domenica 23 agosto 2015

La filosofia continentale nell’«Isola che non c’è»

Kierkegaard-Dostoyevsky-Nietzsche-Sartre
1. Uno dei luoghi comuni più ricorrenti nella storiografia relativa alla filosofia continentale dell’Ottocento e del Novecento concerne la presenza delle due scuole contrapposte, la scuola dell’idealismo tedesco, che ha il suo massimo rappresentante in Hegel e la scuola esistenzialista, che avrebbe il suo capostipite in Kierkegaard, seguito poi da una nutrita seppur controversa schiera di discepoli. Gran parte degli sviluppi della filosofia continentale tra Ottocento e Novecento sono stati spesso interpretati alla luce della contrapposizione radicale tra le due correnti. Gli idealisti sarebbero organicisti e sarebbero negatori dell’individualità, mentre gli esistenzialisti sarebbero individualisti e negatori dell’organicismo. La scuola esistenzialista è stata spesso vista come un moto di protesta da parte dell’individuo, coartato da forze esterne di varia natura, divine, sociali, economiche, tecnologiche, ecc… La scuola idealista, invece, come espressione delle forze sovrapersonali che mirano a comprimere le individualità.
Questa vulgata è assai diffusa e si basa soprattutto su una classica interpretazione di Kierkegaard come filosofo sostanzialmente anti hegeliano. Del resto, nella scuola esistenzialista sono poi collocati comunemente Schopenhauer, anch’esso considerato come un anti hegeliano, e poi, via di seguito, Nietzsche e Heidegger, per fermarsi solo ai più rilevanti.[1] Per questa loro collocazione, gli esistenzialisti sono stati considerati come filosofi anti sistema (contro tutti i sistemi che vogliono coartare l’individualità) e come filosofi della crisi (come autori di una protesta contro la condizione umana individuale quale essa si profilava nella società borghese del tempo). Questa interpretazione è più o meno quella che si trova sui manuali e viene comunemente data per scontata, in particolare in Italia, dove negli ultimi decenni le cosiddette filosofie della crisi hanno goduto di una certa popolarità.
 
2. Sembra, sulla base di recenti studi condotti nel mondo anglosassone, che questa impostazione debba essere alquanto rivista. Mi riferisco ai lavori di Jon Stewart,[2] un relativamente giovane studioso che oggi è uno dei massimi esperti di Kierkegaard, che ha di fatto prodotto una reinterpretazione dei rapporti tra Kierkegaard e Hegel e ha mostrato così l’insostenibilità della teoria storiografica delle due scuole. Ne consegue che l’idealismo tedesco e l’esistenzialismo avrebbero molti più punti in comune di quanto non si sia riconosciuto finora. Questa comunanza può essere spinta fino a prospettare l’ipotesi che l’esistenzialismo possa essere considerato, sul piano storiografico, né più né meno che come uno dei tanti discendenti dell’idealismo tedesco, un discendente finora non riconosciuto ma dai tratti fisiognomici neppur troppo mascherati. L’assunzione di questa ipotesi potrebbe contribuire intanto a chiarire finalmente la natura stessa dell’esistenzialismo che, come dicevamo, è sempre stata alquanto controversa, e, secondariamente, potrebbe aiutare a meglio comprendere le dinamiche interne della filosofia continentale negli ultimi due secoli, compresi gli attuali sbocchi nichilisti e postmoderni.
 
3. Così ha sintetizzato la questione Stewart, nell’introduzione al suo ultimo lavoro del 2010: «La storia della filosofia continentale è spesso concepita come rappresentata da due scuole principali: l’idealismo tedesco e la fenomenologia/ esistenzialismo. Queste sono frequentemente giustapposte in modo da fare emergere le loro presunte radicali differenze. L’idea è che ci sia stata un’interruzione improvvisa nell’Ottocento che ha prodotto un rigido rigetto dell’idealismo in tutte le sue forme. Il risultato sarebbe stato l’introduzione di un nuovo tipo di filosofia più vicina all’esperienza vissuta dell’essere umano individuale. Talvolta l’interruzione fondamentale è collocata nella transizione da Hegel, supposto come l’ultimo idealista, a Kierkegaard, supposto come il primo esistenzialista. In accordo con questa interpretazione, la storia della filosofia della prima metà dell’Ottocento è stata interpretata come un grande confronto tra l’ambizioso ma tristemente ingenuo sistema razionalistico di Hegel e il criticismo devastante nei suoi confronti della filosofia di Kierkegaard, con la sua enfasi sulla realtà e sull’esistenza. Mentre Kierkegaard sostiene la libertà umana individuale, Hegel, in contrasto, enfatizza la universale e razionale necessità. Mentre Kierkegaard insiste sull’assoluta irriducibilità dell’individuale, Hegel presenta il suo punto di vista nella forma di una grottesca, impersonale, astratta mostruosità chiamata “sistema”, che spietatamente distrugge ogni cosa si trovi sul suo sentiero, inclusa l’individualità. Questa è una graziosa storia drammatica da raccontare agli studenti dei primi anni e da ripetere nei testi introduttivi, ma alla fin fine, invece di fornire un quadro utile per l’avanzamento degli studi, produce una serie d’incomprensioni e di miti veri e propri circa il rapporto Hegel – Kierkegaard, e quindi circa lo sviluppo della filosofia in generale. […] Lo scopo della presente opera è di sfidare questa visione caricaturale di una rottura radicale tra idealismo e esistenzialismo. […] Quel che mostrano queste indagini è che l’esistenzialismo non fu la radicale rottura con il passato che spesso si pensa sia stato […]. La verità è che ci sono molti punti significativi di sovrapposizione tra i rappresentanti chiave della tradizione idealistica, cioè Kant e Hegel, e le molte figure della tradizione esistenzialista o pre - esistenzialista».[3] Il progetto di Stewart è davvero molto chiaro.
 
4. Il nucleo delle argomentazioni di Stewart si trova nella sua ponderosa opera fondamentale Kierkegaard’s Relations to Hegel Reconsidered del 2003. Si tratta di un lavoro alquanto innovativo, incentrato su una completa rilettura, in base a fonti originali, delle polemiche di Kierkegaard contro Hegel. Senza entrare qui nel dettaglio, pare che Kierkegaard non abbia tanto polemizzato contro Hegel quanto contro il gruppo degli hegeliani danesi e per di più su questioni assai specifiche e che, d’altra parte egli, nell’elaborazione di diverse sue posizioni, si sia invece proprio ispirato ad Hegel. Si tratterebbe dunque di una continuità più che di una rottura.
Oltretutto, l’atteggiamento di Kierkegaard nei confronti di Hegel non sarebbe sempre stato lo stesso e sarebbe cambiato abbastanza marcatamente con il tempo, seguendo gli sviluppi della sua opera. Così afferma Stewart: «My historical or biographical thesis concerning Kierkegaard is that his intellectual development with regard to Hegel passed through three discernible stages. In his early works, characterized primarily by From the Papers of One Still Living (1838), The Concept of Irony (1841), and Either/Or (1843), he was strongly and positively influenced by Hegel and Hegelian philosophy. After this there was a middle period beginning with Fear and Trembling (1843). This period is characterized by what most commentators have taken to be his most overt and aggressive criticism of Hegel. I wish to show that this criticism is, however, directed primarily at other sources and not at Hegel himself. This period culminated in 1846 with the Concluding Unscientific Postscript where Kierkegaard gave his most extended response to Hegel’s philosophy or, more exactly, to the discussions about it that were then taking place in Denmark. In the unpublished Book on Adler, which was written primarily during 1846, many of the same criticisms from the Postscript appear. This work marks the end of the second period. After The Book on Adler there was a final period in which Kierkegaard dropped his polemic and for one reason or another made his peace with Hegelianism. During this final period, although in both the published works and the journals there appear substantially fewer direct references to Hegel, Kierkegaard openly uses Hegelian concepts and methodologies as in The Sickness unto Death. It is this three-step development in Kierkegaard’s relation to Hegel that constitutes the historical thesis of my study».[4]
Il leggendario anti hegelismo di Kierkegaard, in un quadro generale di adesione hegeliana, o di una sua non sconfessione, costituirebbe dunque soltanto un episodio intermedio, dovuto a una polemica provinciale e occasionale contro alcuni intellettuali hegeliani danesi, invero quasi sconosciuti al di fuori del loro Paese.
 
5. La conclusione dello studio di Stewart induce dunque a ripensare non solo l’interpretazione di Kierkegaard, quanto a ricollocarlo all’interno degli sviluppi della cosiddetta filosofia continentale. Afferma ancora Stewart: «In what follows I would like to indicate how the results of the present study lead to the conclusion that the simplistic picture of the development of the history of nineteenth-century European thought, just presented, is largely a myth. I will first argue that the claim for the absolute discontinuity between Hegel and Kierkegaard is fundamentally incorrect and that Kierkegaard’s anti-Hegelian rhetoric is explained by his polemics with the Danish Hegelians. The result of this is that Kierkegaard in fact never had a major campaign against Hegel».[5]
Quindi il panorama della filosofia continentale appare assai più unitario e compatto di quanto non si fosse mai pensato. Esso appare assai più dipendente in blocco dalla linea Kant-Hegel, che è poi la linea di sviluppo della metafisica scolastica occidentale. Queste sono le conclusioni di Stewart in proposito: «If the main lines of the present investigation are correct and Kierkegaard had no anti-Hegel campaign as such, then the standard picture of the development of nineteenth- and twentieth-century European philosophy must be fundamentally reconceived. Among other things, the conclusions of this study undermine the conception of post-Kantian European thought beginning with Kierkegaard’s anti-Hegel campaign and the view of Kierkegaard as a thinker who has nothing in common with the Hegelian schools. In addition, this interpretation calls into question the notion of two distinct parallel traditions and indicates heretofore unseen points of continuity that need to be worked out in future investigations. If the present study is correct, then it no longer makes sense to conceive of the history of nineteenth-century philosophy as consisting of two parallel traditions that are hostile to one another, as the standard picture asserts. Kierkegaard was inspired by many of Hegel’s basic thoughts, which he incorporated into his own work in different ways. Similarly, the so-called Hegelians such as Bauer, Feuerbach, Strauss, and Marx were inspired by Hegel and used his thought in their work. None of these thinkers was any less critical of Hegel than Kierkegaard was. Indeed, their works also often contained open polemics against Hegel. So the question arises why these thinkers are thought to belong to one tradition and labelled “Hegelians”, whereas Kierkegaard is thought to belong to another and conceived as the very antipode of Hegel. They are all responding to and revising Hegel’s thought in different ways. What I am suggesting is that the conception of two parallel traditions is a gross oversimplification that rather arbitrarily assigns thinkers to one side or the other of a false dichotomy. This is perhaps convenient for bibliographical or pedagogical purposes, but it is a distortion of the actual content of the work and thought of these figures».[6]
Insomma, la schiera dei filosofi che saranno poi comunemente catalogati come esistenzialisti o vicini all’esistenzialismo, più che antimetafisici (titolo del quale alcuni di loro si sono anche gloriati) potrebbero al massimo essere considerati come antisistematici. Ma una metafisica antisistematica è pur sempre una metafisica.
 
6. Come si vede, ce n’è abbastanza per riscrivere una buona parte della storia della filosofia continentale standard dell’Ottocento e del Novecento. Invece di due scuole contrapposte, la storia della filosofia continentale dei due secoli considerati può essere interpretata come la progressiva dissoluzione del kantismo – hegelismo, che ha preso forme diverse, talvolta in contrapposizione tra loro, ma che ha mantenuto sempre un rapporto, se non altro di tipo metodologico o di tipo nostalgico, con la vecchia metafisica scolastica. Insomma, l’ipotesi di un’unica basica filosofia continentale viene ampiamente confermata, al di là di ogni dubbio. Sono i presupposti comuni quelli che accomunano Hegel, Kierkegaard, Marx, Schopenhauer, Husserl, Heidegger, Freud, Jaspers,… Sono proprio questi presupposti comuni che hanno permesso ai filosofi del secondo dopoguerra (i vari Sartre, Merleau-Ponty, Lacan, Foucault, Derrida, Lyotard, Gadamer, Horkheimer, Marcuse, Adorno, Deleuze, per ricordarne solo qualcuno) di giocare alle combinazioni, prendendo un po’ dall’uno o dall’altro, criticando un po’ l’uno piuttosto che l’altro, con assoluta nonchalanche, dando così l’impressione di una grande creatività e originalità. Il conflitto radicale tra l’individuo e il sistema che è stato proposto dalla storiografia ufficiale come principale caratterizzazione di questi due secoli è un conflitto tutto apparente che sta completamente dentro al quadro unitario dei comuni presupposti metafisici. La vera filosofia dell’individualità si è sviluppata altrove, al di fuori del vecchio continente, e si chiama oggi filosofia analitica.
 
7. La parentela stretta di idealismo tedesco ed esistenzialismo può diventare del tutto chiara se si pensa che, nella tradizione filosofica occidentale, essenza ed esistenza costituiscono una dicotomia, cioè una coppia concettuale inseparabile. Non sono effettivamente due concetti diversi, costituiscono in fin dei conti lo stesso concetto. L’esistenza di per sé non ha alcuna autonomia concettuale, ha un qualche senso solo in contrapposizione all’essenza.[7] Parlare di esistenza significa evocare già di per sé una scissione e dunque evocare l’altro termine della scissione. Una qualunque riflessione filosofica sull’esistenza non può che essere giocata in contrapposizione con l’essenza, la quale può essere pure variamente interpretata ma resta sempre l’altro polo contrapposto all’esistenza.
La coppia essenza/ esistenza è di origine scolastica, ma essa traduce semplicemente i concetti metafisici della filosofia antica del platonismo e soprattutto dell’aristotelismo. In questo senso può essere considerata come uno degli artefatti filosofici più antichi della filosofia occidentale. Fino a tutto il medioevo questa dicotomia era stata data per scontata, nell’ambito della cosiddetta concezione realistica degli universali. Solo nell’ambito della crisi della scolastica si è cominciato a mettere in dubbio il realismo degli universali e a sviluppare il nominalismo, il quale, ben lungi dal costituire una filosofia della crisi, era la nuova filosofia in grado di raccontare l’autentico fatto nuovo che stava capitando e cioè l’erompere delle individualità che sono state il vero prodotto storico dello sviluppo dell’Occidente. Finito il medioevo, la nuova filosofia che s’è imposta nei fatti è stata, infatti, la filosofia empiristica, fenomenista, basata sull’individualismo metodologico. Si tratta di quella prospettiva che porterà alla Rivoluzione industriale e, di seguito, in campo culturale, allo sviluppo della filosofia analitica, tipica del mondo anglosassone.
 Così, dopo il Rinascimento, la dicotomia essenza / esistenza ha cominciato un lento ma inesorabile declino, contrastato tuttavia dal fatto che essa era divenuta il fondamento della teologia dominante e si era così ormai insediata in profondità nella cultura occidentale, tanto che diventava davvero difficile estirparla. Essa ha alimentato un’enorme varietà di concezioni che possono, tutte, essere definite come essenzialismo.[8]
 Di fronte ai successi della scienza e della tecnica, pur ostacolati con tutti i mezzi disponibili, le filosofie delle essenze, hanno dovuto ristrutturarsi e hanno iniziato una lunga opera di resistenza (in campo ecclesiastico ma anche e soprattutto in campo accademico). Gli ultimi quattro secoli di storia della filosofia continentale sono interpretabili come il disperato tentativo della metafisica scolastica essenzialista di difendersi dalle evidenze progressivamente messe in luce dalla scienza moderna. La metafisica scolastica ha avuto tutto il tempo di organizzarsi e di proliferare, poiché il procedere della scienza, per sua natura, è lento e cumulativo e procede per singole questioni e rinuncia a proporre visioni complessive. Così abbiamo assistito alla reazione contro Galileo, poi abbiamo assistito alla reazione contro Darwin, oggi assistiamo alla reazione isterica contro la genetica e le scienze cognitive. Queste resistenze hanno sempre avuto un appoggio popolare, se si considera che occorrono diverse generazioni prima che certi risultati siano digeriti dall’opinione pubblica e siano fatte rientrare nei sistemi legali dei vari Paesi.
In questo processo tendenzialmente reazionario, la filosofia kantiana ha svolto un ruolo fondamentale, insieme di modernizzazione e di conservazione. Da un lato la filosofia kantiana ha accettato il fenomenismo newtoniano e ha così posto un serio limite alla metafisica (si vada a rileggere la Dialettica trascendentale, dove la metafisica è destituita di ogni fondamento). D’altro canto però ha mantenuto e riproposto taluni elementi della metafisica scolastica (la nozione di trascendentale è un tipico esempio) e nel far ciò li ha nobilitati e trasmessi alle generazioni successive. Com’è noto, l’idealismo tedesco e, in particolare, Hegel hanno afferrato al volo l’occasione e, in un contesto di grande arretratezza culturale o di conservazione culturale, come era quello della Germania, hanno riproposto un essenzialismo criptico, superficialmente ripulito dal linguaggio scolastico, ma ancora, nella sostanza, profondamente scolastico.[9] Se Kant aveva ammesso di essere stato risvegliato dal sonno dogmatico per opera di Hume, da Hegel in poi la filosofia continentale precipiterà nel torpore essenzialistico, quello stesso torpore che continua ancora oggi. Gli ultimi sviluppi, come s’è detto, implicano che, della originale dicotomia, l’essenza venga sempre più posta sullo sfondo come una assenza, per dare spazio all’esistenza. Ma in metafisica un’assenza può contare tanto e forse di più di una presenza. Così possiamo continuare a essere essenzialisti trattando ossessivamente di esistenza. Si ricorderà che il «fenomenologo» Husserl pensava di cogliere il fondamento «mettendo tra parentesi» l’esistenza.
 
8. I risultati di Stewart permettono di evidenziare e sfatare uno dei più grossi equivoci riguardanti l’esistenzialismo e cioè che l’esistenzialismo sia stato una corrente filosofica capace di muovere dai dati di fatto della esistenza empirica dell’individuo. Insomma, un esistenzialismo considerato come una descrizione obiettiva dell’effettiva condizione umana, una specie di empirismo dell’esperienza umana. L’esistenzialismo, ampiamente inteso, ha prodotto, infatti, varie incursioni nelle scienze dell’uomo e ha preteso spesso di sostituirsi alle discipline scientifiche che intanto venivano faticosamente costruendosi. Lo stesso vale per la fenomenologia. Si è ritenuto che l’analisi dell’esistenza potesse costituire e fondare una scienza sociale più scientifica della scienza sociale empirica. Lo stesso è accaduto per la psicologia e per la psichiatria. Si veda la psichiatria fenomenologica. Si veda Laing, oppure Schutz. Si è preteso di spiegare con l’analitica esistenziale cose come la percezione, oppure come le malattie mentali o i disturbi relazionali. Anche il nostro de Martino ha teso a fondare l’antropologia con categorie ricavate dall’esistenzialismo.[10]
Negli anni Sessanta e Settanta queste impostazioni ebbero una certa fortuna poiché si presentavano come il superamento di una certa aridità del comportamentismo. Se è vero che il comportamentismo ha avuto molti limiti, è altrettanto vero che il suo rigoroso esercizio, che consisteva nell’escludere ogni ipotesi di ordine metafisico, ha costituito una lezione salutare e ha contribuito a mettere in guardia contro gli scivolamenti ideologici. D’altro canto, se il comportamentismo ha avuto i suoi limiti, dalle scienze umane influenzate dalle filosofie dell’esistenza non è venuto fuori nulla capace di essere generalizzato (nel senso della intersoggettività, requisito necessario perché si dia qualcosa cui si possa appiccicare la qualifica di scienza). È sintomatico che le varie teorie e discipline via via prodotte (si vedano le teorie fenomenologiche della percezione, il lacanismo, la storiografia di Foucault, le strutture di Althusser, la fenomenologia sociale di Schutz, la Daseinsanalyse,… ) sono rimaste strettamente legate alla personalità dei loro singoli autori, al loro specifico stile di pensiero e non hanno elaborato alcun concetto verificabile sul piano empirico e generalizzabile. Son tutti concetti e teorie che per avere qualche validazione richiedono che si assuma il linguaggio e il punto di vista del loro autore. Lo stesso può dirsi per quelle discipline di derivazione filosofica che hanno aspirato a guadagnare uno status scientifico senza tuttavia riuscirci, come la psicoanalisi e tutte le sue derivazioni. È chiaro perché Popper è stato spinto a scegliere il marxismo e la psicoanalisi quando ha dovuto fare due esempi di discipline che, per la loro struttura teorica, non accettano di essere falsificate dall’esperienza. Nessuno degli esistenzialismi che si sia presentato come descrizione obiettiva della condizione umana ha mai accettato o previsto di essere falsificato dall’esperienza.
 
9. Un altro aspetto che si chiarisce alquanto, alla luce dei risultati di Stewart, è l’insopportabile ideologia pessimistica che promana dal più degli esistenzialismi. Se gli esistenzialismi fossero effettivamente delle filosofie della rivolta dell’individuo, delle filosofie della libertà, non si riuscirebbe proprio a capire perché l’esistenza umana sia da questi concepita quasi esclusivamente in chiave tragica o drammaticamente pessimistica. Dire che questo pessimismo possa essere fatto risalire direttamente al peccato originale non è soltanto una boutade. È la chiave della questione. La dicotomia essenza / esistenza implica una caduta e il posto dove si cade non può certo essere un paradiso. Kierkegaard era un luterano e aveva certo i suoi buoni motivi per marcare la distanza assoluta tra l’uomo e Dio e per descrivere l’assurdità della condizione umana. E così vale per tutti gli altri esistenzialisti: anche loro avevano certamente i loro buoni motivi. È un dato di fatto comunque che i testi dell’esistenzialismo sono pieni di cose come noia, angoscia, timore e tremore, nulla, deiezioni, scacchi, rischi, morte, alienazione, reificazione e così via discorrendo. C’è una generale assurda e perversa misantropia che percorre tutto l’esistenzialismo, che non ha alcun fondamento fattuale descrittivo e argomentativo, ma che rappresenta piuttosto l’interpretazione puramente arbitraria e soggettiva che i diversi autori hanno dato della condizione umana. Solo Abbagnano ha osato parlare di un esistenzialismo positivo e non pare sia stato molto seguito. Questo pessimismo è del tutto riconducibile alla coppia essenza / esistenza. È la condizione della separazione dall’essenza, della perdita della grazia, della perdita dell’unità originaria, oppure della perdita della bella unità del mondo greco, o anche della perdita del mondo arcaico dionisiaco, il distacco dal cosmo, il silenzio di Dio o quant’altro. A questo truce panorama, che è di derivazione tipicamente religiosa, diciamo pure cristiana, proprio bene si attaglia - ed è tutto dire – la descrizione che Nietzsche fa del cristianesimo piagnone, della filosofia dei servi.
L’esistenzialismo si occupa del finito, ma il finito non gli interessa veramente. Il finito viene invero disprezzato. Dietro c’è sempre la mestizia del finito (come diceva Hegel). Il finito è sempre visto nei suoi limiti, nei suoi difetti. Si occupa del finito ritenendo che, così facendo, vengano fuori i limiti del finito e dunque, in qualche modo, si fondi qualche cosa di altro. Si rinvii a qualche altro infinito. Beninteso, qui non si nega che empiricamente la condizione umana non possa avere risvolti negativi, o addirittura che non possa avere più aspetti negativi che positivi. Qui si critica la metafisicizzazione (per questo gli esistenzialismi restano delle metafisiche – come del resto ha sostenuto autorevolmente Heidegger, credendo con ciò di tenersi fuori dal mucchio) del negativo dell’esperienza umana, si contesta che sia lecito identificare degli esistenziali come universali della condizione umana. Non si nega, ad esempio, che possiamo fare esperienza dell’angoscia. Si nega che l’angoscia empirica sia un universale ontologico della condizione umana. Non ci sono universali ontologici. O meglio, ce ne possiamo inventare quanti vogliamo: ci sono esattamente tutti quelli che ci possiamo inventare. Anche e soprattutto gli esistenzialismi possono dunque essere considerati – scimmiottando un po’ Feuerbach – delle teologie mascherate. Sono delle teologie negative, teologie indirette, che hanno scelto di concentrarsi a dir male del finito affinché possa risaltare l’infinito (o la sua assenza, o il di lui bisogno). Come ebbe a dire in proposito Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Gli esistenzialismi sono per lo più proprio delle macchine del vuoto che lavorano a spese della condizione umana.
 
10. Nel passaggio dall’Ottocento al Novecento nella filosofia continentale, metafisica ed essenzialista, non è cambiato molto. Più che altro è andato in crisi lo spirito di sistema: l’Enciclopedia hegeliana era già vecchia quando è stata proposta ed è subito risultata artificiosa e improponibile, anche se Hegel è stato poi condito in tutte le salse, e continua tutt’ora a essere ampiamente impiegato in molte cucine. L’enciclopedia marxiana (si fa per dire) ha avuto davvero molta più fortuna ed è stata contrabbandata, ancora fino a poco tempo fa, come scienza sociale globale, alternativa alla turpe scienza borghese. La fenomenologia husserliana aveva anch’essa ambizioni sistematiche ed enciclopediche (probabilmente è stata l’ultima corrente dotata di cotali ambizioni), tanto che avrebbe dovuto fondare le varie ontologie regionali. Il sistema di Husserl non è mai stato compiuto e c’è ancora chi rovista nelle sue carte per cercarne qualche notizia in più. Comunque, nonostante l’incompiutezza, anche la fenomenologia ha avuto le sue aspirazioni egemoniche, tanto da cercare di fondare[11] campi disparati come la logica, la matematica, la psicologia, la psichiatria e la sociologia.
Passata così, per forza di cose, la sbronza del sistema egemonico, allora è venuto il momento degli antisistematici, che hanno operato in campi assai più ristretti, e in ordine sparso.[12] Sono proprio costoro che possono essere ampiamente considerati sotto l’etichetta dell’esistenzialismo. Gli antisistematici hanno in comune la caratteristica, davvero unica, di continuare a piangere e a rimpiangere quegli stessi sistemi che essi tentavano di demolire. È venuto così il momento della rinascita dei vari Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche che sono apparsi e sono stati celebrati come i liberatori dell’individualità dalle maglie dal sistema. Il fatto è, purtroppo per costoro, che chi pensa contro il sistema ha pur sempre fissa in testa l’idea del sistema, da cui non sa o non vuol proprio distaccarsi. Per un bel po’ di tempo la novità fu l’annuncio che «Il sistema non c’è più!».[13] E comunque, se il sistema contro cui lottare non c’era più, allora qualcuno ha pensato di inventarselo.
E su questo terreno, sono spuntate le varie scuole di derivazione freudiana, i vari esistenzialismi, le french theories, le ermeneutiche di tutti i tipi. Tutte filosofie di rottura, antisistematiche che ruotavano intorno all’assenza sopravvenuta del sistema, al niente, alla mancanza di significato, alla trasvalutazione dei valori all’indebolimento dell’essere e così via. Sono le filosofie della perdita, oppure, alla lettera, le filosofie della decadenza. Va riconosciuto che Heidegger, in questo campo, è davvero riuscito a esercitarsi in tutte le possibilità, venendo così scambiato per uno studioso della condizione umana, per un esistenzialista, per un ontologo, per un filosofo della storia, un anti teologo, e così via,…
Così per un po’ gli esistenzialisti sono andati avanti a proporre ogni giorno una nuova «visione» della condizione umana, a esumare qualche nuovo esistenziale. Bastava leggere due o tre degli autori antisistematici e inventarsi qualcosa di nuovo di altrettanto antisistematico, così si diventava loro discepoli e loro continuatori. Questa era (ed è ancora) la tecnica delle dissertazioni filosofiche che si facevano all’ENS o all’EHESS. Non diversamente facevano i francofortesi. Così abbiamo avuto la ridda degli Adorno, dei Derrida, dei Foucault, dei Deleuze, dei Merleau-Ponty, dei Sartre, dei Benjamin,… Non faccio esempi italiani perché in tutta questa vicenda siamo stati soprattutto a guardare, tranne nella fase finale, nella quale abbiamo cercato di imitare gli altri.
Il cosiddetto pensiero postmoderno è stata la dichiarazione esplicita del fallimento di tutta questa roba. Tuttavia, invece di cambiar strada, la soluzione è stata quella di mettersi a contemplare il fallimento,[14] riservando alla filosofia un ruolo di riciclaggio di spezzoni di discorso triti e ritriti, decontestualizzati e combinati e disposti, di volta in volta, secondo un estro espressivo, poetico o letterario dell’autore. La metafisica scolastica è stata così hegelianamente soppressa e mantenuta, diventando, alla fine, arte e letteratura. Il postmoderno, se vogliamo, più che rappresentare la fine della metafisica, ne ha rappresentato e ne ha celebrato, fino in fondo, sua la più totale inutilità. E non mi riferisco qui al sapere contemplativo.
La fine della metafisica scolastica sta dunque avvenendo proprio sotto i nostri occhi, non proprio esattamente come se l’era immaginata Heidegger. Due secoli impiegati per passare dal sistema, dall’enciclopedia, al luddismo culturale. Più in basso di così ci sono soltanto le barzellette di Slavoj Žižek.
 
 11. Come s’è visto, ho cercato di trarre alcune conseguenze interpretative generali, a partire dai lavori di Stewart su Kierkegaard e Hegel. Era probabilmente proprio questo il tassello mancante che impediva una ricostruzione chiara e distinta degli ultimi due poco luminosi secoli del pensiero continentale. La presenza di una corrente esistenzialista indipendente dall’idealismo tedesco introduceva, in effetti, un elemento di apparente pluralismo che in realtà la filosofia continentale non ha mai veramente avuto. L’esistenzialismo e le varie filosofie «critiche» antisistema hanno in realtà sempre funzionato come un nascondiglio della metafisica scolastica.
Se questa interpretazione ha un qualche fondamento, allora sarà molto più facile mettere nel calderone dell’esistenzialismo[15] un gran numero di post kant-hegeliani, molto diversi tra di loro ma accomunati dal radicalismo anti sistemico. La prova più convincente che ha davvero un senso raggrupparli insieme è che questi hanno continuato a scambiarsi materiali, concetti, stili di pensiero, con estrema disinvoltura, senza alcun effettivo ostacolo. Insomma, davvero una stretta parentela. Una comune discendenza.
Si capiscono anche alcune ossessioni ricorrenti, come la ricostruzione a rovescio della storia della filosofia occidentale, da loro intesa come decadenza o come fine della metafisica (com’è stato autorevolmente sostenuto). Si tratta di una metafisica di cui si annuncia sempre la fine ma che in realtà non finisce mai, giacché proprio i terminator della metafisica ne sono i più insidiosi e nascosti perpetuatori. Giochetti per gente che ha del tempo da perdere (avendo per giunta uno stipendio assicurato – come del resto osservava già Schopenhauer). Ma anche giochetti di gente che ha scherzato con il fuoco e prodotto disastri e sofferenze inenarrabili: Heidegger era antisemita e nazista e Pol Pot, il simpatico assassino genocida, aveva imparato il marxismo a Parigi.
In virtù delle loro origini, il nemico di tutti costoro sono stati sempre e soltanto l’individuo, la modernità, o peggio, la scienza, la tecnica e lo sviluppo. In questo senso, le metafisiche scolastiche continentali dell’Otto-Novecento, sistemiche o anti sistemiche che siano, costituiscono soltanto la zavorra del passato (un passato per il quale, attraverso il cristianesimo, possiamo effettivamente risalire fino ai greci) che pesa sulla vecchia Europa, di cui la vecchia Europa non è ancora stata in grado di liberarsi. Si tratta di un vero e proprio eccesso di “cultura” (nel senso di un eccesso di tradizione)[16] che chiude la mente e che non favorisce il cambiamento. Il mondo anglosassone, soprattutto l’America, ha saputo andare più veloce, perché il Mondo Nuovo era meno dotato di zavorre e l’individualità era così evidente che non poteva essere più messa in discussione. Probabilmente l’India e la Cina, per quanto anch’esse siano gravate da ragguardevoli tradizioni, sembrano sulla buona strada ad apprestarsi a fare altrettanto. Noi invece continueremo per chissà quanto tempo a ciondolare in qualche posto imprecisato, tra l’essere e il nulla, nell’Isola che non c’è.
 
22/08/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
2003 Stewart, Jon
Kierkegaard’s Relations to Hegel Reconsidered, Cambridge University Press, Cambridge.
 
2010 Stewart, Jon
Idealism and Existentialism. Hegel and Nineteenth - and Twentieth - Century European Philosophy, Continuum International Publishing Group Ltd., London and New York.
 
 
 
NOTE
 
[1] Va ricordato che l’esistenzialismo è una delle correnti filosofiche più indeterminate sul piano storiografico e che non c’è alcun accordo pieno tra studiosi circa gli effettivi appartenenti al movimento. Ad esempio, un’antologia americana sull’esistenzialismo riporta come appartenenti all’esistenzialismo i seguenti nominativi: Kierkegaard, Turgeniev, Dostoevsky, Nietzsche, Hesse, Heidegger, Rilke, de Unamuno, Jaspers, Kafka, Marcel, Camus, Sartre, Merleau-Ponty, de Beauvoir, Barnes, Buber, Tillich, Nishitani, Wilson, Frankl, Garcia Marquez, Beckett, Borges, Pinter, Heller, Roth, Miller. Come si vede, una schiera alquanto eterogenea, ma nello stesso tempo assai più ampia di quanto certi nostrani storici della filosofia siano disposti ad ammettere. Resta, in questo elenco, piuttosto imprecisato il rapporto con la scuola fenomenologica.
[2] Cfr. Stewart 2003 e Stewart 2010.
[3] Cfr. Stewart 2010: 1-2 e 8 (traduzione mia).
[4] Cfr. Stewart 2003: 33-34. Rinuncio a tradurre in italiano poiché nessuno mi paga, poiché non ho più tanto tempo da perdere e poiché ormai non scrivo più per un pubblico generico (avendo rotto i rapporti con il giornale online Città Futura) ma soltanto per me stesso e per i miei (neanche) dieci lettori, i quali se vogliono possono benissimo intendere il testo nell’originale.
[5] Cfr. Stewart 2003: 622.
[6] Cfr. Stewart 2003: 631.
[7] Se dico “mondo terreno” non sto solo parlando del mondo terreno, ma evoco il mondo terreno in contrapposizione al mondo ultraterreno.
[8] Mi sono già occupato dell’essenzialismo in altri miei contributi e saggi. Si veda in particolare il saggio Contraddizioni del terzo tipo su questo blog Finestrerotte.
[9] È ormai ampiamente assodato che la filosofia hegeliana è poco più di una riformulazione post kantiana dell’aristotelismo.
[10] L’unico psicologo che ha saputo confrontarsi con la filosofia senza rinunciare a un’impostazione scientifica è stato Jervis.
[11] Ebbene sì, nonostante quel che molti pensano, la fenomenologia aveva decisamente ambizioni fondazioniste. Il fatto che i suoi tardi epigoni siano finiti da tutt’altra parte va imputato solo a loro stessi.
[12] Una certa frettolosa storiografia italica pretende che questa svolta anti sistematica sia interpretabile come la filosofia della crisi della borghesia (tedesca), utilizzando un curioso schema marxiano del tipo struttura - sovrastruttura. A pensare che la scolastica hegeliana fosse stata la filosofia della borghesia ci vuol davvero del coraggio. Marx giovane pensava (e scriveva) che la Germania fosse uno dei paesi più arretrati d’Europa e, nonostante ciò, avesse prodotto la filosofia più avanzata dell’epoca. Beata ingenuità.
[13] La nicciana «morte di Dio» rientra in questa casistica. Morto un dio se ne fa un altro e così Dioniso può rinascere nel superuomo.
[14] Quando Lyotard se la prende con le «grandi narrazioni» e ne annuncia la fine, non è più in grado di riconoscere di far parte anch’egli della tradizione delle grandi narrazioni. Se vogliamo, fa parte della tradizione delle grandi narrazioni esaurite. Semplicemente, finita la tragedia, egli ormai può soltanto più impersonare la commedia. Ma si tratta esattamente della stessa storia.
[15] Se si preferisce, si può parlare di una crisi della metafisica post – hegeliana (di cui il marxismo è una importane corrente, compreso il freudismo e la fenomenologia).
[16] Anche Nietzsche ne era consapevole.
 

lunedì 10 agosto 2015

Secolarizzazione e pirateria morale

Dialoghi con Sofia 17

magritte
 
È abbastanza assodato che nei Paesi occidentali si stia manifestando una tendenza verso la secolarizzazione. Generalmente si ritiene che si tratti di una buona cosa. Tuttavia se si osserva in termini analitici quel che sta avvenendo nel nostro Paese si è costretti a concludere che, accanto a una buona secolarizzazione, dobbiamo per lo meno ammettere la possibilità di una cattiva secolarizzazione. L’Italia è senz’altro stata investita da una secolarizzazione tarda e nello stesso tempo assai rapida e ciò ha indubbiamente prodotto una serie di molteplici effetti indesiderati. L’effetto indesiderato di maggior portata è tuttavia spesso misconosciuto, tanto misconosciuto da non essere quasi mai messo in relazione con la secolarizzazione stessa.
 
Per comprendere la questione, dobbiamo avere un’idea abbastanza precisa di quale sia stata la funzione sociale della religione nelle società tradizionali. Non si tratta qui di rispolverare il funzionalismo sociologico su vasta scala, quanto di riconoscere la sussistenza di alcuni meccanismi innegabili che presiedono il rapporto tra la religione e la società. La religione, in un modo o nell’altro, ha sempre presieduto alla strutturazione dei rapporti sociali. Può darsi anche che questa sia una delle ragioni della sua sopravvivenza. La religione impone fin dalla tenera infanzia, a tutta la popolazione, una visione del mondo complessiva e, più specificatamente, una visione della società e dei rapporti interpersonali. In fondo la religione fornisce tutto quel che serve per la strutturazione di una società, comprese le nozioni dell’etica e della politica. Le società teocratiche possono ricavare dalla religione tutto quel che serve loro per strutturarsi e per mantenersi. Gli Stati moderni, da pochissimo tempo sul piano storico, hanno sottratto alla religione parte delle sue originarie competenze e le hanno esercitate in proprio (anche se non sempre con pieno successo). Così la religione è stata relegata nel privato.
 
Con l’avvento degli Stati moderni non c’è stata tuttavia una netta cesura con la religione. Soprattutto negli Stati moderni di più recente formazione, dove è ancora forte l’influenza della tradizione, la religione ha continuato a governare i rapporti tra le persone, la loro visione del mondo, le regole generali dell’etica. Anche quando la partecipazione religiosa è nettamente diminuita, come nel Novecento, il peso della religione nella definizione della visione del mondo e della visione della società ha continuato a rimanere rilevante (si pensi alla lentezza con cui sono state acquisite e si sono diffuse certe libertà personali che andavano a confliggere con i precetti religiosi tradizionali: la libertà di coscienza, la libertà di divorziare, l’aborto, … ). Insomma, pur in presenza di un forte declino delle pratiche religiose, la visione religiosa del mondo e l’etica religiosa in particolare hanno continuato a persistere, quasi come per inerzia (evidentemente in mancanza di un’altra etica sostitutiva). E hanno continuato ad alimentare la cultura comune. Questa persistenza della tradizione ha un senso, poiché ha permesso di strutturare gli elementi comuni di base utili per raggiungere un minimo di integrazione. Nel medioevo, ad esempio, al di là della giurisdizione politica, ovunque si andasse si poteva contare sul fatto di incontrare persone che avevano la stessa grammatica morale, perché erano stati allevati in una cultura cristiana. Questo ovviamente non voleva dire che fossero tutti buoni cristiani, tuttavia si poteva sempre presumere l’esistenza di un qualche terreno comune. Tanto più che i valori del cristianesimo erano apertamente professati, narrati, celebrati – per quanto spesso, nei fatti, disattesi.
Queste persistenze, questa cultura comune diffusa, seppure poco avvertite sono della massima importanza. Ad esempio, ancora oggi nel nostro Paese la regola “non rubare” oppure “non dire falsa testimonianza” oppure “non uccidere” la si impara più con il catechismo e non con lo studio delle leggi o del diritto. Quando si prende la patente di guida, le regole della circolazione si imparano dal testo giuridico; quando invece si diventa cittadini, le regole basilari del comportamento sociale si apprendono per lo più dal catechismo. Si è lasciato cioè che i valori religiosi facessero da supplenza. O almeno questo avveniva fino a poco tempo fa.
 
Questi meccanismi di supplenza – che hanno funzionato più o meno per tutta la Prima repubblica – si sono oggi inevitabilmente inceppati. In Italia abbiamo avuto una secolarizzazione tardiva e rapida, per cui le tradizionali agenzie di socializzazione di marca religiosa si sono trovate improvvisamente screditate. Hanno perso prestigio e seguito. Il problema è che questo normale ridimensionamento dei valori religiosi nella formazione non è stato sostituito da nient’altro. In sostanza, nel nostro Paese, in seguito alla secolarizzazione non si è dato luogo alla formazione di un’etica laica sostitutiva.[1] Questa è la vera anomalia.
 
Questa situazione dà oggi luogo a diversi fenomeni: a) da un lato un ritualismo parolaio che riafferma i vecchi valori, di fronte a un comportamento palesemente differente (si veda la morale sessuale, ma anche la morale economica). Ciò ha come conseguenza che non ci sia più alcuna coerenza tra quello che si proclama e quello che si fa effettivamente. b) D’altro lato, si ha l’affermazione tacita, mai proclamata da nessuno, di una sorta di etica della situazione che, alla fin fine, riesce a giustificare qualsiasi cosa. c) L’individuo diventa così il produttore delle proprie regole, ma non in relazione a un discorso etico coerente e neppure in relazione a una serie di pressioni sociali coerenti, ma in relazione a una specie di considerazione individuale (dove ciascuno fa pesare quel che gli va, di momento in momento). Abbiamo quindi un’apparente libertà morale, una autonomia morale che è, in realtà, una forma di anomia morale.
 
In una simile situazione non stupisce dunque che la maggior parte delle persone siano diventate del tutto imprevedibili, intrattabili, inaffidabili. Non stupisce che – come dicono tutte le ricerche – la fiducia generalizzata negli altri sia in netta diminuzione. La secolarizzazione all’italiana ha generato una serie di mostri morali (per un inventario basta aprire le pagine dei giornali) che investono i campi più disparati, dalla cronaca nera (alcuni efferati delitti presentano questi profili morali di una autonomia autoassolutoria) fino al campo infinito della corruzione, fino al campo del degrado della politica e della cultura.
In questa situazione, ogni singolo incontro interpersonale diventa rischioso e precario. Rischioso perché al posto di una configurazione stabile ci si può trovare di fronte alle uscite comportamentali più imprevedibili (e magari anche pericolose); precario perché ci si trova ormai in un regime di massima volatilità dei propositi, in una situazione dove si cambia spesso e volentieri, per cui qualsiasi fedeltà, qualsiasi impegno, può essere affermato e negato in un batter d’occhio. Finiscono così le amicizie, gli amori, le famiglie, i rapporti tra i figli e i genitori. Ma anche i rapporti tra i “compagni” dello stesso movimento, dello stesso gruppo politico o dello stesso partito, tra elettori ed eletti, i rapporti tra gli operatori economici, come quelli tra concorrenti o tra clienti e fornitori. Non parliamo poi dei rapporti con le istituzioni. Tutto diventa più difficile.
 
Sotto questo profilo, la figura più diffusa è diventata quella del pirata morale, colui che usa il discorso morale con spregiudicatezza, come arma a proprio vantaggio e a danno degli altri, magari di coloro che – per qualche strana particolarità – continuano a darsi dei vincoli di qualche tipo. Il discorso morale viene invocato e nello stesso tempo viene immediatamente tradito, trovando altre giustificazioni morali, le quali poi verranno anch’esse tradite. Questo tipo umano lo si incontra ormai dovunque, nelle corsie degli ospedali, dietro agli sportelli, tra gli operatori sociali e tra i maestri di scuola, tra gli uomini di spettacolo o tra i divi dello sport, tra i sindacalisti di carriera, tra i politici navigati, nelle cooperative sociali. Ma lo si trova anche tra i parenti, nelle famiglie. Lo si trova anche tra i preti e nelle istituzioni della Chiesa cattolica.
 
Sbagliano coloro che ritengono (e questa è la tesi più diffusa) che il pirata morale sia un prodotto dell’illuminismo, cioè un prodotto della modernità. Costoro non hanno capito nulla né della pirateria morale né dell’illuminismo. Il pirata morale è un prodotto della più totale assenza di modernità. Il pirata morale italico odierno[2] è il risultato, certo, della secolarizzazione, ma è soprattutto il risultato del fallimento del progetto educativo della modernità che avrebbe dovuto conseguire e accompagnare la secolarizzazione. Ai tempi della Rivoluzione francese fu subito chiaro che la massa doveva essere educata. Nacque allora l’istruzione pubblica e laica. In Italia l’istruzione pubblica e laica è sempre stata debole e non è mai stata presa in considerazione, né dai cattolici, né dai socialisti e dai comunisti (l’altra “chiesa” che aveva ambizioni di formazione del popolo). L’educazione nel nostro Paese non è mai riuscita a costruire uno straccio di cultura civica capace di costituire un comune fondamento della cittadinanza laica.
 
Questo è il motivo sostanziale per cui nel nostro Paese, di fronte alla spettacolarità degli appelli ai valori e all’intensità della retorica morale profusa ovunque, la fiducia negli altri è in netta discesa e la fiducia nella politica è al minimo. Per questo si vede in giro un sacco di gente arrabbiata e s’incontrano continuamente delle teste mal fatte. Questo è il motivo per cui ogni interazione sociale con conosciuti o sconosciuti è eminentemente rischiosa. Per questo non ci possiamo più ormai fidare abbastanza di nessuno, neanche dei nostri amici e conoscenti più intimi. Il pirata morale ormai può nascondersi ovunque. Questo è in ultima analisi il motivo per cui il capitale sociale, la vera ricchezza delle comunità socialmente integrate, oggi viene soltanto più consumato e non più riprodotto. È chiaro che una simile dilagante situazione non è altro che un potente incentivo a praticare a propria volta, in forma allargata, la pirateria morale. Pare essere la sola strategia vincente. Come un vero e proprio Alien, il pirata morale ormai si sta riproducendo anche dentro ciascuno di noi e preme per uscire.
 
10/08/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
NOTE
[1] Non si afferma qui che non esista un’etica laica sostitutiva, ma che questa non abbia avuto alcuna diffusione, non sia stata insegnata.
[2] Può essere utile pensare a quanto ha scritto Guicciardini o a quanto ha scritto Leopardi circa i costumi morali degli italiani.