martedì 26 luglio 2022

Il Centro Sinistra Disunito e la sfida elettorale

1. Mancano più o meno sessanta giorni alle elezioni che si terranno il 25 settembre 2022. Con poco più di sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale. Il problema non è tanto costituito dall’anticipo temporale, quanto dalla profonda mutazione del quadro politico che è intervenuta nel giro di una settimana o poco più. Il centro sinistra non è mai pronto alla consultazione elettorale. Questa volta più che mai.

L’unica certezza finora prefigurata in termini di alleanze, il cosiddetto “campo largo” del centro sinistra, che doveva essere incentrato su PD e M5S, non esiste più, almeno per com’era stato disegnato. Al suo posto una montagna di cocci, una serie di veti incrociati, di incompatibilità reciproche che sembrano impedire qualsiasi tipo di alleanza, anche solo per fini elettorali, come consente il Rosatellum.

È questo l’indegno finale della XVIII legislatura, una delle peggiori in assoluto della storia repubblicana. Una legislatura dove davvero si è visto di tutto. La forza politica principale responsabile del disastro, il M5S ha squarciato le istituzioni, ha dilapidato il proprio capitale elettorale e politico, ha gravemente danneggiato il Paese e per giunta non mostra neppure – nel termine inglorioso della vicenda, ora che i giochi sono fatti - un barlume di consapevolezza e di auto critica. Il M5S lascia un sistema politico a pezzi, in condizioni assai peggiori di quelle che aveva trovato cinque anni fa. Grillo e i suoi dovrebbero essere chiamati a pagare i danni causati al Paese. L’attività politica purtroppo è una delle poche dove chiunque può danneggiare la collettività impunemente. Magari vantandosi anche dei disastri combinati.

Tutto ciò comunque non assolve il centro destra che, fiutando un facile successo elettorale, non ha esitato a buttare a mare il governo di unità nazionale di Mario Draghi, infischiandosene dei problemi del Paese.

2. I sondaggi elettorali e le proiezioni attribuiscono, ormai da lungo tempo, la vittoria al centro destra, impersonato dai tre principali partiti Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega. Partiti peraltro assai eterogenei, tenuti insieme solo dall’interesse elettorale. Sono state fatte ampie e ripetute simulazioni e ora - a maggior ragione dopo la defezione del M5S dal governo Draghi e la sua spaccatura - sembra proprio che per il centro sinistra non ci sia alcuna speranza. Taluni prevedono una vittoria del centro destra così schiacciante (oltre i due terzi dei seggi) tale da permettergli di modificare la Costituzione senza neppure bisogno di referendum. Ci troveremmo davanti a una deriva ungherese o polacca, a confronto con la quale quel che abbiamo visto nella XVIII legislatura sono solo bruscolini.

3. Eppure solo un paio di settimane fa, Luca Ricolfi faceva osservare, in un suo articolo su la Repubblica, che dal punto di vista puramente numerico il centro destra e il centro sinistra più o meno si trovavano in una condizione di parità.[1] In una condizione nella quale, dunque, i giochi potevano essere ancora del tutto aperti. In termini generali, Ricolfi aveva del tutto ragione. Se consultiamo i sondaggi più recenti disponibili, nel momento in cui scriviamo, nel nostro caso la Supermedia di YouTrend del 21 luglio 2022,[2] troveremo che al centro destra è attribuibile il 45,6% dei consensi. Al centro sinistra, mettendo nel mucchio veramente tutte le formazioni grandi e piccole, si giunge al 46,4% dei consensi. In questo calcolo è compresa una quota di consensi di 10,8% attribuita al M5S. Questo accadeva ovviamente prima della scissione del gruppo di Di Maio, Insieme per il futuro, il cui peso elettorale è al momento di difficile valutazione.

È vero dunque che, numericamente, il centro sinistra non starebbe poi così male. Dove sta il problema allora? Il problema sta nel fatto che mentre nel caso del centro destra non ci sono incompatibilità interne di principio (i leader e gli elettori del centro destra non pongono veti reciproci) nel caso del centro sinistra ci sono notoriamente enormi veti reciproci e incompatibilità di vario genere che vengono fatte valere praticamente in ogni circostanza. Ciò potrebbe impedire al centro sinistra di sfruttare le opportunità offerte dalla legge elettorale. Il centro sinistra dunque è destinato a perdere soltanto a causa della sua profonda disunità interna. Tanto che lo possiamo utilmente individuare con sigla del Centro Sinistra Disunito. Si noti che la disunione è dovuta sia ai leader sia a forti incompatibilità anche negli elettorati di base, a loro volta fomentate dagli stessi leader che lavorano attivamente per la divisione.

4. Vediamo un poco più in dettaglio come stanno le cose. YouTrend attribuisce il 10,8% al M5S, prima della scissione di Di Maio e prima della rottura del M5S di Conte con il resto del centro sinistra. È questa una quota intorno alla quale non v’è attualmente alcuna certezza. Una parte sarà probabilmente recuperata al centro sinistra, oppure sarà mantenuta dal M5S di Conte. È una quota comunque la cui perdita non è irreparabile e che potrebbe essere aggirata e compensata con una buona campagna elettorale. Comunque sarà una quota non a disposizione della destra, se il M5S manterrà, come sembra, una posizione vagamente radical progressista o anti sistema.

Abbiamo poi il 2,7% attribuito a Italia Viva e il 4,9% attribuito ad Azione/ +Europa. Notoriamente questi due gruppi, oltre a essere partiti personali, sono decisamente poco compatibili con il PD e assolutamente incompatibili con il M5S nelle varie manifestazioni. Abbiamo poi un 1,8% attribuito a Sinistra Italiana e un 1,9% attribuito a Art.1-MDP. Questi due gruppi sono in disaccordo tra di loro (Sinistra Italiana non ha appoggiato il governo Draghi) e in disaccordo particolarmente con Italia Viva e con Azione. Abbiamo poi il 2,2% attribuito agli enigmatici Verdi, sempre assai poco prevedibili circa veti e compatibilità. Per finire in bellezza segnalerò che al PD è attribuito da YouTrend il 22,1%. Anche il PD ha ora sviluppato (dopo l’affaire Draghi) la sua brava incompatibilità con il mondo M5S, mentre continua a essere poi incompatibile soprattutto con Italia Viva, date le note vicende dei due leader. Nel PD, manco a dirlo, dopo la rottura con il M5S, si stanno facendo strada anche tendenze isolazioniste. Insomma, il panorama è quello di una tendenza enorme verso la disgregazione.

5. È appena il caso poi di segnalare una frattura non del tutto ufficiale ma alquanto profonda, nel campo del centro sinistra, che negli ultimi tempi si è accentuata particolarmente (e che potrebbe addirittura portare a ulteriori recrudescenze, tanto da divenire insanabile). Mi riferisco alla componente populista pacifista, filo putiniana e anti atlantista che è assai presente nei cespugli più estremi e nelle organizzazioni collaterali del centro sinistra, laiche e cattoliche.[3] Costoro non è detto che non approfittino delle elezioni imminenti per lanciare in campo elettorale una componente pacifista populista, con alla testa magari personaggi come Santoro, Montanari, Canfora e giù di lì. Senza escludere Ugo Mattei. In tal caso, potrebbero costituire un notevole ulteriore disturbo al centro sinistra nel suo complesso. Forse solo la difficoltà nella raccolta firme ci priverà di questa proposta politica. Manco a dirlo, la destra pur avendo dissensi interni notevoli sulla politica estera – ad esempio l’atlantismo di Fratelli d’Italia contrapposto al filo putinismo della Lega – si guarderà bene dall’agitare la questione delle armi e della pace.

6. Un’ulteriore fonte di conflitto interno di natura più recente sarà poi costituita dalla valutazione del programma di Draghi, che indubbiamente sarà uno degli argomenti principi della campagna elettorale. Abbiamo già notato come non tutti i cespugli della sinistra più estrema abbiano gradito l’esperienza del governo Draghi e come ciascuno poi vanti le proprie esclusive correzioni necessarie. Il programma Draghi aveva il vantaggio che era dettato dall’urgenza e dunque poteva spingere a una qualche forma di accordo anche i più riottosi. Ora che Draghi è caduto – seppure non siano venute meno le ragioni di urgenza – ciascuno riprenderà i suoi distinguo. Un caso tipico sembra già essere quello di Calenda, che tende costantemente a distribuire le pagelle tra quelli che potrebbero essere i suoi alleati e quelli che no. Anche Sinistra Italiana sta dicendo che per poter fare una coalizione di centro sinistra si deve abbandonare il programma di Draghi.

7. Prima di procedere oltre nel ragionamento, sarà bene fare qualche considerazione sul funzionamento del Rosatellum, la disgraziata legge elettorale con la quale dovremo votare e che, assai colpevolmente, nessuno ha voluto cambiare. Uno degli equivoci più diffusi è quello secondo cui il Rosatellum imporrebbe ai partiti di fare le coalizioni, di avere un programma elettorale e di avere un leader che sarà designato a governare. In realtà, niente di tutto ciò. Il Rosatellum ammette le coalizioni ma queste servono soltanto per il computo dei voti e la distribuzione dei seggi durante il processo elettorale e non hanno alcun effetto sulla eventuale formazione di un governo. Una coalizione tra liste che sia costituita secondo il Rosatellum vale ai soli fini elettorali e, di fatto, è sciolta il giorno dopo le elezioni, salvo la volontà delle liste coalizzate di proseguire la loro collaborazione in altri modi.

Il Rosatellum dunque offre dei vantaggi del tutto tecnici alle coalizioni di liste ma non impone loro di avere né un leader né un programma comune. Sembra strano ma è proprio così. Impone solo di avere eventualmente dei candidati comuni (nella parte uninominale che riguarda circa un quarto delle candidature). Diciamo allora che il Rosatellum premia quelle coalizioni che siano in grado di definire candidati comuni capaci di guadagnare la maggioranza dei consensi nei collegi uninominali. Il fatto dunque che in questi giorni si parli intensamente di programmi della coalizione e di premier (cose di cui si sta ampiamente discutendo ad es. nel Centro Destra) non c’entra nulla col Rosatellum. Programmi e premier allo stato attuale servono solo ad abbindolare gli elettori, sono solo espedienti propagandistici. Il Rosatellum è un sistema proporzionale e la formazione del governo avverrà in Parlamento, dopo le elezioni e lì – tranne casi rari - le coalizioni elettorali non conteranno più nulla (come si è visto abbondantemente nella XVIII legislatura).

8. Data la attuale legge elettorale, l’unica speranza che il centro sinistra può ancora avere di competere effettivamente con il centro destra sarebbe dunque quello di presentarsi ovunque in modo unitario con un rassemblement europeista atlantista, anti sovranista, draghiano nei fatti, ma abbastanza generico da essere assai ampio, ecumenico e, soprattutto,  capace di fare man bassa (scegliendo opportunamente le migliori candidature) in tutti i collegi uninominali. È questo dunque il requisito fondamentale per essere realmente competitivi sul piano elettorale. Le liti furibonde che già si intravvedono sui punti specifici del programma del centro sinistra e su chi farà il leader sono assolutamente inutili e fuori luogo. La priorità sarà quella di mettere nei collegi (uninominali e plurinominali) dei candidati (che avranno nome e cognome sulla scheda) che siano capaci di vincere. Se per i vostri comodacci avrete messo tra i candidati delle ciofeche, sarà del tutto inutile e incomprensibile ogni dibattito sui sottili distinguo programmatici. E l’astensione degli elettori sarà solo destinata ad aumentare.

9. Questo implica che tutti i partiti grandi e piccoli del centro sinistra dovranno sedersi attorno a un tavolo, dovranno applicare strategie di desistenza in modo intelligente, dovranno rinunciare agli orgogli di bottega, alle ambizioni carrieristiche e scegliere davvero le migliori candidature, senza neppure badare alla propria specifica sopravvivenza o a un proprio malinteso diritto di tribuna che, nella frammentazione cui assistiamo a sinistra, non potrebbe comunque portare da nessuna parte. Altrimenti avremo la frantumazione delle liste e il proliferare delle micro coalizioni, la frantumazione delle candidature, perderemo tutti i collegi uninominali e la destra farà piazza pulita. La domanda di tipo ultimativo, in stile draghiano, è questa: è pronto il centro sinistra nelle sue formazioni grandi e piccole, nei suoi leader chiassosi e parolai, a fare questo sacrificio degli interessi particolari (cosa che finora non ha mai saputo fare) nel nome dell’interesse generale? Sarebbe, infatti, proprio questo il comportamento logico da adottare.

Per quel che conosciamo del mondo del centro sinistra, possiamo star sicuri che la risposta è un secco no. Non è pronto. Saremo ben felici di essere smentiti. È del tutto facile prevedere purtroppo che – nello spirito generale di débâcle – ciascuna formazione cercherà di esaltare le proprie differenze, le proprie particolarità, di difendere le proprie teste di ponte, le proprie poche candidature sicure, in modo da spuntare un pezzettino e da garantire la propria minimale sopravvivenza nella prossima legislatura. Sopravvivenza di cosa? Tante minimali sopravvivenze costituiranno purtroppo la débâcle collettiva. Dopo una grave sconfitta, dell’attuale centro sinistra non resterà più nulla.

10. Ecco dunque avanzare inesorabilmente, sullo scenario elettorale della prossima ventina di giorni, il protagonista tragicomico del Centro Sinistra Disunito. Non è un protagonista nuovo, ma questa volta, nel bene o nel male, non potrà nascondersi e sarà costretto a recitare pubblicamente una parte esplicita. Non passerà davvero inosservato.  Il Centro Sinistra Disunito – colpevolmente disunito da tempo immemorabile – ha dunque di fronte una grande responsabilità: mostrare per la prima volta – in questa situazione drammatica in cui versa l’Europa e il nostro Paese - la capacità di fare tutti quanti un passo indietro nell’interesse collettivo. Mostrare che si può fare politica nell’interesse comune, che si può mettere da parte il perseguimento delle carriere personali e degli interessi delle piccole organizzazioni. La responsabilità dei leader, piccoli o grandi, in questa fase sarà davvero notevole. Altrimenti il centro destra si piglierà tutto.

11. Il Rosatellum, nella formazione delle candidature e delle liste, delega proprio ogni cosa alle decisioni dei partiti. Le liste sono bloccate e gli elettori si troveranno i nomi sulla scheda. Come elettori del centro sinistra avremo una sola arma: punire – non votandoli – tutti i leaderini spocchiosi e divisivi che porranno i loro distinguo, i loro ultimatum e che non si metteranno a disposizione dell’interesse della intera coalizione. Punire i frazionisti, scegliendo il voto utile anziché il voto di testimonianza. Poiché le liste e le candidature andranno depositate a metà agosto, ci sono due o tre settimane per decidere le candidature. Poi i giochi saranno fatti. La destra potrebbe già vincere solo ed esclusivamente per il particolarismo dei piccoli centri di potere del Centro Sinistra Disunito. E le scelte fatte, noi elettori (quei pochi rimasti) questa volta ce le segneremo con la matita rossa e ce le ricorderemo bene.

 Giuseppe Rinaldi (24/07/2022)


 

NOTE 

[1] L’articolo di Ricolfi è ora reperibile anche sul sito della Fondazione Hume.

[2] Cfr. Sondaggi - YouTrend

[3] Si veda in proposito la mia analisi contenuta nel saggio Catechismo, guerra e resistenza.  Cfr. : Finestre rotte: Catechismo, guerra e resistenza.

 

 


mercoledì 6 luglio 2022

Note sparse sul declino della politica locale









1. Queste note fanno seguito a un mio precedente articolo[1] nel quale ho esaminato, con un certo dettaglio, il fenomeno dell’astensionismo elettorale nella città di Alessandria. Proseguendo le riflessioni contenute in quell’articolo, mi sono domandato cosa potrebbe succedere, nelle prossime elezioni del 2027 e del 2032, se la tendenza all’astensionismo elettorale in Alessandria continuasse a crescere in modo più o meno analogo. La domanda nasce dall’esigenza di valutare con maggiore precisione la gravità o meno del fenomeno dell’astensione, e dunque l’opportunità di mettere – come suggerivo – il contrasto all’astensione al primo posto dell’agenda politica. Di questo tratterò nella prima parte di queste note.  Secondariamente, in conseguenza anche di qualche reazione di fastidio del tutto fuori luogo che il mio articolo ha suscitato, mi sono domandato quali possano essere le basi culturali dell’indifferenza o della tolleranza verso il fenomeno dell’astensionismo, anche presso quegli ambienti che dovrebbero invece esserne immuni. Di questo tratterò nella seconda parte.

2. Avendo a disposizione la serie storica dell’affluenza alle urne a partire dal 1993, è possibile azzardare qualche previsione sul futuro che ci aspetta. È vero che le previsioni statistiche sono soggette a errori più o meno grandi e dunque, in un certo senso, lasciano il tempo che trovano. Ma è anche vero che possono prefigurare nel dettaglio quel che potrebbe succedere, a partire dagli eventi pregressi, se non avremo fatto nulla per cambiare la situazione. Avere davanti uno scenario futuro concretamente configurato può essere utile per decidere se è il caso o meno di occuparsi della questione. E se la questione è urgente.


Fig. 1 – Serie storica del numero dei votanti al primo turno alle elezioni amministrative di Alessandria, nel periodo 1993-2022. Nei due cartellini in giallo si trovano le previsioni per il 2027 e 2032. Nel 2002, 2012 e 2022 ha vinto il centro sinistra.

 

Fig. 2 – Serie storica del numero dei votanti al secondo turno alle elezioni amministrative di Alessandria, nel periodo 1993-2022. Nei due cartellini in giallo si trovano le previsioni per il 2027 e 2032. Nel 2007 non c’è stato il ballottaggio.

 

3. Per approssimare l’andamento dei dati dell’astensione, di elezione in elezione, e per estrapolare l’andamento futuro, ho utilizzato la regressione lineare, che è il metodo più semplice e intuitivamente comprensibile. I risultati sono presentati nella Fig. 1 e nella Fig. 2. I valori di R2, che misurano la bontà dell’interpolazione, sono piuttosto elevati, 0,96 e 0,93. Ho provato anche a utilizzare una curva polinomiale di ordine due, la quale però ha dato più o meno  risultati analoghi e non ha migliorato decisamente il fit. Dunque, per non complicare più di tanto, ho mantenuto il modello lineare.

Come si vede nella Fig. 1 e nella Fig. 2, dai calcoli emerge che, se l’andamento dell’astensione continuerà con la stessa tendenza delle elezioni precedenti, nella prossima consultazione elettorale del 2027 potremo aspettarci, più o meno, una cifra intorno ai 29.528 elettori votanti al primo turno e una cifra intorno ai 20.177 al secondo turno. Alle elezioni del 2032 potremo aspettarci un ulteriore peggioramento della partecipazione e cioè una cifra intorno a 24.530 elettori votanti al primo turno e ai 14.692 elettori votanti al secondo turno. Si tratta, come ognun può costatare, di perdite assai elevate che andrebbero ad aggiungersi alle precedenti.

4. Queste proiezioni sono espresse in valori assoluti. Forse qualcuno dei lettori preferirebbe ragionare in termini di percentuali. Per sapere cosa significano queste cifre trasformate in percentuale, dobbiamo rapportare i votanti previsti agli aventi diritto previsti. Perciò, con lo stesso metodo usato in precedenza, dobbiamo prima stimare l’andamento futuro della popolazione degli aventi diritto. La cosa si può fare facilmente. Non sto qui a riportare il grafico. Riporto semplicemente i risultati: nel 2027 dovremmo avere una popolazione di aventi diritto intorno a 72.295 unità e nel 2032 intorno a 71.260 unità. A questo punto siamo in grado di calcolare le tendenze in forma percentuale. Nel 2027 l’afflusso alle urne per il primo turno dovrebbe oscillare intorno al 41%, mentre, al secondo turno, dovrebbe collocarsi intorno al 28%. Alle elezioni successive, nel 2032, cioè tra dieci anni, l’afflusso di elettori al primo turno potrebbe essere all’incirca del 34%, mentre al secondo turno potrebbe essere del 21%. Questo significa che, nel 2032, a un eventuale ballottaggio, l’elezione del sindaco nella nostra città potrebbe esser decisa all’interno di una ristretta oligarchia di poco più del 20% di elettori votanti.

Per rispondere alla prima domanda posta in apertura, la gravità del fenomeno pare dunque collocarsi oltre ogni discussione. Va da sé che il fenomeno dell’astensionismo, passato, presente e futuro, non inficia minimamente l’importanza politica della vittoria della coalizione di Giorgio Abonante, come non inficia la piena legittimità della nuova Amministrazione. Tanto più che nella campagna elettorale Abonante e i suoi hanno meritevolmente ripreso più volte la tematica della partecipazione.

5. Non posso entrare qui nel merito delle cause dell’incremento progressivo dell’astensione. Sarebbe peraltro necessaria un’indagine empirica su un campione dell’elettorato. Poiché è un fenomeno che è cominciato nei primi anni Novanta ha senz’altro una natura epocale. Ragionando in generale, ispezionando l’andamento progressivo della diminuzione dei votanti avvenuta in passato, si vedrà che la diminuzione è costante, quasi regolare nel tempo, senza sbalzi di grande entità. Si può dunque ipotizzare che l’andamento non dipenda da sporadici singoli eventi, capaci di condizionare un’elezione piuttosto che un’altra. La spiegazione, se c’è, è senz’altro dovuta a un complesso di concause che tuttavia operano nella stessa direzione e finiscono, con una certa regolarità, a spingere in basso la partecipazione. Se si guarda il grafico della partecipazione al primo turno, solo nel 2007 c’è stata una lievissima inversione di tendenza, così lieve che non sembrare granché significativa. Comunque, è stato l’anno della vittoria di Fabbio nei confronti di Scagni. Ci sarebbe spazio qui per uno studio del caso. In aggiunta, possiamo considerare che l’astensionismo non è solo un fenomeno alessandrino. Con ogni probabilità possiamo mettere in conto l’effetto di una generale tendenza, tipica delle democrazie occidentali, unitamente a effetti più specifici a livello nazionale e poi a livello locale. In ultimo, anche residuali condizioni accidentali possono avere il loro peso. Uno studio ad hoc sulla questione dovrebbe tener conto di tutti questi elementi.

6. Certo, cinque o dieci anni, una o due tornate elettorali, sono tanti e forse non val la pena di fasciarsi la testa con così tanto anticipo. Tuttavia, è intuitivo che tanto meno si farà, per tentare bloccare la tendenza all’astensione o di invertirla, tanto più facilmente il trend che abbiamo mostrato avrà la possibilità di manifestarsi implacabilmente.

Sullo sfondo di questa situazione ben delineata, resta allora, a quanto pare, ancora una domanda. Perché mai un’astensione in forte crescita progressiva dovrebbe preoccuparci? In fin dei conti, siano tanti o pochi gli elettori attivi, dei candidati ci saranno comunque e qualcuno sarà pur sempre eletto. E gli eletti sul piano formale saranno perfettamente legittimati a esercitare il loro mandato. Se la gran parte degli elettori decide liberamente di astenersi, di non esercitare il proprio diritto di voto, vuol dire che con ciò intendono autorizzare la minoranza a scegliere.

Si pensi che una corrente politologica nordamericana sostiene addirittura che gli astenuti, con il loro comportamento, farebbero addirittura un grande servizio alla democrazia. L’astenuto, in fin dei conti, darebbe un utile contributo alla democrazia perché eviterebbe un cattivo voto, frutto di disinteresse, casualità, incompetenza e disinformazione. Su questa scia possiamo allora immaginare una comunità politica dove solo il 10% degli aventi diritto, cioè un ristretto gruppo dei migliori, se la senta di andare a votare. Il restante 90% potrebbe utilmente delegare a costoro, nell’interesse di tutti. Questa tesi ha trovato anche una sua precisa denominazione: epistocrazia. 

7. La risposta alla domanda sopra citata, «Perché un’astensione in forte crescita progressiva ci dovrebbe preoccupare?», non è affatto facile da dare ed è strettamente connessa a quella che si ritiene essere la natura del diritto di voto. Purtroppo su questo argomento si danno per scontate troppe opinioni comuni. Non ho qui lo spazio per entrare nel merito della questione in maniera approfondita, tuttavia mi accingerò per lo meno prospettare quale sia, a mio modesto parere, la corretta impostazione della questione. Questo ci metterà sulla strada anche per trovare una risposta alla seconda questione che ponevo in apertura.

8. Trattiamo qui del diritto di voto nell’ambito delle liberaldemocrazie, cioè i sistemi politici che ci contraddistinguono. Si sottolinea spesso, con una certa ripetitività, come il voto sia contemporaneamente un diritto e un dovere. A mio avviso questa formulazione, ripetuta ovunque papagallescamente fino alla noia, è terribilmente ambigua, come tale del tutto insoddisfacente. Andrebbe quindi chiarita e interpretata. La maniera migliore, a mio modesto avviso, è quella di ricorrere alla distinzione operata da Isaiah Berlin tra i due tipi fondamentali di libertà: la libertà da (liberty from) e la libertà di (liberty of). Nella tradizione della filosofia politica si parla anche di libertà negativa e di libertà positiva. Il primo tipo di libertà appartiene alla tradizione dei diritti individuali che il singolo può far valere nei confronti del potere costituito. È questa la tradizione tipica del liberalismo. Il secondo tipo di libertà appartiene invece alla tradizione democratica che mira piuttosto all’empowerment del cittadino, cioè alla sua compiuta emancipazione e realizzazione. Mira cioè a conferire al cittadino un ambito di esercizio del potere che lo metta in grado di partecipare pienamente alla comunità politica.

9. Nel caso specifico del diritto di voto, la finalità principale del liberalismo è quella di permettere la costruzione più ampia possibile di uno spazio privato entro cui l’individuo possa esercitare la sua insindacabile discrezionalità. Già secondo Locke, attraverso il voto, il cittadino mira a costituire quel giudice imparziale che garantisca a ciascuno il godimento delle libertà naturali. In questo senso il diritto di voto è considerato come un’opzione individuale, una strategia, che può o meno essere esercitata liberamente. Votare (o non votare) non modifica in alcun modo la natura dell’individuo che lo fa. Lo scopo della democrazia è invece piuttosto quello di costruire e potenziare il cittadino, di farlo uscire dal suo stato di minorità e impotenza, in modo che questo possa essere protagonista dello spazio pubblico e possa costituire, di conseguenza, una risorsa per tutta la collettività. Nel voto, si crea il cittadino, si diventa cittadini a pieno titolo. Altrimenti si rimane de facto cittadini dimezzati. In questa ottica il voto non è più un’opzione individuale,  bensì un passo necessario, un obbligo. E l’astensione può essere considerata come una diserzione dagli obblighi, dai doveri del cittadino.

Si tratta allora di capire, una volta per tutte, dove vogliamo collocare il diritto di voto, se dentro al  gruppo dei diritti appartenenti tipicamente alla tradizione liberale, o libertà negative, come ad esempio la libertà di stampa o la libertà di coscienza; o se, invece, dentro al gruppo dei diritti appartenenti alla tradizione democratica, o libertà positive, come ad esempio il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione. 

10. A mio modesto avviso, l’analfabetismo civico democratico che ci contraddistingue sempre più fa sì che il diritto di voto, che storicamente, almeno a partire dal suffragio universale, appartiene alla tradizione dell’empowerment di stampo democratico,[2] sia oggi costantemente fatto regredire a una sorta di manifestazione della libertà individuale, assimilabile alla libertà di parola, dunque un diritto pertinente a garantire la sfera privata. Il diritto di andare a votare, il suffragio, viene cioè trattato – snaturato e regredito – alla stregua del diritto di esprimere una  opinione. È appena il caso di sottolineare che, dal punto di vista della filosofia della democrazia, questo è un gravissimo vulnus.

Su questo stravolgimento si basa il pastrocchio del diritto di voto che è anche un dovere, la cui inosservanza è tuttavia priva di sanzione. Nel primo caso, il voto diventa una mera opzione appartenente alla sfera individuale, ove l’individuo può scegliere se votare o astenersi, senza dover rendere conto a nessuno. Insomma, diventa una questione privata. Nel secondo caso il voto diventa, come prescrive del resto la nostra costituzione, un dovere civico, un dovere cioè che costituisce il cittadino stesso in quanto cittadino, lo potenzia, lo mette in grado (to be able, dicono gli inglesi) di disporre di un suo specifico potere di deliberazione (per quanto piccolo questo possa essere, nel mucchio di tutti i cittadini). Il voto dunque diventa, in questo caso, una questione pubblica. Inteso in questo senso, il voto andrebbe considerato come obbligatorio, esattamente com’è obbligatoria l’istruzione. O come sono obbligatorie le vaccinazioni.

11. Quel che sto dicendo può sembrare strano a qualche naïve, ma corrisponde in tutto e per tutto alla filosofia della democrazia e a una ben precisa tradizione di pensiero. Esiste da lungo tempo un filone politologico, forse minoritario, che concerne il voto obbligatorio. Esistono anche diverse applicazioni pratiche degne di considerazione, come ad esempio il caso australiano. Naturalmente l’obbligatorietà del voto implica anche la opportunità di erogare delle sanzioni a coloro che non votano. Dato che mi trovo a dover spiegare l’ABC, preciso che i sistemi di voto obbligatorio non sono così illiberali come si potrebbe pensare, non costringono affatto a scegliere per forza una delle opzioni presenti sulla scheda e possiedono dei meccanismi che tutelano comunque anche la libertà individuale di non esprimersi, o di esprimersi diversamente. Ad esempio recandosi al seggio e non ritirando la scheda. Oppure barrando, sulla scheda, la voce “Nessuno di questi”. Lungi dall’essere sistemi totalitari, sono sistemi che prendono sul serio il carattere di empowerment individuale del diritto di voto, senza sacrificare tuttavia in alcun modo la libertà di opinione.     

12. Così si spiega il motivo del pasticcio tra diritto e dovere. Poiché le liberaldemocrazie, oltre alla tradizione democratica, portano con sé anche la tradizione liberale, che è senz’altro fondativa e preziosa, accade spesso che, nonostante la proclamazione del voto come dovere, le sanzioni per la violazione del voto obbligatorio siano minime. Oppure che le sanzioni proprio non ci siano. Anche se resta l’obbligo, che a questo punto non significa più nulla. Nel nostro Paese, fino a un certo punto, gli elenchi dei non votanti erano pubblici e sul certificato di buona condotta poteva comparire la dizione “Non ha votato”. Poi tutte le limitazioni in questo senso sono state rimosse, guarda caso, proprio all’inizio degli anni Novanta, proprio quando nel nostro paese ha cominciato a essere propagandato, da certe forze politiche, un certo malinteso concetto della libertà. Proprio in quegli anni, guarda caso, è cominciata l’irresistibile marcia dell’astensionismo. Si noti poi anche che il fatto di non votare può essere considerato davvero poco compatibile con determinate deontologie professionali.  Sarebbe, ad esempio, del tutto plausibile che chi non vota fosse escluso dai concorsi pubblici, ma purtroppo il settore pubblico non ha più alcun rispetto per se stesso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che un insegnante che non vota viene a trovarsi in conflitto con la deontologia della professione, che ha tra i suoi scopi proprio la formazione del cittadino. Alla stregua di un catechista che non crede. Oppure alla stregua di un medico no-vax. In nome di un pessimo e degenere concetto della libertà non ci facciamo mancare proprio niente.

Si badi bene che non sto proponendo esplicitamente il voto obbligatorio, anche se, continuando così l’aumento delle astensioni, ci dovremmo prima o poi fare un pensierino. Sto evocando questa tematica solo per mostrare quanto sia grave lo stravolgimento che abbiamo effettuato nei confronti del diritto di voto, riducendolo a una mera libertà di opinione. A un mero sondaggio cui ciascuno può decidere allegramente di partecipare o meno. E questo perché la cultura politica della democrazia è ignota ai più.[3]

13. Sarebbe allora interessante domandarsi cosa significhi davvero sostenere che uno “si astiene liberamente”.  Ci si può astenere liberamente dal voto? Certo l’astenuto alessandrino non ha ricevuto alcuna costrizione. Avrebbe potuto andare a votare, ma quel giorno ha fatto tutt’altro. Con piena libertà. Senza alcuna conseguenza. Solo lui sa perché. Il liberalismo classico difende, com’è noto, le preferenze individuali. Lo Stato o le istituzioni non possono sindacare il modo in cui uno decide di perseguire la propria felicità, nel proprio spazio privato. Se uno decide di non votare, sarà felice così.

Purtroppo la teoria della democrazia è un’altra cosa, non assomiglia per nulla al liberalismo classico, almeno su questo punto. Il problema dunque non è quello di garantire la libertà individuale di opporsi agli obblighi civici (in nome della libertà da) quanto il problema di definire l’obbligo della partecipazione, nei termini della libertà di: se non partecipi sei un cattivo cittadino, svilisci e mortifichi te stesso e danneggi gli altri. Dal punto di vista della filosofia della democrazia, stare nella comunità politica non implica solo fare il cavolo che ti pare, ma implica anche il lato dei doveri, come bene ha sostenuto tutta la tradizione repubblicana. Fino a ieri, dovevi fare il servizio militare. Oggi devi mandare i tuoi figli a scuola. Come cittadino devi pagare le tasse. Devi farti vaccinare. E così via. E dunque devi votare.

Perché allora tanta indulgenza nei confronti dei menefreghisti? Soprattutto, perché questa indulgenza alberga spesso e soprattutto nel campo di quel che rimane della sinistra? Purtroppo c’è, dalle nostre parti, una sinistra che è strutturalmente antidemocratica e che finisce per essere così antidemocratica da difendere gli indifendibili anarco liberali, per i quali non votare è un sacrosanto diritto. Anzi, una pratica in fondo vantaggiosa che può andare a beneficio di tutti. La democrazia è impegnativa. Un eccesso di anarco liberalismo sta convincendo la maggior parte che ciascuno può stare nella democrazia sfruttandone tutti i vantaggi, senza minimamente prendere parte all’esercizio dei doveri. Ma così la democrazia non sta in piedi. È questo il fatto davvero preoccupante. Credo che, a questo punto, sia piuttosto chiaro quali siano le radici culturali della tolleranza o della indifferenza nei confronti dell’astensionismo.

14. Metteremo dunque delle penali per gli astenuti? Chi non vota dovrà pagare una tassa? Oppure metteremo degli incentivi, come una consumazione da Mc Donald o come una ricarica telefonica? Ovvio che no, perché noi democratici siamo figli anche della cultura liberale (liberal - democrazia si chiama, appunto). Questo però non può indurci a mettere da parte l’obiettivo dell’implementazione di una ampia partecipazione elettorale, la più ampia possibile. Esattamente come ci poniamo l’obiettivo della migliore salute e della più ampia istruzione per tutti. Ci scandalizziamo per il fatto che una buona parte dei nostri concittadini non è in grado di leggere e intendere un articolo di giornale di media difficoltà. Chi si sente di dire che costoro sono liberi di restare ignoranti? O che sono liberi di restare disinformati? Egualmente, dovremmo scandalizzarci se buona parte dei nostri concittadini non entra nei seggi e non compie il suo dovere elettorale. Chi si sente di dire che sono liberi di fare i cittadini dimezzati?

Giuseppe Rinaldi (06/07/2022)

 


NOTE

[1] Cfr. Alessandria 2022. Dati elettorali e declino della politica locale, pubblicato su Città Futura il 30 giugno 2022. Alessandria 2022. Dati elettorali e declino della politica locale - Città Futura on line (cittafutura.al.it).

[2] Per convincersene, si pensi alle lotte per i diritti civili negli anni Sessanta da parte dei neri. Uno dei significati di empowerment corrisponde al nostro termine emancipazione.

[3] Qui mi sento fischiare le orecchie. L’accusa di democrazia totalitaria è nell’aria.



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