martedì 4 dicembre 2012

Il tacchino sul tetto (2.0)

 











 

1. Non era Crozza, ma proprio lui, Luigi Bersani, quello che di fronte a milioni di spettatori ansiosi di capire le differenze tra i candidati delle primarie del centro sinistra se ne usciva con un’amletica domanda, del tutto inedita nel panorama politico, che suonava così: «È meglio avere un passerotto in mano o un tacchino sul tetto?». Dopo il primo sconcerto, il significato minimalista del motto deve esser sembrato abbastanza chiaro a tutti, anche se non del tutto nuovo. Si tratta infatti di un significato già profondamente espresso nella tradizione popolare secondo la quale sarebbe «Meglio un uovo oggi che una gallina domani», oppure, ancora, «Chi si contenta, gode». Ma anche la favola della «volpe e l’uva» potrebbe essere utilmente invocata.[1] Il motto è tipicamente improntato allo stile minimalista di Bersani, ben lontano dal «facci sognare» che forse avrebbero desiderato molti dei suoi fan. Ma anche Vendola non ha scherzato quanto a minimalismo se, per schierarsi dalla parte del segretario del PD, dopo il primo turno, gli è bastato sentire un po’ di «profumo di sinistra». Mentre una volta erano gli estremisti che volevano tutto, adesso a fare i massimalisti sono i libdem alla Renzi.

2. In contrasto con un avvio terribilmente difficoltoso, il bilancio delle primarie del centro sinistra – come hanno scritto molti autorevoli commentatori – è senz’altro positivo. Ci permettiamo tuttavia di aggiungere che il positivo sta tutto e soltanto dalla parte degli elettori. Si è dimostrato nei fatti che in Italia ci sono più di tre milioni di elettori che – con le procedure complicate seguite per la registrazione e il voto, compreso il pagamento dell’obolo – sono stati disposti a investire del tempo, a informarsi, a discutere, a organizzarsi sul territorio, a scegliere tra le alternative proposte attraverso un metodo democratico come quello della conta delle teste. Si tratta di un numero di elettori impegnati che va ben oltre l’asfittico gruppo degli iscritti, dei professionisti della politica, degli addetti ai lavori dei partiti della coalizione.[2] Si deve ammettere poi che con queste primarie, i partiti della coalizione hanno effettivamente mostrato di voler operare una qualche cessione di potere verso gli elettori più informati e consapevoli. E gli elettori hanno risposto, ben oltre alle aspettative dei minimalisti che forse avevano maturato la sensazione di avere qualcosa da farsi perdonare.

3. Questi tre milioni di elettori impegnati equivalgono pienamente a tre milioni di iscritti a un partito che non c’è, di cui il Paese avrebbe un forte bisogno. Un centro sinistra intelligente (parlo di PD, SEL, gli amici di Tabacci, i socialisti e quant’altri) all’indomani di questa prova dovrebbe annunciare la costituzione di un partito unico (o di una federazione se si preferisce) e proporre ai tre milioni di votanti di entrare nel nuovo partito come iscritti, riservando al prossimo congresso un autentico rinnovamento della linea politica e del ceto dirigente. Potrebbe essere l’occasione per fare finalmente quella fondazione di un partito democratico inclusivo che il PD ha storicamente mancato. Ma una simile operazione, ci rendiamo conto, pur essendo del tutto logica e razionale, non può che essere puramente teorica, di scuola, completamente fuori dall’orizzonte degli attuali dirigenti di centro sinistra. Per rendersene conto, bastava sentire le dichiarazioni di D’Alema e di Rosy Bindi, la sera stessa del secondo turno. Insomma, c’è il grosso rischio – come accaduto in passato – che anche questa volta la domanda politica del popolo del centro sinistra non trovi una risposta adeguata e vada a incagliarsi nei bilancini degli egoismi di potere.

4. Se il bilancio è stato positivo dal punto di vista degli elettori, è invece alquanto problematico dall’altra parte, cioè dalla parte dell’offerta politica. Il problema principale è che – come recitano i classici del pensiero politico – nella democrazia bisogna che gli elettori siano messi di fronte a delle autentiche alternative. Se le alternative tra le quali si è chiamati a scegliere non sono effettive, allora il gioco democratico è solo apparente. Ci s’illude di esercitare il potere di scegliere, ma in effetti non si sceglie affatto. Ridotto all’osso, il problema della scelta è alquanto elementare, anche se foriero di qualche complicazione. Quando si deve scegliere tra diversi elementi e i criteri di scelta sono più di uno, non è detto che si trovi un elemento che soddisfi tutti i criteri. Se dobbiamo scegliere un’auto, magari un certo modello ci va bene per il volume del bagagliaio, per la cilindrata, per le finiture, ma può non andarci bene per i consumi, per il costo del bollo, per l’estetica della carrozzeria. Potremmo girare e rigirare ma, se siamo appena un po’ choosy, potremmo continuare a non trovare un modello adatto alle nostre esigenze. Alla fine, o si rinuncia, oppure si sceglie il meno peggio. Questa è proprio la situazione di fronte alla quale si sono trovati molti elettori nello scegliere tra i cosiddetti Fantastici 5. L’entusiasmo per l’elevato numero di votanti non dovrebbe far dimenticare che comunque ci sono molti che non hanno trovato quello che cercavano e sono rimasti a casa e che molti di quelli che sono andati a votare si sono turati il naso e hanno finito per scegliere il meno peggio.[3] Così si spiega come mai le primarie sono state un successo ma nel popolo della sinistra ci sono molti scontenti.

5. Per capire le ragioni dello scontento bisognerebbe entrare nel merito dei criteri di scelta di cui si diceva poc’anzi. In un confronto come quello cui abbiamo assistito, finalizzato a scegliere il candidato alla carica di presidente del consiglio, sono almeno due i macro elementi che sono sottoposti alla valutazione degli elettori: le qualità personali e i contenuti dei programmi.

Per quel che riguarda le qualità personali, possiamo immaginare di prendere in considerazione aspetti come la competenza disciplinare in materie connesse all’attività governo (economia, finanza, diritto,…), la capacità di guidare una squadra (di scegliere con criteri di merito i collaboratori, di avere in mente una agenda precisa, di saper operare avendo mira la rapidità, l’efficacia e l’efficienza,…), la capacità di analisi dei problemi e di elaborazione delle soluzioni, la condivisione di principi di etica pubblica (quali il disinteresse, la trasparenza, la verità,…) e la capacità di comunicare con chiarezza; inoltre possiamo aggiungere un elevato profilo istituzionale (la capacità di non essere di parte, ma di impersonare l’istituzione che si andrà a rappresentare) e l’autorevolezza in campo nazionale e internazionale.

Per quanto concerne invece i contenuti del programma, possiamo immaginare di prendere in considerazione delle qualità come il possesso di una strategia chiara e organica per portare il Paese fuori dalla crisi e la capacità di aggregare un’ampia gamma di forze attorno alla propria strategia. Possiamo considerare anche la capacità di individuare i problemi veri e di mantenere un atteggiamento realistico, rifiutando la retorica e la demagogia. Possiamo ancora aggiungere la capacità di scegliere tenendo conto di una prospettiva generale e delle conseguenze future, oppure la flessibilità necessaria a tener conto delle situazioni e dei rapporti di forza. Potremmo considerare anche la capacità di dire no, di combattere gli interessi particolari, i corpi separati e di difendere le istituzioni. In più, sempre per quel che concerne i contenuti, ci si attenderebbe non solo lunghi elenchi scomposti di ricette e ricettine, il lungo elenco degli esempi[4] di «cosa farei nei primi cento giorni», oppure la linea del Piave dei punti imprescindibili, ma l’adesione a un’impostazione di fondo organica, riconoscibile, a una cultura politica esplicita, magari declinata in modo nuovo ed originale, insomma, una linea politica.[5]

Ebbene, esaminati alla luce di simili criteri, i Fantastici 5 ci appariranno davvero poco fantastici, sarebbero ridotti, insomma, per dirla alla Bersani, a «quello che passa la mutua». Dopo vent’anni di Berlusconi, con tutto il tempo che abbiamo avuto, si poteva sperare di mettere in campo qualche candidato in cui ci si potesse identificare fino in fondo, magari un gruppo di candidati tra cui ci si trovasse nella condizione di avere l’imbarazzo della scelta. E invece no. Ai Fantastici 5 potremmo attribuire al massimo un 6+ o un 6 meno-meno. La democrazia è fatta anche di sogni, non solo di sfigati che tanto sono contenti di avere acchiappato il passerotto, perché intanto al tacchino hanno già rinunciato.

6. C’è qualcuno poi che si è detto entusiasta del tipo di dibattito, molto all’americana, scelto dagli organizzatori. Certo anche la forma ha la sua importanza per cui non sottovalutiamo, ad esempio, il confronto con i tempi rigorosamente conteggiati, non sottovalutiamo il rilievo giustamente dato alle regole e al loro rispetto; non sottovalutiamo neppure un certo fair play dei candidati, nonostante qualche inevitabile caduta. Non sottovalutiamo l’evento delle piazze che si sono riempite per ascoltare i candidati. Ma il dibattito cui abbiamo assistito è stato indubbiamente caratterizzato dalla scarsa sostanza e dai davvero troppi artifizi retorici e comunicativi.

Per quel che riguarda la scarsa sostanza, abbiamo assistito a una noiosa sequela di attacchi personali, di tatticismi di vario genere, con polemiche e smentite, che speso hanno rischiato di sopravanzare i contenuti. Quando si è parlato di contenuti, questi sono stati ridotti poco più che a slogan pubblicitari, a una montagna di esempi, alla proclamazione di principi irrinunciabili, a innumerevoli tormentoni con cui ciascun candidato ha cercato di solleticare il proprio presumibile elettorato. Gli applausi sono arrivati a raffica sull’onda degli argomenti più graditi al pubblico, più popolari, appunto. Nella retorica antica si chiamavano luoghi comuni. Se la cultura politica del centro sinistra è oggi ridotta a evocare in modo teatrale delle dicotomie elementari come bombardieri si/ bombardieri no; Fornero sì/ Fornero no; Marchionne si/ Marchionne no; banche sì/ banche no; TAV si/ TAV no, rottamazione si/ rottamazione no, vien quasi da rimpiangere i partiti e il personale politico della Prima repubblica.

7. Nella Prima repubblica si capiva che i candidati qualche libro in proprio lo avevano letto, i partiti avevano ancora qualche relazione con gli intellettuali, con l’editoria, con i centri di ricerca, con le teorie economiche, con gli orientamenti politici e culturali diffusi. Magari prima di decidere la linea su qualche problema si facevano anche dei convegni di studio. Oggi i candidati si circondano dei guru della comunicazione, sfornano discorsi precotti costruiti dallo staff, twittano - cioè si esercitano a concentrare il loro pensiero in 140 caratteri, citano a memoria statistiche mal digerite, rinviano continuamente alle pagine del loro sito, citano improbabili personaggi come fonti di ispirazione. E poi fanno tanti, tanti esempi (“perché non c’è tempo per dire tutto”), fanno battute e raccontano barzellette come i comici della TV. E ottengono una marea di appalusi. Credevamo che questa ultra semplificazione del discorso politico fosse soprattutto una caratteristica di Berlusconi, invece bisogna concludere che siamo definitivamente entrati nell’epoca della politica senza cultura. È vero che la partecipazione fa bene alla democrazia, ma anche un po’ più di cultura male non farebbe.

Una diagnosi decente circa le cause della crisi internazionale non l’abbiamo sentita da nessuno, e neanche una diagnosi decente delle cause della crisi italiana. E che dire di una strategia convincente per ridurre il nostro debito pubblico e di una strategia per rimettere in piedi l’industria italiana? Abbiamo sentito però molte invettive contro Marchionne. Discorsi chiari su dove si prenderanno le risorse per il welfare promesso da tutti non li ha fatti nessuno. Discorsi chiari sull’Europa non li ha fatti nessuno, come pure nessuno ha detto qualcosa di serio sulla politica estera. Anche sulla questione della riforma fiscale del riequilibrio fiscale territoriale (il problema che ha alimentato le fortune del leghismo) nessuno ha detto niente. E della laicità? Estremamente carenti, per non dire reticenti, sono stati i candidati sulla questione delle alleanze. Già, meglio aspettare la legge elettorale.

8. Purtroppo una parte consistente della contesa è stata occupata dai problemi interni del PD. Era inevitabile, date le premesse, ma non è detto che questa sia stata la parte più entusiasmante per gli elettori. La contrapposizione tra Renzi e Bersani indubbiamente ha messo in luce la contrapposizione – da un lato - tra le correnti che vengono da lontano, dalla DC e dal PCI della Prima repubblica e che continuano a intendere la politica come il gioco delle alleanze tra coloro che dispongono di pacchetti di voti proporzionali e – dall’altro lato - le nuove correnti (anche queste sono parecchie e litigiose) di coloro che sono nati dopo, che vorrebbero un confronto sui programmi rivolto a tutti gli elettori, dove si vince o si perde in termini maggioritari.[6]

Da questo punto di vista, la vittoria di Bersani, l’usato sicuro, rappresenta la vittoria dei sopravvissuti della Prima repubblica (non a caso con l’appoggio di Vendola, non a caso a favore del finanziamento pubblico dei partiti). Rappresenta anche quanto vi è di più lontano dalla generica domanda di nuova politica che viene dal Paese, quanto vi è di più lontano dalla domanda politica che è espressa dal M5S e dal rifiuto espresso da quella quasi metà di elettori che nei sondaggi continuano a dichiararsi astensionisti. È alquanto esplicativo che Bersani abbia preso molti più voti nelle zone più arretrate del paese e abbia preso meno voti nelle zone più avanzate (questa tendenza non è una mia invenzione, ma risulta abbastanza nettamente da un’elaborazione dell’Istituto Cattaneo).

9. Un’ultima notazione marginale, ma abbastanza significativa, del clima da Prima repubblica che sembra essere risorto e la seguente. In tutta questa profusione di correttezza democratica, di appello ai principi, di etica pubblica sparsa un po’ ovunque, la compagna Camusso ha sentito il richiamo della foresta, l’irrefrenabile bisogno di fare l’endorsement contro Renzi, affermando che una vittoria di Renzi non farebbe bene al mondo del lavoro. Si vede che i lavoratori, quando diventano cittadini e vanno a votare, non sono più capaci di pensare con la loro testa e hanno bisogno del promemoria. In un periodo in cui un altro illustre sindacalista della CISL e un altrettanto illustre sindacalista dei lavoratori cattolici stanno mettendo su un partito politico, viene da pensare che nel nostro Paese oggi la vecchia cinghia di trasmissione abbia ripreso a girare, ma al contrario.

10. Al di là delle ragioni di soddisfazione o insoddisfazione, su cui si può ampiamente questionare, ci si può comunque domandare se cambierà qualcosa dopo queste primarie. Per quel che concerne il posizionamento politico del PD e della Coalizione nello spazio politico, cambierà ben poco. Tranne un effetto alone positivo dovuto alla maggiore evidenza che i renziani hanno acquisito nel PD, Bersani non prenderà quei voti a destra che avrebbe potuto prendere Renzi, ma non prenderà neppure quelli dell’antipolitica – perché è comunque identificato con la vecchia politica. Quindi sarà costretto a fare proprio quello che inconsciamente ha sempre desiderato, trattare con Casini & Co. (con il serio rischio di non essere lui a fare il capo del governo). I sondaggi – per effetto di tutto quel che è successo nel panorama politico italiano (compresa l’implosione totale del PdL) – hanno dato una crescita del PD di 3-4 punti percentuali. Storicamente intorno al 25%, ora il PD viene infatti accreditato intorno al 29-30%. Le statistiche recentissime, per effetto della maggiore visibilità ottenuta nella settimana delle primarie, si spingono al 33-34%. Si vedrà se nelle prossime settimane questo livello sarà mantenuto. Non va dimenticato che nello stesso periodo l’IDV ha perso più o meno la stessa percentuale che il PD sta guadagnando. Com’è noto, i sondaggi presentano le percentuali solo rispetto a coloro che esprimono una intenzione di voto e trascurano gli astenuti. Non sembra che le primarie siano riuscite a fare breccia negli astenuti, e questo è l’aspetto più preoccupante. Incerti, astenuti e bianche oscillano, poniamo, intorno al 45 %. Facendo le proporzioni, il 30% del 55% corrisponde al 16,5%. Ci si può consolare perché gli altri ne hanno di meno, ma se con tutto quel che è successo in Italia il partito più solido riesce ad avere il consenso solo del 16,5% del corpo elettorale, ci deve pur essere qualcosa che non funziona. Poniamo pure che il PD e SEL in coalizione possano raggiungere il 40%, questo risultato, in una condizione di astensione del 45%, corrisponderebbe al 22% dell’elettorato. Un po’ poco per rappresentare il Paese.

11. Stante l’attuale posizionamento elettorale, alle elezioni, la coalizione tra PD e SEL riuscirà difficilmente ad avere la maggioranza per governare (a meno di qualche nuova sconvolgente legge elettorale). Ciò determinerà l’esigenza di fare una coalizione con il Centro (qualsiasi configurazione questo assuma). A questo punto, posto che il 90% del programma del futuro governo è già predeterminato per i condizionamenti esterni della UE e per la gravità della nostra la situazione economica e finanziaria, che fine faranno gli slogan, i punti irrinunciabili, le più significative differenze tra i Fantastici 5 intorno a cui si è appassionato il popolo del centro sinistra? Che fine farà il profumo di sinistra di Vendola? Che fine farà la tanto discussa agenda di governo alternativa a quella di Monti? Che fine farà la rottamazione dei dinosauri politici superstiti della Prima repubblica?  Insomma, nonostante la lodevole mobilitazione di tre milioni e passa di elettori, il tacchino è destinato a restare sul tetto e anche il passerotto non sembra tanto commestibile. Peccato che ciò costituisca non solo un problema per il PD ma un serio problema per tutto il Paese.

 

Giuseppe Rinaldi (4/12/2012 – 6/07/2021 rev.)

 


NOTE

[1] Dotti filologi del bersanese assicurano che ci sia un proverbio tedesco analogo, che però suona, forse più correttamente, «Meglio un passerotto in mano che un piccione sul tetto».

[2] È vero, come è stato ripetutamente ricordato, che i militanti dei partiti del centro sinistra hanno dato un contributo importante con il loro lavoro organizzativo. Tuttavia il loro impegno, moralmente parlando, viene dopo quello degli elettori. Le primarie sono degli elettori, non di chi le organizza. Se le primarie fossero fatte per legge, come sarebbe giusto, ci penserebbe lo Stato a organizzarle.

[3] Del resto, il doppio turno è proprio connesso all’intento di permettere a una parte di elettori, di scegliere il meno peggio.

[4] Ho sempre spiegato ai miei allievi che si tende a fare esempi quando mancano i concetti.

[5] Ci sono dei primi ministri che hanno inventato delle prospettive politiche che, nel bene o nel male, hanno fatto epoca, come Clinton, la Tatcher, Blair, Reagan, Mitterand. Volendo, si può ammettere che anche il berlusconismo abbia avuto una propria caratterizzazione epocale. Perché a sinistra ci dobbiamo sempre accontentare di gente che al più riesce a fare del bricolage?

[6] In questo contesto, trovo veramente straordinaria (per l’analfabetismo politico che dimostra) l’accusa mossa a Renzi di voler raccogliere consensi tra l’elettorato del centro destra; e dove si dovrebbero prendere altrimenti i voti, in un sistema maggioritario?

 











venerdì 28 settembre 2012

Disturbi primari (3.0)


1. Mancano ormai poco più di sei mesi alle elezioni politiche e già stanno iniziando i preparativi. Mai come in questo periodo tuttavia la situazione politica nazionale è apparsa nebulosa e incerta. Col passar del tempo, gli elettori appaiono sempre più indecisi e le forze politiche mostrano segni di ulteriore involuzione. Lo scandalo della Regione Lazio è solo l’ultimo in ordine di tempo. La cosiddetta “crisi della politica” non è stata per nulla superata e sembra anzi aggravarsi sempre più, mentre le riforme della politica che sono state sbandierate da tutti i principali leader politici sono costantemente rinviate, alimentando così il serbatoio dell’anti politica.[1]


2. In questo quadro d’impotenza e degrado, la situazione del centro sinistra e della sinistra è andata anch’essa progressivamente deteriorandosi. A un anno dalla caduta rovinosa del governo di centro destra e dall’implosione del PDL e della Lega Nord, non solo il centro sinistra non ha ancora saputo individuare una coalizione credibile, stabilire un programma, scegliere un leader di governo, per costruire un’alternativa e vincere con sicurezza le prossime elezioni, ma esso appare oggi molto più frantumato e molto più debole di prima. Frantumato a causa della rottura ormai insanabile tra PD e IDV, dell’inutile e logorante rincorsa del PD nei confronti dell’UDC, dell’altalenante e incerta alleanza tra PD e SEL. Molto più debole perché il partito principale della coalizione è inchiodato da sempre al 25%, mentre l’elettorato in libertà è stato intercettato dal M5S, che si trova ora al 18%.[2] Se si assommano i consensi al M5S e all’IDV, il partito dell’antipolitica raggiunge ormai anch’esso il 25%. Insomma, il centro sinistra non è stato in grado di trarre vantaggio dagli eventi disastrosi della crisi del governo Berlusconi e non è riuscito a dare una risposta all’anti politica crescente.


3. Possiamo aggiungere, per inasprire il quadro, che, nello stesso periodo, l’azione - discutibile finché si vuole - del governo Monti ha avuto come risultato l’approfondimento di alcune spaccature ataviche, già presenti, sia nel centro sinistra, sia nella sinistra, che erano state sopite grazie all’assoluta inattività del governo precedente. Mi riferisco all’attrazione che Monti ha esercitato sul centro, che ha rinsaldato l’UDC nell’intenzione di mantenere una propria autonomia e alle correlate continue dichiarazioni d’indisponibilità da parte di Vendola a governare con Casini.[3] Ma possiamo riferirci anche ai continui attacchi della CGIL e della FIOM nei confronti delle politiche del lavoro del governo Monti, che di fatto sono attacchi anche nei confronti di un ipotetico governo guidato da Bersani e allargato a Casini.


4. In questi giorni, mancava la ciliegina sulla torta, un coacervo eterogeneo di forze di sinistra, compresa la sinistra estrema, con IDV e SEL hanno deciso di promuovere un referendum per abolire la riforma Fornero sul mercato del lavoro: si tratta con ogni evidenza di un attacco preventivo nei confronti di una coalizione di centro sinistra che di fatto non c’è ancora e che - così proseguendo - non ci sarà mai.[4] D’altro canto l’ormai chiara strategia di Vendola di voler tenere i piedi in due scarpe non fa che aggravare il rischio e l’incertezza. Ad esempio, la recente dichiarazione dello stesso Vendola di volersi sposare - come capirebbe anche il più ottuso osservatore – intende spaccare il già oltremodo precario interno equilibrio del PD intorno alle questioni bioetiche.[5]


5. In contrasto con tutto questo fumo, le scelte politiche autentiche che il centro sinistra e la sinistra devono fare in rapporto alla prossima legislatura sono abbastanza chiare. Schematizzando, si tratta di scegliere tra 1) una politica tipo Monti, liberista e europeista, che si potrebbe realizzare attraverso un’alleanza privilegiata con Casini, puntando su un programma autentico di riforme liberali, magari con il correttivo di una distribuzione più equa; 2) una politica Monti like ma con correzione keynesiana di interventi statali per la crescita (una linea Bersani – Fassina, che ha il solo difetto di non spiegare con quali soldi si farebbero gli investimenti); 3) una politica vetero keynesiana di difesa del welfare e di interventi statali per creare lavoro, sulla linea CGIL-FIOM,[6] magari con revisione delle leggi sulle pensioni e sul mercato del lavoro (implicante un pesante deficit spending che ci porterebbe alla rottura con l’Europa e con i mercati e, in prospettiva, al fallimento controllato) e 4) una anti-politica di movimento, alla Di Pietro – M5S (che porterebbe forse a fare piazza pulita dell’attuale marciume politico, ma che nessuno può prevedere dove potrebbe portare in termini di governabilità – anche in questo caso ci sarebbe probabilmente una rottura con l’Europa e i mercati).


6. Ciascuna di queste ipotesi ha i suoi sostenitori irriducibili, non disposti a venire a patti con gli altri. Gli osservatori più accorti comunque non hanno mancato di avvertire che – data la nostra situazione economica e finanziaria e dati i nostri attuali rapporti con l’Europa – i margini di manovra per un futuro governo sono davvero molto ristretti e qualsiasi nuovo governo non potrà differenziarsi molto dalla politica attuale del governo Monti, potrà al più introdurre qualche correttivo, magari di facciata. C’è dunque il serio rischio che nel centro sinistra e nella sinistra si scateni un dibattito politico del tutto irrealistico rispetto alle effettive possibilità di azione.[7] In ogni caso, per vincere le elezioni e governare il paese bisogna coalizzare, in un programma politico fattibile, la maggior parte di coloro che sostengono queste posizioni, decidendo però con chiarezza quali sono gli obiettivi e, di conseguenza, chi sta dentro e chi sta fuori. È chiaro che, se si vuol mettere in piedi una coalizione che abbia qualche speranza di vincere, ciascuno – chi più, chi meno – dovrebbe rinunciare a qualcosa.


7. Invece di avere come obiettivo prioritario l’aggregazione delle forze, il principale partito dell’opposizione, dopo la famosa “foto di Vasto” di un anno fa - che è rimasta proprio soltanto una foto - ha fatto di tutto per rinviare la costituzione di una coalizione, che allora con un po’ di flessibilità e di onestà sarebbe forse stata possibile, sull’onda delle vittorie alle elezioni amministrative e nei referendum, tra PD, IDV e SEL, e tutto per seguire la speranza di una santa alleanza con Casini.[8] Ciò ha spinto l’IDV in una posizione sempre più estremistica e ha favorito, di gran lunga, la crescita del M5S, coagulando così il polo dell’anti politica. Dopo avere rifiutato di fare una coalizione ampia, quando questa si poteva fare, in questi giorni (primi di settembre) è stato annunciato un generico accordo di coalizione tra il PD e SEL, una coalizione ristretta, un surrogato della foto di Vasto. Anche questo accordo tuttavia appare, per ora, poco più di una foto.[9]


8. Ci si deve anzitutto interrogare sul senso politico di una coalizione ristretta tra SEL e PD. Le coalizioni che si fanno per governare dovrebbero avere almeno la ragionevole possibilità di raggiungere la maggioranza che serve, appunto, per governare. Questa coalizione ristretta non sarebbe in grado di governare da sola (perché comunque incapace di andare oltre al 30% dei voti, nella migliore delle ipotesi) e avrebbe dunque bisogno dell’apporto di altre forze. Si tratta dunque di una coalizione che non può esaurire il centro sinistra, e che per dare vita a un governo di centro sinistra dovrebbe fare una ulteriore coalizione (con Casini, con Di Pietro?). Ci troviamo di fronte a una coalizione ristretta che dovrà fare poi una seconda coalizione per governare. Scatole cinesi che confermano soltanto in quale misura il centro sinistra sia allo sbaraglio.


9. Tutto questo accade perché il principale partito del centro sinistra è totalmente incapace di fungere da polo di aggregazione, è praticamente un partito bloccato, impossibilitato a scegliere, perché vorrebbe tutto e il contrario di tutto, lacerato al proprio interno, sempre sul punto di spaccarsi, incapace di darsi una linea coerente, incapace di parlare con chiarezza agli elettori, incapace di produrre un programma concreto e realistico di governo. Il PD è attualmente inchiodato al suo elettorato tradizionale,[10] non è cresciuto, non ha definito la propria identità, non ha costruito nulla sul piano della cultura politica (la cultura politica interna del PD è profondamente divisa), non ha allargato i consensi dove si dovevano andare a pescare (nell’elettorato del centro destra deluso, della Lega e nell’antipolitica); in subordine, non è neppure riuscito a costruire un sistema di alleanze chiare, una coalizione credibile da proporre agli elettori. La pecca più grave è che non sia riuscito a trarre un qualche vantaggio politico dalla stagione delle vittorie elettorali nelle elezioni amministrative e nei referendum, stagione che in tal modo è stata lasciata alle ortiche.


10. Ce n’è abbastanza per formulare una valutazione gravemente negativa della gestione dell’attuale dirigenza. Bersani, in altri termini, appare sempre più come un leader tossico che lascerà la sua organizzazione in condizioni peggiori di quelle in cui l’aveva trovata, un leader con poco carisma, paralizzato e continuamente preoccupato degli equilibri interni, incapace di far crescere il partito. L’unica scelta lungimirante è stata forse quella di appoggiare Monti; guarda caso, una scelta per evitare di scegliere nell’immediato, per tirare a campare. Tanto varrebbe fare subito il congresso, anche se in questo momento il PD non se lo può permettere, perché sarebbe incapace di produrre alcunché di nuovo, e si spaccherebbe soltanto ulteriormente. Il PD per la maggior parte degli elettori che desiderano un cambiamento continua ad apparire come inaffidabile. Come dar loro torto?


11. La bagarre sulla riforma della legge elettorale sta ulteriormente contribuendo non poco alla paralisi del PD e al deterioramento della situazione. In generale, il vero motivo per cui la legge elettorale è bloccata è che la priorità delle principali forze politiche è oggi quella di assicurare la rielezione di un nutrito contingente di notabili di partito che altrimenti, con ogni probabilità, verrebbero estromessi. Pressoché tutte le forze politiche (PDL e PD compresi) preferirebbero andare a votare con il porcellum, anche se non lo possono dire ai loro elettori. Il porcellum darebbe mano libera nella scelta dei candidati e permetterebbe a quelli che vivono di politica di essere riconfermati.[11] Darebbe anche un premio rilevante alla coalizione vincente. Se il porcellum è impresentabile, bisogna allora fare una riforma della legge elettorale che cambi tutto per lasciare le cose come stanno.


12. Ciò può essere ottenuto manovrando le candidature in due possibili modi, come sostiene il PDL, attraverso una quota di liste bloccate di almeno un terzo delle circoscrizioni in modo da riservare un posto agli immarcescibili (un porcellinum!), oppure, come sostiene invece il PD, attraverso la generalizzazione dei collegi uninominali (poiché la candidatura nei collegi uninominali può essere manovrata dalla burocrazia del partito). Il PD propone infatti i collegi uninominali, ma non ci dice con chiarezza chi sceglierà i candidati. Li sceglierà sempre la burocrazia del partito? Li sceglieranno gli iscritti (che ormai sono così pochi da coincidere quasi con la burocrazia del partito)? Li sceglieranno gli elettori del PD, verranno cioè fatte le primarie anche per la scelta dei candidati negli eventuali collegi uninominali?[12]


13. Ma può essere ottenuto anche manovrando sul premio per la governabilità. A sentire i confusi dibattiti della Commissione, sembra che ci si stia orientando per un premio al singolo partito piuttosto che alla coalizione, risolvendo il problema della proliferazione dei partiti con uno sbarramento al 5% circa. In tal modo si favoriranno i gruppi del 5% (che ormai sono tanti) e non avrebbe più molto senso fare le coalizioni e non ci sarebbe più alcun rapporto diretto tra quel che succede nelle urne e il governo. Ciascun piccolo partito dal 5% in su potrebbe aspirare a una sua rendita di posizione nel mercato delle alleanze post elettorali. Si potrebbe chiamare premio di ingovernabilità.

In ogni caso, l’incertezza sulle regole con cui si andrà a votare sta paralizzando il dibattito politico, imponendo alle forze politiche uno snervante gioco di attesa che, comunque, svela sempre di più la netta prevalenza delle tattiche sulle strategie, l’influenza decisiva sulle scelte dei calcoli di opportunità, degli interessi immediati e dei personalismi.


14. In questo scenario, già di per sé catastrofico per il futuro del centro sinistra, le primarie annunciate della coalizione ristretta tra PD e SEL assomigliano tanto all’orchestra che continua a suonare mentre la nave affonda. Per quel che sappiamo (metà settembre), ci sarebbe un patto di coalizione, di cui però non si conoscono i contenuti, tra PD e SEL per un programma comune[13] e per effettuare le primarie per la scelta del leader di governo della coalizione. Le regole delle primarie dovrebbero essere pubblicate nella seconda metà di ottobre e le primarie stesse, riservate a coloro che si dichiareranno elettori del PD e di SEL, dovrebbero essere realizzate a fine novembre. Gli unici candidati certi, per ora, sono Bersani e Renzi, forse Tabacci (in rappresentanza di quale partito non si sa, visto che non è iscritto al PD). La partecipazione di Vendola si sta facendo alquanto incerta. Altri personaggi del PD hanno annunciato la loro partecipazione, anche se non si hanno ancora notizie chiare. Renzi ha già iniziato la campagna elettorale, quando manca ancora un mese all’emanazione delle regole: la confusione regna sovrana.


15. A rigor di logica, i passaggi per fare le primarie di coalizione dovrebbero essere i seguenti. I partiti coalizzati dovrebbero avere prima di tutto definito un programma comune da realizzare, su cui ci sia già un accordo chiaro e sottoscritto. Questo è necessario poiché nel nostro Paese i partiti fanno i congressi, hanno degli organi statutari e hanno le loro linee politiche già definite. Le primarie tra i coalizzati, in tal caso, avrebbero solo lo scopo di individuare il miglior candidato alla carica di leader per realizzare il programma comune. Secondo questa logica, nelle primarie di coalizione dovrebbe partecipare un solo candidato per ciascuno dei partiti della coalizione. Questo perché si suppone che ciascuno dei partiti coalizzati abbia già svolto il proprio processo democratico interno per la scelta del proprio miglior candidato.

Stiamo assistendo invece alla proliferazione dei candidati, in gran parte provenienti da uno stesso partito, il PD, prova dell’estrema confusione interna. La mancanza di un programma comunemente definito implica inoltre che ciascun partito sia disposto a demandare la definizione del programma da realizzare al vincitore delle primarie. Si avrebbe così la celebrazione di una specie di mega congresso pubblico, riguardante sia il candidato che il programma, che in tal modo avrebbe il sopravvento sui rispettivi congressi interni. Forse non ci si è ancora resi ben conto del pasticcio nel quale ci si sta cacciando.


16. Se non c’è programma comune è però già iniziata la schermaglia sulle regole. È in pieno sviluppo la querelle intorno all’opportunità o meno di tenere un registro degli elettori delle primarie. Renzi sembra ritenersi sfavorito dalla presenza di un elenco di elettori. Non è chiaro poi – si sta già avviando il dibattito - se si tratterà di primarie a un turno, oppure, come ha suggerito qualcuno, di primarie a doppio turno. Indubbiamente le primarie a doppio turno sarebbero un’innovazione abbastanza clamorosa. L’intento è probabilmente quello di ovviare alla dispersione di voti (qualora ci fossero molti candidati, uno per ognuno degli infiniti gruppetti che popolano il PD e SEL, ciascuno potrebbe prendere una fettina di voti). Si rischierebbe di scegliere il leader della coalizione con percentuali tra il 20 e il 30%. Ci sarebbe inoltre la possibilità di votare qualcuno per far perdere qualcun altro (abbiamo capito che non è questo il partito dell’amore). Un secondo turno, per quanto macchinoso ed esasperante, potrebbe garantire un maggiore consenso. Un simile meccanismo avrebbe senso se la coalizione fosse ampia e variegata tale da coinvolgere tutto il centro sinistra, per definire una volta per tutte il candidato alla carica di premier. Dato che si tratta di primarie ristrette, viene il sospetto che si tratti di molto rumore per nulla.


17. Un altro tema emerso in questi giorni riguarda il patto di coalizione. Noi avevamo pensato che si dovesse trattare di una piattaforma programmatica, cioè un insieme di punti qualificanti che il nuovo governo avrebbe dovuto realizzare. Invece – a sentire certe dichiarazioni di Bersani – si tratterebbe di una specie di regola procedurale per decidere in caso di conflitto: quando ci fossero delle perplessità sulla linea da seguire, la decisione sarebbe presa dal gruppo parlamentare della coalizione stessa (si noti che attualmente SEL non ha parlamentari e che comunque il gruppo parlamentare del PD sarebbe schiacciante). In ogni caso, poiché il gruppo parlamentare della mini coalizione non sarebbe sufficiente per governare, si riproporrebbe il problema della mediazione con altri gruppi parlamentari. Lì, con quale regola si deciderà? In ogni caso, in questo modo, non si giungerà mai a dichiarare preventivamente con chiarezza agli elettori su cosa la coalizione intende impegnarsi.


18. È evidente che, qualsiasi cosa succeda di qui a novembre, si tratta ormai di primarie a rischio, cioè primarie il cui rendimento politico potrebbe anche essere così basso, o addirittura negativo, per cui forse converrebbe addirittura non farle. Il rischio è dovuto a una complessità di fattori ormai difficilmente governabili. Anzitutto non si conosce ancora quale sarà la legge elettorale. A questo punto far dipendere la realizzazione o meno della coalizione del centro sinistra da una legge elettorale che premi la coalizione vincente sembra del tutto suicida. Se ci sono le basi per fare una coalizione programmatica, la si faccia senza pensare alla legge elettorale. Una coalizione fatta solo per scopi elettorali all’ultimo momento non sarebbe capita dagli elettori e non offrirebbe alcuna garanzia di governabilità.


19. Bersani ha dichiarato[14] che queste primarie servono per scegliere il leader del centro sinistra che andrà a governare. Come abbiamo già osservato, non è proprio così. Con queste primarie si sceglierà al più il leader della coalizione ristretta PD e SEL. Questo leader, per diventare effettivamente leader del centro sinistra e aspirare a fare il capo del governo dovrà vedersela – dopo le elezioni – con Casini, con Di Pietro, con M5S e con il coniglio fuori dal cappello costituito dalle formazioni filo montiane che probabilmente nasceranno ancora (seguaci di Montezemolo, Passera, finiani,…). Dovrà probabilmente vedersela anche con l’opposizione di sinistra costituita dalla CGIL-FIOM e dai referendari anti Fornero. Invece di un leader forte e autorevole, emergerà da queste primarie ristrette un leader dimezzato che dovrà andare subito a mediare ulteriormente e a concedere qualsiasi cosa, qua e là per fare il nuovo governo. Sarebbe stato indubbiamente meglio fare subito una coalizione più ampia, mediando prima con chiarezza davanti agli elettori, piuttosto che poi, nei corridoi del palazzo!


20. Dato che il peso dei due partiti della coalizione ristretta è assolutamente asimmetrico, c’è il serio rischio che il confronto nelle primarie - così come sono ora configurate - non si faccia tanto tra le linee dei due coalizzati, quanto tra le molteplici linee divergenti all’interno del PD. In altri termini, c’è il serio rischio che queste primarie finiscano per essere una questione privata del PD, l’occasione per un regolamento di conti interno, un referendum pro o contro Bersani, oppure una specie di congresso straordinario. Le prime battute della campagna elettorale di Renzi tendono addirittura a scavalcare il PD attuale, definendo un’area di consenso capace di andare oltre i confini degli attuali molteplici gruppi interni.


21. Il peso asimmetrico dei due coalizzati d’altro canto spinge il partito minoritario a cercare a tutti i costi di estremizzare le proprie posizioni per ottenere qualche visibilità e per rassicurare i propri elettori. Ma questo non può che introdurre ulteriori elementi di differenza in una coalizione già di per sé precaria. Il referendum anti Fornero di Vendola & C. va in questa direzione e tende a ripetere qualcosa che abbiamo già visto, la linea della sinistra radicale seguita durante il governo Prodi, la linea di stare nel governo e di fare le manifestazioni contro il governo. Nessuna primaria di coalizione è in grado di reggere a contraddizioni interne così gravi, e gli avversari non mancheranno di farlo notare.


22. Dal punto di vista dei risultati presumibili, queste primarie, così configurate, promettono troppo o troppo poco. Se Bersani dovesse vincere, il tutto si ridurrebbe a una sua legittimazione; si potrebbe anche sostenere che si è trattato di primarie inutili, perché il risultato era prevedibile, o perché il risultato è stato pilotato. Qualora dovesse perdere, magari nei confronti di Renzi, è chiaro invece che ci sarebbero dei gravi contraccolpi negli assetti interni, magari con conseguenze di dimissioni e di congressi, tale da incidere sulla stabilità dello stesso ipotetico governo di centro sinistra che le primarie dovrebbero contribuire a far nascere.


23. Le primarie del Centro sinistra si dovevano fare un anno fa. Ora si potrebbe andare alle elezioni con un leader certo e con una coalizione consolidata e con un programma. Aprire ora il fronte delle ostilità tra le varie anime irriducibili del centro sinistra significherà anzitutto offrire al paese un desolante panorama di divisione. Sul piano della comunicazione politica, due o tre mesi di dibattito interno potrebbero avere esiti diversi, a seconda di come verrà condotto. Se ci si limiterà alle belle maniere o all’esibizione dei personalismi – com’è facile accada – ciò contribuirà a nascondere i problemi veri e a concentrare l’attenzione del pubblico sulle lotte di potere, alimentando ulteriormente l’impressione di inaffidabilità dei partiti. Se si tratterà di un vero dibattito (tra le diverse linee politiche che sono possibili – quelle che abbiamo elencato in apertura) questo sarebbe un vero congresso straordinario che però, condotto all’ultimo momento in forma competitiva, risulterà principalmente divisivo che aggregativo, dato l’alto tasso di fondamentalismo diffuso tra i competitori. I segnali ci sono già. Ha osservato acutamente Giannini su Repubblica: «È il difetto di fabbrica di questo PD, che arriva alle primarie senza ancora sapere cos’è. Un partito che spera sia proprio il rito purificatore delle primarie a forgiare il suo profilo identitario. Senza capire che un’identità, se c’è, esiste prima e resiste anche dopo. Le primarie servono solo a selezionare il leader più capace a incarnarla».[15]


24. Insomma, il centro sinistra (e la sinistra nel suo complesso), si sono ormai cacciati in un cul de sac e la mini coalizione tra PD e SEL, con annesse primarie, rischia di esasperarne gli effetti. Lo dicevamo[16] poco più di un anno fa in un nostro articolo: di tutte le primarie possibili, quelle di coalizione sono le più difficili. E poi, primarie e coalizioni, per farle, bisogna farle bene, altrimenti è meglio non farle.

 

Giuseppe Rinaldi (28/09/2012 - 09/03/2021 rev.)

 

 

 

NOTE

 

[1] Mi permetto di ricordare che le riforme della politica, nel nostro Paese, comprendono: 1) attuazione piena dell’art. 49 della Costituzione; 2) modifiche costituzionali riguardanti il numero dei parlamentari e la funzione delle due camere; 3) drastica riduzione dei costi della politica; 4) regolamentazione del finanziamento dei partiti; 5) abolizione dei privilegi della casta politica; 6) rifacimento della legge elettorale; 7) legge efficace contro la corruzione.

[2] Dati del sondaggio IPSOS del 10/9/2012.

[3] Ha recentemente (22/09/2012) dichiarato Vendola che la coalizione del centrosinistra dovrebbe essere altro: “Dovrebbe battersi per i diritti dei lavoratori a cominciare dal ripristino dell’articolo 18 e dovrebbe essere dalla parte delle famiglie e delle classi meno abbienti. Dovrebbe, insomma, capovolgere l’agenda del governo Monti.

[4] Un gruppo nutrito di esponenti del PD capeggiato da Fioroni ha immediatamente prodotto un documento secondo cui l’attuale linea di Vendola si trova in aperta collisione con quella del PD.

[5] Ci manca solo più che la prossima campagna elettorale venga incentrata sul concetto di famiglia e su cose come i matrimoni o le adozioni gay

[6] L’area CGIL-FIOM ormai si sta praticamente comportando come un partito politico monotematico e, dunque, deve essere presa in considerazione come un soggetto politico, quando si fanno analisi politiche.

[7] Ciò testimonia ancor più della distanza lunare tra le fantasie della politica e la realtà effettuale.

[8] Su questo tema, mi permetto di segnalare il mio articolo, col senno di poi oserei dire profetico, su Città Futura, intitolato La disfida di Macerata del 6/06/2011.

[9] Vendola ha recentemente dichiarato che la coalizione è in forse e che la sua partecipazione alle primarie non è ancora decisa.

[10] Ricordo che il famoso 25% che viene attribuito al PD dai sondaggi è calcolato solo su tutti quelli che esprimono una preferenza, che oggi sono meno della metà, se si tolgono le bianche, i “non so” e gli astenuti. Se calcolato, come sarebbe giusto, su tutti gli elettori, il PD arriva all’11-12%.

[11] A mali estremi, l’unico modo per rendere il porcellum digeribile, sarebbe quello di compilare le liste attraverso le primarie.

[12] È lecito sospettare che il pasticcio delle primarie per la scelta del leader della coalizione ristretta sia stato messo in piedi per evitare di fare le primarie che davvero conterebbero, quelle per la scelta dei parlamentari?

[13] Questo programma comune, col passar del tempo, sembra sempre più inesistente. Un gruppo consistente di esponenti di primo piano del PD ha prodotto un documento in cui si afferma che le recenti prese di posizione di Vendola sarebbero incompatibili con un programma comune con il PD e ciò impedirebbe a Vendola di partecipare alle primarie. Lo stesso Vendola sta prendendo tempo.

[14] Intervista a Lilli Gruber il 12/09/2012.

[15] Cfr. Massimo Giannini, Cosa c’è in quel camper, su La Repubblica del 14/9/2012.

[16] Cfr. Giuseppe Rinaldi, Le primarie prese sul serio, su Città Futura del 16/04/2011.

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 13 marzo 2012

Quale sindaco per quale città

 









1. Nonostante il sindaco sia un mestiere difficile, la lista degli aspiranti è sempre lunga, come del resto sta accadendo nella nostra città. Si pone dunque il problema della scelta e, prioritariamente, dei criteri in base ai quali scegliere. Cosa ci aspettiamo da un sindaco? La risposta ha a che fare sia con l’immagine che abbiamo del mestiere di sindaco, sia con l’immagine che abbiamo della situazione attuale della nostra città.

2. Il sindaco[1] come lo conosciamo oggi è il frutto di un’appena decente legge elettorale che ha, come elementi qualificanti, il doppio turno, la possibilità da parte del sindaco di scegliere e revocare gli assessori e una certa indipendenza nei confronti della coalizione che lo appoggia (il che viene realizzato con il voto disgiunto). In virtù di tutto ciò, la legge elettorale locale è stata solitamente considerata come capace di assicurare una certa governabilità, conferendo ampi poteri a una persona eletta direttamente, ben riconoscibile e, soprattutto, responsabile di fronte agli elettori. A partire da queste regole, in effetti i partiti sono stati costretti a fare sforzi per sostenere la candidatura di persone mediamente presentabili, dotate di capacità e competenze. Ciò ha finito così anche per alimentare un certo consenso verso un’estensione dei poteri da affidare ai sindaci, cosa che è in parte stata recepita in diverse occasioni dal Legislatore. Più recentemente sembra anche essere aumentata l’indipendenza delle politiche locali nei confronti della politica nazionale. Non di rado infatti i sindaci (da soli o organizzati) si sono schierati contro le deliberazioni dei governi nazionali, portando in primo piano le istanze più sentite dei vari territori.

3. La “luna di miele” tra sindaci e cittadini è tuttavia durata poco. Con il maggior potere e la maggior visibilità dei sindaci si è intensificata la lotta tra i partiti per l’occupazione delle varie poltrone, così come si è anche intensificata la pressione sulla politica locale delle lobby e delle bande di M&P&A. Si sono così succeduti parecchi scandali, sono diventate sempre più evidenti varie forme di malgoverno locale che sono giunte a mettere a repentaglio i beni pubblici, la salute e la sicurezza delle popolazioni. Ciò ha gettato qualche ombra sullo stesso meccanismo dell’elezione diretta. Pur avendo il potere di scegliere, in talune occasioni gli elettori hanno innegabilmente effettuato le scelte peggiori e più dannose per loro stessi, avallando l’antico pregiudizio sulla democrazia intesa come il “governo dei peggiori”.

4. Per tutti questi motivi, a livello nazionale si sta oggi facendo strada una domanda politica relativamente nuova che mira, nello stesso tempo, a valorizzare il ruolo dei sindaci e a combatterne le possibili degenerazioni. Gli elettori, attraverso le loro preferenze, sembrano sempre più scartare il tipo del sindaco politico di professione, amministratore e passacarte, eletto attraverso un complesso mercato elettorale, per preferire un tipo di sindaco relativamente estraneo alla politica, dotato di qualità personali e di manifesti requisiti morali, capace di risolvere i problemi con efficacia e di difendere gli interessi locali, capace di costruire una sua ampia maggioranza andando oltre gli schieramenti precostituiti. Indiscutibilmente, negli ultimi tempi, i sindaci più benvoluti, oltre che essere considerati buoni amministratori, sono stati valutati positivamente perché capaci di impersonare (in termini etici e politici) i valori e gli obiettivi della stessa comunità locale. Ciò vale per i sindaci di tutti gli orientamenti politici, da Tosi a Renzi, da Fassino ad Alemanno, da De Magistris a Pisapia. Ciò vale anche per i sindaci della Val di Susa, indipendentemente dalla validità o meno delle loro posizioni. Per dirla in termini sintetici, i sindaci carismatici sembrano essere oggi di gran lunga preferiti rispetto ai sindaci burocratici.

5. Ma che cos’è il carisma? L’antitesi tra carisma e burocrazia è un classico del pensiero sociologico. Per quel che ci interessa qui, secondo una distinzione che risale a Max Weber, l’autorità può avere un fondamento carismatico, oppure un fondamento razionale.[2] “Il carisma è una certa qualità di una personalità individuale per virtù della quale l’individuo è considerato diverso dagli altri esseri umani ordinari e trattato come dotato di poteri eccezionali”.[3] Il fondamento razionale dell’autorità ha invece a che fare con la legalità delle procedure impiegate. Il tipico caso è quello della moderna burocrazia, dove sono particolarmente apprezzate la formalità dei procedimenti, la capacità di controllo e di elaborazione delle informazioni, la competenza acquisita attraverso esami e concorsi.

6. Un’altra distinzione, assai nota all’interno delle discipline organizzative e che può essere utile al nostro ragionamento, è quella tra leadership e management. Generalmente i leader sono in grado di innovare, ispirano nuove idee, mostrano nuove direzioni, sviluppano nuove strategie. I manager, dal canto loro, amministrano, seguono routine predefinite, mantengono l’ordine, controllano i vari apparati. È chiaro che, seguendo il filo del nostro discorso, il leader è principalmente carismatico, mentre il manager è prevalentemente burocratico.

In generale si ritiene che l’autorità carismatica dei leader sia soprattutto necessaria nelle fasi in cui c’è bisogno di un cambiamento; si ritiene invece che l’autorità legale – razionale del management sia particolarmente utile dopo il cambiamento, quando bisogna far funzionare bene le innovazioni che sono state introdotte. Alcuni studiosi hanno addirittura sostenuto la complementarietà delle due forme di autorità, in senso ciclico: a una fase di cambiamento, dove è per sua natura prevalente il ruolo dei leader, segue, prima o poi, una fase di amministrazione,[4] dove è bene confidare nei manager. Tuttavia la conduzione manageriale può andare a sua volta incontro a varie forme di degrado, per motivi endogeni o esogeni (imprevisti gravi problemi da risolvere, assuefazione alla routine, corruzione,… ), e può quindi rendere nuovamente necessario l’apporto di leader riformatori e trasformatori.

7. Se ripensiamo alle recenti vicende elettorali amministrative del nostro Paese, questo modello calza piuttosto a pennello. Il caso di Milano è sintomatico: per voltar pagina, una città che è stata berlusconiana per eccellenza ha scelto un sindaco leader, capace, da solo, d’impersonare un nuovo stile, un’etica politica alternativa, un programma radicalmente diverso da quelli delle amministrazioni precedenti. La stessa cosa vale per Napoli, una città sull’orlo del tracollo che aveva un bisogno urgente di cambiamento, e che, contro ogni aspettativa, ha scelto un outsider come De Magistris. Il nostro modello interpretativo sembra valere anche all’interno dello schieramento del centro sinistra. Se consideriamo le primarie più recenti, anche a Genova, con la vittoria di Doria, un professore estraneo alla politica di professione, sembra che abbia prevalso la domanda di leadership. Alle primarie di Palermo, anche la vittoria inattesa di Fabrizio Ferrandelli può essere stata determinata dalla ricerca, da parte degli elettori, di un candidato nuovo, dotato di un qualche carisma ed estraneo ai giochi del mercato politico.

8. Siamo ora in grado di trarre alcune conclusioni dalla nostra analisi. Possiamo identificare, semplificando alquanto i termini della questione, quattro principali situazioni, com’è illustrato nella tabella acclusa. Se in generale le cose vanno bene (se i cambiamenti introdotti sono alle spalle, se c’è una situazione di stabilità o di crescita) allora il manager competente può essere la scelta migliore, per custodire e consolidare l’esistente. In tal caso, la scelta di un leader carismatico può essere superflua, anche se potrebbe costituire un ulteriore valore aggiunto: una città stabile e già florida che voglia competere e crescere ancora di più può fare la scelta lungimirante di un leader carismatico anche in situazione di stabilità.

 

 

Manager
burocratico
Leader
carismatico
Bisogno di amministrazione
(perché le cose vanno bene)

X

(x)

Bisogno di cambiamento
(perché le cose vanno male)

 

X

 

Se in generale però le cose vanno male, se urgono cambiamenti radicali (sempre promessi e mai realizzati), se c’è declino e disgregazione sociale, dovrebbe essere abbastanza evidente che mettere un manager burocratico, per quanto competente, a governare il cambiamento sia la cosa più sconsiderata che si possa fare. Quanto più la crisi è grave, tanto meno essa è risolvibile con mezzi ordinari, tanto più il compito può essere risolto solo da una leadership. Il motivo è presto detto. Nelle situazioni di crisi spesso non si sa cosa fare e dove andare, occorrono scelte coraggiose, talvolta impopolari. Inoltre la crisi produce disgregazione sociale e il cambiamento spaventa. Per andare oltre la crisi non basta barcamenarsi a governare l’esistente, aspettando che cambi il vento. Occorre una leadership dotata di fantasia, immaginazione, occorrono capacità di sintesi, progetti ambiziosi e capacità di realizzarli. Ma soprattutto occorre andare oltre alla frantumazione sociale, alla contrapposizione dei piccoli e grandi egoismi. Soltanto una leadership riconosciuta è in grado di unire il tessuto sociale, di raccogliere fiducia oltre alle barriere e agli interessi contrapposti dei vari gruppi.[5] C’è insomma bisogno di qualcuno cui affidarsi, cui sia attribuita la capacità di rappresentare davvero la maggior parte e di traghettare la città dalla situazione negativa in cui si trova verso una nuova situazione di risanamento, di stabilità e di crescita.

9. Come si traduce tutto ciò nella specifica situazione di Alessandria? Se ne ricava che, nella scelta di un sindaco, non abbiamo bisogno solo di qualcuno che sappia far quadrare i conti in dissesto (per questo basta un’amministrazione controllata). In una situazione di grave declino e di smarrimento di un progetto collettivo, c’è bisogno di qualcuno che sia in grado di scuotere gli abitanti di questa città, di mobilitare gli sforzi, di fare delle scelte. C’è bisogno dell’esperienza di una rinnovata partecipazione, di un’effervescenza collettiva: una situazione cioè in cui persone appartenenti a mondi diversi mettano da parte le loro barriere per unire i loro sforzi e per realizzare un’idea condivisa. Si badi bene, non è il sogno di un visionario, è ciò che è realmente avvenuto a Milano, ben descritto dal maestro Limonta, lo straordinario personaggio che è stato il consigliere e l’artefice principale della vittoria di Pisapia. Oltretutto, con l’elevato numero di candidati e il serio rischio di dispersione, senza la capacità di parlare a tutti, senza un progetto condiviso e partecipato ben al di là dei bilancini degli schieramenti politici, in Alessandria non si riuscirà neppure a ottenere la maggioranza necessaria per passare il turno. Nella scelta del candidato alla carica di sindaco per la nostra città faremo dunque decisamente bene ad andare alla ricerca di una leadership. Bisogna però essere avvertiti. Il carisma può essere anche pericoloso. Quando il carisma è solo apparente, non corrispondente a un effettivo contenuto, ma è solo esteriorità e superficie, chiacchiera e propaganda, allora può trascinare nel baratro. Una città che vada dietro a sedicenti/seducenti leader chiacchieroni, vuoti e incapaci avrà solo da pentirsene. Del resto è già successo.

 

Giuseppe Rinaldi (13/03/2012)

 

 

NOTE

 

[1] Userò “sindaco” per riferirmi alla carica, indipendentemente dal fatto che a ricoprirla siano uomini o donne. Considero ridicolo l’epiteto di sindachessa o sindaca per marcare il genere, nel disperato tentativo di ottemperare a un malinteso politically correct.

[2] Secondo la tipologia di Weber, tralascio il fondamento tradizionale dell’autorità, che qui non ci interessa.

[3] AA, VV, The Encyclopedia of Political Science, CQ Press, Washington, 2011. Pag. 211.

[4] Si ha, insomma, una routinizzazione del carisma.

[5] Di fatto, negli ultimi tempi, hanno vinto le elezioni locali i candidati che hanno saputo unire, che hanno saputo parlare a un ampio elettorato, molto al di là dei soliti affezionati già schierati.