sabato 25 aprile 2015

La cultura civica dal fascismo alla Repubblica

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Il recente (*) dibattito intorno all’identità nazionale[1] ha messo l’accento – tra l’altro – sulla carenza di senso civico degli italiani: si tratta di un dato pressoché unanimemente riconosciuto, sebbene controverso in termini di interpretazione. Mi è sembrato utile allora tentare di esaminare – seppur sommariamente – le vicende della cultura civica degli italiani in un momento storico cruciale, cioè nel passaggio dal fascismo alla Repubblica. Il mio lavoro si è limitato per ora a una prima esplorazione, alla messa a punto di alcuni concetti e alla formulazione di ipotesi che verranno successivamente tradotte in una ricerca più approfondita.[2]
 
1. La cultura politica e la cultura civica
Fornirò anzitutto alcune definizioni. La cultura politica rappresenta – seguendo la scuola politologica di Almond – l’anello di congiunzione tra l’individuo e il sistema politico. Secondo una definizione di S. Verba, la cultura politica sarebbe “un sistema di credenze empiriche, simboli espressivi e valori che definiscono la situazione in cui l’azione politica prende posto”. La definizione si riferisce al fatto che, in ciascuna società, gli individui sono portatori di orientamenti caratteristici entro cui si definisce e si mantiene il sistema politico; d’altro canto il sistema politico tenderà a conformare gli individui secondo le proprie peculiarità. In generale il concetto di cultura politica non è legato a un particolare regime politico, a particolari valori o a particolari comportamenti: possiamo attribuire una cultura politica alle popolazioni primitive, al mondo islamico o al mondo occidentale.
Per “cultura civica” si intende invece un tipo specifico di cultura politica, strettamente connesso al funzionamento dei sistemi democratici. Si tratta di una cultura “né tradizionale né moderna, ma appartenente sia alla tradizione che alla modernità; una cultura pluralistica basata sulla comunicazione e sulla persuasione, una cultura del consenso e della diversità, una cultura che ha permesso i cambiamenti, ma li ha moderati”.[3] Uno degli elementi più caratteristici della cultura civica è la condivisione delle regole del conflitto politico; ciò implica non solo che il cittadino agisca seguendo le regole della competizione politica, ma che sia anche in grado di considerare quelle stesse regole come un bene comune di ordine superiore. Una diffusa cultura civica fa sì che il mondo della politica si costituisca come un’arena di discorso, pubblico e razionale, le cui regole siano note, condivise applicate e difese dalla grande maggioranza dei cittadini. In termini di educazione, ciò significa che il cittadino dovrebbe sì possedere la capacità di applicare il discorso razionale all’ambito politico, ma anche la capacità di sviluppare un meta discorso intorno alle stesse regole dell’agire politico. Si tratta di abilità cognitive di ordine elevato e decisamente non sempre molto diffuse che si sono formate insieme alla prospettiva individualistica.
 
2. La prospettiva individualistica
La prospettiva individualistica è un prodotto storico, il risultato di un processo assai lento e travagliato, sviluppatosi solo in talune aree della società europea. I risultati di questo processo – che ha lontane radici nella filosofia cristiana e nel Rinascimento – si sono concretizzati alla fine del Settecento e hanno trovato espressione intellettuale soprattutto nella filosofia scozzese e in quella kantiana. La prospettiva individualistica comprende – come viene suggerito in Lukes 1973 – almeno cinque dimensioni fondamentali: a) il valore intrinseco dell’essere umano individuale, b) l’autonomia, c) la privacy, d) la facoltà di svilupparsi da sé (self – development), e) la nozione di individuo astratto. Sono dimensioni strettamente interrelate, che si richiamano a vicenda e che, insieme, contribuiscono a definire il moderno concetto di individuo e – in campo politico – di cittadino.
La prima dimensione, il valore intrinseco dell’essere umano individuale, sancisce la centralità dell’individuo e, soprattutto, implica che tutte le altre più tradizionali categorie aggregative (la nazione, la stirpe, la classe, la religione di appartenenza, e così via) vengano ad assumere un’importanza morale secondaria.
La seconda dimensione è costituita dall’autonomia (o auto – direzione) in base alla quale le scelte dipendono dall’individuo stesso e non da qualche agenzia o causa al di fuori del suo controllo. Ha osservato Lukes in proposito: “In particolare, un individuo è autonomo (a livello sociale) nella misura in cui sottopone le pressioni e le norme con cui ha a che fare a una valutazione consapevole e critica, e formula intenzioni e prende decisioni pratiche come risultato di una riflessione indipendente e razionale”.[4]
La terza idea è la nozione della privacy,[5] ovvero la nozione di uno spazio privato di esistenza, un’area inviolabile entro cui l’individuo dovrebbe essere messo in grado di fare e di pensare qualsiasi cosa egli scelga, per perseguire il suo stesso bene nella maniera che gli è propria. Anche questa nozione si è affermata storicamente come ha dimostrato H. Arendt.[6]
La quarta dimensione (l’autosviluppo) – di origine tipicamente rinascimentale e romantica – mette l’accento sul carattere unico e irripetibile dell’individuo che viene considerato come il risultato di un processo di autocostruzione che dà luogo, come risultato, a un’opera unica. Ciascun individuo ha diritto a intraprendere il proprio processo di autorealizzazione e il risultato di questo processo è considerato comunque degno di rispetto.
La quinta dimensione infine è costituita dall’individuo astratto. L’individuo è considerato sotto un profilo molto generale, facendo astrazione da una serie di caratteristiche specifiche e contingenti. Afferma Lukes: “Secondo questa concezione, gli individui sono rappresentati in maniera astratta come dati, forniti di dati interessi, desideri, propositi, bisogni, ecc.; mentre la società e lo stato sono rappresentati come insiemi di effettivi o possibili aggiustamenti sociali che rispondono più o meno adeguatamente alle richieste degli individui. Le regole sociali e politiche e le istituzioni sono, secondo questo modo di vedere, viste collettivamente come un artificio, uno strumento modificabile, un mezzo per soddisfare indipendentemente dati obiettivi degli individui; i mezzi e il fine sono distinti”.[7]
 
3. Società civile e nazione
Il terreno di coltura della prospettiva individualistica è stata la società civile. N. Bobbio ne ha proposto una definizione: “Nella contrapposizione società civile – stato, per “società civile” s’intende la sfera dei rapporti tra individui, tra gruppi, tra classi sociali, che si svolgono al di fuori dei rapporti di potere che caratterizzano le istituzioni statali. In altre parole, la società civile viene rappresentata come il terreno dei conflitti economici, ideologici, sociale, religiosi, che lo Stato ha il compito di risolvere o mediandoli o sopprimendoli; come la base da cui partono le domande cui il sistema politico è chiamato a dare una risposta, come il campo delle varie forme di mobilitazione, di associazione, di organizzazione delle forze sociali che muovono verso la conquista del potere politico”.[8]
La definizione di Bobbio è tuttavia descrittiva. Storicamente il termine “società civile” aveva mantenuto a lungo più o meno il significato di società organizzata, o “politica”, nel senso aristotelico del termine. Com’è noto – tra il Settecento e l’Ottocento – il termine ha fatto poi registrare una torsione di significato, ha preso cioè a indicare il complesso dei rapporti societari al di là dello Stato; in altri termini lo Stato veniva circoscritto, definito, isolato, reso minimo. Lo spazio lasciato libero dallo Stato era così occupato dall’individuo singolo, definibile certo in termini di specifici interessi economici (ad esempio secondo A. Smith), ma concepibile ora anche come soggetto morale autonomo (ad esempio secondo I. Kant).[9] Lo slittamento di significato è stato reso possibile proprio da una mutazione sociale: dall’affermazione sulla scena sociale dell’individuo autonomo, maturo, proprietario, capace di entrare in relazione con gli altri per contrattare e definire l’interesse comune.
I concetti di prospettiva individualistica e società civile vanno accuratamente distinti da quelli di nazione e identità nazionale. Storicamente – in moltissime situazioni – lo Stato ha prodotto la nazione e non viceversa. Se lo Stato si è rivelato spesso in grado di produrre la nazione, non è esatto che sia stato altrettanto spesso in grado di produrre la società civile e la prospettiva individualistica. La nazione può essere costruita dall’alto (come nel caso ad esempio della Francia nel XV secolo) o dal basso (come nel caso della Francia rivoluzionaria), ma l’avvenuta costituzione della nazione di per sé non implica una corrispondente formazione della società civile. In altri termini ci possono essere delle “nazioni” dove la società civile è assai debole o inesistente. Si tratta dunque di situazioni in cui la cultura politica dominante avrà caratteristiche ben diverse dalla cultura civica.
 
4. L’opinione pubblica e la società civile
Un ultimo concetto intorno a cui soffermeremo l’attenzione è quello di opinione pubblica. Anche in questo caso, se si affronta la definizione dal punto di vista storico, si vedrà come la nascita dell’opinione pubblica sia stata strettamente legata all’affermazione dell’individuo e della società civile. L’opinione pubblica autentica non è quella manipolata o organizzata da varie agenzie, ovvero l’opinione della massa, ma quella consapevole e responsabile, che sa dividersi e comporsi per giungere a individuare un orientamento. Ha osservato su questo punto G. Sartori: “La distinzione classica è tra opinione pubblica e opinione popolare. La prima è una opinione dei pubblici su cose pubbliche (non su tutto) alla quale non si chiede razionalità (sarebbe eccessivo) ma autonomia. La seconda è semplicemente una opinione diffusa, di successo (e su qualsiasi materia), che non è sottoposta a nessuna condizione, salvo quella di far numero. Dunque, guai a confondere le due cose [...] il cittadino esprime, e si esprime, in una opinione pubblica, mentre il sub – cittadino che nemmeno si interessa della sua città si esprime in una opinione di massa”.[10]
La cultura civica che mantiene e sviluppa le istituzioni democratiche si esprime soprattutto in termini di dialogo. È attraverso il dialogo che si forma la coscienza della cittadinanza. L’attitudine al dialogo implica distacco critico e capacità di astrazione che non si trovano immediatamente diffuse nella massa. Ha osservato Norberto Bobbio: “L'individuo dunque come fondamento etico della democrazia. Ma quale individuo? La risposta che si ricava da tutta la tradizione del pensiero democratico è una sola: l'individuo razionale, razionale nel senso di essere in grado di valutare le conseguenze non soltanto immediate ma anche future delle proprie azioni, e quindi di valutare i propri interessi in relazione a gli interessi degli altri, e con questi compatibili, in un equilibrio instabile ma sempre possibile di essere ristabilito attraverso la logica, caratteristica di un regime democratico, del compromesso”.[11] La democrazia dà per scontato che il mondo della politica sia un mondo conflittuale, un mondo di interessi contrapposti. Tuttavia nel costume democratico è implicito un meta discorso che va al di là del conflitto e che vede coloro che sono in conflitto fortemente uniti nella difesa comune delle stesse regole del discorso, che sono poi le regole della convivenza democratica. La capacità di trovarsi in conflitto con gli avversari ma, nello stesso tempo, di condividere con gli avversari le regole del conflitto democratico a livello di meta discorso richiede un forte senso della propria autonomia, ma anche distacco emotivo e razionalità. Le abilità meta comportamentali sono abilità complesse che si possono apprendere solo in contesti dove vengano praticati frequentemente (dove vengano addirittura date per scontate o dove vengono insegnate esplicitamente). La cultura civica democratica è caratterizzata dunque non tanto da specifici valori, quanto dall’adesione a un metodo. Ne deriva ulteriormente che una cultura civica democratica non può essere imposta dall’alto, né tantomeno sviluppata in tempi storici rapidi.
Dunque, individualismo, società civile e presenza di un’opinione pubblica sono elementi strettamente correlati alla diffusione della cultura civica (la cultura civica può essere considerata come il loro deposito a livello individuale), mentre ciò non vale necessariamente per la nazione e l’identità nazionale.
 
5. I processi di formazione della cultura politica
Sfortunatamente, mentre le unità statuali possono formarsi e disfarsi piuttosto rapidamente, le culture politiche sono invece alquanto difficili da formare e, una volta formate, risultano assai persistenti oltre ogni necessità, quasi avessero vita propria. Nel Novecento gli stati – nazione si sono sviluppati rispetto al secolo precedente – spesso attraverso processi assai rapidi e tumultuosi – e consolidati (questo processo continua ancora oggi). In ogni caso, procedendo alla formazione di sistemi politici sempre più complessi, essi hanno avuto anche a che fare con l’esigenza della formazione di una cultura politica funzionale e omogenea presso tutta la popolazione. Le culture politiche in generale sono originate da processi di socializzazione che possono utilizzare metodi anche assai diversi e che possono avere gradi assai diversi di spontaneità. Le varie opzioni storiche per darsi una cultura politica omogenea cui si sono trovati di fronte gli stati nazione possono essere rappresentate attraverso una semplice tipologia. Incrociando tra loro l’origine della socializzazione (istituzionale o spontanea) con il metodo di socializzazione prevalentemente usato (razionale o simbolico) otterremo quattro tipi utili per comprendere la collocazione della cultura civica nei confronti di altri processi di integrazione politica o di formazione delle culture politiche. La tipologia viene presentata nella tabella che segue.
 
 
 
Origine
istituzionale
 
Origine
spontanea
Prevalenza della socializzazione razionale
 
Democratizzazione
Cultura civica
democratica
Prevalenza della socializzazione simbolica
Nazionalizzazione
delle masse
Movimenti
o culture
 
La cultura civica storicamente ha necessitato di un lento sviluppo spontaneo in un contesto caratterizzato dalla presenza dell’individualismo moderno, della società civile e dell’opinione pubblica, un contesto di individui capaci di un orientamento mentale di tipo razionale. Tuttavia queste condizioni si sono presentate piuttosto raramente, forse presso le élites nella Grecia antica, ma più tipicamente, nell’età moderna, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Così concepita, la cultura civica risulta più un dono dei processi storici che il risultato di interventi finalizzati umani. Nel caso concreto dell’Italia, R. D. Putnam ha fornito una verifica empirica del legame tra i processi storici e lo sviluppo della cultura civica: le regioni italiane dove il civismo è oggi più sviluppato sono le regioni che hanno visto lo sviluppo spontaneo dell’individualismo e della società civile, fin dal medioevo.[12]
Pur risultando la cultura civica di lenta e difficile costruzione, tuttavia essa rappresenta l’humus culturale della democrazia: molti paesi che hanno adottato in tempi rapidi questo sistema politico si sono così trovati in una situazione di carenza di cultura civica. Poiché si tratta di una cultura politica a sfondo razionale è stato possibile tentare di diffonderla con interventi espliciti da parte delle istituzioni e, in particolare, da parte dello Stato. In questi casi si può parlare di un vero e proprio processo di democratizzazione, ovvero di produzione intenzionale di quel complesso coerente di individualismo, società civile e opinione pubblica attraverso l’uso pedagogico delle istituzioni e, in particolare, della scuola (i casi più tipici sono quelli della Rivoluzione giacobina o di altre rivoluzioni nazionali che hanno provveduto alla formazione del cittadino repubblicano).
Di fronte all’immaturità civile di gran parte della popolazione, gli stati – nazione hanno tuttavia spesso rinunciato al progetto moderno di formazione dell’individuo e della società civile e hanno imboccato la strada di un processo di formazione dall’alto più rapido (anche se meno approfondito): quello della socializzazione simbolica, cioè un processo di socializzazione politica in grado di ottenere sbrigativamente la coesione sociale intorno a simboli unificatori, grazie alla mobilitazione continua. La cultura politica che ne risulta è quella della nazionalizzazione delle masse,[13] praticata dai regimi autoritari o totalitari del Novecento.
Resta un ultimo caso da prendere in considerazione. Quando si abbia immaturità civile ma si abbia anche una cronica debolezza delle istituzioni dello stato – nazione, possono svilupparsi spontaneamente movimenti o culture che possono essere ben radicati nella società ma che si mantengono sempre al di sotto della socializzazione politica razionale. Sono i fenomeni para politici o prepolitici, in genere conflittuali o disgreganti. Manca in questa situazione la capacità di governare razionalmente i conflitti che si riproducono e amplificano continuamente, destabilizzando il sistema politico.
Indubbiamente le tipologie vanno prese per quel che valgono, possono solo rivelarsi utili o no per sviluppare l’analisi. La tipologia che abbiamo esposto sommariamente ha il pregio di contrapporre con chiarezza la cultura civica alla cultura della nazionalizzazione delle masse, ha il pregio inoltre di individuare l’opzione della democratizzazione come matura forma pedagogica da parte delle istituzioni in caso di ritardi storici, oppure di individuare l’opzione residua della permanenza nell’immaturità politica e nell’instabilità sociale dovuto alla debolezza delle istituzioni e alla mancata affermazione di una cultura politica omogenea e moderna.
Alla caduta del fascismo, evidenziatisi i limiti della nazionalizzazione delle masse, l’Italia non poteva ritrovarsi immediatamente e spontaneamente con una cultura civica matura. La cultura civica avrebbe però potuto essere guadagnata attraverso un processo di democratizzazione, ovvero attraverso un’azione pedagogica consapevole da parte delle nuove istituzioni repubblicane. L’opinione di chi scrive è che la cultura politica dell’Italia postfascista si sia invece frantumata in una serie di culture irriducibili (due culture principali) e che il paese sia così rimasto in una situazione di instabilità e di scarsa evoluzione in termini di cultura democratica; forse solo la presenza delle pressioni internazionali legate alla Guerra fredda potrebbe aver impedito all’Italia di raggiungere le punte di instabilità balcaniche o sudamericane.
 
6. Il fascismo e la socializzazione simbolica
Il fascismo ha dato vita a una cultura politica diametralmente opposta alla cultura civica poc’anzi descritta. La cultura politica del fascismo – ben lungi dallo svilupparsi spontaneamente – è stata prodotta e diffusa nell’ambito di quel processo che lo storico G. Mosse ha definito di nazionalizzazione delle masse. Il fascismo ha inteso cioè creare una cultura politica originale, di massa, attraverso un intervento formativo dall’alto, di natura istituzionale e statale. Dal punto di vista dell’educazione, tuttavia il fascismo, anziché puntare sullo sviluppo delle capacità razionali, discorsive e meta discorsive, ha puntato fondamentalmente sullo strumento della socializzazione simbolica.[14]
Vediamo meglio quali sono le conseguenze, sulla cultura politica, di questo tipo di socializzazione. Una socializzazione simbolica tenderà a sintetizzare, intorno a pochi simboli (costituiti di solito da elementi piuttosto concreti), significati assai complessi, ma dai contorni piuttosto imprecisi, di forte valore espressivo ed emotivo. Il simbolo è semplice, immediato e comprensibile da tutti; crea immediatamente un senso di condivisione, non richiede alcuna ulteriore indagine o problematizzazione, non ammette diversità di punti di vista, non richiede dibattito, dialogo o dimostrazione razionale. Inoltre il simbolo rende difficile qualsiasi forma di analisi razionale, di riflessione critica o di relativismo. Il fascismo, di fronte al compito di integrare politicamente in modo rapido ed efficace un’ampia massa d’individui ha scelto dunque di mettere da parte la dimensione discorsiva, razionale della politica e ha teso a una socializzazione a forte base integrativa ed emotiva, una socializzazione che metteva in primo piano – al posto dell’arena di discorso pubblico e razionale di cui abbiamo detto – l’obiettivo dell’unità organica della nazione.
L'educazione fascista ha rappresentato dunque un tipico esempio di nazionalizzazione delle masse attraverso la scorciatoia della socializzazione simbolica. Si contano ormai innumerevoli studi intorno al simbolismo fascista e al suo uso formativo e altrettanto rilevanti sono gli studi che hanno connesso l'uso del simbolismo all’impiego di massa delle (allora) nuove tecnologie della comunicazione. A proposito della scuola fascista ha osservato G. Genovesi: “Il fascismo, specie allorché diviene regime, vuole una propria scuola che formi il fascista perfetto, una scuola che possa agire nell'immediato sui comportamenti. Pertanto, si sforza di riempire la scuola di cerimonie e riti fascisti [...]. Tutto è mirato a suscitare emozioni, contagio emotivo, passioni”.[15] Anche Zunino ha affermato in proposito: “Il simbolismo ideologico fonda gran parte della sua forza non su di un nucleo di verità, ma, tosto, sulla sua capacità di semplificare la realtà. Mentre la verità è complessità e la complessità conduce alla frammentazione e alla tensione paralizzante, dai simboli ideologici, invece, discende una chiarezza, una linearità di una presunzione di certezza che predispongono all'azione e alla mobilitazione”.[16]
Grazie alla socializzazione simbolica il fascismo riuscì così a dare agli italiani un senso di appartenenza e una visione del mondo, forse una qualche identità nazionale, ma non una cultura civica.
 
7. Le caratteristiche di fondo dell’ideologia fascista e il modello identitario fascista
Il fascismo elaborò una vera e propria visione del mondo, un’ideologia in senso contenutistico, che venne inculcata proprio grazie ai metodi della socializzazione simbolica. Cercheremo ora di identificare quel nucleo fondamentale di contenuti ideologici che possiamo considerare come caratteristici e distintivi del fascismo e, quindi, dell’educazione che gli italiani hanno ricevuto sotto il fascismo. Si tratta di quei contenuti con cui ci si troverà a che fare al momento di intraprendere la de – fascistizzazione e la promozione di una cultura civica democratica.
In sintesi, seguendo l’ottimo P.G. Zunino (1985), il motivo dominante dell’ideologia fascista sembra essere costituito proprio dal rifiuto della nozione moderna di individuo e dall’inglobamento della società civile (che nell’Italia prefascista era pochissimo sviluppata) nello Stato. Volendo sintetizzare ulteriormente, si potrebbe sostenere che il fascismo si è fatto promotore di una visione organicistica della società. Vediamone alcune articolazioni.
Il fascismo ha elaborato esplicitamente una dottrina della prevalenza dello Stato sull’individuo. L’individuo è transeunte, è nulla; occorreva scegliere tra il “principio di organizzazione, rappresentato dallo Stato, e il principio della disgregazione rappresentato dagli individui e dai gruppi”.[17] Lo Stato veniva concepito in termini etici e avrebbe dovuto rappresentare l’unità spirituale degli italiani. La nazione “spirituale” fascista a sua volta non era concepita come una nazione di individui, nata da un patto implicito o esplicito, ma come un’unica comunità organica sovra individuale. Ciò implicava che fosse ritenuta impossibile la separazione tra la sfera pubblica e quella privata; anche lo stesso progetto fascista di rifondare il carattere degli italiani implicava l’invasione della dimensione privata.
Su questi presupposti generali si basava la politicizzazione totale della vita sociale e l’inquadramento dell’individuo nelle svariate organizzazioni o istituzioni che lo seguivano fin dalla nascita. Tutto il campo della società civile venne “politicizzato” nel senso che divenne ambito d’interesse o d’intervento dello Stato. Di qui la subordinazione degli individui all’interesse nazionale, la militanza, il cameratismo e la gerarchia (che giustificava la disuguaglianza nei rapporti economici, politici, e anche nel privato, con la subordinazione della donna). Qualunque tipo di dibattito, conflitto o spaccatura era visto come un attentato alla sacra unità.
In campo più propriamente politico, il fascismo ha rifiutato sistematicamente la “formalità” del diritto e della legge in nome della “libertà sostanziale”: mentre la libertà liberale veniva considerata come astratta, formale e teorica, nel fascismo si sarebbe invece realizzata la libertà sostanziale, fatta di concretezza ed efficacia. Come conseguenza diretta di quest’orientamento si ebbe l’avversione sistematica al “parlamentarismo” e al parlamento, concepito come organismo inefficiente e/o anarchico; il fascismo sarebbe stato in grado con la sua rivoluzione di realizzare in pratica quanto le “libertà borghesi” avevano promesso e non mantenuto in teoria.
Anche l’etica economica è un altro aspetto estremamente caratteristico e del tutto coerente con gli aspetti precedenti. Il corporativismo fascista nelle intenzioni dei teorici si ergeva contro il particolarismo, il disordine della libera iniziativa individuale; ne derivò il conseguente tentativo (peraltro confuso e non del tutto efficace) di piegare l’economia e il mercato alle esigenze della politica (cioè dello Stato). Altri aspetti dell’ideologia fascista che paiono più marginali in questo quadro assumono un preciso significato. Ad esempio l’avversione nei confronti della città. L’individualismo dell’età moderna si è sviluppato nel contesto cittadino: il bourgeois è l’abitante del borgo cittadino, colui che non è soggetto – grazie alle immunità – ai rapporti di fedeltà feudali. Il fascismo, consapevolmente o meno, si è sempre opposto al mondo cittadino, ha sempre manifestato una grande diffidenza verso l’urbanesimo e l’industrialismo e ha sempre ricercato un modello di sviluppo economico e sociale alternativo.
Inevitabilmente il rifiuto dell’individualismo moderno e l’inclusione sistematica del singolo all’interno dell’organismo sociale non potevano che culminare con il razzismo, ovvero con la definizione di confini sociali di esclusione nel confronto di coloro che presentavano determinate caratteristiche genetiche o spirituali. L’accettazione del razzismo manifesta nella maniera più chiara il rifiuto della nozione di individuo astratto come soggetto depositario dei diritti di cittadinanza, tipico della tradizione liberaldemocratica.
Alla sottolineatura ossessiva dell’unità organica facevano poi da contrappunto la visione hobbesiana delle relazioni internazionali e la prospettiva continuamente evocata della guerra. Il conflitto degli interessi veniva sistematicamente soppresso all’interno tra gli individui, ma sistematicamente proiettato a livello internazionale, tra gli Stati. Di qui l’agonismo in politica estera, ma anche l’ossessivo senso di persecuzione da parte delle altre nazioni. È assai interessante l’analisi specifica condotta da Zunino a proposito degli atteggiamenti dell’ideologia fascista nei confronti degli USA e dell’URSS negli anni Trenta. In sostanza il fascismo finirà per percepire dal punto di vista culturale come paese maggiormente estraneo gli Stati Uniti piuttosto che l’Unione Sovietica: questo fatto mette in evidenza come il vero nemico del fascismo fosse effettivamente la modernità.
Afferma in generale lo Zunino a proposito del progetto ideologico fascista: “Le idee guida del fascismo, unificate e armonizzate in una ideologia meno casuale e inconsistente di quanto a lungo si è creduto, ebbero la triplice fondamentale funzione di legittimare il blocco dominante, di fornire un senso di identità nazionale e di coesione sociale a larghi strati della popolazione e, da ultimo, di fare della comunità nazionale la portatrice di valori e di emozioni positive. Le strutture mentali che si vennero formando ebbero carattere totale, mirando ad abbracciare un orizzonte tendenzialmente privo di soluzioni di continuità. Il passato, il presente, il futuro personali e collettivi; le grandi prospettive, come i modi di pensare e i comportamenti quotidiani si amalgamarono in una costruzione percorsa da una forte tensione mobilitante”.[18]
Se quanto abbiamo finora illustrato è vero, allora dobbiamo convenire che il fascismo abbia elaborato una sua cultura politica e abbia dato un’identità nazionale agli italiani. Ma non tutti i tipi di identità nazionale si assomigliano: occorre anche ammettere che il tipo di identità nazionale che viene di volta in volta realizzato porti con sé profonde tracce dello strumento con cui questo è stato costruito! Il fascismo ha dunque dato agli italiani (probabilmente per la prima volta estesa a livello di massa) un’identità nazionale, ma sotto il segno antimoderno dell’anti individualismo e dell’organicismo, attraverso il sacrificio della società civile a tutto vantaggio dello Stato, utilizzando strumenti simbolici e retorici che imponevano la rinuncia alla logica e al discorso razionale in nome della soppressione dei conflitti e del raggiungimento dell’unità etica. È del massimo interesse per la nostra analisi il fatto che questo progetto identitario si sia dimostrato del tutto compatibile con la cultura antimoderna della chiesa cattolica che, più di ogni altra cosa, nella prima metà del Novecento paventava ancora la libertà individuale. Un simile modello d’identità nazionale – assolutamente opposto alla cultura civica e recante nel profondo le tracce della sua origine – era trasferibile ipso facto all’Italia repubblicana?
 
8. Dal fascismo alla Repubblica
A questo punto possiamo considerare a grandi linee cosa sia avvenuto alla cultura politica degli italiani con la caduta del fascismo e il successivo avvento delle istituzioni repubblicane. In una situazione ottimale la Repubblica avrebbe potuto sopperire, attraverso un intervento attivo, al deficit di cultura civica degli italiani; avrebbe in altri termini potuto porsi l’obiettivo di realizzare una democratizzazione della cultura politica proprio attraverso una pedagogia svolta in prima persona dalle stesse istituzioni repubblicane. Ma una serie di condizioni storiche, interne e internazionali, hanno impedito questo sviluppo. La ricerca recente ha messo in luce vari elementi – ormai noti – che insieme possono dar conto di questa ulteriore grave battuta di arresto:
a) il ritorno della democrazia è stato identificato più con il ritorno dei partiti e con la conflittualità tra i partiti che con la presenza delle nuove istituzioni repubblicane: i partiti si riorganizzarono fin dal 1943, ben cinque anni prima della definizione istituzionale;
b) la ri – socializzazione politica degli italiani – in assenza delle istituzioni repubblicane – è avvenuta all’interno del recupero e dello sviluppo delle due culture di massa tradizionali (quella cattolica e quella comunista), dotate di una forte identità di parte, organizzate e fortemente conflittuali;
c) la spaccatura tra le due culture politiche e tra i partiti corrispondenti è stata ulteriormente accentuata dalla situazione internazionale e dalla Guerra fredda.
In questo quadro, le istituzioni repubblicane non furono in grado di operare attivamente per lo sviluppo della cultura civica degli italiani. Ciò è testimoniato – in particolare – da una serie di fatti specifici (il proseguimento futuro del mio lavoro verterà proprio intorno a questi fatti): a) dal fatto che il modello politico della nazionalizzazione delle masse venne recuperato e usato su vasta scala dai due principali partiti di massa; b) dall’estremo disinteresse con cui gli italiani seguirono il lungo ed estenuante dibattito alla Costituente; c) dal fatto che il dibattito sulla scuola alla Costituente sia stato interamente monopolizzato dalla contrapposizione tra cattolici e laici e non abbia affrontato il problema dell’educazione civica e, infine, d) dal fatto che l’introduzione dell’educazione civica nella scuola sia stata tardiva e – a giudizio di molti – piuttosto inefficace.[19] Affronterò tre di questi temi, a titolo esemplificativo.
 
9. Il disinteresse degli italiani per la Costituente.
In contrasto con l’intensa partecipazione popolare al Referendum, il dibattito alla Costituente pare abbia coinvolto solo in minima parte la popolazione italiana. Scoppola afferma che “le ricerche sin qui effettuate concordano nel sottolineare lo scarso coinvolgimento popolare rispetto alla nascita della Repubblica e ancor più all'entrata in vigore della Costituzione”.[20] Questo disinteresse può essere spiegato da vari fattori: la scarsa attenzione da parte della stampa, la scarsa preparazione della opinione pubblica, la riservatezza con cui si svolsero i lavori delle Commissioni, l’estrema lentezza dei lavori. Ma, segnala ancora Scoppola, “una spiegazione più politica del disinteresse emerge in alcuni commenti: la preoccupazione cioè che un dibattito pubblico potesse in qualche modo inasprire contrasti e rendere più difficile la necessarie intesa tra i partiti […] – e aggiunge – intorno alla Assemblea costituente si accendono passioni popolari solo quando in essa si svolgono dibattiti politici, e quegli stessi uomini che collaborano alla stesura della Costituzione si confrontano e si scontrano vivacemente.” Poi aggiunge: “[…] La nuova Costituzione entra in vigore il primo gennaio 1948 quasi in sordina […] siamo alla vigilia della prova elettorale del 18 aprile 1948: è evidente che il baricentro della politica italiana è altrove…”.[21]
In sostanza, a una comprovata scarsa capacità degli italiani di coinvolgersi in un dibattito di tipo razionale intorno ai futuri assetti del nuovo Stato ha corrisposto – da parte delle forze politiche – l'incapacità, o una non volontà, di coinvolgerli in un dibattito aperto. La Costituente – al di là del famoso auspicio pedagogico votato al termine dei lavori – non seppe dunque intrattenere con gli italiani né un rapporto educativo, né un rapporto di comunicazione adeguato alle esigenze.
 
10. Il dibattito alla Costituente intorno alla questione alla scuola.
Anche il dibattito alla Costituente intorno alla scuola[22] evidenzia i limiti imposti dalla situazione e l'incapacità della Costituente in di porsi problema dello sviluppo di una cultura civica democratica. La formazione di una nuova cultura politica democratica fu inteso fondamentalmente in negativo, come rifiuto del fascismo, come defascistizzazione. Le poche proposizioni in positivo si mantennero sul piano del richiamo ai valori (spesso ai valori della tradizione cattolica o ai valori ottocenteschi della tradizione liberale e democratica). Il dibattito intorno alla scuola (e più ampiamente intorno ai processi formativi) fu monopolizzato completamente da una sola questione: lo scontro intorno alla scuola di Stato tra lo schieramento laico (piuttosto diviso) e lo schieramento cattolico (estremamente compatto). Si discusse animatamente della questione della libertà educativa della famiglia, della scuola pubblica e della scuola privata, dei finanziamenti statali alla scuola privata e dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola dello Stato. Osserva Tina Tomasi: “Il vecchio tema dei rapporti tra scuola pubblica scuola privata assorbe talmente l'attenzione ed appassiona l'assemblea al punto da relegare in secondo piano o addirittura al margine altri problemi essenziali, come il potenziamento dell'istruzione popolare, il prolungamento dell'obbligo, la democratizzazione delle strutture e l'ammodernamento dei contenuti culturali”.[23] Mentre a tutti era parso inevitabile l'introduzione dell'insegnamento confessionale, è davvero significativo che – dopo venti anni di fascismo – a quasi nessuno sia venuto in mente di introdurre nella scuola un insegnamento di educazione civica. Siamo a conoscenza di un solo tentativo terminato con un insuccesso. Osserva Scoppola: “Un emendamento in questo senso era stato presentato da Gerardo Bruni nella seduta del 28 aprile 1947: “Le scuole di qualsiasi tipo – vi si diceva – compiono servizio pubblico e sono tenute ad impartire un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e nazionale”. Ma esso non fu accolto dal presidente della prima sotto commissione, Tupini e fu respinto il 29 aprile 1947 dall'Assemblea”.[24]
Le due relazioni, nell'ambito dei lavori della Prima sottocommissione, rivelano chiaramente che il controllo della scuola veniva considerato come la posta in gioco dello scontro politico o – come avverrà – del compromesso politico; indubbiamente ciascuno aveva in mente che la formazione politica effettiva degli italiani sarebbe stata comunque legata alle culture di parte. La scuola della Repubblica nacque quindi come istituzione debole, emanazione di un contesto politico diviso, priva di un suo proprio ruolo formativo nell'ambito della cultura civica.
 
11. La continuità nei partiti del modello della nazionalizzazione delle masse.
Ventrone ha studiato recentemente il processo di ricostruzione della politica in Italia dopo la caduta del fascismo attraverso un’analisi delle organizzazioni partitiche del PCI e della DC.[25] Da dove proveniva il modello di partito che andò affermandosi nelle cose, prima ancora che nelle intenzioni soggettive? Proveniva – secondo Ventrone (1996: 116) – da vari antecedenti: il modello del partito di integrazione democratica (ad es. il Psi o il Partito Repubblicano delle origini), il modello organizzativo della Chiesa cattolica, il modello del PCUS sovietico, il modello del partito – stato fascista. Come si vede, non si tratta di modelli di partito (o di organizzazione) che si limitino a rappresentare interessi individuali di volta in volta costituitisi nella società civile; sono modelli di vere e proprie organizzazioni che mirano a occupare il terreno vuoto della società civile.
La parentela dei nuovi partiti con il modello di nazionalizzazione delle masse del fascismo risulta piuttosto evidente: “Se si esaminano le forme organizzative e propagandistiche cui diedero vita nel secondo dopoguerra cattolici e comunisti, ci si accorge subito che la rielaborazione – a volte, l’imitazione – del modello fascista fu esplicita (anche se, per comprensibili ragioni di legittimazione, quasi sempre taciuta) nella rete di iniziative assistenziali, culturali e ricreative a cui quest’ultimo aveva dato vita innanzitutto attraverso le varie Opere […] Ed i compiti di questi organismi di massa erano quelli tradizionali di ogni partito di integrazione; questa volta, però, sviluppati con molta maggiore sistematicità e omogeneità grazie alla repressione di ogni forma di concorrenza […] grazie ai forti finanziamenti statali ed anche al sostegno di cui potevano godere da parte delle istituzioni”.[26]
Esaminiamo alcuni di questi elementi di continuità. Sul piano della cultura politica, l’ideologizzazione della politica, l’intreccio marcato tra etica e politica insieme alla carica utopistica sono senz’altro caratteristiche trapassate senza dolore dal fascismo al mondo cattolico e comunista del dopoguerra. All’interno dei partiti veniva infatti elaborata e praticata un’etica rigorosa che in linea di principio avrebbe dovuto essere imposta all’intera società. Conseguenza non ultima ne era il controllo sulla cultura e sull’espressione, realizzato ora all’interno delle organizzazioni partitiche, e la condanna delle “voci isolate”. Un altro aspetto di continuità è costituito dalla concezione della politica come mobilitazione continua (che si svilupperà poi come “partecipazione” o partecipazionismo). La mobilitazione continua era a sua volta connessa con il modello della “militanza politica” e quindi dell’appartenenza in senso forte (i partiti “pigliatutto” nasceranno assai tardi nel nostro paese). Il rifiuto dell’individualismo moderno (nel senso di Lukes) era poi evidente nell’“unitarismo” di marca corporativa (che qualche decennio dopo diventerà consociativismo); la stessa organizzazione del partito possedeva un carattere “organico” (compreso il carattere centralistico, mobilitativo – assistenzialistico che implicava l’occupazione della società civile); il partito avrebbe infatti dovuto irradiarsi in tutta la società come un “organismo capillare”. Il partito diventava così anche fonte di distribuzione e di gestione delle risorse pubbliche e canale di possibile promozione sociale per migliaia di quadri. Completa il quadro un certo “statalismo” assistenzialistico onnipervasivo (le regioni vengono tardi e male…). Sul piano strumentale erano diffusi l’uso intensivo della propaganda e – come abbiamo ribadito – della socializzazione simbolica.
Naturalmente non si vuol sostenere che nei partiti della Repubblica siano trapassati i contenuti specifici dell’ideologia fascista; sono trapassati alcuni generalissimi modi tipici di intendere la cultura politica in cui gli individui erano stati socializzati nell’era fascista che hanno reso più facili certe scelte del dopoguerra e sicuramente ne hanno rese più difficili certe altre.
Se durante il fascismo il partito era stato solo uno degli strumenti dello Stato per l’integrazione nazionale, dopo il fascismo, il processo di nazionalizzazione delle masse proseguì dunque in maniera analoga, nell’ambito circoscritto dei singoli partiti; lo Stato repubblicano in un certo senso rinunciò alla gestione in prima persona del compito. Anzi: i partiti si sostituirono allo Stato e lo espropriarono del compito di sviluppare ulteriormente (eventualmente reindirizzandola) l’integrazione delle masse. L’integrazione nel sistema democratico avvenuta tramite i due principali partiti non avvenne così sotto il segno della cultura repubblicana bensì sotto il segno della riorganizzazione di due culture onnipervasive che possedevano entrambe uno sfondo organicistico, anti individualistico e tutto sommato antimoderno.
 
12. Conclusione
In conclusione, all’onnipresente nazionalizzazione delle masse dello Stato fascista subentrò così il vuoto della socializzazione istituzionale repubblicana. Si coltivò l’illusione che la semplice negazione del fascismo e la comparsa sulla scena politica delle masse organizzate nei partiti potessero dar vita ipso facto a una cultura civica democratica. Il linguaggio della politica rimase ancorato a un marcato simbolismo (si ebbe tutt’al più una sostituzione di simboli). I partiti assumendosi l’organizzazione e la rappresentanza delle culture di massa occuparono lo spazio della politica e le istituzioni repubblicane rimasero poco visibili, incapaci di favorire la diffusione di una cultura civica democratica. La forte identità di ciascuno dei due principali schieramenti impedì lo sviluppo del meta discorso democratico e le istituzioni divennero semplicemente un campo di contesa. Alla scuola non venne attribuito alcun specifico compito di socializzazione politica e la cultura politica degli italiani continuò a svilupparsi nelle organizzazioni militanti; ciò proseguì fino a quando – con lo sviluppo della cultura consumistica – la formazione politica degli italiani venne di fatto presa in carico dalla televisione con esiti assai discutibili (Coloro che si rammaricano per la politica spettacolo dovrebbero per lo meno ricordare l’occasione perduta della cultura civica).
Solo all’inizio degli anni Novanta alcuni fenomeni nuovi, come la progressiva crisi delle due principali culture politiche, la stessa crisi dei partiti e la modificazione della situazione internazionale, hanno reso visibile la perdurante carenza di cultura civica e hanno indotto la ripresa del dibattito intorno alle modalità di costruirla, o di ricostruirla. Il dibattito è tuttora aperto. Sulla base dell’interpretazione qui presentata si possono tuttavia escludere alcune delle strade che sono state finora indicate nel dibattito: dalla nostra analisi dovrebbe emergere con chiarezza che non si tratta tanto di fornire agli italiani qualche rito di fondazione, nuove identificazione emotive, un nuovo complesso di simboli o di riti in cui possano riconoscersi (– sembra che l’intero dibattito si sia fermato qui – la religione civile, ecc.). Si tratta oggi piuttosto di prendere in mano sul serio – forse per la prima volta con piena consapevolezza – il progetto della costruzione di una cultura civica intesa come capacità di discorso e meta discorso razionale. In questo progetto la scuola potrebbe forse trovare ancora un suo ruolo.
 
Novembre 1999
25/4/2015 (rev.)
                                                                                   Giuseppe Rinaldi
 
(*) Questo saggio contiene la relazione presentata dall’Autore al Convegno “La scuola alla Costituente” organizzato dall’ISRAL (Istituto per la storia della resistenza in provincia di Alessandria) tenutosi in Alessandria nel novembre del 1999. La relazione è stata pubblicata negli Atti del Convegno. La presente versione è una revisione realizzata dallo stesso Autore in data 25/4/2015.



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NOTE
 
[1] Il dibattito cui si fa qui riferimento è quello condotto nel nostro Paese nella seconda metà degli anni novanta.
[2] Dato lo scarso interesse suscitato dall’argomento presso il pubblico, la successiva ricerca cui si fa cenno in questo passo non ha mai avuto luogo. (Nota del 25/4/2015)
[3] Cfr. G. Almond e S.Verba (1963: 3).
[4] Cfr. Lukes 1973: 52
[5] È davvero sintomatico che in italiano non esista parola specifica per questo concetto, per cui si preferisce usare l’originale inglese privacy.
[6] Cfr. H. Arendt (1958: 28).
[7] Cfr. Lukes, 1973: 73
[8] La definizione si trova in N. Bobbio, N. Matteucci, Dizionario di Politica, Utet 1976. Pag.: 956.
[9] Secondo taluni, questo processo sarebbe stato favorito dall’affermarsi della stampa (l’individuo liberaldemocratico si identificherebbe con l’uomo “gutemberghiano”, secondo la nota tesi di M. McLuhan).
[10] Cfr. Sartori, 1999: 125.
[11] N. Bobbio (1999: 378).
[12] Cfr. R.D. Putnam (1993).
[13] Cfr. G. L. Mosse (1974).
[14] Cfr. G.L. Mosse (1974).
[15] Cfr. G. Genovesi 1998: 123.
[16] Cfr. Zunino 1985: 40.
[17] Citazione di A. Rocco in Zunino (1985: 188).
[18] Cfr. Zunino 1985: 50.
[19] I “Programmi per l’insegnamento dell’Educazione Civica negli istituti e nelle scuole di istruzione secondaria ed artistica” sono del 1958.
[20] Cfr. Scoppola, 1998: 49.
[21] Cfr. Scoppola, 1998: 52–53.
[22] Cfr. Tina Tomasi (1976). Cfr. anche Franco Cambi (1980).
[23] Cfr. Tina Tomasi, 1976: 273.
[24] Cfr. Scoppola, 1998: 59.
[25] Cfr. A. Ventrone (1996) e A. Ventrone (1998).
[26] Ventrone, 1996: 120.