mercoledì 3 settembre 2014

Quel nazista che « è » in te (1.0) - Terza parte

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Heidegger si domanda se il tipo di considerazioni che ha appena esposto, che corrispondono ai fondamenti della sua ontologia, possano essere etichettate come umanismo. La domanda è puramente retorica, poiché è chiaro che tutto ciò, secondo lui, non può avere a che fare né con l’umanismo né con l’esistenzialismo. Ciò vale soprattutto in quanto: «…l’umanismo pensa metafisicamente»[1] e fa dunque parte del processo di occultamento dell’essere caratteristico dell’Occidente. A Sartre che parla di «un piano su cui ci sono soltanto uomini», l’Heidegger post-nazista risponde esplicitamente proponendo un piano su cui c’è principalmente l’essere. Anzi, ribadisce che l’essere e il piano sono la stessa cosa: l’uomo si trova proprio «sul piano dell’essere».[2] E aggiunge: «Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso».[3] Tutto ciò, secondo Heidegger, era già chiaramente contenuto in Sein und Zeit e, in effetti, almeno su questo punto, non si può proprio dargli torto.
 Heidegger provvede a chiarire meglio quale sia il rapporto tra l’essere e gli enti, sostenendo che nessun ente «è» mai in senso autentico, perché l’ente è sempre una manifestazione dell’essere. Esiste, dunque, una sola verità «eterna», diversa da ogni altra verità, e cioè la dipendenza dell’ente dall’essere. Non si tratta ovviamente di una verità in senso cognitivo, ma di un fatto che si mostra da sé fenomenologicamente a chi lo sappia cogliere. Tutto il resto sarebbe costituito dalle manifestazioni dell’essere nell’orizzonte temporale. Tutto ciò era già chiaro a Parmenide sebbene, secondo Heidegger, ancora oggi la verità eterna di Parmenide non sia adeguatamente pensata: «Se fa attenzione alla sua essenza, la filosofia non progredisce affatto. Essa segna il passo sul posto, per pensare sempre la stessa cosa. Progredire, cioè andare oltre questo posto, è un errore che segue il pensiero come l’ombra che esso proietta».[4] Dunque la «verità dell’essere» è una sola, è sempre stata nota, si tratta di una verità immutabile che non può essere perfezionata, si tratta solo di recuperarla e custodirla in qualità di pastori dell’essere, anzi si tratta di viverla o farla rivivere nell’orizzonte temporale (poiché la verità dell’essere non è un mero contenuto cognitivo, ma è la stessa immediata manifestazione dell’essere nella storia). In questo senso l’appello di Heidegger a pensare l’essere non è un messaggio cognitivo è una chiamata alla mobilitazione.
Ci troviamo dunque nel campo della piena identificazione del conoscere e del fare: «Proprio perché l’essere non è ancora pensato, […] dell’essere si dice che «si dà» (es gibt). […] Questo «si dà» domina come il destino dell’essere, la cui storia diventa linguaggio nella parola dei pensatori essenziali. Per questo il pensiero che pensa nella verità dell’essere, è, in quanto pensiero, storico. Non c’è un pensiero «sistematico» e, accanto ad esso, per illustrarlo, una storia delle opinioni del passato. A differenza di quanto pensa Hegel, non c’è neppure solo una sistematica che possa fare della legge del proprio pensiero la legge della storia, e risolvere contemporaneamente quest’ultima nel sistema».[5] Dunque, non solo c’è l’identificazione totale e immediata del conoscere e del fare, ma non sarebbe neppure possibile una qualsiasi filosofia della storia a proposito di un oggetto individuabile come storia. Il pensiero dei pensatori essenziali è già esso stesso produzione storica, evento, che avviene come dono dell’essere nella radura dell’essere. I pensatori essenziali, nel loro pensiero, costituiscono essi stessi il deposito di memoria che è già la storia stessa: «Se pensiamo in modo più iniziale c’è la storia dell’essere a cui appartiene il pensiero come memoria di questa storia, da essa fatto avvenire. La memoria si differenzia in modo essenziale dalla ripresentazione successiva della storia nel senso del trascorrere passato. La storia non accade anzitutto come accadere, e l’accadere non è un trascorrere. L’accadere della storia dispiega la sua essenza come destino della verità dell’essere a partire da questo […] ».[6] La storia dunque è completamente agita e riassunta dentro all’attività del pensiero che è fatto avvenire dall’essere: poiché quel che accade altro non è che la verità dell’essere, allora la storia non può essere che la memoria, condensata nel pensiero, della verità dell’essere. Il tempo lineare dunque semplicemente non c’è, non ci sono avvenimenti storici ordinabili sulla linea del tempo, ci sono solo gli eventi che accadono nel linguaggio e nel pensiero (di un popolo o di una civiltà) e che sono pascolati e rammemorati grazie ai funzionari del linguaggio.
La storia evenementielle è considerata come il darsi dell’essere (cioè lo stesso evento) che è rammemorato nel pensiero e nel linguaggio. Dunque non un succedere di avvenimenti, ma il riconoscimento della dipendenza dall’essere e la memoria delle modalità del darsi dell’essere conservati nel pensiero dei funzionari del linguaggio. Anche la bistrattata metafisica (Hegel, Marx, Nietzsche), volente o nolente, appartiene alla storia della verità dell’essere: «Ciò che da essa proviene non si lascia eliminare o colpire da confutazioni, ma si lascia solo assumere riportando in modo più iniziale la sua verità al riparo dell’essere stesso e sottraendola all’ambito delle mere opinioni umane. […] Nel campo del pensiero essenziale, ogni confutazione è insensata».[7] Una volta riconosciuta la dipendenza dall’essere, tutto rientra nella decisione dell’essere e il compito del pensiero pare del tutto esaurito. Si tratta soltanto più di «accogliere» gli eventi, di riconoscere che tutto quel che accade è verità dell’essere che si rammemora nel pensiero (si ricordi che il pensiero è sempre pensiero di un popolo o di una civiltà, per opera dei funzionari del linguaggio).
A mo’ di sintesi circa i rapporti tra essere e ente, Heidegger aggiunge: «L’essere si dirada (lichtet) all’uomo nel progetto estatico. Ma questo progetto non crea l’essere. Il progetto, del resto, è essenzialmente un progetto gettato. Nel progettare, chi getta non è l’uomo, ma l’essere stesso, il quale destina l’uomo nell’e-sistenza dell’esser-ci come sua essenza. Questo destino avviene come radura dell’essere, e come tale radura esso è. Essa custodisce la vicinanza dell’essere. In questa vicinanza, nella radura del «ci», abita l’uomo come e-sistente, senza essere già oggi capace di esperire espressamente questa dimora e di assumerla».[8] Si ricordi che, per Heidegger, e-statico indica lo stare fuori di sé, cioè la dipendenza da altro dell’ente. Insomma, si tratta di un modo sintetico e riassuntivo per dire che il protagonista (assente, situato altrove, poiché è ribadito che l’essere è un puro trascendens) è l’essere e che qualsiasi centralità dell’umano è priva di fondamento. Dunque Sartre e i francesi non avevano capito niente.
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Abbiamo già osservato che Heidegger, nel definire il rapporto tra l’essere e l’ente è costretto a evitare la terminologia della metafisica e, soprattutto, a evitare accuratamente la nozione della causalità. Per cui, quando deve dire qualcosa sul rapporto tra essere e ente deve per forza usare delle vaghe metafore. Una delle metafore preferite è quella della vicinanza. L’uomo sarebbe infatti il «vicino» dell’essere.[9] Secondo Heidegger, citando Hölderlin, la vicinanza con l’essere, può essere concepita come una sorta di «patria» per l’uomo. Egli aggiunge subito che questo termine non va inteso in senso patriottico o nazionalistico. Il punto evidentemente è dolente, perché ci tiene a precisare: «Hölderlin, quando canta il «ritorno in patria», si preoccupa che «la gente della sua terra» trovi la propria essenza, che egli non cerca per nulla in un egoismo del suo popolo, bensì a partire dall’appartenenza al destino dell’Occidente. Ma anche l’Occidente non è pensato come regione in contrapposizione all’Oriente, né è inteso semplicemente come Europa, bensì nella prospettiva della storia del mondo, è pensato a partire dalla vicinanza all’origine. […] L’«essere tedesco» non è detto al mondo perché questo trovi la sua guarigione nell’essenza tedesca, ma è detto ai tedeschi perché, nel destino che li lega ad altri popoli, entrino con essi nella storia del mondo».[10] Se si pensa che tutto ciò è stato scritto nel 1946, si ha l’impressione che, per Heidegger, in Europa non sia appena successo proprio nulla.
Dalla prospettiva della patria deriva la nozione della privazione della patria, ovvero della spaesatezza: «…l’essenza della patria è contemporaneamente nominata con l’intenzione di pensare la spaesatezza (Heimatlosigkeit) dell’uomo moderno a partire dall’essenza della storia dell’essere. […] La patria di questo abitare storico è la vicinanza all’essere».[11] Qui l’ambiguità dell’operazione di riciclaggio dell’Heidegger nazista si fa più palese. Invece del greco classico o del tedesco d’anteguerra, ora a essere spaesato (cioè a trovarsi separato dalla propria essenza) è l’uomo moderno, che, come sappiamo, è il modello di uomo costruito secondo i canoni dell’illuminismo. L’uomo moderno individualizzato e tecnicizzato dunque si sentirebbe spaesato di una patria (la vicinanza con l’essere) che, peraltro, non avrebbe mai conosciuto. Tutto ciò è molto affine a tanti motivi völkisch che circolavano in Germania prima, durante e dopo il nazismo.
Di fronte alla vicinanza con l’essere, anche la religione passa in secondo piano. La possibilità stessa della religione, o del suo rifiuto, è subordinata al riconoscimento della vicinanza all’essere: «In questa vicinanza si compie, se mai si compie, la decisione se e come Dio e gli dèi si neghino e resti la notte, se e come il giorno del sacro albeggi, se e come nell’albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo ad apparire Dio e gli dèi. Ma il sacro, che solo è lo spazio essenziale della divinità, che sola a sua volta concede la dimensione per gli dèi e per Dio, giunge ad apparire solo se prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a diradarsi ed è esperito nella sua verità. Solo così comincia, a partire dall’essere, il superamento di quella spaesatezza, in cui non solo gli uomini, ma l’essenza dell’uomo stanno vagando».[12]
Insomma, anche le religioni non sono immuni dal degrado della perdita dell’essere. Le religioni devono anche loro mettersi in ascolto dell’essere. Qui si vede con una certa chiarezza l’esito del tentativo che Heidegger aveva fatto, durante il nazismo, di gettare le basi di una nuova religione postmonoteista.[13] Heidegger stesso aveva rotto con il cattolicesimo (in gioventù) e con il luteranesimo (poco prima dell’adesione al nazismo).
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È chiaro che la spaesatezza (Heimatlosigkeit), che spesso era stata resa anche e soprattutto come perdita della terra di riferimento (Bodenlosigkeit), non è altro che una particolare versione heideggeriana di ciò che comunemente in filosofia viene definito come alienazione, la quale comunque è sempre intesa come perdita dell’essenza, cioè dimenticanza dell’essere. Infatti: «Questa spaesatezza, che così è da pensare, riposa nell’abbandono dell’essere proprio dell’ente. Essa è il segno dell’oblio dell’essere in conseguenza del quale la verità dell’essere rimane impensata. L’oblio dell’essere si manifesta indirettamente nel fatto che l’uomo considera e si dà da fare sempre e solo intorno all’ente. […] La spaesatezza diviene un destino mondiale».[14] Ora la spaesatezza non è più strettamente interpretata come perdita della patria e del suolo tedeschi, che erano il solido tramite con l’essere, ma è interpretata come perdita dell’essenza umana da parte di tutti gli uomini. Peccato che nella filosofia di Heidegger – lo dice spesso egli stesso - non ci sia proprio spazio per qualcosa come un’essenza unica di tutti gli uomini, a meno che questa non venga concepita – s’è visto - come mera dipendenza dall’essere.[15]
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La furba trasposizione della spaesatezza e della perdita del suolo dai tedeschi a tutta l’umanità curiosamente e inevitabilmente avvicina Heidegger alle posizioni di Marx: «La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo, affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno.[16] Questa viene provocata dal destino dell’essere nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta come spaesatezza. Poiché Marx, nell’esperire l’alienazione, penetra in una dimensione essenziale della storia, la concezione marxista della storia è superiore a ogni altra «storiografia».[17] Ma siccome né Husserl né, per quel che vedo finora, Sartre riconoscono l’essenzialità della dimensione storica nell’essere, né la fenomenologia né l’esistenzialismo pervengono in quella dimensione in cui soltanto diventa possibile un dialogo produttivo col marxismo».[18]
Dunque l’Heidegger post nazista riconosce che c’è una dimensione comune, dove diventa possibile un dialogo produttivo, con una dottrina ebraica come il marxismo.[19] Tuttavia il marxismo da dottrina senz’altro umanistica e quindi «metafisica» viene subito convertito in una improbabile dottrina heideggeriana di denuncia della tecnica: «L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro. […] L’essenza del materialismo si nasconde nell’essenza della tecnica, su cui si scrive molto, ma si pensa poco».[20] A questo punto Heidegger ribadisce la sua interpretazione della tecnica: «Nella sua essenza la tecnica è un destino, nella storia dell’essere, nella verità dell’essere che riposa nell’oblio. […] In quanto forma della verità, la tecnica ha il suo fondamento nella storia della metafisica. Questa, a sua volta, è una fase caratteristica della storia dell’essere, e finora la sola che possiamo abbracciare con il nostro sguardo».[21]
 Tuttavia si rende conto di avere forse concesso troppo al marxismo e ne ricorda immediatamente le origini metafisiche: «Il pericolo verso cui finora sempre più chiaramente l’Europa è sospinta consiste presumibilmente nel fatto che innanzitutto il suo pensiero, che un tempo era la sua grandezza, resti indietro rispetto al corso essenziale del destino mondiale che comincia. Nessuna metafisica, sia essa idealistica, materialistica o cristiana, può per la sua essenza, e tanto meno solo con gli sforzi che mette in atto nel tentativo di svilupparsi, ri-prendere ancora il destino; ciò significa che non può, col suo pensiero, raggiungere raccogliere ciò che, in un senso pieno dell’essere, ora è».[22] È interessante il fatto che Heidegger affermi a questo punto che, per superare lo spaesamento sono illusori sia il nazionalismo che l’internazionalismo, sia l’individualismo che il collettivismo, perché sono tutte forme di soggettivismo che derivano dalla metafisica. Sarebbe davvero interessante sapere a cosa si riferisse parlando del «corso essenziale del destino mondiale che comincia». Comunque, in questo complesso di ambigue citazioni, come chiunque può ben vedere, stanno i fondamenti delle teorie dei marxisti heideggeriani e di certa Scuola di Francoforte.
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Decisamente merita un commento particolare un inciso che abbiamo finora tralasciato. «Come destino che destina la verità, l’essere rimane velato. Ma il destino del mondo si annuncia nella poesia senza essere già manifesto come storia dell’essere. Il pensiero di Hölderlin, dalla portata storica universale, che nella poesia Andenken si fa parola, è perciò essenzialmente più iniziale e di conseguenza più carico di avvenire di quanto non lo sia il semplice cosmopolitismo di Goethe. Per la stessa ragione il riferimento di Hölderlin alla grecità è qualcosa di essenzialmente diverso dall’umanismo. Per questo motivo i giovani tedeschi che sapevano di Hölderlin hanno pensato e vissuto di fronte alla morte qualcosa di diverso da quello che pubblicamente veniva spacciato per opinione tedesca».[23]
Val la pena di notare anzitutto che, secondo Heidegger, ciò che è più iniziale è anche più carico di avvenire. Da ciò si comprende come la sua concentrazione sul mondo del pensiero arcaico debba in realtà essere sempre considerata come una chiamata alla mobilitazione. Si comprende così anche che il fatto che egli si sia spesso occupato degli antichi greci durante il nazismo non significhi proprio che egli fosse un pensatore sprovveduto e avulso dagli eventi – come invece è stato suggerito. Secondariamente, a parte la polemica con Goethe, qui si propone un esempio concreto di quello che sarebbe il ruolo dei funzionari del linguaggio capaci, secondo Heidegger, di annunciare il destino del mondo nella poesia, prima che questo sia manifesto. Si suggerisce che Hölderlin, nella sua poesia, sia il veicolatore della vicinanza con l’essere, maturata in riferimento alla grecità e non certo maturata in seguito a una qualche prospettiva banalmente umanistica o cosmopolitica.
In terzo luogo – qui la cosa è davvero molto grave – si suggerisce che i giovani tedeschi che avevano rammemorato l’essere attraverso la poesia di Hölderlin si erano posti – loro soltanto – in modo autentico di fronte alla morte. Insomma, chi è vicino all’essere grazie all’intercessione dei funzionari del linguaggio sa vivere e sa anche morire. Dobbiamo dunque pensare che gli altri non si sollevino oltre il livello dell’animal rationale, come Heidegger ha suggerito. Solo la vicinanza con l’essere – resa possibile dalla frequentazione con Hölderlin – mette in grado i giovani tedeschi di non morire come animali, ma di morire autenticamente, in forma spirituale.[24] Non possiamo esimerci dal domandarci chi siano questi giovani tedeschi cui Heidegger si riferisce. Siamo nel 1946 e ogni ambiguità in proposito non può che essere del tutto deliberata. In secondo luogo, queste poche righe valgono – indirettamente – come un autorevole commento esplicativo circa la corretta interpretazione da dare al concetto dell’essere per la morte di cui si parla ampiamente in Sein un Zeit.
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Riconosciute come metafisiche le soluzioni individualistiche e collettivistiche, a Heidegger non resta che riprendere il suo motivo conduttore: «Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come ce lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. […] Il «più» significa: più originario e quindi più essenziale nella sua essenza. Ma qui compare l’enigma: l’uomo è nella condizione dell’essere–gettato (Geworfenheit). Ciò significa che l’uomo, come e-sistente controgetto (Gegenwurf) dell’essere, è più che animal rationale, proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo «meno» l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’essere chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità. Questa chiamata viene con il getto (Wurf) da cui scaturisce l’essere-gettato dell’esser-ci. L’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente in cui essere, in quanto e-sistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere. L’uomo è il vicino dell’essere».[25]
Questa citazione trasuda finta umiltà da tutti i pori. Heidegger critica la riduzione dell’uomo ad animal rationale, perché l’uomo è essenzialmente di più. Ma critica anche l’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività ponendosi al centro di ogni cosa (che poi è per lui l’altra faccia dell’animale razionale). Il ruolo giusto per l’uomo che vien proposto è quello del pastore dell’essere. Così l’uomo guadagna l’essenziale povertà del pastore. Non siamo i padroni della terra, dobbiamo essere umili, c’è qualcosa di altro, di enorme, che ci sovrasta.[26] L’uomo deve accontentarsi dunque di essere «il vicino dell’essere». Peccato che questa umiltà comporti poi la messa in moto delle forze impersonali del fato e del destino le quali sono tutt’altro che umili e nei confronti delle quali non resta che rassegnarsi.
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A questo punto, Heidegger si domanda ancora se la sua stessa prospettiva filosofica non possa essere considerata come l’autentico umanismo. «È l’umanismo che pensa l’umanità dell’uomo a partire dalla vicinanza all’essere, ma nello stesso tempo è l’umanismo in cui in gioco non è l’uomo, ma l’essenza storica dell’uomo nella sua provenienza dalla verità dell’essere».[27] Ma quasi subito ci ripensa e riprende la sua polemica. «Ma questo «umanismo», che va contro ogni umanismo finora esistito, senza però farsi affatto con questo portavoce dell’inumano, va chiamato ancora «umanismo»? […] O invece il pensiero non deve tentare, con una resistenza aperta all’«umanismo», di imprimere un impulso in grado anzitutto di insospettire circa l’humanitas dell’homo humanus e la sua fondazione? Allora, anche se il momento attuale della storia mondiale spinge già di per sé in questa direzione, potrebbe destarsi una meditazione che pensa non solo all’uomo, ma anche alla «natura» dell’uomo, e non solo alla natura, ma, in modo ancora più iniziale, alla dimensione in cui l’essenza dell’uomo, determinata dall’essere stesso, è di casa».[28] Insomma, la posizione di Heidegger potrebbe anche essere il vero umanismo, ma proprio perché lo è fino in fondo, in modo radicale, allora non può che rivelare l’intrinseca miseria dell’umanismo (comportandosi di fatto in termini antiumanistici). Così diventa del tutto lecito «insospettire circa l’humanitas dell’homo humanus e la sua fondazione». Essere fino in fondo veri umanisti implica un radicale anti umanismo. Heidegger sa benissimo dove vuole arrivare. L’impulso alla distruzione fenomenologica lo spinge ad attaccare qualsiasi certezza positiva consolidata che faccia a meno dell’essere.
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Heidegger si lamenta che Sein und Zeit da questo punto di vista sia stato frainteso e scambiato quindi per una sorta di esistenzialismo. Detto tra parentesi, è davvero singolare questa lamentela di essere stato frainteso per un pensatore che ha fatto di tutto per essere poco chiaro, e quindi per essere frainteso. Questo stesso atteggiamento compare ugualmente anche, in forma quasi ossessiva, in Husserl. I filosofi profeti (per usare una categoria cara a Norberto Bobbio) sono usi a lamentarsi continuamente di non essere capiti e spesso mettono in atto vere e proprie crociate contro gli stravolgimenti del loro pensiero.[29] A costoro non viene mai il sospetto che il fatto (presunto) di essere fraintesi sia dovuto alla scarsa chiarezza del loro pensiero. D’altro canto, con il senno di poi dobbiamo dare atto che, a un’attenta lettura di Sein und Zeit, effettivamente le posizioni di Heidegger erano già abbastanza chiare fin da allora. Si veda in particolare il famigerato paragrafo 74.
Heidegger comunque difende la sua posizione e rivendica la legittimità di parlare contro l’«umanismo» senza essere scambiato per un difensore dell’in-umano.[30] Egli rivendica la legittimità di mettere in discussione i fondamenti, addirittura i fondamenti della logica: «Pensare contro la «logica» non significa spezzare una lancia a favore dell’illogico, ma solo ripensare il λόγος e la sua essenza apparsa all’alba del pensiero, significa darsi finalmente da fare per preparare un simile ripensamento. A che ci servono i sistemi di logica, per comprensivi che siano, se, senza addirittura sapere ciò che fanno, per prima cosa si sottraggono al compito anche solo di interrogarsi sull’essenza del λόγος?».[31]
 La sua opposizione all’umanismo non implicherebbe affatto una difesa dell’inumano ma tenderebbe, invece, ad aprire “nuove prospettive” (il fatto che le nuove prospettive siano poi decisamente vecchie non sembra turbare affatto il “mago di Messkirch”). «Pensare contro i valori non vuol dire perciò sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’ente, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto».[32] Qui troviamo ancora il solito motivo della legittimità della distruzione fenomenologica contro la metafisica del soggetto e dell’oggetto. Resta decisamente da capire cosa resti del valore, di qualsiasi valore, una volta eliminata la distinzione tra il soggetto e l’oggetto.
Heidegger tenta di fornire una spiegazione dal suo punto di vista: «Si tratta piuttosto di capire finalmente che proprio quando si caratterizza qualcosa come «valore», ciò che è così valutato viene privato della sua dignità. Ciò significa che con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato lo è solo come oggetto della stima umana. Ma ciò che qualcosa è nel suo essere non si esaurisce nella sua oggettività, e ciò tanto meno se l’oggettualità considerata ha il carattere del valore. Ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare. Lo strano sforzo di dimostrare l’oggettività dei valori non sa quel che fa. […] Pensare per valori, qui e altrove, è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere. Pensare contro i valori non vuol dire perciò sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’ente, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto».[33]
È chiaro che, per Heidegger, un mondo di valori esclusivamente umani verrebbe immediatamente a trovarsi in competizione con l’essere (non è peraltro molto chiaro perché, poiché, in teoria, anche i valori dovrebbero essere enti come gli altri nell’apertura dell’essere). Probabilmente la competizione deriva dal fatto che ogni concentrazione su un valore umano distoglie dall’essere. L’uomo «abita» la radura dell’essere e in questo suo «abitare» ogni distoglimento dall’essere (come i valori) va accuratamente evitato. Dunque un umanismo che si fondi sul mero essere-nel-mondo dell’uomo e che non riconosca la trascendenza o la natura di ospite dell’essere dell’uomo sarebbe del tutto vano: «… nell’espressione «essere-nel-mondo», «mondo» non significa affatto l’ente terreno in contrapposizione a quello celeste, né il «mondano» in opposizione allo «spirituale». In quella determinazione, «mondo» non significa affatto un ente e neppure un ambito dell’ente, ma l’apertura dell’essere. L’uomo è, ed è uomo, in quanto è colui che e-siste. Egli sta fuori nell’apertura dell’essere, la quale è come tale l’essere stesso che, in quanto getto, si è gettata e acquisita a sé nella «cura» l’essenza dell’uomo. Gettato in tal modo, l’uomo sta «nell’» apertura dell’essere. «Mondo» è la radura dell’essere in cui l’uomo sta fuori a partire dalla sua essenza gettata».[34] Poiché per Heidegger questa collocazione periferica dell’uomo è un dato di fatto, allora qualsiasi umanismo sarebbe uno stravolgimento dell’uomo stesso.
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Heidegger rifiuta anche l’accusa che la sua posizione implichi una sorta di indifferentismo in termini teologici o religiosi. Egli ribadisce come il livello del suo discorso sia più approfondito e costituisca un livello preliminare rispetto qualunque altra versione del sacro. «Solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dal essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce delle essenza della divinità si può pensare dire che cosa debba nominare la parola «Dio»».[35]
Heidegger non lo dice esplicitamente, ma dalle sue parole deriva che anche Dio è un ente significativo che deve all’essere la sua esistenza. Questa evidentemente è la conclusione dei suoi studi, fin dagli anni giovanili, volti a sviluppare una fenomenologia della religione. Anche il sacro non può che derivare dall’essere. Nell’ultimo Heidegger la collocazione del sacro nel mondo della vita è stata poi ulteriormente precisata in senso topologico attraverso la teoria dei Quattro (Geviert: ingl. fourfold). In sintesi, il mondo della vita assume ora una dimensione spazio temporale primitiva, compresa tra quattro aree o dimensioni che sono la terra, il cielo, i mortali e i divini. Heidegger dunque non nega la possibilità che esista un Dio, ma ne fa un costrutto, lo entifica come ogni altra cosa. In questa maniera Heidegger non afferma del tutto, ma non nega neppure, la religione. Cosa che del resto già astutamente aveva fatto Hegel, tanto da essere considerato, dopo la sua morte, sia come il principe degli atei, sia come il più religioso dei filosofi.
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Heidegger, infine, cercando di interpretare gli interessi del suo interlocutore, si domanda se non sia necessario completare la sua stessa ontologia (che evidentemente ritiene di avere a questo punto compiutamente esposto) con un’etica. Egli riconosce retoricamente che un’etica, nella condizione attuale dell’umanità (siamo nel 1946) potrebbe essere anche necessaria, ma ripropone la centralità della sua ricerca ontologica. «Ma questo stato di necessità dispensa forse il pensiero dal ricordare ciò che innanzitutto resta da pensare e che, in quanto essere, è, prima di ogni ente, la garanzia e la verità? Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?».[36] Lo scandalo fondamentale della nostra epoca, dunque, non sta tanto nella molteplicità dei gravi problemi i quali richiederebbero lo sviluppo di un’etica, quanto nell’oblio dell’essere e nel rifiuto testardo di intraprendere il compito – annunciato dallo stesso Heidegger – di pensare l’essere. Si vede che lo scotimento di tutto l’ente e i gravi problemi del mondo attuale altro non sono che una chiamata dell’essere, il quale evidentemente domanda di essere tolto dall’oblio proprio attraverso il pensiero di Heidegger. I problemi della «condizione attuale dell’umanità» si risolverebbero probabilmente diventando tutti heideggeriani.
Heidegger ritiene tuttavia di dover approfondire maggiormente l’argomento dell’etica. Come aveva già fatto con l’umanesimo, mette in discussione la possibilità stessa di una separazione tra l’ontologia e l’etica, ricorrendo alla solita argomentazione circa l’assenza di distinzioni disciplinari all’interno del pensiero originario. La ricerca ermeneutico - fenomenologica intorno al pensiero originario, e dunque intorno all’essere, è fondamentale e viene prima di qualunque suddivisione disciplinare, prima anche di qualunque etica.
Heidegger ripercorre a suo modo la storia dell’etica che, come tutte le altre storie heideggeriane, ha che fare con la caduta, cioè con la sparizione dell’essere dall’orizzonte del pensiero originario. Le distinzioni disciplinari come etica, logica e fisica sono apparse soltanto nella scuola di Platone: «Prima di questo tempo, i pensatori non conoscevano né una «logica», né un’«etica», né la «fisica». Eppure il loro pensiero non è né illogico né immorale. Essi pensavano invece la φύσις con una profondità e un’ampiezza mai più raggiunte da nessuna fisica posteriore. Se è consentito un paragone del genere, le tragedie di Sofocle nascondono nel loro dire l’ήϑος in modo più iniziale delle lezioni di Aristotele sull’«etica». Un detto di Eraclito, che si compone di sole tre parole, dice qualcosa di così semplice che ne viene immediatamente in luce l’essenza dell’ethos».[37]
Val la pena di soffermarsi un attimo sulla pretesa heideggeriana secondo cui nessuna fisica posteriore abbia mai più eguagliato la fisica degli antichi (ovviamente dei greci). Solo un pazzo o un disadattato potrebbe sognare un mondo in cui la fisica sia quella dei presocratici o di Platone. Gli stessi nazisti, che pure, secondo Heidegger, dovevano senz’altro agire nella Lichtung dell’essere,[38] avevano cercato di costruire la bomba atomica seguendo le leggi della fisica. Le V2 volavano su Londra secondo le leggi della meccanica di Galileo e non secondo i contrari di Eraclito. Quest’assoluta impermeabilità a qualunque esperienza conferisce spesso alla filosofia heideggeriana i caratteri un delirio maniacale privo di qualsiasi contatto con la realtà. In ciò sta senz’altro la sua forza persuasiva. Che il pensiero degli antichi non fosse in sé immorale, ma che ammettesse tuttavia molti principi che oggi riteniamo generalmente immorali lo sanno anche i liceali: nessuno oggi accetterebbe di vivere nella Repubblica di Platone, nessuno accetterebbe la schiavitù aristotelica o il ruolo che Aristotele riservava alle donne. I detti di Eraclito poi, sul piano morale, dicono tutto e il contrario di tutto. Qui si vedono con chiarezza le catastrofiche conseguenze del filo ellenismo esasperato che è stato per lungo tempo popolare nella cultura tedesca e che ha portato a quella disgraziata colonizzazione che la Butler ha acutamente definito come la tirannia della Grecia sulla Germania.[39]
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Heidegger a questo punto si dilunga nel raccontare la sua interpretazione del frammento 119 di Eraclito, con una riflessione che rappresenta, in effetti, lo smantellamento dell’etica in quanto discorso sul bene e sul male. Dall’etimologia creativa di Heidegger emerge sostanzialmente che il significato originario del termine ethos sarebbe quello di luogo dell’abitare. «La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza».[40]
La conclusione è che «Il pensiero che domanda della verità dell’essere e che così determina il soggiorno essenziale dell’uomo a partire dall’essere in direzione dell’essere, non è né etica né ontologia. Perciò, in quest’ambito, la questione della relazione tra queste due discipline non ha più alcun fondamento. […] questo pensiero non è né teoretico né pratico. Esso avviene prima di questa distinzione. Per quel tanto che è, questo pensiero è pensiero che rammemora (Andenken) l’essere e nient’altro. Appartenendo all’essere, perché gettato dall’essere nella custodia della sua verità e per essa reclamato, esso pensa l’essere. Questo pensiero non approda ad alcun risultato e non ha alcun effetto. Esso soddisfa la sua essenza in quanto è. […] Il pensiero lavora a costruire la casa dell’essere; in quanto è tale casa, la compagine (Fuge) dell’essere dispone di volta in volta secondo il destino l’essenza dell’uomo nel suo abitare nella verità dell’essere. Questo abitare è l’essenza dell’«essere-nel-mondo»».[41]
Qui l’insensibilità per la problematica dell’etica si fa addirittura patologica. L’etica, avendo scopi di tipo pratico sarebbe da considerarsi come una disciplina inferiore. Il pensiero dunque si abbasserebbe e si distoglierebbe dal suo compito occupandosi di etica. Il pensiero pensa l’essere senza secondi fini. La casa dell’essere poi «dispone di volta in volta secondo il destino l’essenza dell’uomo». Non ci sono problemi etici di cui occuparsi, quando è già all’opera il destino.
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Per chiarire meglio la sua posizione circa l’etica, Heidegger introduce la sua teoria della nientificazione (das Nichten). Uso questo termine seguendo il traduttore italiano, anche se questa scelta sembra piuttosto corrispondere al vezzo heideggeriano di inventare parole nuove quando sono già disponibili altre parole. È probabile che l’introduzione a questo punto di questa dottrina avesse per Heidegger anche lo scopo di sottolineare le differenze con il nulla sartriano. Dato che il tema è sicuramente di grande rilevo ontologico, l’impressione che comunque si ha è quella di una certa confusione argomentativa e di qualche esitazione da parte di Heidegger nei confronti della questione, che viene sbrigata in poco più di una paginetta.
La questione del nulla viene introdotta, dopo avere sostenuto che il pensiero (in quanto caratteristico di un popolo o di una civiltà) governa l’e-sistenza storica nell’ambito dello schiudimento che avviene nella radura dell’essere: «Con ciò che è integro, nella radura dell’essere appare ancor più il male, la cui essenza non consiste nella semplice cattiveria dell’agire umano, ma nella malvagità dell’ostile. Entrambi, l’integro e l’ostile, possono dispiegare la loro essenza (wesen) nell’essere solo in quanto l’essere stesso è il contenzioso».[42] Pur non essendo del tutto chiaro che cosa siano l’integro e l’ostile, comprendiamo che Heidegger riconosce la presenza di una conflittualità, che avviene nell’apertura storica dell’essere. Tuttavia questa (e la presenza ivi del male o dell’ostile) secondo Heidegger non va confusa con la questione del nulla, infatti egli aggiunge subito che «In esso [nell’essere] si cela l’origine essenziale del nientificare».[43] Più oltre spiega che «[…] poiché il nientificare dispiega la sua essenza (west) nell’essere stesso, noi non possiamo mai coglierlo come un qualcosa che è nell’ente».[44] È un modo per dire, contro Sartre, che il problema del nulla è un problema ontologico, situato al livello dell’essere, mentre le questioni riguardanti l’etica (i rapporti tra l’integro e l’ostile) sono questioni che si sviluppano sul mero terreno dell’ente. La colpa di Sartre è quella di rimanere chiuso sempre dentro all’ente.
Cosa significa sostenere che «il nientificare dispiega la sua essenza (west) nell’essere stesso»? La sola interpretazione plausibile è che il nulla (das Nichten) sia, in qualche modo misterioso, presso l’essere e che quindi renda possibile il venire alla presenza degli enti e dunque l’esser-ci.[45] La nientificazione, secondo l’ultimo Heidegger, è ciò che dà origine all’abisso (Abgrund) della stessa differenza ontologica tra l’essere e l’ente. In altri termini, gli enti sarebbero il prodotto della nientificazione che avviene presso l’essere. Questo è ciò che Heidegger chiama il mistero (Geheimnis) dell’essere. Dato che l’essere non è una entità, dal lato dell’esser-ci, l’essere può essere afferrato solo come ciò che non è un ente. Tuttavia senza la nientificazione, senza l’abisso, non ci sarebbero gli enti. Tralasciando ogni giudizio di merito su una simile teoria e usando come falsariga questa ipotesi interpretativa, si chiariscono comunque le contorte argomentazioni che Heidegger sviluppa di seguito, rese ancora più oscure da varie difficoltà dovute alla traduzione.
Occorre sempre aver presente che, secondo Heidegger, l’essere affiora esclusivamente nel pensiero tramite il linguaggio. Sia il pensiero del bene che quello del male appartengono all’apertura dell’essere. Infatti: «Resta da chiedersi se, posto che il pensiero appartenga all’e-sistenza, ogni «sì» e ogni «no» non siano già esistenti nella verità dell’essere. Se è così, allora il «sì» e il «no» sono in sé già al servizio e in ascolto dell’essere. In quanto tali, non possono mai essere loro a porre ciò a cui appartengono».[46] Dunque, i criteri del bene e del male, come quelli del vero e del falso, non si applicano all’essere, ma sono resi possibili proprio dall’essere. Senza l’essere originario evidentemente non ci può essere né bene né male, né vero né falso. Il nulla esistenziale che si ritrova presso l’ente è dunque un relativo rispetto al Nichts che sta presso l’essere: «Il nientificare dispiega la sua essenza nell’essere stesso e non nell’esserci dell’uomo pensato come soggettività dell’ego cogito. L’esserci non nientifica affatto in quanto l’uomo, inteso come soggetto, attua la nientificazione nel senso del rifiuto, ma esser-ci nientifica in quanto, come essenza in cui l’uomo e-siste, appartiene esso stesso all’essenza dell’essere. L’essere nientifica - in quanto essere».[47]
Se il niente è presso l’essere e il niente del «ci» è soltanto un derivato, allora il niente è una possibilità ontologica dell’essere stesso: «Nell’essere, ciò che nientifica è l’essenza di ciò che io chiamo niente. Per questo, perché pensa l’essere, il pensiero pensa il niente. Solo l’essere concede all’integro l’elevazione alla grazia e all’ostile la spinta alla sventura».[48]
Il vero motivo per cui l’etica non ha senso per Heidegger è dato dal fatto che il niente del «ci» (che si riferisce al conflitto tra l’integro e l’ostile) è un derivato e che invece nell’essere c’è la potenza del niente. La potenza del niente che nientifica presso l’essere, poiché rende possibile l’abisso della differenza ontologica e la comparsa dell’ente, pare costituire anche una sorta di suprema legge del mondo degli enti, poiché giunge fino a concedere la grazia all’integro e la sventura all’ostile. Come faccia l’essere a intervenire fino a questo punto nella storia non è dato sapere nei dettagli e probabilmente ciò è legato al mistero del velamento/ disvelamento dell’essere. Anche Hegel era stato piuttosto reticente circa il funzionamento del tribunale dello Spirito del mondo. Comunque anche nel caso di Heidegger sembra funzioni il principio per cui ciò che si manifesta come ente, in quanto manifestazione dell’essere, va comunque sempre accettato come un fatto compiuto. Non si tratta per Heidegger di discutere circa la verità o falsità delle proposizioni etiche, si tratta di accettare quello che compare nella radura dell’essere, vuoi come integro, vuoi come ostile. Solo in termini di evento l’essere concederà secondo la sua decisione la grazia o la sventura. Chi vince ha sempre ragione.
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L’intervento dell’essere nell’ente, nella definizione del bene e del male, è talmente approfondito e dettagliato che giunge a determinare le leggi e le regole che l’uomo deve seguire. Tutto ciò si presume avvenga, in termini di evento, attraverso il pensiero e il linguaggio e i relativi funzionari del linguaggio. «Solo in quanto l’uomo, e-sistendo nella verità dell’essere, all’essere appartiene, dall’essere può giungere l’assegnazione di quelle consegne che devono divenire legge e regola per l’uomo. Assegnare in greco si dice nemein. Il nomos non è solo legge, ma più originariamente è l’assegnazione nascosta nella destinazione dell’essere. Solo questa destinazione può disporre l’uomo nell’essere. Solo tale disposizione è in grado di reggere e di legare. Altrimenti ogni legge resta solo il prodotto della ragione umana. Più essenziale di ogni fissazione di regole è che l’uomo trovi il soggiorno nella verità dell’essere».[49]
Il fatto che ogni legge sia un prodotto della ragione umana è considerato da Heidegger un fatto disdicevole, poiché le leggi prodotte dalla ragione umana non sono in grado di «reggere e di legare». Evidentemente sta dicendo che solo il forte legame spirituale che deriva dalla vicinanza con l’essere è in grado di rendere efficaci le leggi che compaiono nell’ambito di un popolo o di una civiltà. La legge è dunque un evento che si manifesta sul terreno dell’essere. È l’essere la fonte ultima dello spirito della legge. Heidegger non lo dice, ma si può arguire che anche lo Stato non possa che trarre in ultima analisi la sua legittimità dalla vicinanza con l’essere, altrimenti sarebbe ridotto a mero apparato tecnico.
Seguendo questo modo di pensare, non solo non si potrà ovviamente dar luogo a un’etica dell’utile, ma neanche a un’etica del dovere. Forse l’unica consegna riconducibile a una proto etica, che Heidegger non si stanca di ripetere, è quella di pensare l’essere (o se si preferisce di poetare nell’orizzonte dell’essere). Stare presso l’essere, fare i pastori dell’essere. L’unico atteggiamento veramente «etico», se così si può dire, è la concentrazione sul pensiero originario. I soli eticamente a posto, ancora una volta, sono i funzionari del linguaggio, i veri pastori dell’essere, i quali dovrebbero evidentemente farsi tramite dell’essere nella storia.
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Il rapporto tra i funzionari del linguaggio è l’essere è così immediato che tra essi non può sussistere alcuna pluralità o diversità di opinioni. La questione viene così chiarita: «L’essere si è già destinato al pensiero. L’essere è come destino del pensiero. Ma il destino è in sé storico. La sua storia è già venuta al linguaggio nel dire dei pensatori. Portare di volta in volta al linguaggio questo avvento dell’essere, avvento che rimane e che nel suo rimanere attende l’uomo, è l’unica cosa del pensiero. Per questo i pensatori essenziali dicono sempre la stessa cosa. Questo non vuol dire che dicano cose uguali. Ovviamente essi dicono questo solo a chi è disposto a seguirli nel pensare. In quanto il pensiero, rammemorando storicamente, presta attenzione al destino dell’essere, si è già legato a ciò che con-viene (das Schickliche) e che è conforme al destino (Geschick). Rifugiarsi nell’uguale non è pericoloso. Il pericolo è nell’arrischiarsi nella discordia per dire la stessa cosa. C’è infatti la minaccia dell’ambiguità e del mero dissidio».[50]
La teoria della con-venienza, della conformità al destino, non è altro che la teoria della totale subordinazione della parte al tutto, nella colossale illusione che in tal modo siano superati ed eliminati tutti i conflitti in campo pratico e in campo etico. L’essere rappresenta il terreno del mondo della vita entro il quale si realizza una specifica essenza dell’uomo. L’uomo se non vuol essere un animale non può che abbracciare l’essenza che gli è donata dall’essere che vuole bene e dunque l’uomo non può che fare quello che storicamente con-viene, conformemente al destino. Non bisogna «arrischiarsi nella discordia per dire la stessa cosa», cioè il cosiddetto libero pensiero è qualcosa di privo di senso.
Dato che la verità è quella dell’essere, tutte le divagazioni del pensiero ruotano sempre intorno alla stessa cosa. Tutta la storia e la cultura dell’uomo ruotano intorno alla stessa cosa. Il pluralismo (come nel caso della metafisica) è dissidio e il dissidio comporta l’allontanamento dall’essere. Insomma una gigantesca tautologia che progressivamente dovrà ingoiare tutte le differenze, tutti i contrasti, tutti i dissidi, nell’accettazione del destino dell’essere. In fondo, come in tutte le teologie, qui non c’è un domandare autentico, non ci sono problemi veri, soluzioni aperte, perché la risposta si conosce già in anticipo.
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Per chi chiedeva dunque lumi su una nuova etica, a chi chiedeva di dare un senso, magari nuovo, alla parola umanismo, la conclusione è piuttosto deludente: «È tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, meno letteratura e più cura della lettera delle parole. Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa».[51] La crisi mondiale seguita alla guerra dunque non ha spostato di un millimetro le posizioni di Heidegger. Quindi la Lettera si chiude con l’annuncio della fine della filosofia, della fine della metafisica e della loro prossima sostituzione con il pensiero.
Il pensiero dell’essere porta indubbiamente le tracce della religione dell’essere che recentemente Heidegger aveva cercato di costruire nella sua fase nazista. Tramontato il nazismo ora Heidegger poteva sperare di rivolgersi all’intero Occidente con una narrazione del tutto similare. Heidegger aspirava a diventare un «nuovo Lutero», l’istitutore di un nuovo rapporto con il divino. La Lettera (si ricordino altre lettere che hanno avuto rilievo nella storia religiosa) si proponeva dunque di rivolgere il messaggio pastorale heideggeriano ai vincitori. Heidegger pensava, come Paolo di Tarso, di colonizzare i vincitori. Forse non aveva tutti i torti, a considerare la letteratura heideggeriana che c’è in giro oggi, potremmo anche convenire che c’è proprio riuscito.
Si tratta di un pensiero che manifesta, ahimè, un’infinita presunzione nei confronti dell’intera storia della filosofia, metafisica compresa, ma che si propone in un atteggiamento di deferente umiltà nei confronti dell’essere che è il suo padrone e nei confronti dei suoi rappresentanti in terra, pensatori, poeti ed eroi.[52] È questo l’atteggiamento intellettuale proprio dei servi.[53] Infatti, dopo avere mandato all’aria la storia della filosofia occidentale, Heidegger minimizza: «Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi».[54] È l’immodesta modestia di chi annuncia svolte epocali ineluttabili, qualificandosi come un umile funzionario della suprema Necessità. Una grande impresa per piccoli uomini, i funzionari del linguaggio, che altro non fanno che assecondare diligentemente ciò che ha già previsto il destino.
 
03/09/2014
                                                                               Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
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2012 Butler, Elizabeth
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1993 Heidegger, Martin
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1976 Heidegger, Martin
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1994 Heidegger, Martin
Bremer und Freiburger Vorträge. 1. Einblick in das was ist 2. Grundsätze des Denkens, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002. [1949-1957]
 
2013 Kosman, Aryeh
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1988 Ott, Hugo
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1998 Philipse, Herman
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1946 Sartre, Jean-Paul
L’existentialisme est un umanisme, Éditions Nagel, Paris. Tr. it.: L’esistenzialismo è un umanismo, Pagus, Treviso, 1993.
 
2010 Schalow, Frank & Denker, Alfred
Historical Dictionary of Heidegger’s Philosophy, The Scarecrow Press, Inc., Lanham.
 
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La force du préjugé, Éditions La Découverte, Paris. Tr. it.: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994.
 
2010 Viroli, Maurizio
La libertà dei servi, Laterza, Bari.
 
 
 
NOTE
 
 
[1] Heidegger 1976: 287.
[2] Heidegger 1976: 287.
[3] Heidegger 1976: 287.
[4] Heidegger 1976: 288.
[5] Heidegger 1976: 288.
[6] Heidegger 1976: 288.
[7] Heidegger 1976: 289.
[8] Heidegger 1976: 290.
[9] Questo è un perfetto esempio del pensiero vago, secondo una felice espressione di C. A. Viano. Alcuni sono pervicacemente convinti che il pensiero vago, in quanto più comprensivo, debba essere decisamente preferito al pensiero critico rigoroso.
[10] Heidegger 1976: 291.
[11] Heidegger 1976: 290-291.
[12] Heidegger 1976: 291.
[13] Cfr. Philipse 1998.
[14] Heidegger 1976: 291-292.
[15] Qui si vede con chiarezza l’uso opportunistico che Heidegger fa della nozione di essenza. L’essenza (di qualsiasi cosa) proviene dall’essere (quindi tutte le essenze, in quanto essenze, sono uguali). Ma poiché l’essere viene alla presenza nel tempo in molteplici enti, tutti questi enti non possono che avere la loro essenza (cioè, il fatto di provenire dall’essere). Ne deriva che tutto quel che compare è un dato di fatto essenziato (cioè munito di essenza) dall’essere.
[16] Una simile lettura di Marx è del tutto assurda: l’alienazione marxiana è proprio la perdita della humanitas, la corruzione della forma umana, tanto contestata da Heidegger.
[17] Si noti che il termine storiografia, riferendosi a una scienza, ha per Heidegger connotazioni comunque negative.
[18] Heidegger 1976: 292-293.
[19] Non era proprio Carl Schmitt, l’amico di Heidegger, che suggeriva, nelle citazioni e nelle bibliografie, di indicare sempre l’eventuale origine ebraica degli autori citati?
[20] Heidegger 1976: 293. Affermazioni di questo spessore sono bastate per convertire molti marxisti su posizioni fortemente ostili alla scienza moderna e alla tecnologia.
[21] Heidegger 1976: 293-294.
[22] Heidegger 1976: 293-294.
[23] Heidegger 1976: 292. Andenken vuol dire ricordo, memoria. La traduzione italiana presenta una misteriosa circonlocuzione, «…quello che pubblicamente veniva spacciato per opinione tedesca», che suona molto più chiara in inglese: «When confronted with death, therefore, those young Germans who knew about Hölderlin lived and thought something other than what the public held to be the typical German attitude». Non di opinione tedesca si tratta, bensì di atteggiamento dei tedeschi. Anche Volpi va preso con le molle.
[24] Come abbiamo già avuto modo di osservare, la stessa tematica viene trattata in Heidegger 1994, nella conferenza Il Pericolo del 1949. Cfr. Heidegger 1994.
[25] Heidegger 1976: 294-295. Wurf significa lancio, tiro.
[26] Questo atteggiamento ha contribuito ad avvicinare Heidegger a certe correnti ecologiste e religiose odierne, le quali spesso non immaginano neppure con che tipo di pensiero hanno a che fare.
[27] Heidegger 1976: 295.
[28] Heidegger 1976: 298.
[29] Come se tutti fossero lì a complottare, a consumare le loro energie per ingegnare oscuri espedienti per riuscire a stravolgere il loro riverito pensiero.
[30] Sebbene, nella sua filosofia, non ci sia davvero nulla che permetta di distinguere tra l’umano e il non umano.
[31] Heidegger 1976: 300. Qui è chiara la presunzione di Heidegger, a dispetto della sua untuosa e retorica umiltà, per cui il suo pensiero dell’essere dovrebbe essere fondativo rispetto a tutte le altre discipline. La stessa presunzione di una filosofia fondativa delle scienze si trova in Husserl.
[32] Heidegger 1976: 301. L’umanismo sarebbe la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto.
[33] Heidegger 1976: 301.
[34] Heidegger 1976: 301-302.
[35] Heidegger 1976: 303.
[36] Heidegger 1976: 305. Lo scotimento è reso con uprooting (sradicamento) dal traduttore inglese.
[37] Heidegger 1976: 305-306.
[38] Faye racconta che l’idea della Lichtung sarebbe venuta a Heidegger osservando il fascio delle luci volto al cielo durante uno dei tanti raduni notturni nello stadio di Norimberga. Evidentemente l’essere stava passando da Norimberga. Del resto anche Hegel aveva visto lo Spirito del mondo a cavallo per le strade di Jena.
[39] Cfr. Butler 2012.
[40] Heidegger 1976: 306.
[41] Heidegger 1976: 308-309.
[42] Heidegger 1976: 310.
[43] Heidegger 1976: 310.
[44] Heidegger 1976: 310-311. La traduzione italiana è terribilmente contorta. Nientificare (nichten) viene comunemente tradotto in inglese come nihilation. La traduzione inglese è più chiara: «Both of these, however, healing and the raging, can essentially occur only in Being, insofar as Being itself is what is contested. In it is concealed the essential provenance of nihilation». Cfr. Heidegger 1993: 260.
[45] Questa interpretazione è suggerita in diverse voci di Schalow 2010. Insomma, gira e rigira, all’origine c’è sempre un turbamento della perfezione originaria. La nientificazione è il peccato originale dell’essere. Questa problematica è tipica del neoplatonismo.
[46] Heidegger 1976: 311.
[47] Heidegger 1976: 311.
[48] Heidegger 1976: 311.
[49] Heidegger 1976: 312.
[50] Heidegger 1976: 314.
[51] Heidegger 1976: 314. La traduzione in inglese di Frank Capuzzi è notevolmente più chiara: «The thinking that is to come is no longer philosophy, because it thinks more originally than metaphysics—a name identical to philosophy». La «attuale situazione di necessità del mondo» è resa con «the present world crisis»; dato che la Lettera è del 1946, il senso delle due diverse traduzioni si commenta da solo.
[52] In Sein und Zeit Heidegger aveva sostenuto che ogni generazione sceglie i propri eroi. L’eroe è qualcuno che incorpora un modo di esistenza. Poiché la proiezione dell’esserci dell’eroe è determinata dalla concezione dell’esistenza di una generazione, l’eroe conferisce a ciascuna generazione la sua unità distintiva. Cfr. Schalow & Denker: 137-138.
[53] Sui servi non posso che citare lo splendido libretto di Maurizio Viroli intitolato La libertà dei servi (Viroli 2010).
[54] Heidegger 1976: 315.