martedì 2 dicembre 2014

Il collasso morale del Partito Democratico

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Negli ultimi mesi, nell’area che comprende il centro sinistra e la sinistra, alcuni eventi decisamente traumatici hanno suscitato un certo stupore e stanno destando svariati interrogativi. Si tratta di eventi per i quali è davvero difficile trovare una qualche spiegazione convincente ed esauriente e che meritano tuttavia grande attenzione, perché sono in grado di destabilizzare definitivamente il già malconcio sistema politico italiano.
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Da un lato abbiamo il PD che, sotto la segreteria di Renzi, ha realizzato un clamoroso successo elettorale alle recenti elezioni europee. Successo elettorale che peraltro è stato confermato nelle recenti elezioni regionali (nonostante l’elevato, anomalo e allarmante tasso di astensioni). Per converso, l’avversario storico del PD, Berlusconi, appare quanto mai confinato all’angolo e il centro destra appare diviso e privo di orientamenti, per una serie di motivi che non staremo qui ora a indagare. L’unica componente in controtendenza sembra essere la Lega di Salvini. Anche il movimento di Grillo sembra aver perso la spinta propulsiva iniziale, che lo aveva portato a rappresentare un quarto dei votanti alle scorse elezioni politiche, e sembra avviato verso un periodo di alta instabilità, caratterizzato da spaccature interne e da scarsi successi in campo politico. I recenti rivolgimenti ai vertici del M5S sembrano costituire una rivelazione dell’intrinseca debolezza di questa formazione più che un momento di ristrutturazione in vista di una nuova crescita. D’altro canto, per completare il panorama, l’area politica collocata alla sinistra del PD sembra in crisi permanente, sia dal punto di vista elettorale che dal punto di vista delle idee, dei programmi e delle strategie comuni. Insomma, il PD è rimasto il solo partito ad avere un consenso corposo da parte dell’elettorato, ad avere al proprio interno una struttura organizzativa relativamente democratica, ad aver espresso, in un recente Congresso, una linea politica attraverso la quale il governo Renzi sta cercando di realizzare - seppure in condizioni difficilissime - quella trasformazione di cui il Paese ha urgente bisogno, per riuscire a risollevarsi dal baratro nel quale si trova.[1]
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Ebbene, dal punto di vista del PD, ci sarebbero tutti i motivi per essere soddisfatti e, soprattutto, ci sarebbero tutti i motivi per profondere una vigorosa iniziativa politica, volta a sostenere l’attività di governo, volta ad allargare i ranghi degli iscritti e dei militanti, volta a intavolare con il pubblico un dibattito appassionato e approfondito sul merito delle riforme che si stanno intraprendendo. Il PD ha l’opportunità di mostrare agli italiani che la sinistra sa essere, finalmente, concreta, determinata e fattiva. Nello stesso tempo, sembra ormai chiaro a tutti che, nella situazione in cui si trova il Paese, occorre agire in fretta, con una certa flessibilità, diciamo pure senza guardare troppo per il sottile, rinviando a tempi migliori il perfezionamento eventuale delle diverse riforme.
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È accaduto invece, negli ultimi tempi, che proprio il PD abbia dato ai suoi elettori e, più in generale, al pubblico un’immagine disastrosa di irresponsabilità, di divisione e di inconcludenza. Il Presidente del PD che, un giorno sì e uno no, attacca il Segretario, fronde di deputati e senatori della cosiddetta minoranza che minacciano costantemente di non votare i provvedimenti proposti dal governo, che vogliono contrattare su tutto - come se recentemente non avessero fatto e perso un Congresso. A ciò possiamo giungere le ripetute minacce di scissione da parte degli insoddisfatti del momento, compresi alcuni nuovi leader (come Civati) e alcuni dirigenti storici (come la Bindi). Ma non basta. La cosiddetta minoranza del PD ha saldato la propria linea d’azione con la Cgil della Camusso e con la Fiom di Landini, scatenando, nel Paese, nelle Piazze, un’opposizione contro il governo come non si era mai vista nei confronti dei governi di destra. A quest’ondata di contestazione contro il governo si sono ovviamente aggrappate tutte quelle forze minoritarie collocate a sinistra del PD, che hanno così trovato una insperata occasione di far vedere al Paese che esistono anche loro. Il clou della protesta anti governativa non è ancora arrivato, si avrà nel ventilato sciopero generale prossimo venturo.
Insomma, nel momento in cui il PD potrebbe dire di avere finalmente in mano le sorti del Paese, di avere la possibilità di provare a cambiare effettivamente il Paese, questo stesso partito, incredibilmente, si trova a discutere nientemeno che di scissione e una sua componente di rilievo si appresta a organizzare uno sciopero generale che è, di fatto, uno sciopero contro lo stesso governo guidato dal PD. Viene in mente l’intrepido on. Diliberto che scendeva in Piazza contro il governo di cui era ministro. Tutto ciò non può che costituire una gioiosa macchina da guerra a favore della destra (la quale peraltro potrebbe anche riuscire a riorganizzarsi in tempi non troppo lunghi). Il risultato di tutto ciò è che, nei sondaggi, la popolarità di Renzi è ora in diminuzione e che le percentuali delle intenzioni di voto per il PD hanno ripreso a scendere. La spaccatura indotta nel PD e nella sinistra è senz’altro uno dei motivi della bassissima percentuale di afflussi alle urne delle recenti elezioni regionali, nonché della bassissima percentuale di partecipazione ad alcune primarie regionali che si sono tenute in questi giorni. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che agli elettori non piacciono i partiti che litigano continuamente al proprio interno e che sono sempre pronti alle spaccature, soprattutto se sono partiti che hanno in mano il governo e le sorti del Paese.
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Se questo è il quadro, di fronte a questo comportamento da Tafazzi, dovremmo domandarci, anzitutto, se le giustificazioni addotte dall’ormai ampio spettro degli anti renziani (dentro e fuori il PD) abbiano o meno qualche fondamento, se esse mettano in gioco questioni così gravi da valere una perdita di consenso, il blocco delle già difficoltose riforme avviate, un’eventuale caduta del governo, un colossale insperato favore alla destra e - cosa che si è palesata in questi ultimi giorni – un pericoloso ingolfamento tra le sempre più probabili elezioni politiche e le concomitanti dimissioni del Presidente della Repubblica.
Non entrerò qui nel merito - per brevità - delle questioni del contendere, legate soprattutto alla riforma del mercato del lavoro e alle riforme istituzionali e alla legge elettorale. Diciamo genericamente che è del tutto comprensibile che ci siano diversi punti di vista, diverse interpretazioni circa il merito di ciascuna riforma. Chi scrive peraltro è assai critico su alcune soluzioni che probabilmente saranno adottate da Renzi. Il problema è che, come si diceva poc’anzi, nell’attuale situazione del Paese (basterebbe ricordare l’enorme debito pubblico, le cifre della disoccupazione, la crisi della politica, l’anomalia del sistema politico di una forza come quella di Grillo che non fa alleanze con nessuno, …), non possiamo davvero permetterci di guardare troppo per il sottile. Le riforme di questo governo non produrranno il migliore dei mondi possibili; sono le riforme abborracciate che siamo in grado di fare, dati i limiti di questo personale politico, dati questi rapporti politici, data questa situazione economica e finanziaria. Fare uno sciopero politico (perché è di questo che si tratta!) contro il governo in questa situazione significa fare uno sciopero contro tutti quegli italiani che dalle riforme non si aspettano certo l’apertura dell’età dell’oro ma si aspettano quei cambiamenti elementari, che sono ormai questione di vita o di morte, che la classe politica non ha mai saputo o voluto fare nei decenni scorsi.
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Se è così, dobbiamo cercare di trovare una spiegazione a questo cupio dissolvi che sembra essersi impadronito non solo di alcuni dirigenti della sinistra del PD, della Cgil della Fiom, ma che sembra avere trovato un ampio riscontro (la cosa deve avere anche sorpreso quegli stessi dirigenti) nel cosiddetto «popolo della sinistra». Una riprova ne è la partecipazione consistente che si è avuta nello sciopero e nella recente manifestazione romana contro la riforma del mercato del lavoro. Insomma, dovremmo tentare di capire come mai, nell’ambito della sinistra, tutte le volte che si è vicini a vincere si comincia a litigare, poi ci si spacca, passando così il testimone all’avversario politico di turno.
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Un’interpretazione facile è che la minoranza del PD che ha perso il recente Congresso si stia organizzando (con l’appoggio della Cgil e della Fiom) per mandare a casa Renzi e per prendere in mano nuovamente il partito. Pur trattandosi di un comportamento miope e irresponsabile (come quello di chi si appresta a segare il ramo dell’albero su cui è seduto) potrebbe, in effetti, avere una certa logica. Ma questo spiegherebbe il comportamento dei dirigenti della minoranza di sinistra, non il comportamento di coloro che, molto numerosi, si sono dimostrati disponibili ad accogliere gli appelli e a scendere in piazza contro il governo. Costoro non scendevano in Piazza contro i governi della destra – i quali non facevano assolutamente niente - e tuttavia sono disposti ora a scendere in Piazza contro il governo del PD che per lo meno – comunque lo si giudichi - qualcosa sta cercando di fare.
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Occorre allora un’altra spiegazione. Presso i militanti della sinistra, della base del PD, della Cgil e della Fiom, il conflitto con Renzi, come segretario e come capo del governo, non è un conflitto che viene consumato e vissuto semplicemente a livello politico. Se fosse così, le considerazioni politiche che abbiamo svolto finora, che vertono su quel che è possibile nell’attuale situazione e su quel che è impossibile, su quel che è tatticamente opportuno e su quel che è inopportuno, sarebbero più che sufficienti per indurli a desistere dal loro sistematico impedimento all’attività del governo. Si tratta invece di un conflitto che viene vissuto su un piano prevalentemente morale. Se in politica si possono fare (anzi è doveroso fare) dei compromessi, allo scopo di ottenere ciò che è possibile ottenere in una data situazione, in campo morale ogni compromesso è concepito come un tradimento. Renzi che fa politica, che si barcamena come può – si ricordi con che razza di parlamento ha a che fare[2] – e che è costretto a fare quotidianamente dei compromessi, appare essenzialmente come un traditore. Solo così si possono spiegare le diffuse fantasie che assimilano Renzi a Berlusconi, solo così si possono spiegare le difese a oltranza di un articolo 18 che nell’attuale situazione del mercato del lavoro non significa più nulla, solo così si possono spiegare certe opposizioni dure e pure nei confronti delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Si sta costruendo nella sinistra un divide di tipo morale tra il bene e il male, tra amici e nemici, tra i difensori del lavoro e della democrazia e il resto dei traditori. Questo blocco anti renziano non ha nulla di politico e di razionale, è piuttosto una chiara manifestazione irrazionale di odio – ha rivelato questo fondo di odio proprio Landini, quando ha accusato il governo di usare calcolatamente la forza pubblica contro i lavoratori e quando gli è scappato che i sostenitori di Renzi sono dei disonesti.
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In un momento in cui il PD e la sinistra, Cgil e Fiom compresi, avrebbero massimamente bisogno di politica, di capire che non si può avere tutto e subito e che la tattica ha la sua importanza, che i rapporti di forza hanno la loro importanza, che si deve sempre prima o poi fare i conti con la realtà, essi si sono fatti irretire in una spaccatura morale di tipo fondamentalista. Si parla di valori, di dignità del lavoro, dei diritti violati, del rispetto della Costituzione, delle regole della democrazia. Tutte cose in sé belle e giuste, cui è difficile dire di no, ma che devono poi trovare un compromesso con la realtà. Chi si mobilita grazie all’indignazione (è una parola di moda) morale non ha invece nessuna voglia di fare i conti con la realtà, di porsi dei problemi di fattibilità, di entrare nel merito delle amare questioni dei costi economici, non vuole saperne di ragionare sulla base degli effettivi rapporti di forza. In altre parole, si tratta di un colossale ritorno dell’immaturità politica.
Nel nostro Paese, tutte le volte che viene meno quel poco di maturità politica che ci possiamo permettere prende il sopravvento il moralismo, l’appello ai valori, la logica per cui chi non è d’accordo con te non può essere altro che un nemico o, peggio, un traditore. In queste situazioni i politici (e sindacalisti) trovano molto comodo agitare i valori, perché intanto sui valori è facile avere consensi e non è mai possibile alcuna verifica di efficacia. I valori si condividono, servono a distinguersi dagli altri, non devono produrre alcunché. Ha ragione Renzi quando chiede «dove eravate?» ai sindacati e quando fa notare che, con il suo predecessore alla segreteria, il PD non aveva mai oltrepassato il 20% o giù di lì.
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È possibile che in Italia continuiamo ad avere a che fare con il moralismo e con l’immaturità politica? Il fatto merita però una qualche miglior spiegazione. Dobbiamo domandarci quali siano gli ambiti entro cui è possibile che si formi una qualche maturità politica. Ebbene, i partiti e i sindacati sono proprio tra i principali luoghi deputati alla formazione della maturità politica dei militanti, degli elettori e più in generale dei cittadini. Sono però almeno trent’anni che i partiti e i sindacati sono diventati delle organizzazioni burocratiche, luoghi di correnti e di puri giochi di potere, talvolta anche di malaffare (si pensi alle spese allegre dei consiglieri regionali, oppure allo stipendio e alla liquidazione di Bonanni), luoghi da cui militanti ed elettori sono stati sempre più allontanati, per lasciare il posto a politici e sindacalisti di carriera. Sono decenni che nei partiti e nei sindacati non si discute più di nulla, le decisioni sono prese dall’alto e i momenti congressuali sono delle farse. Farsa è stato, evidentemente, il Congresso recente del PD, visto che, nel dettaglio delle riforme, non si è discusso di nulla e che, comunque, quelli che hanno perso continuano a mettere i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Sono decenni che tutti conoscono il trend impressionante della disaffezione nei confronti della politica da parte dei cittadini italiani. Recentemente si è discusso con preoccupazione del pesante crollo del tesseramento all’interno dello stesso PD. Nulla tuttavia è cambiato, perché qualunque cambiamento significherebbe mettere in discussione le oligarchie, cioè le uniche cose che contano davvero.
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Oggi, per effetto di questa tendenza al degrado dei partiti e dei sindacati, la sinistra in senso ampio è una sinistra senza cultura politica. È questa una condizione che merita di essere compresa in dettaglio. Diciamo che, schematicamente, presso la fascia meno giovane, sopravvivono ancora, come fossero imbalsamate, le vecchie parole d’ordine degli anni ‘70, in una situazione che però è completamente mutata. Non c’è stato alcun adeguamento, alcun cambiamento, alcuna maturazione. Non s’è imparato più nulla. Si ripetono sempre le vecchie tiritere. I sociologi in casi come questi parlano di ritualismo. È la situazione in cui si continuano celebrare e difendere i fini entro cui si è stati socializzati, anche se questi sono diventati completamente inefficaci e/o impraticabili. D’altro canto, quelli della nuova generazione, diciamo pure per semplificare, i renziani, sono dilettanti allo sbaraglio, mancano di qualsiasi tradizione e di qualsiasi retroterra, sono, in un certo senso, per forza di cose, innovatori ma anche anomici. Badano molto più ai risultati concreti che non ai fini ultimi. Non può essere diversamente. I ritualisti sono dei moralisti astratti, mentre gli innovatori anomici non hanno alcuno schema morale prefissato. Per questo questi secondi possono apparire ai primi come dei devianti o degli immorali. Per tenere insieme in modo produttivo le due componenti ci vorrebbe, appunto, una cultura politica capace di discutere, capace di apprendere, di confrontarsi con la realtà, capace di innovare, di adeguarsi ai tempi, di costruire il consenso senza rompere ed escludere nessuno. Ma, come si è visto, nel PD ci sono solo correnti, una cultura politica comune non c’è, non c’è neppure la coscienza che sia necessaria, non c’è nessuno che faccia qualcosa per costruirla e che ci spenda un centesimo.
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Proprio qui emerge il limite fondamentale di Renzi (e dei renziani), che non è tanto dovuto ai contenuti della sua attività di governo (è stato peraltro già detto che chi scrive ha parecchi dubbi su diversi punti del programma renziano), ma è dovuto alla sua concezione della politica e del partito. Oggi il PD è un partito di correnti, con una forte personalizzazione dei leader. È un partito che, nella sua breve esistenza, ha perso per strada centinaia di migliaia di militanti, ha chiuso le sezioni, che ha abbandonato qualunque tipo di radicamento nella società civile. È un partito che ha cessato di essere uno spazio del discorso politico, del dibattito, della formazione, della costruzione delle linee politiche. In altri termini è un partito senza una cultura politica omogenea, diffusa presso dirigenti, militanti ed elettori. In una situazione simile, i vecchi militanti non possono fare altro che aggrapparsi ai residui dei simboli e delle parole d’ordine, mentre i più giovani non possono che tentare qualunque forma di sperimentazione, anche le più avventate e improbabili. Qui stanno le basi del moral divide che sta facendo collassare il PD e la sinistra tutta in questi giorni.
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Renzi che è segretario del PD avrebbe dovuto essere consapevole di questa situazione e del pericolo gravissimo che essa comporta. Avrebbe per prima cosa dovuto procedere a un rinnovamento della cultura politica e dell’organizzazione interna del partito. L’unico che, recentemente, ha manifestato un’esplicita consapevolezza in questa direzione è stato Fabrizio Barca, guarda caso di provenienza non PD, il quale ha articolato una serie di proposte di riforma e di costruzione di un modello nuovo di partito e di cultura politica. Forse alcune delle specifiche proposte di Barca sono discutibili, ma l’esigenza che egli sottolineava era di importanza vitale e  avrebbe dovuto essere accolta in pieno e praticata urgentemente e con convinzione. Invece questa proposta di riforma è stata combattuta sia dagli innovatori anomici che dai ritualisti, e così non se n’è fatto un bel niente.[3]
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Il risultato ora è che Renzi si trova a governare il Paese essendo a capo della corrente maggioritaria del PD, senza tuttavia avere nulla alle spalle, se non un pugno di transfughi che sono saltati sul carro del vincitore, gli hanno giurato fedeltà in cambio della distribuzione di una serie di posizioni di potere. Un gruppo di transfughi, peraltro neanche tanto coeso, che potrebbe proprio girargli le spalle da un momento all’altro: ci sono sempre quelli specializzati in queste manovre acrobatiche. La corrente minoritaria sa bene questa cosa e ha deciso di giocare la carta dell’indignazione morale, della guerra dei simboli e delle parole d’ordine, contro il segretario e contro il capo del governo, per rimettere in discussione i rapporti di forza interni, senza aspettare il prossimo Congresso. Inaspettatamente, ha trovato un seguito di massa.  Non passa minimamente neanche per la testa di costoro che, dopo aver perso il Congresso, sarebbe stato per lo meno necessario dare una chance a chi lo ha vinto, nell’interesse stesso del Partito e del Paese. E che, comunque, sarebbe in ogni caso necessario in primo luogo mettere mano a una ristrutturazione organizzativa del partito e alla costruzione di una nuova cultura politica. Tutto ciò servirebbe per riuscire a fare finalmente dei congressi autentici, per rimettere le scelte fondamentali sempre più nelle mani dei militanti e degli elettori, per riuscire a promuovere così nel Paese un effettivo dibattito di livello politico e non uno scontro moralistico. Decisamente, è più facile scendere in Piazza contro il governo.
 
 2/12/2014
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
NOTE
 
[1] I dati economici sono sempre estremamente gravi. La situazione economica, sociale e culturale del Paese è tale per cui molto probabilmente, per un bel po’, non ci sarà proprio alcuna ripresa. Questa remora specifica dell’arretratezza italiana è spesso trascurata nelle analisi, ingenerando ingiustificate illusioni.
 
[2] Si tratta di un parlamento di nominati, che rappresenta una parte minima del Paese perché, già alle ultime elezioni politiche, l’astensione era stata altissima. Si tratta di un parlamento in cui una delle forze più rilevanti ha deciso di auto escludersi dal gioco politico delle alleanze, costringendo a un’alleanza innaturale il PD e il partito di Alfano. Se il PD avesse avuto il coraggio, si doveva allora andare subito a nuove elezioni, il famoso doppio turno oggi tanto invocato.
 
[3] Nel mio piccolo, e ciò vale come riscontro empirico di quanto sostenuto in questo post, nell’ambito della discussione intorno al ruolo dell’Associazione Città Futura di Alessandria, nel mese di marzo della scorsa primavera, ho prodotto un documento politico culturale (“Uno spazio di discorso per una sinistra che non c’è” disponibile ora nell’archivio di Città Futura). Esso individuava proprio l’esigenza – nel nuovo quadro politico determinato dalla fine del berlusconismo e dall’affermazione del governo Renzi - di costituire e mantenere vivo uno spazio di discorso libero e aperto, per realizzare un minimo di dibattito autentico sul territorio locale. Cosa che altrove, nei sindacati e nei partiti, avrebbe continuato a non essere possibile. La finalizzazione era proprio quella di dare un contributo alla costruzione di una nuova cultura politica per una sinistra che sapesse andare oltre i rituali simbolici e oltre il praticismo errabondo. Quel documento, ovviamente, è stato guardato con sufficienza sia dai ritualisti che dagli innovatori anomici e non se ne è fatto proprio nulla. In compenso si sono anche deteriorati i rapporti personali, grazie a una sorta di legge dell’horror vacui: quando non c’è cultura politica autentica, il suo posto vien preso da tutta la spazzatura delle idiosincrasie e dei limiti individuali.