevole, allora, se non va bene la media come criterio di riferimento, quale altro tipo di criterio bisognerebbe assumere? Sono qui logicamente possibili due o tre risposte: R1) non ci deve essere alcuna norma, alcun criterio, la società deve mettere esattamente sullo stesso piano ciò che è pessimo, medio o eccellente (adottare cioè un relativismo generalizzato); R2) bisogna adottare invece come norma il principio della eccellenza, cioè «innalzare al rango di autorità» la coda destra della distribuzione di Gauss, cioè il piccolo numero degli eccellenti – che per loro natura sono sempre pochi. Bisogna cioè valorizzare l’eccellenza e magari addirittura imporla (per quanto ciò possa essere contradditorio). Trascuriamo qui una terza possibilità - R3 – e cioè quella di utilizzare come criterio il livello pessimo, per ovvi motivi (anche se la prevalenza del peggiore può essere senz’altro un fatto che accade in determinati contesti e, come concetto, può essere talvolta utile per interpretare certe situazioni sociali). Qual è in merito la posizione dell’Autore? Ci sarebbe tanto piaciuto saperlo, purtroppo nel libro non è mai detto. L’andamento delle casistiche presentate è davvero curioso: l’Autore scandalizzato mostra, con grande fervore, diversi casi eclatanti in cui l’imposizione di uno standard medio finisce per svalorizzare le eccellenze. Tuttavia, stranamente, si guarda bene dal teorizzare che si dovrebbe allora adottare una contrapposta norma dell’eccellenza (R2). Ciò probabilmente perché anche una norma d’eccellenza se imposta d’autorità sarebbe considerata altrettanto oppressiva. Ecco allora che spunta l’opzione R1 e cioè che nessuna norma valutativa imperiosa deve essere imposta. Presumiamo che ciascuno debba definire la propria norma senza alcuna interferenza.  In mezzo alle diverse plurali espressioni ci saranno magari anche delle eccellenze, le quali però non debbono mai divenire un imperio.

11. Non è chiaro come possa un’istituzione qualunque funzionare adottando un simile contradditorio principio. Già Confucio aveva inventato gli esami per selezionare chi voleva entrare nella burocrazia imperiale. Ma il modello confuciano non piacerebbe a Deneault. La selezione in stile burocratico alla Weber non gli andrebbe bene, ma probabilmente non gli andrebbe bene neanche una selezione alla Schumpeter del tipo della distruzione creatrice. Magari si presume, come nella bella favola marxiana, che tutti – una volta liberati dall’imperio della medietà - diventino eccellenti. Oppure che ciascuno diventi eccellente a modo suo. Insomma, la posizione di Deneault è alquanto incoerente, decisamente anarcoide, una posizione che si scaglia contro la norma, protesta contro le limitazioni poste all’eccellenza dai mediocri, ma che poi non intende porsi sotto alcuna regola di eccellenza. Deneault non è affatto a favore di una rivoluzione contro i mediocri che porti gli eccellenti al potere, come sarebbe potuto accadere, ad esempio, nella Repubblica platonica. Questa posizione dell’Autore risulta abbastanza chiara, sia nella casistica presentata sia nelle pur scarne conclusioni.

12. Ci sono tuttavia poche righe del libro di Deneault che valgono i 18 euro del prezzo di copertina. Sono a nostro giudizio le seguenti: «La principale competenza di un mediocre? Riconoscere un altro mediocre. Insieme organizzeranno scambi di favori per rendere potente un clan destinato a crescere, perché i mediocri fanno presto ad attirare i loro simili».[3] In questo brano è proposta, sinteticamente, una teoria di tutto rispetto - che però purtroppo non è stata ripresa in nessun’altra parte del libro - e cioè la teoria secondo la quale la mediocrità è una qualità del carattere sociale[4] individuale e che la mediocrazia, cioè la società dove spadroneggiano i mediocri, è un sistema costruito e continuamente mantenuto dalle scelte e dai comportamenti quotidiani di ciascun mediocre. Cioè, banalmente, la mediocrità diffusa di innumerevoli mediocri contribuisce a costruire e a mantenere i vari sistemi della mediocrità nelle università, nell’industria, nella finanza, nell’arte e così via, seguendo la casistica di Deneault. La mediocrazia sarebbe dunque resa possibile a causa della convenienza (magari anche in termini di calcolo razionale) della maggioranza mediocre a riconoscersi, a scegliersi, ad appoggiarsi reciprocamente e a escludere chiunque possa metterla in discussione. Per una simile congregazione di mediocri, gli eccellenti costituiscono una minaccia costante e vanno attentamente monitorati e neutralizzati. Tanto da organizzare nei loro confronti delle vere e proprie pratiche di esclusione. Se si pensa a come sono oggi distribuiti i posti di comando nelle imprese, nelle organizzazioni burocratiche, nei partiti politici, non si fa fatica a considerare davvero interessante questo modello interpretativo.

13. In tutto il resto del libro, purtroppo, Deneault non segue questo interessante assunto teorico. Assume anzi una posizione del tutto opposta. La mediocrazia è concepita come un sistema impersonale che assomiglia alquanto al dominio della tecnica, più o meno come teorizzato da una pletora di filosofi continentali come Husserl, Marcuse e tutti i francofortesi, Heidegger, Spengler e così via. Ci sarebbe dunque, questo è l’assunto teorico di fondo, un sistema mediocratico che appare come dotato di vita propria, che è più della somma delle sue parti, come il Leviathan. Un sistema auto instauratosi che pretende da tutti la mediocrità, che produce così una pletora di mediocri i quali - evidentemente del tutto innocenti e perfino riluttanti - sono costretti a stare al gioco del sistema. Insomma, i mediocri sono soltanto delle pedine del sistema. La teoria sfocia così in una splendida difesa di chi è soltanto mediocre a titolo personale. Alimentando e sostenendo il sistema della mediocrità, i mediocri non ci guadagnano nulla. Si tratterebbe di mediocri loro malgrado o mediocri contro voglia. Magari anche a loro insaputa. Sono probabilmente loro i nuovi soggetti rivoluzionari.

14. Di conseguenza – così avviene nelle conclusioni – l’analisi di Deneault si trasforma in un’epica anti mediocratica, dove tutto va bene pur di contrastare l’imperio della media/mediocrità. Sentiamo già lo slogan: «Mediocri di tutti i Paesi unitevi, contro il Sistema Mediocratico!». Il lettore non fa alcuna fatica a riconoscere in questa conclusione, la vecchia radicale lotta contro il sistema, quel sistema che ha ora indossato la maschera mediocratica. Se non altro, il mediocratismo in questi termini pare un candidato adatto a sostituire il finanzcapitalismo nei nostri incubi notturni. Sennonché il progetto politico di Deneault per sconfiggere il mediocratismo lascia davvero esterrefatti (almeno quelli come noi, che abbiamo passato la giovinezza sui testi di Marx e sui classici della sociologia). Citando Aristotele in maniera assolutamente inappropriata e ridicola (e cioè usando i concetti di generazione e corruzione della Fisica per proporre una teoria del cambiamento sociale), nelle ultime pagine, Deneault propone un programma politico distruttivo secondo il quale, dal co-rompimento (sic!) del sistema mediocratico esistente dovrebbe derivare la generazione di qualcosa di nuovo. Afferma profeticamente l’autore: «Rompere insieme. Co–rompere. Adesso sta a noi alterare le fondamenta del regime stabilito. A questo punto, la forza corruttrice siamo noi. Non ci resta che co-rompere […] quelle forme terribili per generarne altre».[5] Una bella «dialettica aristotelica» di corruzione e generazione. Facile, No?

15. In effetti, non si può andare a raccontare a un pubblico di mediocri la verità, piuttosto depressiva, che in realtà i mediocri siamo noi e che, se vogliamo superare la mediocrità, dovremmo ingaggiare soprattutto una battaglia contro noi stessi. E che dovremmo ispirarci alle rare eccellenze che ci sono in giro per migliorare noi stessi e così contribuire semplicemente ad alzare la media. Meglio invece raccontare che quello della mediocrità è un sistema cattivo, del tutto estraneo a ciò che noi siamo veramente - cioè noi siamo unici e irripetibili e, soprattutto, non mediocri come tutti gli altri - e che noi senza quel sistema non saremmo mediocri, e che, dopo aver co-rotto il sistema, saremo finalmente liberi e, solo a questo punto, ci sarà la generazione, nascerà qualcosa di completamente nuovo. Come al solito, solo la radicalità con cui avremo combattuto e abbattuto il vecchio sistema ci darà la garanzia che quello nuovo sarà davvero tutto nuovo. Tutto nuovo, salvo il fatto che, ahimè, la distribuzione di Gauss continuerà a funzionare esattamente come prima.


Giuseppe Rinaldi
23/03/2018

 
OPERE CITATE

2015 Deneault, Alain
La médiocratie, Lux Éditeur.  Tr. it.: La mediocrazia, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2017.

NOTE



[1] Cfr. Deneault 2015.

[2] Deneault 2015: 35.
[3] Cfr. Deneault 2015: 35.
[4] Mi riferisco qui a un vecchio concetto di Eric Fromm.
[5] Cfr. Deneault 2015: 226.



 

mercoledì 7 marzo 2018

Ce l’abbiamo fatta!

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1. Dopo tanto impegno e tanti sacrifici, il risultato tanto sperato finalmente è arrivato. Finalmente abbiamo perso.[1] E non poteva che essere così. Siccome siamo stati particolarmente in gamba, abbiamo perso anche in maniera pesantissima, inequivocabile, con cifre oltre ogni previsione. Da capogiro. Ha perso il PD scendendo al 18,7%. Ha perso LeU riuscendo a raccogliere appena poco più del 3%, cioè assai meno dei risultati elettorali precedenti delle tre formazioni (MDP, SI, Possibile) che vi hanno confluito. Non hanno certo vinto quelli di Potere al Popolo, i cui voti saranno del tutto inutili ai fini parlamentari, anche se - beati loro – sembra che siano contenti del risultato raggiunto. C’è chi si accontenta della testimonianza.

 2. La sconfitta era annunciata e lo capiva chiunque non avesse le fette di salame davanti agli occhi. Che i dirigenti del PD – Renzi in primis – fossero sulla luna, lo si era capito da un pezzo. Sono così alla fine riusciti a dilapidare un capitale politico che forse era nato per caso, all’epoca della rottamazione renziana, e che con ogni probabilità non si riformerà mai più. I segni inascoltati sono stati innumerevoli. Bisognerebbe, tanto per promemoria, ricordare la rissa interna permanente che ha lacerato il PD per tutta la XVII legislatura, a cominciare dai 100 franchi tiratori e dall’affare Letta. Una serie di sconfitte elettorali tutte sottovalutate, come la perdita di Torino e della Liguria. La sconfitta al referendum per la riforma costituzionale, la scissione di MDP, la perdita della Sicilia. Anche la legge elettorale non è stata un capolavoro. Non parliamo poi della campagna elettorale: in gran parte inesistente. E penosa quella esistente. Una pessima immagine in un mondo dove ormai l’immagine è più o meno tutto. L’ultimissima pessima immagine è stato il teatrino per le candidature nei collegi: sembrava la fuga da Saigon, qualcuno se la ricorda, con quelli che si aggrappavano agli elicotteri.

3. Nonostante i due governi Renzi e Gentiloni - confrontati con i precedenti - non abbiano poi governato così male, il PD non è stato affatto ricompensato dall’elettorato. Non basta evidentemente continuare a distribuire cose come gli 80 euro o gli svariati bonus. Non è bastato – all’ultimo momento – l’intervento del ministro Minniti per contenere l’immigrazione. Non è bastata, sempre all’ultimo momento, la firma dei contratti di molte categorie da parte della ministra Madia. Non è bastato neppure il sostanziale miglioramento della situazione economica che è avvenuto negli ultimi tempi. La questione non è evidentemente di tipo economico: tu hai continuato a distribuire soldi a tutti (magari anche un po’ a vanvera), la situazione economica è migliorata e quelli non ti votano! Bisognerebbe farci un pensierino. Ormai però le analisi circa le cause delle sconfitte non sono più di moda. Sono pronto a scommettere che anche questa volta non ci sarà nessuna analisi seria sulle cause della sconfitta, che non siano le solite chiacchiere.

4. Certo, molti sono convinti che Renzi e Gentiloni abbiano fatto delle leggi che non erano di sinistra. Si citano spesso il Jobs Act e la Buona scuola. E poi la riforma costituzionale. Anche Minniti è stato accusato di essere un fascista. Si sono sprecate disquisizioni su quanto fossero di destra o di sinistra i diversi provvedimenti dei due governi (molti dei quali tuttavia contrattati con la minoranza). Discussioni certo legittime, ma non fino al punto da far vincere la parte avversa. Comunque, se Renzi e Gentiloni avessero governato così male, se nel Paese ci fosse stata davvero quella enorme e insoddisfatta domanda di politica di sinistra che alcuni hanno continuato a sventolare, questa volta, finalmente, gli elettori di sinistra insoddisfatti avevano la possibilità di votare per LeU che era l’alternativa fresca. O per Potere al Popolo, che era un’altra alternativa. Oltretutto dentro LeU ci stavano due personaggi – notissimi e stimati - che hanno ricoperto la seconda e terza carica dello Stato. Pare proprio invece che gli elettori – che in generale non sono esponenti del finanzcapitalismo - non ne vogliano più sapere della sinistra, sia nella versione PD, sia nelle alternative di LeU e di Potere al Popolo. Molti elettori della sinistra hanno preferito votare per il M5S o per la Lega. Speriamo che anche questa volta non si dia la colpa ai media. E per favore non si dica “non abbiamo saputo intercettare,…” non vuol dire nulla. Vedremo se il prossimo governo Salvini saprà fare qualcosa di sinistra.

5. Uno dei motivi contingenti che ha portato a questo risultato elettorale è costituito da una certa intelligenza degli elettori di centro sinistra. Poiché almeno da dopo la scissione di MDP era chiaro che il PD sarebbe stato il terzo partito e non avrebbe avuto alcuna possibilità di guidare un governo, allora molti elettori di sinistra hanno pensato – lo ha suggerito esplicitamente D’Alema - che la scelta fosse quella del male minore, scegliendo di appoggiare il M5S per contrastare il fantasma di un governo Salvini. È la teoria del voto utile rivolta contro il PD medesimo. Forse era la scelta giusta, per lo meno a livello tattico. E forse ha funzionato, perché se il M5S fosse stato ridimensionato, oggi ci sarebbe un’unica possibilità, quella di un governo Salvini.

6. Il fatto è che queste elezioni non sono state tanto una valutazione dei governi di Renzi e di Gentiloni. Sono state piuttosto una presa d’atto dell’inesistenza del PD come progetto politico e dell’inesistenza del PD a livello locale. Nonostante le regioni del Sud fossero governate in gran parte dal PD (spesso insieme alla sinistra - sinistra) nelle regioni del Sud ha prevalso il M5S. Il PD ha perso anche nell’Italia centrale, a favore della Lega e del M5S.
Quella del capace ceto amministrativo del PD è ormai solo più una bella favola. Magari anche gli scandali sulle banche hanno contribuito a svelare che la favola non c’è più. Il PD a livello locale – anche con la tolleranza di Renzi – da tempo si era ormai popolato di mediocri arrivisti ansiosi di intrufolarsi nei piccoli o grandi meandri del potere locale. Finché tutti ci guadagnavano qualcosa – il famoso modello emiliano – la cosa ha funzionato. Quando a guadagnarci erano solo più i soliti furbi, con le loro politiche estrattive selvagge, le cose hanno cominciato a cambiare.
Quando la misera posta in gioco degli intrallazzi locali è diventata solo più appannaggio delle lotte tra le correnti allora «la nostra gente» ha cominciato a capire che il meccanismo non stava più in piedi. Si badi bene che, spesso, la cosiddetta sinistra - sinistra non è stata da meno, pretendendo comunque sempre, in modo ragionieristico, le rispettive quote. Così la moneta cattiva ha scacciato quella buona. Il capitale sociale della sinistra è stato eroso e non è stato più rimpiazzato.

 7. Al degrado interno si è aggiunto il mancato ricambio generazionale. I giovani hanno votato in massa per il M5S. Chi è troppo impegnato a curare il proprio cursus honorum non può perdere tempo a formare i giovani. E non si può pensare che il modello del far west tra le correnti possa costituire una buona scuola di formazione dei quadri politici. Così, dopo il peraltro breve periodo dei bravi sindaci, è rimasto il vuoto, solo una lunga lista di arrivisti mediocri disposti a qualsiasi cosa pur di avere una seggiola con gettone di presenza. A ciò va aggiunto il deterioramento delle persone: pressapochismo, impreparazione, mancata selezione in base al merito, autoreferenzialità. Il PD renziano si è illuso di fare il partito mediatico televisivo, di fare a meno della militanza locale e così i ras con i loro cortigiani un bel giorno si sono trovati da soli. E sono quegli stessi che vorranno costituire ora il rinnovamento e l’alternativa a Renzi.

8. Il risultato elettorale costituisce anche una pesante valutazione della sinistra - sinistra come progetto politico. Quelli di MDP, Possibile e SI dovrebbero se non altro ritenere di avere raggiunto almeno uno dei loro obiettivi, e cioè quello di avere salvato l’Italia eliminando Renzi.[2] Purtroppo sembra che abbiano gettato il bambino con l’acqua sporca. Il PD nel nuovo parlamento sarà inagibile per un bel po’ (con un segretario dimezzato o senza segretario, senza una linea politica, con un congresso da fare, magari a rischio scissione). Così, nel regime proporzionale inaugurato da una legge elettorale promossa dal PD stesso, le manovre per fare il nuovo governo le faranno gli altri. I dirigenti di LeU hanno sempre negato fosse loro intenzione far perdere il PD e hanno sempre dichiarato di volere far tornare al voto gli elettori delusi dalla politica del PD, di dare finalmente uno spazio di espressione per «la nostra gente». S’è visto bene che «La nostra gente» semplicemente non c’era. Se c’era, ha preferito il M5S. La speranza della Volpe di sfasciare il PD per poi riprenderlo in mano e farlo «più bello e più grande che pria» si manifesta sempre più nella sua natura di delirio paranoide.

9. Non bisogna dimenticare che la XVII legislatura si è retta sull’equivoco della «non vittoria» di Bersani nel 2013 e che il PD ha potuto governare grazie al premio di maggioranza del porcellum e a una differenza appena dello 0,37% di voti in più rispetto alla coalizione di centro destra. Sarebbe stato il caso di andare a nuove elezioni subito dopo due mesi. In questo modo – tirandola in lungo per cinque anni - il M5S si è fatto le ossa, nelle istituzioni e nel Paese, mentre il PD si è solo logorato e – non soddisfatto - ha continuato a litigare al proprio interno su qualunque provvedimento.
Si poteva nel frattempo riformare il partito – era del tutto chiaro che non stava funzionando già fin da allora – visto che il tempo c’era. Ricordo sempre la proposta di Fabrizio Barca; ricordo anche cosa è successo nel PD romano qualche tempo fa. Ma si è preferito girarsi dall’altra parte e dare spazio ai direttori (nel senso del direttorio) dei ras locali che erano saltati sul carro di Renzi. Fino all’incredibile scissione di MDP.[3] Così la nuova XVIII legislatura partirà con la sinistra (tutta!) bastonata e in un angolo. Fra cinque anni, la sinistra italiana, in tutta la sua enorme varietà di espressioni, bisognerà andare a cercarla su Wikipedia.

10. Tutte le volte che il PD perde ci sono quelli che spergiurano che con il Congresso cambierà tutto. Ci siamo davvero rotti di aspettare i Congressi del PD. Dove in sostanza si fa la conta delle correnti e dove si discute delle fluttuazioni del vuoto. Di congressi se ne sono fatti tanti ma non è mai cambiato nulla, semplicemente perché la materia prima è sempre la stessa. Non si può fare il barolo con le rape. Vale sempre la regola per cui la sinistra che perde non diventa mai migliore. E questo vale per il Pd come per LeU. Questo lo abbiamo costatato molte volte a livello locale, ad Alessandria. E a livello nazionale altrettante volte. La storia politica degli ultimi decenni insegna che la sinistra, dalle sconfitte, non ha mai imparato niente. Gli sconfitti, possono solo peggiorare. Le sconfitte politiche, invece di essere, come talvolta può accadere, occasioni di cambiamento e di crescita, alimentano soltanto la selezione dei peggiori. E poi i peggiori si esprimono.
Quelli che ci hanno fatto perdere, per favore, non vengano a raccontarci che c’è da rifondare la sinistra o il centro sinistra. Non siete credibili.

11. E ora? Renzi – annunciando le sue dimissioni da Segretario - ha detto orgogliosamente che il PD starà all’opposizione. Renzi, dopo avere proposto e votato una legge elettorale proporzionale, ragiona ancora come se stessimo in un regime maggioritario. Non capisce evidentemente che, avendo qualche voto da spendere, ha comunque il dovere di partecipare al processo di formazione del prossimo governo e quindi ha la responsabilità – visto che non si riuscirà a fare un governo incentrato attorno al PD – di spiegare se per il Paese è meglio un governo della destra di Salvini, oppure un governo del M5S con Di Maio. E di prendere quindi le necessarie misure in termini di schieramenti. Se non altro per minimizzare i danni.
Dal punto di vista di chi scrive è ovvio che si debba andare al più presto a parlare con Di Maio per cercare di mettere in piedi un governo M5S – PD e con qualcun altro tra le formazioni minori, se ci sta. Bisognerebbe prendere esempio dallo SPD tedesco. Ma Renzi li legge i giornali? È evidente che a questa responsabilità il PD renziano non risponderà mai. Piuttosto che prendere un’iniziativa azzardata è meglio conservare le posizioni raggiunte e vivere di opposizione. Aspettando che cosa? Sento che la maggiore obiezione a una trattativa con Di Maio sarebbe che il PD si appresterebbe con ciò a perdere la propria identità. Domanda: il PD ce l’ha mai avuta una identità? Questa identità è stata coltivata e sviluppata, quando c’era il tempo per farlo? C’è rimasto qualcosa che non abbiamo ancora buttato alle ortiche? Una battuta di Altan, tanto per finire in bellezza, che potrebbe servire come guida per i venturi rifondatori della sinistra resistente. Dice Altan: «Tanto più uno è un signor Nessuno, tanto più è geloso della propria identità».

* Preciso che le mie critiche ovviamente non si rivolgono a quegli ormai rari e sinceri militanti del PD e delle forze coalizzate, di LeU e di Potere al Popolo che hanno cercato ugualmente di salvare la nave che stava affondando, magari anche sbagliando completamente prospettiva. Militanti per i quali ho il massimo rispetto. A scanso di equivoci, per capire da dove viene la mia critica, preciso che – pur turandomi il naso – ho votato PD.

Giuseppe Rinaldi
06/03/2018
 
 
NOTE

 [1] Mi permetto di segnalare in proposito due miei recenti articoli, Voglia di perdere e La teoria della sconfitta utile, pubblicati su Città Futura e sul mio blog Finestrerotte.

[2] Vengono solo i brividi a pensare agli allucinanti dibattiti di quando il povero Pisapia cercava di federare un progetto di sinistra che avesse qualche credibilità.

[3] Su questo punto si veda il mio articolo di analisi Cosa resterà della scissione del PD? pubblicato su Città Futura e sul mio blog Finestrerotte.