venerdì 12 marzo 2010

Mariuoli, furbetti e birichini. L'irresistibile ascesa della cricca M&P&A

1. La recente ondata di scandali sta inducendo l’opinione pubblica a interrogarsi, per l’ennesima volta, circa la recrudescenza dell’illegalità nel nostro Paese. Ciò accade tuttavia in un quadro in cui, stando alle statistiche, la criminalità, e in particolare la criminalità violenta, sta progressivamente diminuendo. Gli scandali recenti non riguardano tanto la criminalità comune, quanto le sottospecie dei crimini commessi dai pubblici ufficiali e dei crimini societari, con connessioni non infrequenti con la criminalità organizzata. Per brevità parleremo di crimini relativi a malavita, politica e affari (M&P&A). Sembra effettivamente che nel nostro Paese questi crimini siano in forte aumento. Nel recente rapporto della Corte dei Conti, relativo al 2009, si segnala che le denunce alla Guardia di Finanza per corruzione sarebbero aumentate del 229%, mentre i reati di concussione sarebbero aumentati del 159%. Il Corruption Perceptions Index ci ha collocati, sempre per l’anno 2009, al 63° posto (esattamente tra la Turchia e l’Arabia Saudita). In effetti questi dati indicano che qualcosa di grave sta accadendo e invocano una qualche spiegazione. Perché proprio in Italia? Perché proprio questo tipo di crimini? Si tratta di un fatto nuovo o dell’emergere di una realtà perdurante?

La mia opinione è che non si tratti di un problema nuovo, bensì di un problema strutturale, legato profondamente ai trascorsi storici del nostro Paese, legato in particolare alla configurazione che hanno assunto, nel nostro Paese, i due terreni principali ove prosperano le consorterie M&P&A, ovvero lo Stato e il mercato. L’Italia infatti è un paese dove non hanno mai funzionato bene né lo Stato, né il mercato.

2. Il malfunzionamento dello Stato italiano è noto da tempo e può essere sintetizzato con il titolo di un noto studio di Scoppola, La Repubblica dei partiti. Si tratta di uno Stato nato dal fascismo senza una vera e propria epurazione e dove spesso la continuità ha prevalso sulla discontinuità, dove la mediazione partitica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, fino a sostituirsi allo Stato stesso. All’occupazione dei partiti ha fatto da pendant una burocrazia conservatrice, priva di ogni capacità di innovazione e priva di un rapporto diretto con il paese reale. Le Istituzioni sono state viste dai partiti più come terreni da occupare che come elementi di una nuova identità repubblicana. Le culture politiche dei principali partiti hanno spesso alimentato l’anti-statalismo e i partiti di massa hanno sempre considerato i loro elettori più come a un gruppo di interessi che come cittadini. Non a caso nel nostro Paese è stato inventato il termine “lottizzazione” per indicare la spartizione sistematica dei posti di potere in funzione del peso elettorale di ciascun partito, o di ciascuna corrente. Questa situazione ha prodotto una condizione cronica di inefficacia e inefficienza della Pubblica Amministrazione e ciò ha, a sua volta, alimentato la tradizionale diffidenza dell’italiano medio nei confronti dello Stato.

3. Anche il malfunzionamento del mercato nel nostro Paese è noto da tempo. È stata spesso lamentata la mancanza di un ceto imprenditoriale dotato di una qualche solida tradizione e di una responsabile etica degli affari. Nel nostro Paese si è formato un ceto imprenditoriale raccogliticcio caratterizzato dalla diffidenza verso il mercato – eredità tipica dell’epoca fascista – e dall’abitudine a ottenere aiuti e privilegi sotto varie forme da parte dello Stato. Per decenni si è avuto nel nostro Paese uno sviluppo drogato attraverso gli aiuti statali e la crescita del debito pubblico; di conseguenza la maggior parte delle imprese a lungo andare non ha retto al confronto con la concorrenza straniera. In seguito alla scomparsa dell’Italia industriale[1] si è assistito alla progressiva finanziarizzazione dell’economia. L’attività finanziaria ha preso il sopravvento sulle attività produttive, creando quel perverso meccanismo del denaro che pretende di produrre infinitamente denaro. Al già debole ceto imprenditoriale si sono così sostituiti gli avventurieri della finanza, capaci di costruire rapidamente grandi fortune, ma continuamente bisognosi di appoggi nei partiti, per manipolare le regole del gioco, e di connivenze con la malavita per le faccende più sporche.

4. La debolezza dello Stato, prigioniero dei partiti, e il soffocamento progressivo del mercato e della concorrenza hanno generato un sistema di illegalità generalizzata capace di mantenersi e accrescersi costantemente. Come nella favola di Carroll, anche quando crediamo di star fermi, in realtà stiamo regredendo. La cosiddetta Tangentopoli ha rappresentato soltanto un momento di disvelamento di un sistema che si era costituito in precedenza e che ha continuato a funzionare successivamente. Le condanne e il disfacimento di alcuni partiti hanno colpito solo la superficie, perché i meccanismi profondi insiti nella struttura dello Stato e nella struttura economica hanno continuato a funzionare e a rigenerarsi. La cricca M&P&A non ha mai cessato di operare e oggi sappiamo attraverso quali canali e modalità ha trovato nuovi sbocchi.[2] Forse si tratta dell’unico settore veramente innovativo nel nostro Paese.

5. Ciò continuerà ad accadere finché, nel nostro Paese, Stato e mercato non riusciranno a trovare una loro giusta collocazione reciproca. Spesso infatti ci si dimentica della natura potenzialmente criminale dell’attività economica che è mossa dall’interesse individuale e che è portata a invadere ogni campo e a infrangere ogni regola[3] (nella storia, in effetti, ogni regola giuridica e morale è stata infranta in nome del profitto). Per convincersi del potenziale criminale intrinseco all’attività economica basti pensare alle manovre finanziarie che hanno scatenato l’attuale crisi internazionale. Nel nostro piccolo, un esempio tipico è costituito dallo scudo fiscale: gli scudati possono essere interpretati come dei criminali esportatori di capitale all’estero in violazione delle leggi vigenti, oppure come dei salvatori della patria nel momento del bisogno. Ancora nel nostro piccolo, chi produce una costruzione abusiva contando sul condono edilizio può essere considerato un pericoloso criminale distruttore di beni pubblici, oppure un accorto operatore economico che sa il fatto suo. L’attività economica si muove sempre lungo confini pericolosi, ha dunque bisogno di regole certe che distinguano il lecito dall’illecito e di istituzioni forti che siano in grado di sancire con sicurezza gli illeciti. In altri termini l’attività economica ha bisogno di Stato. I paesi che hanno minore corruzione hanno saputo intervenire rafforzando l’autorevolezza, l’efficacia e l’efficienza dello Stato, incanalando il mercato senza tuttavia soffocarlo. Hanno saputo evitare gli scogli dell’interventismo, ma anche gli scogli del laissez faire indiscriminato, costruendo un’interazione virtuosa tra la regolazione statuale e lo sviluppo economico.

6. Uno Stato privo di autorevolezza, inefficace e inefficiente come quello italiano non lascia sufficiente libertà al mercato, dove e quando dovrebbe farlo, e interviene futilmente e a sproposito dove e quando non dovrebbe farlo. Abbiamo così, da un lato, interventi economici dirigistici che si traducono in sperperi o al più fanno da tappabuchi, senza la capacità di innestare alcun tipo di sviluppo, alimentando oltretutto il perverso sistema M&P&A. Dall’altro, l’attività economica è lasciata priva di controlli, in una situazione di anarchia, e questo non può che moltiplicare a lungo andare gli illeciti. La moltiplicazione degli illeciti fa sì che gli scandali si susseguono gli uni agli altri con periodicità sempre più frequente e che si moltiplichino i danneggiati (siano essi i cittadini onesti che pagano le tasse, quelli che si sono affidati a Tanzi, o gli Enti locali che hanno comperato i derivati,…). La presenza di questo Stato – troppo forte e invasivo e troppo debole nello stesso tempo - ha reso impossibile l’introduzione, nel nostro Paese, di riforme efficaci per contrastare i processi degenerativi, ma piuttosto ha teso a perpetuare una logorante situazione di crisi permanente (ben più grave dell’attuale crisi finanziaria internazionale) e, conseguentemente, di emergenza permanente, cui il sistema politico ha tentato di far fronte prospettando improbabili riforme che non sono mai riuscite a prendere il via (una situazione di riforma permanente che conosciamo piuttosto bene). Come ha suggerito Ricolfi, da anni stiamo in realtà sperimentando, in questo Paese, l’arte del non governo.

7. Si dirà: ma sono in fondo gli elettori che stanno alimentando questa situazione. Gli esponenti della maggioranza rispondono spesso all’opposizione con il ritornello: “Voi vi lamentate sempre, ma poi perdete le elezioni”. In una situazione simile a quella che abbiamo delineato è bene ricordare che le alternative razionali che stanno di fronte all’elettore medio sono sostanzialmente due.

-Dando per scontato il degrado progressivo del Paese, scommettere sulla deregulation, pensando di poter essere tra coloro che, in un modo o nell’altro, ci guadagneranno qualcosa (o perché si potrà fare il lavoro nero, o perché si potrà andare in ufficio a far niente, o perché si potranno evadere le tasse, o perché si potrà avere condonato un abuso edilizio, o perché si potrà pensare di usufruire di favori o raccomandazioni, o perchè si potrà pensare di vendere il proprio voto, di speculare sulle forniture,…). È chiaro che la deregulation amplifica i comportamenti economici potenzialmente criminali, abbassa la produttività, destabilizza le istituzioni e indebolisce ulteriormente lo Stato. Ma questo degrado può essere considerato come un processo inevitabile: per mal che vadano le cose, si cerca di galleggiare. In una simile situazione una parte dei cittadini può essere indotta a utilizzare i servizi delle agenzie criminali che scoprono così nuovi ruoli e nuove funzioni.

-Non rassegnandosi al degrado progressivo del Paese, scommettere su una nuova regulation che sia in grado di portare lo Stato all’altezza dei suoi compiti e che sia in grado di correggere efficacemente le storture del mercato. Ciò significa potare senza pietà la parte parassita dello Stato interventista e nello stesso tempo intervenire per potare l’economia illegale e criminale e stabilire un quadro di regole certe che siano in grado di alimentare uno sviluppo sano. Tuttavia questa strada richiede che ciascuno sappia rinunciare a un vantaggio immediato in funzione di un miglior vantaggio futuro. È una strada che può essere praticata solo in presenza di un elevato grado di fiducia (come quello, ad esempio, che gli americani hanno accordato a Obama) e in presenza di una ragionevole aspettativa circa l’efficacia dei provvedimenti, certamente severi, che dovranno essere messi in programma. Tutte condizioni che non si verificano nel nostro Paese.

 Purtroppo negli ultimi anni coloro che hanno promesso una nuova regulation si sono mostrati del tutto incapaci di realizzarla, finendo per alimentare soltanto ulteriore sfiducia e qualunquismo, e finendo per spingere la maggioranza degli elettori a giocare la carta più certa della deregulation. Questo è anche il motivo per cui è vano sperare in un cambiamento politico a partire dagli scandali.

8. Oggi, in Italia, coloro che chiedono esplicitamente una migliore regolazione sono in netta minoranza, sia a destra che a sinistra. Da un lato abbiamo, nella Cdl, la corrente di Fini che ha proposto a più riprese una serie di interventi per consolidare le istituzioni e per fornire delle risposte alle esigenze elementari dei cittadini; dall’altro abbiamo l’Idv di Di Pietro che ha fatto della difesa della legalità il suo campo di battaglia privilegiato. Si tratta tuttavia di voci che non sono, a tutt’oggi, in grado di proporre un programma complessivo di riforma dello Stato e del mercato. I due maggiori partiti, la Cdl e il Pd non sono attualmente in grado di fornire una proposta solida di regulation. La Casa della libertà, perché si è sempre presentata come rappresentante degli interessi di coloro che vogliono lo sviluppo del mercato selvaggio, la deregolamentazione e l’indebolimento dello Stato e delle Istituzioni. Il Partito democratico, perché finora non è stato in grado di proporre un modello di regolazione convincente e fattibile. La causa fondamentale della cronica insufficienza del Pd si trova nella storia pregressa delle formazioni che lo compongono: esse hanno sempre privilegiato, sopra ogni altra cosa, la mediazione politica, non hanno mai saputo identificarsi fino in fondo con le istituzioni repubblicane, con la difesa della legalità e la valorizzazione del mercato. In particolare, in campo economico, non hanno mai elaborato una chiara idea dello sviluppo economico, di come funzioni o non funzioni il mercato e di quali siano le regole di cui il mercato ha effettivamente bisogno per tracciare una netta linea di demarcazione tra legalità e illegalità.

9. È abbastanza chiaro che il Paese si è cacciato da tempo in una situazione senza via d’uscita. In questa situazione la crescita dei reati del tipo M&P&A è il prezzo amaro che gli italiani devono pagare per avere scelto in maggioranza la deregulation, dopo aver fallito clamorosamente nel tentativo di introdurre una regulation efficace. Entrambi gli schieramenti, maggioranza e opposizione, appaiono oggi completamente appiattiti a rincorrere le emergenze. In questa situazione solo una catastrofe economica e politica – con macerie enormi e visibili a tutti – potrebbe distogliere il nostro sistema politico dal circolo vizioso dell’inconcludenza. Ma non è detto neppur questo. In questo Paese è sparita da tempo la capacità di imparare dai propri errori.

 Giuseppe Rinaldi (12/3/2010 – 03/07/2021 rev.)

 

NOTE

[1] L’espressione è di Luciano Gallino.

[2] Le recenti rivelazioni ai giudici del figlio di Ciancimino – se fossero confermate - vanno ben oltre questo quadro, di per sé già abbastanza inquietante.

[3] Cfr., a questo proposito, Loretta Napoleoni, Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, ilSaggiatore, Milano, 2008.







mercoledì 3 marzo 2010

I barbari saccheggiati. Come l’Italia è diventata finalmente un paese comunista

 

Il recente volume di Luca Ricolfi “Il sacco del Nord” (*) rappresenta un importante punto di svolta nel dibattito intorno alla cosiddetta “questione meridionale”. L’argomento potrebbe sembrare vagamente demodé, legato a fumose e ottocentesche diatribe, invece si colloca con prepotenza al centro delle più importanti questioni di attualità. Il sottotitolo del volume “Saggio sulla giustizia territoriale” contribuisce a illuminare circa il rilievo delle questioni trattate. Il volume non intende fornire nuove spiegazioni circa gli squilibri territoriali presenti nel nostro Paese e neppure elaborare nuove proposte di riforma. Intende, come afferma in apertura l’Autore, “semplicemente offrire al lettore uno strumento nuovo di osservazione, un paio di lenti che permettono di vedere cose che, con gli strumenti di osservazione tradizionali, proprio non si vedono”. In sostanza si tratta di un volume il cui scopo principale è quello di descrivere nella maniera più obiettiva possibile le differenze territoriali presenti nel nostro paese.


Per descrivere gli squilibri territoriali, l’Autore è stato costretto a un lungo tour de force che lo ha portato a rivedere sostanzialmente i criteri con cui viene comunemente elaborata la contabilità nazionale. L’Autore dimostra con solide argomentazioni come la nostra contabilità nazionale nasconda sistematicamente una serie di grandezze che sarebbe invece necessario prendere in considerazione ogni qualvolta si ragioni intorno alle politiche pubbliche. La contabilità nazionale, nel nostro Paese, non permette di calcolare l’efficienza della pubblica amministrazione, non permette di calcolare l’effettivo funzionamento del fisco e le vere dimensioni dello stato sociale, non permette di scoprire un’immensa sacca di parassitismo e, soprattutto, nasconde i sistematici sotterranei trasferimenti di risorse dalle regioni più produttive verso le regioni meno produttive. Il volume è denso di considerazioni metodologiche (che tuttavia risultano a una lettura attenta perfettamente comprensibili anche ai profani della scienza economica) attraverso le quali vengono ricalcolate tutte le grandezze necessarie.


I risultati sono piuttosto sconcertanti. Vengono identificati e messi in luce i processi che, indipendentemente dai retaggi storici profondi, riproducono costantemente e anzi accentuano il divario tra le regioni più sviluppate (collocate prevalentemente al Nord) e le regioni meno sviluppate (collocate prevalentemente al Sud). Ma il risultato più rilevante è la quantificazione dettagliata dei meccanismi perversi attraverso i quali una quota rilevante di risorse prodotte nelle regioni del Nord è incanalata e distribuita nelle regioni meno produttive del Sud: circa 50 miliardi all’anno, l’equivalente di due o tre finanziarie.  Si tratta di meccanismi che vanno ben al di là della solidarietà nei confronti delle regioni più povere del Paese e che appaiono, a lungo andare, in grado di strangolare lo stesso sviluppo economico delle regioni più sviluppate.


L’autore non trae conclusioni politiche specifiche dalla sua indagine, che è prettamente descrittiva e accuratamente non valutativa, ma alcune conclusioni sono del tutto evidenti, anche a una lettura frettolosa. Mi proverò esplicitarne alcune. Una prima conclusione che si trae inevitabilmente dalla descrizione presentata è il fallimento totale delle politiche meridionalistiche che sono state seguite dal dopoguerra fino ad oggi (propugnate da tutti i governi sia di destra sia di sinistra). Addirittura si può trarre la conclusione che le politiche meridionalistiche messe in atto abbiano ottenuto dei risultati del tutto opposti alle intenzioni; abbiano cioè contribuito ad aggravare più che a sanare la condizione delle regioni meno sviluppate.


In secondo luogo, la descrizione di Ricolfi permette di comprendere appieno quali siano le profonde radici economiche dell’emergere progressivo della Lega Nord e perchè questo partito sia riuscito a egemonizzare una parte dei ceti produttivi del Nord e una parte della classe operaia. Ben al di là degli intendimenti soggettivi dei leghisti, il sacco del Nord è dunque una realtà strutturale latente che, oltre a danni intrinseci di natura economica, ha determinato come sottoprodotto politico e sociale la disgregazione della sinistra al Nord, lo sviluppo della cosiddetta “questione settentrionale” e ha contemporaneamente gettato diverse regioni del Sud nelle mani del malgoverno, della criminalità organizzata o in quelle dei faccendieri e procacciatori di voti.


In terzo luogo, la descrizione di Ricolfi fornisce tutti gli elementi per comprendere la diffusione nel nostro Paese – sempre per opera della Lega Nord - della cosiddetta tematica federalista. Quello della Lega non è un vero federalismo (basta consultare un qualunque manuale di scienza della politica per capire che il federalismo è aggregativo e non disgregativo), ma piuttosto una forma di autonomismo o di secessionismo, espressione del disagio e del rancore del Nord. Dietro ai miti delle ampolle e del dio Po, la Lega, in assenza di altre voci meglio qualificate, è riuscita a porre al pubblico il problema della giustizia territoriale. E lo ha posto tanto che il federalismo fiscale, l’obiettivo culminante della sua azione politica, è sul punto di essere realizzato (bisogna dire, nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica). Peccato che il federalismo fiscale, per com’è stato impostato dalla riforma sostenuta dalla maggioranza, non riuscirà con ogni probabilità a risolvere nessuno dei problemi strutturali evidenziati dalla ricerca di Ricolfi.


In quarto luogo, la descrizione di Ricolfi fa risaltare la totale inconsistenza della politica della sinistra italiana intorno alla questione meridionale (che, come abbiamo visto, significa soprattutto “questione settentrionale”). Il partito democratico, come al solito, sulla giustizia territoriale non sa cosa dire. Da un lato, in più occasioni, ha continuato a farsi portavoce della redistribuzione verso il Sud in nome di un’indiscriminata solidarietà, guadagnando così peraltro sempre maggiori diffidenze da parte dell’elettorato; dall’altro lato si è fatto portatore di un federalismo fiscale gelatinoso, imposto in sostanza dalla concorrenza, poco sentito e dibattuto,  e che nessuno ha capito bene di che cosa si tratti. Le varie frange che si collocano alla sinistra del partito democratico altro non sanno se non chiedere a viva voce la reiterazione della tradizionale politica di assistenzialismo e trasferimento di risorse verso il Sud, ignari dei 50 miliardi che ogni hanno le regioni del Nord pagano in un modo o nell’altro a favore di quelle del Sud. Nessuno sembra essersene accorto, ma in Italia il comunismo è stato realizzato già da un pezzo.

L’attuale blocco di potere trova il suo fondamento (e la sua base elettorale) proprio nel rancore nordista per la spoliazione e nel parassitismo sudista spoliatore: questa unificazione di opposti interessi è stato senz’altro il capolavoro politico dell’attuale Capo del governo. Ma ciò è stato possibile mistificando e nascondendo la vera natura dei rapporti economici tra le due aree del Paese, non senza la complicità della miopia buonista dell’opposizione. Tra l’altro, va anche considerato che un trasferimento colossale da 50 miliardi all’anno non può che avvenire grazie all’intermediazione della burocrazia e della classe politica, che proprio su questa intermediazione fonda la propria perpetuazione e i propri privilegi. Ciò contribuisce a creare e a mantenere in vita un ceto politico inefficace, inefficiente e parassita, quando non malavitoso che non ha nessun interesse a modificare questa situazione.


Così il problema della giustizia territoriale non potrà che aggravarsi. Invece di continuare a proporre la distribuzione di risorse inesistenti per ottenere qualche voto in più, l’opposizione dovrebbe comprendere che la soluzione della questione meridionale non può che passare prioritariamente attraverso la soluzione della questione settentrionale. Ma questo significa cominciare seriamente e convintamente a cavalcare l’obiettivo della giustizia territoriale, anche perché, in caso contrario, tra un po’ non ci saranno più risorse per nessuno, né per i settentrionali né per i meridionali. Il partito che si dice democratico, proprio per il suo dirsi democratico, dovrebbe essere primariamente interessato ai problemi della giustizia territoriale e dovrebbe essere in prima linea a combattere per realizzarla (e non dovrebbe lasciare questo campo all’avversario). Dovrebbe capire che giustizia territoriale non significa oggi, nel nostro paese, principalmente distribuzione senza contropartite. Dovrebbe combattere apertamente le sacche di improduttività, di inefficienza, di parassitismo. La questione settentrionale costituisce oggi l’autentico e radicale problema politico per la sinistra italiana: si tratta di mettere da parte definitivamente il vecchio meridionalismo, la politica degli aiuti infiniti, per riscoprire il rigore - come sostiene Ricolfi - della vecchia contabilità liberale, quella grazie a cui perlomeno si riesce facilmente a capire chi produce cosa, chi consuma cosa e chi fa il furbo. Ciò implica una profonda rivoluzione che metta urgentemente nell’armadio una serie di schemi di pensiero che sono risultati disastrosi alla prova dei fatti. Per tutti quelli che, stufi dei luoghi comuni, sentissero l’esigenza di cambiare idea su tutte queste questioni, il libro di Luca Ricolfi può rappresentare davvero un buon punto di partenza.

 

Giuseppe Rinaldi (3 marzo 2010)

 

  

(*) Cfr. Luca Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale. Guerini e Associati, Milano, 2010