mercoledì 30 novembre 2016

Cronache marziane

cronache-marziane2
1. Il referendum sulla legge di riforma costituzionale sta impegnando in modo ossessivo tutti i media e sta dividendo il Paese come raramente si era visto in passato. Come effetto collaterale è riuscito a creare una spaccatura grave, forse irrimediabile, nello schieramento della sinistra e, parallelamente, sta contribuendo a risollevare le sorti politiche dell’opposizione di centro destra, mentre l’opposizione del M5S non è mai stata così bene.
In contrasto con la nettezza della spaccatura tra il Sì e il No - che oltre alle solite boutade folkloristiche ha visto all’opera vere e proprie impennate di odio allo stato puro - la questione delle riforme istituzionali,[1] appena si provi ad approfondirla, non appare assolutamente così chiara e netta come sembra, anzi, più si ampliano gli elementi di valutazione più ci si accorge che si tratta di un pasticcio di tale portata da non avere alcuna possibilità di soluzione. Se una soluzione chiara e netta non c’è, allora non resta che domandarsi che senso abbia tutto il polverone sollevato. Che senso abbia il fatto che l’esito del referendum potrebbe travolgere le sorti dell’attuale governo e forse anche della stessa legislatura. Per non dire delle conseguenze indesiderabili che si prospettano, con sempre maggior evidenza, a livello europeo e internazionale. Cosa abbiamo fatto, dunque, per meritarci tutto questo?
 
2. Nel nostro Paese, la questione della riforma costituzionale è ormai annosa ed è fatta risalire addietro nel tempo di almeno tre o quattro decenni.[2] In effetti è da molto che se ne parla, molti progetti sono stati abbozzati, tentati, e poi però sono puntualmente falliti. L’attuale proposta, per la quale gli italiani saranno chiamati al voto il 4 dicembre, ha tuttavia origini assai più vicine nel tempo. Essa è strettamente legata alla nascita travagliata dell’attuale Legislatura. Curiosamente, questo è uno degli elementi più trascurati nella campagna elettorale, segno che forse le attuali forze politiche hanno qualche scheletro nell’armadio. Può essere allora necessaria una sintetica ricostruzione preliminare delle tappe che hanno portato alla situazione attuale. Anche solo una prima ricostruzione dei fatti ci permetterà di comprendere come la questione non stia proprio come la stanno raccontando i propagandisti del Sì e quelli del No.
 
3. Il punto di partenza, da cui tutto deriva, è costituito dalle elezioni politiche del febbraio 2013 che hanno segnato, obiettivamente, uno spartiacque nella storia recente della vita politica italiana. Si noti che la tormentata legislatura precedente aveva visto il fallimento del governo Berlusconi, per cui ci si poteva attendere che fosse giunta l’ora di un cambiamento, che gli italiani avessero per lo meno imparato qualcosa.[3] Le legittime aspettative di cambiamento furono invece miserevolmente frustrate e il risultato fu quello di un sistema politico completamente bloccato.
Da un lato, si ebbe, infatti, la sconfitta elettorale di Monti, il quale - pur avendo provveduto a riparare in extremis alcuni gravi danni del governo precedente – essendosi presentato alle elezioni con una sua nuova formazione politica, fu pressoché ignorato dagli elettori. D’altro canto si registrò un’inattesa batosta elettorale del PD, la famosa “non vittoria” conseguita dal segretario Bersani, quello che aveva detto che avrebbe “smacchiato il giaguaro”.[4] Insieme alla “non vittoria” di Bersani si ebbe invece l’affermazione, davvero travolgente, del M5S che riuscì a conquistare quasi un terzo dei consensi dell’elettorato. Quest’ultimo fatto determinò una condizione del tutto nuova, una sorta di tripolarismo di forze più o meno equivalenti. Si trattava tuttavia di un tripolarismo bloccato, poiché – com’è noto – il M5S fin dall’inizio rifiutò qualsiasi apparentamento o alleanza, lasciando l’incombenza di formare un governo alle forze politiche restanti.
 
4. In seguito alla “non vittoria” di Bersani e all’isolazionismo del M5S, cioè, lo ripetiamo, in seguito a un’oggettiva situazione di blocco del sistema politico, l’unica soluzione logica sarebbe stata quella di andare subito a nuove elezioni.[5] Nuove elezioni avrebbero svolto il ruolo di una specie di secondo turno e avrebbero deciso, con maggior chiarezza, tra le tre coalizioni in lizza. Si preferì invece cercare di tirare avanti comunque la legislatura formando una coalizione innaturale – l’unica possibile - tra il centro sinistra e il centro destra, concretizzatasi nel composito governo Letta (che ebbe breve vita dall’aprile 2013 al febbraio 2014). Il nuovo parlamento si trovò anche di fronte all’incombenza dell’elezione del Presidente della Repubblica, e mostrò quivi la propria clamorosa e scandalosa incapacità, interpretata dalla maggior parte dell’opinione pubblica come l’estrema consumazione del degrado della politica. Il fallimento nell’elezione del Presidente, com’è noto, finì per comportare – fatto straordinario nella storia della Repubblica - l’apertura di un secondo mandato per Napolitano (aprile 2013 – febbraio 2015).[6]
Intanto, all’interno del PD, dopo la “non vittoria” di Bersani, Matteo Renzi era stato eletto, con grande successo, segretario del partito alle primarie dell’8 dicembre 2013, sull’onda della parola d’ordine della rottamazione.[7] Alle primarie avevano partecipato quasi tre milioni di elettori. Renzi, diventato segretario del PD, si affettò a dare il benservito al governo Letta e a insediarsi a Palazzo Chigi (febbraio 2014). Renzi però non poté fare altro che proseguire l’alleanza di governo con il centro destra, la sola formula possibile in Parlamento, dati i numeri. L’alleanza, com’è noto, avrà ben presto sviluppi organici con il cosiddetto Patto del Nazareno.[8] Renzi dichiarò di avere le carte per governare fino alla scadenza naturale della legislatura, poiché occorreva fare le riforme per «salvare l’Italia». 
 
5. La coalizione di maggioranza e il governo Renzi così ereditarono anche il vago progetto di riforma istituzionale, che era stato già delineato dalla Commissione dei Dieci Saggi (costituita per impulso di Napolitano), e poi ulteriormente approfondito durante il governo Letta (con Quagliariello ministro per le riforme istituzionali). Si trattava evidentemente di un progetto temerario, poiché si stava chiedendo a un parlamento bloccato e a una serie di forze politiche inadeguate, nuove e inesperte oppure decotte e frantumate, nientemeno che di produrre, tra le altre cose, una riforma della Carta fondamentale. Va detto però che il progetto, anche e soprattutto dietro l’impulso di Napolitano, subì da parte di Renzi una svolta attivistica e alla fine – pur con innumerevoli e contorte traversie – fu portato a termine. Il referendum del 4 dicembre 2016 è infatti l’ultimo atto di questo processo.
Nel quadro del Patto del Nazareno, in un primo tempo le linee fondamentali delle riforme istituzionali furono concordate con Berlusconi e furono votate in parlamento da Forza Italia. Si trattava, peraltro, di una versione edulcorata del progetto di riforma già proposto da Berlusconi nel 2006 e poi bocciato dagli elettori. Nel corso dei lavori, si ebbe però un incidente significativo in occasione della elezione del nuovo Presidente della Repubblica (febbraio 2015), fatto che causò la definitiva rottura tra Renzi e Berlusconi e il passaggio di Forza Italia all’opposizione. Dopo questa rottura, il compito di portare a termine le riforme istituzionali gravò unicamente su Renzi e sulla sua esigua e non sempre fedele maggioranza (cosa che lo costrinse spesso a mettere la fiducia, guadagnandosi così anche l’accusa di essere autoritario). Insomma, già dopo il febbraio 2015 era chiaro che le riforme istituzionali non potevano che essere riforme di una parte esigua e che in tal modo sarebbero state valutate da tutte le altre parti. In questa storia, troviamo di tutto, quindi, tranne che uno straccio di spirito costituente, di tutto tranne che uno straccio di consapevolezza che quella che si stava tentando era davvero l’ultima spiaggia e che il M5S stava aspettando al varco i contendenti.
 
6. Ci si meraviglia ancor oggi per l’insistenza posta da Napolitano, Letta e Renzi (e, fino al febbraio 2015, anche da Berlusconi) sulla questione delle riforme istituzionali. Si può ben considerare che il Paese avesse problemi ben più urgenti da risolvere. Perché mai le riforme istituzionali erano diventate così ineludibili? Nell’attuale propaganda del fronte del No è di moda affermare che non c’era alcun bisogno di fare le riforme istituzionali. Addirittura si suole raccontare la favola che le riforme istituzionali siano un sotterfugio da parte di poteri occulti per realizzare in Italia una “svolta autoritaria”. Oggi in effetti pare che molti abbiano scordato le ragioni effettive per cui questa legislatura sfortunata è stata messa al lavoro proprio sulle riforme istituzionali. Le ragioni davvero impellenti, ben presenti a Napolitano, Letta e Renzi, derivavano proprio da quanto era appena successo, di cui forse il grande pubblico, ormai avvezzo al degrado della politica, non aveva apprezzato la gravità.
In estrema sintesi, dopo la fine del governo Berlusconi e dopo la grave crisi della politica sopravvenuta, c’erano numerose motivazioni urgenti che spingevano a fare una riforma istituzionale:
a) evitare che, in futuro, i risultati elettorali fossero paralizzanti per la formazione di un governo, tali da costringere ad alleanze innaturali (come il governo Letta e lo stesso governo Renzi);
b) evitare, in futuro, il tranello della doppia fiducia alla Camera e al Senato (cioè, il rischio, per un governo qualsiasi, di avere la fiducia di una camera e non dell’altra);
c) evitare ulteriori vergognose impasse nel processo di elezione del Presidente della Repubblica, come quella che era appena accaduta.
Queste erano le motivazioni più rilevanti. C’erano però anche altre questioni aperte, non meno importanti, che riguardavano:
d) l’esigenza ormai improcrastinabile di dare una risposta al fallimento sempre più evidente dell’ordinamento regionale (sia per le varie incalzanti inchieste della magistratura - che avevano ulteriormente alimentato l’antipolitica - sia per il palese fallimento della precedente riforma del Titolo V, che nelle intenzioni di chi lo aveva promosso avrebbe dovuto essere una positiva risposta allo scissionismo leghista ma che in pratica non ha mai funzionato);
e) l’esigenza di una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi (che spesso erano stati usati, a proposito ma anche a sproposito, per aggirare l’incapacità del sistema politico di dare risposte alle domande dei cittadini);
f) si trattava inoltre, ultimo ma non ultimo, di dare una chiara e forte risposta all’antipolitica che aveva appena portato al sorprendente risultato del M5S e quindi alla paralisi del tradizionale modello bipolare basato su destra e sinistra. La risposta all’antipolitica – in mancanza di una diagnosi corretta del fenomeno che avrebbe impietosamente messo sotto accusa proprio i partiti - si concentrò, invero piuttosto limitativamente, sull’esigenza di diminuire il numero dei parlamentari, diminuire i costi di alcune istituzioni, sveltire le procedure di formazione delle leggi, eliminare alcune istituzioni inutili. Anche la riforma dei rapporti tra Stato e regioni, con la definitiva abolizione formale delle province, poteva essere presentata come riduzione dei costi e come riforma della politica. Tutti questi obiettivi, se bene orchestrati, avrebbero dovuto contribuire a riconciliare gli italiani con la politica e avrebbero dovuto contribuire a ridurre la protesta.
g) Un ulteriore motivo – di ordine più tecnico, ma dalle enormi conseguenze politiche - per procedere urgentemente alle riforme istituzionali venne determinato, a lavori già in corso, dal fatto che la legge elettorale vigente era intanto stata dichiarata incostituzionale. La legge n. 270 del 21 dicembre 2005, comunemente nota come legge Calderoli o Porcellum, con cui era stato eletto il Parlamento stesso, venne dichiarata incostituzionale in alcune sue parti  con sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale (pubblicata in G.U. il 15 gennaio 2014, con effetti decorrenti dal giorno successivo). Di conseguenza, a partire dal gennaio 2014 (c’era ancora il governo Letta) occorreva, come minimo, correre ai ripari per un cambiamento della legge elettorale, per adeguarla alle indicazioni della Consulta, prima di andare a nuove elezioni. [9]
 
7. Queste erano dunque le ragioni chiarissime dell’urgenza e queste erano le migliori buone intenzioni.[10] Gli obiettivi precedentemente elencati potevano essere in generale largamente condivisibili e, tutto sommato, di buon senso. Rappresentavano il massimo della consapevolezza possibile da parte di chi cercava di avere un minimo di visione prospettica e si accorgeva che il sistema stava andando a sbattere.  Chi sostiene che non ci fosse alcun bisogno di una riforma non sa evidentemente quel che dice. Altro che «poteri forti» e JP Morgan! Si noti - come osservazione en passant – che il progetto di riforma Napolitano – Renzi tenta di dare una risposta a tutti questi problemi, seppure in modo assai discutibile e criticabile. Il fronte del No, che si oppone, non ha alcun progetto di sorta da contrapporre, per cui gli elettori il 4 dicembre sceglieranno tra un progetto che c’è e il nulla. Evidentemente per il fronte del No non ci sono problemi di riforma istituzionale in Italia! 
Restava tuttavia il problema di come si potessero ottenere insieme tutti questi risultati. Anche perché il Parlamento che avrebbe dovuto operare i cambiamenti era, di fatto, aspramente diviso tra destra e sinistra e completamente bloccato dall’atteggiamento isolazionista del M5S.[11] Qui si combinarono, oltre all’impulso istituzionale della Consulta, le pressioni di Napolitano e l’attivismo renziano che produssero l’invenzione di quel che sarà poi conosciuto come il combinato – disposto. Invece di procedere a un’esplicita revisione generale dell’impianto del nostro sistema politico (ad esempio attraverso l’introduzione del presidenzialismo, oppure del semi presidenzialismo o di qualche altro modello organico), cosa  che, data la situazione di divisione e blocco delle forze politiche, non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere approvata, si pensò a una serie di micro modifiche, una serie di rappezzi minimali che però, tutti insieme, avrebbero permesso al sistema di funzionare meglio, naturalmente in una chiave di maggiore stabilità e maggiore efficacia. 
Gli obiettivi complessi che abbiamo poc’anzi tratteggiato (cioè le cosiddette “riforme istituzionali”) avrebbero potuto essere raggiunti attraverso la coordinazione di due diversi strumenti: una legge elettorale che desse stabilità alla maggioranza almeno per tutta una legislatura e una riforma costituzionale su singoli punti che provvedesse non a una modifica generale ma a una semplice manutenzione del sistema parlamentare. Insomma, l’ambizione era, in effetti, quella di fare un’effettiva riforma di sistema, da ottenersi però attraverso una varietà di strumenti e piccoli ritocchi su cui – si sperava - un’ampia parte delle forze politiche avrebbe potuto concordare. Poiché il M5S aveva dichiarato la sua indisponibilità, era comunque indispensabile, fin da principio, che le restanti due principali forze, il centro destra e il centro sinistra, collaborassero per fare le riforme istituzionali. Come s’è detto, Berlusconi concordava perfettamente con tutto ciò, fino alla rottura del febbraio 2015. Si noti che, mentre Renzi era imbarcato con questo progetto, che prevedeva la collaborazione con Berlusconi, buona parte della sinistra interna al PD e di quella esterna cominciarono ad opporsi al Patto del Nazareno e ad accusare Renzi di collaborazione con la destra. Senza però tirare le ovvie conseguenze, e cioè di porre fine alla legislatura e di andare a nuove elezioni.
 
8. Il combinato - disposto dunque c’era fin dall’inizio, non è mai stato un mistero, ed è sempre stato costitutivo del progetto Napolitano – Renzi. Il fronte del No, a sentire le loro grida al complotto segreto, sembra lo abbiano appena scoperto. Il fatto è che per poter realizzare il combinato - disposto, occorreva comunque la collaborazione di almeno due delle tre principali forze politiche, poiché occorreva fare una legge elettorale e una riforma costituzionale che fossero coordinate insieme. Come al solito, la collaborazione non c’è stata e ognuno ha invece fatto i conti sul proprio utile immediato (il centro destra ha cambiato opinione, non avendo ottenuto da Renzi quel che voleva in cambio;[12] il M5S irresponsabilmente si è tenuto fuori da qualsiasi confronto o alleanza, mentre la sinistra del PD, tanto per aggiungere la ciliegina, ha pensato bene di fare una sorta di congresso anticipato per defenestrare Renzi). Le due leggi (quella elettorale ordinaria, riguardante solo la Camera, e quella correlata di riforma costituzionale) comunque furono effettivamente approvate e dunque un risultato tangibile si ebbe. Se non fosse per la defezione di Forza Italia, la legge costituzionale avrebbe potuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi, sufficiente a non fare neppure il referendum.[13]
 
9. Si noti en passant che gli ultimi avvenimenti interni al PD (novembre 2016) hanno notevolmente modificato la sostanza della questione che sarà sottoposta a referendum. Se il combinato disposto era da prendersi come cosa seria, allora la legge elettorale per la Camera (l’Italicum, così come approvato) doveva essere parte integrante della riforma complessiva del sistema. Ora, in seguito alle minacce scissionistiche della sinistra del PD, com’è noto, Renzi ha dichiarato di essere disponibile a modificarla. Il problema è che – per ora – tutto ciò sta scritto in un pezzo di carta in mano a Cuperlo. Il risultato è che ora l’elettore che volesse votare Sì al combinato disposto delle due leggi, secondo l’originario progetto Napolitano - Renzi, non ha neppure più la certezza che – in caso di vittoria dei Sì - sarà mantenuta la legge elettorale. Quindi d’ora in poi, Renzi – maggior fautore del Sì - sarà costretto a chiamare i cittadini a votare su un progetto complessivo di riforma che è divenuto però monco, a opera di una parte del suo stesso partito. Un altro bell’esempio di spirito costituente.
 
10. Cosa si vota allora effettivamente il 4 dicembre? Tecnicamente si vota solo ed esclusivamente per la legge di riforma costituzionale e non certo per la riforma istituzionale complessiva che, in teoria, comprende anche la legge elettorale (cioè l’Italicum). Tuttavia, in seguito alla propaganda del Sì e del No, una parte consistente degli elettori voterà al referendum valutando positivamente o negativamente anche e soprattutto la legge elettorale fin qui approvata - una legge che però sarà cambiata, com’è stato puntualmente annunciato da Renzi. E’ evidente che la logica non abita più qui, del resto siamo nel Paese delle Meraviglie.
La maggior parte degli elettori avrà tuttavia in mente ben altro. La conseguenza politica della defezione del centro destra (e del boicottaggio delle sinistre) è stata che lo schieramento del Sì ormai coincide con quello dell’attuale maggioranza di governo, per cui il referendum non può che assumere anche il significato di un referendum intorno all’operato della maggioranza di governo. Così una parte consistente degli elettori userà il voto referendario per valutare il governo più che per valutare la proposta di riforma costituzionale, o quella più complessiva di riforma istituzionale. In questo modo il referendum non può che assumere oggettivamente il significato di un plebiscito sul governo Renzi (qualsiasi cosa dica o faccia Renzi in proposito!).
È chiaro altresì che un’eventuale, seppure indiretta, valutazione negativa nei confronti del governo e della sua maggioranza potrebbe esporre il Paese a una crisi di governo, oppure addirittura a elezioni anticipate, che nella attuale situazione darebbero molto facilmente la maggioranza al M5S. In sostanza il 4 dicembre potrà determinare, di fatto, la celebrazione di quel ritorno alle urne che avrebbe dovuto essere effettuato subito dopo le elezioni del 2013. Tutto ciò, a sua volta, avrebbe delle conseguenze di rilievo a livello europeo e a livello internazionale, in seguito alla situazione di incertezza che caratterizza in questo momento l’Europa (Brexit, avanzata della destra populista) e la situazione internazionale (vittoria di Trump e isolazionismo in USA). Così una parte degli elettori userà il voto referendario per valutare anche tutte queste conseguenze e per cercare di intervenire nella situazione europea o anche nella situazione internazionale.
 
11. L’elettore quindi, al referendum del 4 dicembre, in termini di intenzione sottesa al voto avrà un’ampia gamma di possibilità, ben oltre il Sì e il No, che sono state ormai tutte ben suggerite ed esplicitate nella campagna elettorale. Le principali opzioni sono le seguenti:
a) Valutare esclusivamente la proposta di riforma costituzionale in senso stretto (ignorando la legge elettorale attualmente esistente (l’Italicum) e ignorando qualsiasi altro aspetto).
b) Valutare nel suo complesso la proposta di riforma istituzionale, cioè il combinato tra la legge elettorale e la riforma costituzionale e ignorando qualsiasi altro aspetto. In tal caso si valuterà se è vero o no che il combinato disposto prefigura un pericolo autoritario, un attacco alla Costituzione. La cosa è facile a dirsi ma diventata impossibile da farsi, poiché la legge elettorale sarà cambiata e quindi non si sa quale sarà.
c) Valutare le conseguenze del voto sul governo e sulla politica interna (cioè votare per sostenere Renzi, magari come elemento di stabilità, oppure per “mandarlo a casa”), facendo passare in secondo piano ogni altra considerazione. Non mancano anche coloro che potrebbero prendere in considerazione soltanto le conseguenze sul PD, sostenendo o cercando di metter fine alla segreteria Renzi. Naturalmente, una volta mandato a casa Renzi, ci si dividerà ancora ulteriormente sul da farsi e sugli obiettivi da raggiungere, ma questo è dovuto al fatto che i nemici di Renzi non hanno alcun progetto politico complessivo.
d) Valutare le possibili conseguenze del voto sulla situazione europea e internazionale (facendo passare in secondo piano ogni altra considerazione). Ad esempio, votare No per creare le condizioni per portare il M5S al governo e per fare così un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Euro, oppure votare Sì considerando Renzi come un baluardo contro il dilagare della destra populista in Europa e nel resto del mondo.
 Il referendum del 4 dicembre è diventato così veramente troppe cose: una celebrazione fuori tempo massimo di quel ritorno alle urne che si doveva fare già nel 2013, una sezione distaccata (il posticipo, in gergo calcistico) delle elezioni amministrative del 5-19 giugno 2016,[14] la celebrazione anticipata delle nuove elezioni politiche e, pure, il congresso anticipato del PD. Non solo. È diventato anche l’anticipo di un futuro voto referendario pro o contro l’Euro e pro o contro l’Europa che si terrà non appena il M5S avrà la maggioranza e andrà al governo (cosa altamente probabile in un breve lasso di tempo).
Questo incredibile sovraccarico di significati è più che sufficiente a rendere il significato effettivo del voto completamente vago e non interpretabile, sia che prevalga il No, sia che prevalga il Sì. Il giorno dopo, si saprà che ha vinto il Sì o il No, ma non si saprà assolutamente cosa abbiano voluto effettivamente dire gli elettori, votando Sì o No. Formalmente la cosa non ha la minima importanza, ma dal punto di vista politico la questione è fondamentale.
 
12. Cosa si vota davvero, dunque? Si sentono ovunque gli inviti di molti propagandisti a lasciare da parte ogni altra considerazione e a concentrarsi sulle modifiche effettive che saranno apportate alla Costituzione. Inviti del tipo «entriamo nel merito», oppure l’esortazione a «pensare soltanto al quesito» e non alle questioni collaterali. Certo, sarebbe, in astratto, senz’altro la cosa più giusta da fare. Per entrare davvero nel merito, bisognerebbe però sospendere tutto quel che sappiamo dell’attuale situazione politica italiana e internazionale – cioè dimenticare quasi tutti i dati di fatto che abbiamo esposto fin qui – e cercare di valutare la sola proposta di riforma costituzionale, come si dice, in sé e per sé. Già che ci siamo, per essere più obiettivi, adottando un vero spirito costituente, dovremmo anche fare uno sforzo volenteroso per sospendere i nostri umori profondi, i nostri interessi personali, le nostre preferenze politiche, la nostra collocazione sociale, e così via. Insomma, come diceva Rawls, dovremmo cercare di valutare unicamente la proposta di riforma costituzionale sotto la condizione del velo d’ignoranza.
Il suggerimento è senz’altro metodologicamente corretto. Nella situazione che si è creata però applicare un simile suggerimento è diventato sempre più difficile. Chi si concentrasse davvero solo sul quesito referendario non potrebbe che fare la figura dell’imbecille,[15] di quello che non si accorge del contesto, il quale contesto purtroppo altera completamente i termini della domanda stampata sulla scheda. Insomma, l’elettore astrattamente serio, dovrebbe effettivamente pensare solo al merito del quesito ma, come abbiamo visto, se lo fa, diventa immediatamente miope e “utile idiota”, pronto a farsi strumentalizzare dagli interessi estranei più diversi.
 
13. L’elettore accorto non potrà dunque che lasciar perdere il velo dell’ignoranza e cominciare a domandarsi quale sia, dal proprio punto di vista, l’uso proprio del proprio voto e di conseguenza quali usi impropri ne saranno fatti. Per uso improprio s’intende che il voto espresso (per il Sì o per il No) abbia degli effetti, prevedibili o non prevedibili, che però non stiano nelle intenzioni di chi lo esprime. O addirittura stiano all’opposto.  Alcuni di questi possibili usi impropri rispetto alle intenzioni del votante vengono addirittura esplicitamente o orgogliosamente indicati nella campagna elettorale, per cui possiamo star certi che ci saranno. Qualche esempio. Chi vota No per rafforzare la democrazia, rischia col proprio voto di indebolirla, dando spazio a forze antidemocratiche; chi vota Sì per appoggiare il governo Renzi può trovarsi con una riforma costituzionale che non gradisce. Chi vota Sì perché gli piace l’Italicum potrà accorgersi che l’Italicum sarà cambiato proprio dal fronte del Sì; chi vota No per mandare a casa Renzi potrà accorgersi di avere favorito, senza volerlo, l’ascesa al governo del M5S. La casistica è innumerevole. È questa una situazione assai nota in filosofia e in sociologia, conosciuta sotto diverse denominazioni: qualcuno ha parlato di eterogenesi dei fini, qualcun altro di effetti perversi o di effetto boomerang. Ebbene, pare proprio che non ci sia risposta che non possa avere degli effetti altamente indesiderati dal punto di vista di chi la esprime. Uno vota Sì, oppure vota No ed ecco che gli arriva un qualche boomerang sulla testa!  
 
14. Tutto ciò fa sì che il quesito referendario sia una domanda cui non è possibile rispondere con un Sì o con un No. Le domande dalla risposta impossibile - invece di condurre all’illuminazione come nello Zen - non possono che spingere l’elettore a votare prendendo solo in considerazione aspetti parziali della questione. Il che corrisponde a un comportamento irrazionale, un po’ come votare a casaccio, oppure votare con la pancia. In data 27/11/2016, in una manifestazione a favore del No, Grillo ha esplicitamente invitato gli elettori a lasciar perdere qualsiasi considerazione razionale e a votare di pancia. A malincuore dobbiamo riconoscere, d’accordo con Grillo, che il destino prossimo venturo del Paese – perché delle conseguenze rilevanti ci saranno, eccome! – è nelle mani di una consultazione cui non si può rispondere seriamente, cui si può rispondere solo di pancia.
Si noti che a questo responso elettorale, generato in questo modo, sarà appioppata la qualifica di volontà popolare. La volontà del popolo, fabbricata in questo modo bizzarro, sarà oltretutto, come s’è detto, stiracchiata e usata impropriamente nei modi più diversi. Dato l’oggettivo garbuglio delle questioni, il fronte del Sì e il fronte del No non possono fare altro – e lo stanno facendo in modo esemplare – che fare della propaganda populistica per vincere a tutti i costi (anche se non è ben chiaro cosa si vinca davvero). Del resto l’uso dello stile populistico in politica è ormai stato introdotto ovunque nel nostro Paese, da tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Il linguaggio populistico, che ottenga o meno il suo risultato, fa solo una cosa certa: uccide la democrazia. Quelli che amano paragonare al fascismo la riforma Napolitano – Renzi dovrebbero invece preoccuparsi dell’habitus populista che essi stessi stanno alimentando e diffondendo a man bassa.
Di fronte a questa situazione assurda, qualsiasi esame minuzioso degli articoli della riforma – che pure ha molti limiti che derivano, ovviamente, dal modo con cui è stata costruita – appare del tutto ininfluente e lascia il tempo che trova, cosa per cui ne accenniamo soltanto in nota.[16] La maggioranza degli elettori comunque voterà di pancia – seguendo, di fatto, il consiglio di Grillo – anche perché del tutto immemore di come si sia giunti alla situazione attuale, assolutamente incapace di entrare nel merito delle questioni e, meno ancora, di rendersi conto del vizio politico di fondo che sta alla base di questo referendum.
Se c’è una cosa che questa campagna elettorale ha messo in luce è che la cultura civica media degli italiani è assolutamente inadeguata a formulare qualsiasi scelta consapevole circa il proprio futuro destino politico. Questo è il vero motivo per cui abbiamo la classe politica che abbiamo – le cui gesta tragicomiche abbiamo cercato di raccontare in queste cronache marziane. I dibattiti quotidiani che sono offerti dai media tra i testimonial del Sì e del No mostrano chiaramente che la maggioranza di loro non sa neppure di quel che si tratta. Si sentono solo stanche ripetizioni di slogan, formulette, narrazioni fantastiche, manifestazioni d’intolleranza. Con la scusa di ossequiare la volontà popolare, in realtà è stata montata una macchina gigantesca di diseducazione civica i cui effetti si risentiranno a lungo. Va detto a questo punto che, col senno di poi, abbiamo davvero fatto di tutto per meritarci tutto questo.
 
15. In fin dei conti, cosa dovrebbe fare allora, sul piano pratico, un elettore che sia convinto dei dati di fatto e delle valutazioni esposte nei punti precedenti?[17] Un simile elettore non può votare per il Sì, ma non può neppure votare per il No. Può solo tentare, con poche speranze, di marcare la propria distanza nei confronti dei due improbabili contendenti. Nei fatti potrebbe rifiutarsi di andare a votare, lasciando decidere a quelli che ci credono. Potrebbe tirare a sorte e votare quel che dice la moneta, aggiungendo casualità a casualità e quindi non andando a modificare il risultato finale. Potrebbe votare annullando la scheda (anche se, non essendoci quorum, la cosa non avrebbe comunque alcuna influenza).[18]
Interferendo il meno possibile sull’andamento del referendum, un elettore siffatto conseguirebbe intanto il risultato di permettere alla follia parapolitica di questo referendum di manifestarsi allo stato puro, fino alle ultime estreme conseguenze. Sperando che ciò serva a ravvedere qualcuno. Secondariamente, per lo meno sul piano personale, potrebbe ottenere il decisivo vantaggio di restare fuori da questo pasticcio. In generale, la massima applicata sarebbe quella secondo cui, se non si è in grado di impedire che altri facciano delle stupidaggini, si tratta per lo meno di non dover essere chiamati a portare la responsabilità, morale e politica, per tali stupidaggini. Sarà certo anche questa una reazione di pancia, ma forse sarà moralmente un po’ più lineare di quelli che accettano di stare dentro a questa consultazione politicamente fasulla, questo plebiscito di marca populista, facendo finta che sia una cosa seria e che possa avere delle conseguenze serie.[19] Gli storici prossimi venturi interpreteranno probabilmente questo referendum come l’ultima sciagurata impresa autolesionistica della vecchia politica - sia della Prima sia della Seconda Repubblica - prima di consegnare definitivamente il Paese nelle mani del M5S.
 
16. C’è tuttavia – per chi scrive - una ragione più importante, di tipo prettamente politico - biografico, per tenersi fuori dal pasticciaccio brutto di questo referendum. Questa ragione è legata a una valutazione complessiva dell’operato di Renzi, come segretario del suo partito e come capo del Governo. Renzi si è presentato nel 2013 come il rottamatore, come il rinnovatore della politica. Molti – tra cui chi scrive - l’hanno inizialmente sostenuto intendendolo come il male minore. Il sospetto ora (trascorsi i fatidici 1000 giorni) è che, dietro la rottamazione, si nascondesse solo e soltanto un banale ricambio generazionale tra le fazioni interne del PD. Così la pensa, del resto, proprio la sinistra del PD. La prova più conclamata dell’imbroglio della rottamazione è il fatto che Renzi, da quando è segretario, non abbia fatto alcun serio tentativo di rinnovare il PD, di farne un partito del dibattito, della partecipazione, della militanza.[20] Se dietro a Renzi ci fosse stato un partito vivo e non soltanto un partito spaccato, probabilmente le riforme istituzionali prodotte sarebbero state decisamente migliori. O forse il PD non si sarebbe cacciato nel cul de sac in cui ora si ritrova. Renzi si è limitato a conquistare il PD e a usarlo per scalare il premierato, e poi se n’è del tutto dimenticato.
Ora, nel contesto di una campagna elettorale effettivamente difficile, che vede Renzi contro tutti, che avrebbe avuto bisogno di una ampia e diffusa mobilitazione, di discussioni argomentate e non di slogan, non ci sono più i militanti, gli intellettuali, le associazioni, i corpi intermedi. Dietro a Renzi è rimasta forse la Leopolda, il suo cosiddetto “cerchio”, e poi il deserto. A livello locale si respira, ovunque, lo stesso deserto.
La prospettiva politica scelta da Renzi implica – forse del tutto a ragione – che i partiti del Novecento siano definitivamente finiti, che la partecipazione non abbia più alcun senso, che i militanti siano roba da soffitta, come del resto gli intellettuali, le idee e le ideologie, i programmi politici.[21] Che la nuova politica dipenda tutta dal rapporto che s’instaura tra il leader e le masse, senza alcuna intermediazione che non sia quella dei media, dei tweet e dei selfie. Tutto ciò, com’è noto, è stato definito come populismo mediatico.[22] È questa un’ipotesi del tutto legittima che - da qualche parte e anche da noi - ha già avuto un notevole successo ma che ha già fatto anche diversi danni. È un’ipotesi che merita comunque senz’altro di essere sottoposta a verifica.
Se così è, sta però a Renzi (e ai renziani) provare che ha ragione lui. Queste elezioni dai troppi significati, se vuol vincerle, non può che vincerle con i suoi mezzi (quelli che ha deciso consapevolmente di usare e che possiede solo lui in quanto leader populista mediatico – alcuni dei quali mezzi sono secondo noi assai discutibili, come le promesse e le elargizioni a pioggia degli ultimi tempi). Noi, che apparteniamo al Novecento e che per questo ci sentiamo ormai inattuali, noi che conserviamo nel nostro bagaglio una diversa concezione della politica, magari antiquata, di fronte a tutto ciò non possiamo che stare a guardare un po’ allibiti, limitandoci, al più, a studiare con curiosità il fenomeno. Good luck, Mr Renzi!
 
 
Giuseppe Rinaldi
27/11/2016
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
2016   Calise, Mauro
La democrazia del leader, Laterza, Bari.
 
2016   Ferraris, Maurizio
L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino, Bologna.
 
2002   Taguieff, Pierre-André
L’illusion populiste, Berg International Éditeurs.  Tr. it.: L’illusione populista, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
 
 
NOTE
 
[1] Preciso che userò sistematicamente il termine “riforma istituzionale” per indicare l’insieme della legge elettorale e della legge di riforma costituzionale.
[2] Cfr. Calise 2016.
[3] In realtà gli italiani, in maggioranza, avevano fortemente voluto il berlusconismo e avevano fortemente desiderato che il berlusconismo portasse loro dei vantaggi. Perché ciò poi non sia accaduto forse non lo hanno davvero mai capito.
[4] Si noti che il PD (presentatosi come coalizione Italia bene comune) riuscì ad avere il premio di maggioranza alla Camera previsto dal Porcellum grazie a una differenza minima di voti (0,37%) rispetto al Popolo delle libertà: la differenza era di 29,55% contro 29,18%. Renzi e la sua maggioranza dunque stanno tuttora governando grazie allo 0,37% di voti ricevuti in più alla Camera rispetto al PdL.
[5] È vero che si profilava il cosiddetto ingorgo istituzionale; tuttavia la ragione fondamentale fu la paura di perdere ulteriormente da parte del PD. Il partito di Berlusconi del resto era fuori combattimento.
[6] Napolitano resterà in carica fino al febbraio 2015, quando decise di rassegnare le dimissioni e fu allora eletto Sergio Mattarella.
[7] Avversari di Renzi erano stati Cuperlo e Civati.
[8] Il Patto è stato molto criticato dalla sinistra, pur essendo la sola soluzione possibile, a meno di non andare a nuove elezioni. Nuove elezioni avrebbero però significato rinunciare alle poltrone nuove di zecca, appena conquistate, argomento cui tutto l’arco parlamentare, compresi gli estremisti di sinistra, è sempre assai sensibile.
[9] Uno dei motivi della propaganda del fronte No è che l’attuale parlamento non sia legittimo, nonostante la pronuncia in questo senso contraria della Corte. I più accorti dicono invece che non ha legittimazione politica o legittimazione morale, comunque facendo solo della confusione. Se è legittimo, allora può fare tutto. Se non è legittimo non può fare nulla, neanche le leggi ordinarie. Il resto appartiene al mondo delle buone maniere e perciò non ha molto a che fare con la politica odierna.
[10] Si noti en passant che, essendo palesemente i partiti i maggiori responsabili della crisi della politica e dell’insorgenza dell’antipolitica, all’elenco mancava totalmente l’introduzione di una legge di regolamentazione dei partiti (peraltro prevista e mai attuata ex art. 49 della costituzione). Questa strana dimenticanza proprio nel momento in cui si appannavano le sorti di un partito proprietario di una persona e si affacciava alla vita politica italiana un partito che era proprietà privata di due persone. Recentemente la proprietà privata di uno di questi partiti è stata trasmessa per via ereditaria.
[11] È interessante il fatto che l’opinione pubblica, invece di criticare il M5S per la sua irresponsabilità, finiva per simpatizzare con il suo isolazionismo, accogliendo nei fatti le tesi della antipolitica.
[12] La rottura risale, come è noto, al momento della elezione del nuovo Presidente della Repubblica, succeduto a Napolitano.
[13] Il Referendum comunque era stato promesso un po’ da tutti, consapevoli che quel Parlamento così raffazzonato non fosse propriamente il più indicato per metter mano all’ordinamento fondamentale.
[14] Nelle elezioni del giugno 2016, a Torino, contro il sindaco uscente Fassino è stata sperimentata per la prima volta in modo clamoroso l’alleanza della sinistra e della destra per far cadere il candidato del centro sinistra.
[15] Il tutto senza offesa per nessuno e in senso del tutto tecnico, seguendo più o meno scherzosamente Ferraris 2016.
[16] In proposito è stata pubblicata una montagna di libri. Sono state prodotte analisi approfondite anche di grande competenza. Onde evitare però l’accusa di non essere «entrato nel merito», dirò in sintesi quel che ne penso. Assumendo dunque qui il necessario velo dell’ignoranza, trascurando cioè tutti gli aspetti estranei (senza tener conto della legge elettorale della Camera che sarà cambiata e di quella del Senato che è ancora da fare), possiamo dire che la riforma costituzionale proposta presenta diversi limiti e diversi pregi che finiscono più o meno per controbilanciarsi. Il vantaggio netto della fiducia al governo da parte di una sola camera è controbilanciato da un Senato la cui composizione è improponibile; la giusta sottrazione di alcuni poteri alle regioni (visto la prova negativa che le regioni hanno dato) è controbilanciata dal divario mantenuto tra regioni normali e regioni speciali; i confini tra i reciproci poteri di Stato e regione sono inoltre definiti in maniera assai pasticciata, foriera di ulteriori problemi. La nuova elezione del Presidente della Repubblica non cambia un gran che (salvo per l’effetto indiretto della composizione del nuovo Senato) e il suo effetto dipenderà in gran parte dalla legge elettorale. Restano poi l’abolizione del CNEL e le norme per il referendum popolare che sono vantaggi positivi, anche se minori. I tanto sbandierati vantaggi che avrebbero dovuto sconfiggere l’antipolitica (riduzione del numero dei parlamentari, riduzione dei costi, sveltimento del processo legislativo,…) sono in realtà piuttosto limitati, come è stato ampiamente documentato dagli esperti. È banale osservare che se i parlamentari facessero bene il loro lavoro li si potrebbe anche pagare tre volte tanto e moltiplicare di numero per dieci. Quel che si può dire quindi, in sintesi, è che, in termini strettamente costituzionali, sia che vinca il Sì sia che vinca il No, di fatto cambierà ben poco. Insomma, tanto rumore per nulla. Resta il fatto che tutte queste analisi sono comprensibili e concretamente utilizzabili da una parte minima dell’elettorato. Come si è mostrato nell’articolo, non saranno comunque di questo tipo, le considerazioni che guideranno la maggior parte degli elettori, anche in seguito alla propaganda quasi sempre fuorviante dei due schieramenti.
[17] La domanda è legittima ma la risposta è assolutamente irrilevante, perché un simile elettore, nell’attuale panorama, è decisamente raro e quindi dotato di un peso infimo sul risultato finale, qualunque cosa faccia. Tanto che un simile elettore non sta neppure nel target della propaganda del Sì e del No.
[18] Tutto sommato, è più indolore ritrovarsi nella massa indistinta degli astensionisti, piuttosto che ritrovarsi nelle masse variegate e composite del Sì o del No.
[19] A mia conoscenza, solo Roberto Saviano ha preso una posizione abbastanza simile a quella espressa in questo articolo. Si veda in proposito il suo articolo Questo referendum non mi riguarda, pubblicato ne L’Espresso n. 45, 2016. Pur non intendendo minimamente paragonarmi a Saviano, condivido del tutto la sua posizione.
[20] Su questo punto si era impegnato Fabrizio Barca, che tuttavia non ha potuto fare altro che gettare la spugna. Barca era stato  incaricato come Presidente di una commissione del PD che aveva il compito di elaborare una proposta di riforma del partito. Si è dimesso, avendo costatato l’impossibilità di procedere e l’inutilità del suo lavoro. Fabrizio Barca ha dichiarato al termine della Direzione del PD del 5/07/2016 (fonte: Huffington Post): «La relazione di Matteo Renzi alla Direzione del PD e lo svolgimento della discussione mostrano che non esiste la volontà di avviare quelle revisioni dell’organizzazione del partito che ben prima delle ultime vicende elettorali, nell’autunno del 2014, avevano indotto alla costituzione di una Commissione di cui ero stato chiamato a fare parte. Mi dimetto pertanto pubblicamente dalla suddetta Commissione, che ha rivelato la sua assoluta inutilità. […] In particolare - spiega ancora Barca - le proposte operative di una riduzione del pletorico e paralizzante numero dei membri della Direzione e della creazione di un’Officina progettuale, peraltro già sperimentata nel paese e contenuta in un testo provvisorio elaborato in primavera dalla Commissione, risultano ignorate». Quest’ultimo elemento decisamente chiarisce in cosa consisteva effettivamente la rottamazione: niente altro che una lotta di potere interna per ottenere un ricambio generazionale della dirigenza. Una diversa occupazione del partito, non un cambiamento del partito.
[21] Su questo punto si veda la mia recensione a Calise 2016, su questo stesso Blog.
[22] Sulle questioni di definizione del populismo, si veda Taguieff  2002.
 

mercoledì 28 settembre 2016

Durkheim e i “suicide bombers”

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1. L’opinione pubblica[1] è sempre più colpita dall’intensificarsi degli attacchi suicidi di matrice islamista che vengono portati nel cuore dell’Europa. Tra le altre cose, appare del tutto incomprensibile la disponibilità dei terroristi a darsi volontariamente la morte per raggiungere i loro obiettivi. È forte dunque la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di totalmente estraneo rispetto al nostro senso comune. Del resto, da parte loro, gli islamisti hanno rivendicato, nelle dichiarazioni di propaganda, una diversità e una superiorità morale che sarebbe dovuta proprio al fatto di non temere la morte. Gli occidentali, a loro giudizio, sarebbero moralmente inferiori proprio perché timorosi della morte. Chi non teme la morte sarebbe destinato a vincere, mentre gli occidentali sarebbero destinati a soccombere. Mai come oggi, la cultura della morte volontaria sembra tornata al centro della nostra attenzione e delle nostre paure.
 
2. Gli attacchi suicidi degli islamisti, oltre a tutte le questioni di ordine pratico che pongono, sollevano in effetti anche una serie d’interrogativi intorno alla natura stessa della morte volontaria e intorno alle differenze, in questo campo, tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra le diverse culture. L’argomento non è del tutto nuovo. Nella tradizione sociologica si è ormai accumulata da tempo una mole di studi intorno alla questione del suicidio. Basterà ricordare che Le suicide di Durkheim, un’opera che costituisce una delle pietre miliari della nascita della sociologia, è stata pubblicata nel lontano 1897. Fin da allora si era cercato di studiare scientificamente il fenomeno della morte volontaria cercando così di conferirgli un qualche senso intelligibile.
 
3. Se si cerca però di fare un bilancio dei risultati di questo filone di studi non si può dire che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Oggi le statistiche sono assai più precise e i fenomeni connessi alla morte volontaria sono descritti con esattezza e dovizia di documentazione. Ci sono ormai professioni specializzate che si occupano della questione e sono stati sviluppati protocolli di prevenzione e intervento assai elaborati. Tuttavia, dando appena un’occhiata alle trattazioni specialistiche, si rischia di perdersi in una casistica complessa e variegata, soprattutto di ordine psicopatologico, tanto da rendere impossibile qualsiasi interpretazione unitaria del fenomeno. In sostanza, pare che l’approccio psicopatologico e l’ottica prevalente della prevenzione sociale abbiano finito per relegare in secondo piano qualunque tentativo di spiegazione del suicidio in termini di teoria sociale.
Purtroppo, dopo l’avvio pionieristico di Durkheim, anche i sociologi, pur con alcune notevoli eccezioni, hanno per lo più evitato di occuparsi del suicidio. Se si consulta il Dizionario di sociologia di Gallino,[2] si vedrà che alla voce “suicidio” sono state dedicate poche righe sbrigative. La situazione internazionale attuale, che vede l’intensificazione a livello globale di fenomeni come le missioni suicide, con casistiche che sono anche decisamente transculturali, sta invece rendendo quanto mai indispensabile riprendere una riflessione sulla morte volontaria proprio in termini di teoria sociale e culturale. L’impostazione del problema adottata originariamente da Durkheim, per quanto imperfetta e discutibile, aveva, se non altro, il merito di inquadrare il fenomeno in una teoria di ampio respiro. Il che è esattamente ciò di cui abbiamo ancora bisogno oggi.
 
4. La teoria durkheimiana del suicidio, per quanto incompleta e difettosa - com’è stato riconosciuto da molti studiosi, ha comunque resistito nel tempo e non di rado è tuttora utilizzata come riferimento anche nel campo della ricerca empirica. È significativo che proprio gli odierni studiosi delle missioni suicide abbiano spesso trovato utile riprendere alcuni elementi dell’elaborazione durkheimiana.[3] La teoria di Durkheim manifestava, in effetti, una certa ambizione in termini scientifici. Non si limitava a proporre una descrizione del fenomeno ma intendeva produrre una vera e propria teoria esplicativa. Essa avrebbe dovuto permettere la formulazione di ben precise leggi sociologiche atte a descrivere e a prevedere il fenomeno, se non altro a livello di dati aggregati. È chiaro che l’ambizione scientifica durkheimiana, che risentiva del clima del positivismo, è andata via via ridimensionandosi col passar del tempo. Ci si accontenterebbe ancora, oggi, di descrivere accuratamente il fenomeno in senso lato, in un contesto interpretativo che ne chiarisca le caratteristiche di fondo.
 
5. Non è qui il caso di riprendere per esteso la teoria durkheimiana del suicidio.[4] Per i nostri scopi saranno sufficienti alcuni cenni di carattere generale. Durkheim ha individuato tre tipi fondamentali di suicidio; due causati da disfunzionalità di integrazione individuale, il suicidio egoistico e il suicidio altruistico, e uno derivante da disfunzionalità della società e cioè il suicidio anomico.[5]
5.1. Il suicidio egoistico è quello che si determina con maggiori probabilità quando è carente l’integrazione dell’individuo nella società. Ciò può accadere quando l’individuo è scarsamente integrato nella società religiosa (Durkheim esamina il caso degli alti tassi di suicidio tra i protestanti e dei minori tassi riscontrati invece tra i cattolici[6]). Oppure quando viene meno l’integrazione dell’individuo nella società familiare (come nel caso di chi non riesce a farsi una famiglia). Oppure, ancora, quando l’individuo è scarsamente integrato nella società politica e così perde ogni punto di riferimento generale (come nei casi delle crisi politiche).[7] Durkheim spiegava anche in termini “egoistici” i maggiori tassi di suicidi riscontrati tra le professioni intellettuali, poiché gli intellettuali sarebbero socialmente meno integrati e più individualisti.
5.2. Il suicidio altruistico invece si determina con maggiori probabilità quando l’integrazione individuale nella società è eccessiva. Gli esempi proposti da Durkheim, più che a una teoria organica, sono legati a una casistica abbastanza episodica ricavata da dati storici, antropologici e statistici. I casi presi in considerazione si riducono a tre: suicidio obbligatorio, facoltativo e acuto.
Il suicidio altruistico obbligatorio si ritrova soprattutto nelle società tradizionali, a solidarietà meccanica,[8] dove l’individuo non ha autonomia ed è totalmente assorbito nel gruppo. Durkheim cita i suicidi degli anziani o di coloro che, per qualche motivo, rappresentano un peso per la società; cita il sari, cioè il suicidio delle vedove in India, e i suicidi di clienti e servitori alla morte del padrone. Il suicidio altruistico facoltativo, secondo Durkheim, sarebbe analogo al precedente, anche se, in questo caso, la pressione sociale sarebbe inferiore e lascerebbe maggior spazio alla scelta individuale. Tra gli esempi cita il seppuku. Anche questo caso sarebbe caratteristico delle società a solidarietà meccanica, dove l’individualità non è tenuta in gran conto.
5.3. Abbiamo poi il caso del suicidio altruistico acuto, che sarebbe il più caratteristico del tipo altruistico. Durkheim in proposito fa l’esempio del suicidio per motivi religiosi, dettato spesso dal fanatismo. L’analisi che Durkheim compie in proposito è davvero utile per comprendere il suo punto di vista generale, per cui merita qualche cenno in più.
Il carattere “altruista” di questo tipo di suicidio sarebbe determinato dal fatto che: «[…] l’individuo aspira a spogliarsi del suo essere personale per annientarsi in quell’altra cosa che considera la sua vera essenza […]. L’impersonalità è qui portata al massimo; l’altruismo è allo stato estremo».[9] Il suicida altruistico acuto: «[…] ha uno scopo, ma questo è situato fuori da questa vita, che perciò gli sembra un ostacolo».[10] Durkheim afferma di conseguenza che il suicidio mistico è l’esempio più perfetto del suicidio altruistico acuto.
Il suicidio altruistico acuto sarebbe più diffuso presso le società inferiori, ma s’incontrerebbe anche nelle società più differenziate. Durkheim propone in proposito l’esempio dei martiri cristiani. Si noti che il loro altruismo non consisterebbe tanto in una specie di devozione al gruppo di appartenenza, o di testimonianza a beneficio di coloro che dovrebbero essere salvati, ma nella devozione all’idea in cui essi credono totalmente. È l’idea che prende il posto della stessa individualità. Durkheim osserva che: «Nelle nostre società contemporanee, essendo la personalità individuale sempre più liberata dalla personalità collettiva, simili specie di suicidi non potrebbero essere molto diffusi». Egli cita tuttavia l’esempio attuale dei soldati che preferiscono la morte alla disfatta, o che intendono evitare il disonore, «Perché se gli uni e gli altri rinunciano alla vita, lo fanno in quanto vi è qualche cosa che stimano più di se stessi».[11]
Nonostante il suicidio altruistico acuto sia da lui considerato piuttosto un residuo del passato, Durkheim propone all’attenzione dei suoi lettori il caso empirico, relativo alla società del suo tempo, costituito dal maggior tasso di suicidio dei militari rispetto ai civili. Il suicidio dei militari sarebbe dovuto al fatto che essi, nel loro addestramento, vanno incontro a un fenomeno di svalorizzazione della propria persona, perché: «[…] il soldato ha il principio della propria condotta fuori di sé».[12] Come si vede, i casi proposti sono tutti o quasi di carattere eteronomico e Durkheim trascura (forse anche perché non riportati nelle statistiche che egli utilizzava) un’ampia gamma di casi in cui, almeno dal nostro punto di vista, il suicidio è letteralmente altruistico, cioè è una libera scelta individuale di sacrificarsi a favore di altri.
5.4. Il suicidio anomico si manifesta quando la funzione normativa della società diventa insufficiente. È dunque dovuto a una carenza della società e non dell’individuo. Gli esempi specifici riportati da Durkheim sono costituiti dalle crisi economiche, dall’anomia economica e dall’anomia domestica.
Le crisi economiche sono dei cambiamenti improvvisi che inducono un turbamento generale nell’ordine collettivo. L’ordine economico è stravolto, gli individui perdono le loro certezze e ognuno è abbandonato a se stesso.[13] C’è poi l’anomia economica, che costituisce invece una generale tendenza delle società altamente differenziate. Essa è prodotta, per Durkheim, dall’avvento del libero mercato e dalle forme di deregulation nel commercio e nell’industria che sono tra loro connesse. Vengono meno in altri termini le regole tradizionali che governavano i rapporti nel campo economico. Anche in questo caso pare di poter scorgere la preoccupazione, da parte di Durkheim, per una pronunciata autonomizzazione individuale. L’anomia domestica è invece costituita dalla crisi dell’istituto familiare, che si osserva soprattutto nel caso del divorzio maschile. In tal caso viene meno la famiglia, una delle istituzioni normative fondamentali, e l’individuo sarebbe così più esposto alla tentazione del suicidio.
5.5. Va osservato che, nel dibattito seguito dopo Durkheim, il tipo del suicidio anomico ha sempre suscitato un particolare interesse, anche se la categoria stessa ha finito per subire una notevole distorsione di significato. L’anomia per Durkheim era chiaramente una caratteristica della società e non degli individui. Così ha chiarificato Merton: «Durkheim fu esplicito nel considerare l’anomia una proprietà della struttura sociale e culturale e non una proprietà degli individui nei confronti della struttura stessa. Tuttavia, quando si capì che il concetto poteva essere utilmente impiegato per la comprensione di forme diverse di comportamento deviante, esso venne esteso fino a venir riferito ad una condizione degli individui piuttosto che del loro ambiente».[14] In sostanza, c’è stata una specie di sovrapposizione tra il suicidio egoistico e il suicidio anomico che sono stati considerati sempre più come problemi individuali. In ciò possiamo riconoscere, oltre a una cattiva prestazione della classificazione durkheimiana, una certa tendenza della sociologia a colpevolizzare il singolo individuo e ad aggirare ogni tipo di responsabilità da parte del contesto sociale.
 
6. Esula da questo scritto sviluppare un’analisi dettagliata dei limiti della tipologia del suicidio proposta da Durkheim. Essa risulta comunque davvero poco esauriente, come si vede anche solo intuitivamente. Anzitutto non segue le regole logiche di una corretta classificazione, poiché lo stesso caso, a seconda che sia visto nell’ottica della assenza di integrazione sociale o nell’ottica della assenza di norme, può essere messo in tipi diversi.[15] Il tipo del suicidio “altruistico” comprende poi davvero troppe situazioni diverse che noi saremmo invece interessati a distinguere e trascura invece tipi di suicidio che noi definiremmo propriamente come altruisti. Sono poi del tutto assenti diversi tipi di suicidio – omicidio che sono venuti recentemente alla ribalta (ad esempio lo school shooting oppure i suicide bombers) e che saremmo desiderosi di riuscire a classificare correttamente, distinguendoli da altri tipi che non c’entrano. Stupisce, in effetti, come mai dopo Durkheim non siano stati fatti tentativi sistematici di comporre le carenze più evidenti della sua tipologia e come mai si continuino a usare, invero confusamente, con adattamenti assai forzati, le categorie del suicidio altruistico e del suicidio anomico.
 
7. Recentemente, Marzio Barbagli, ha pubblicato un importante studio di teoria sociale sul suicidio,[16] che ha segnato senz’altro una ripresa d’interesse per l’argomento e ha introdotto diversi concetti innovativi. L’impostazione dello studio è di tipo storico comparativo e lo scopo è soprattutto di tipo interpretativo. Barbagli, tra le altre cose, ha proposto una nuova tipologia del suicidio, lasciando sullo sfondo l’analisi causale che era stata al centro delle preoccupazioni di Durkheim. Questa nuova tipologia, tra l’altro, è più esaustiva di quella di Durkheim e soddisfa effettivamente i criteri logici di una classificazione.
La nuova tipologia di Barbagli si limita a cercare di classificare il fenomeno della morte volontaria in base a due variabili. Il beneficio ottenuto che può essere individuale o anche collettivo e il danno prodotto (anch’esso di tipo individuale o anche collettivo). Il tutto esclusivamente dal punto di vista di chi mette in opera il suicidio. Dall’incrocio tra le due variabili avremo dunque quattro tipi: 1) il suicidio egoistico (per e contro se stessi); 2) il suicidio altruistico (contro se stessi ma anche per gli altri). Fin qui, le denominazioni sono uguali a quelle di Durkheim, anche se il loro significato teorico è ora alquanto diverso.[17] Avremo poi, secondo Barbagli, il suicidio 3) aggressivo (per sé stessi e contro gli altri) e quello 4) di lotta (per gli altri e contro gli altri).
 
 
Contro se stessi
 
Anche contro gli altri
Per se stessi
 
1. Egoistico
 
3. Aggressivo
 
Anche per gli altri
2. Altruistico
 
4. Arma di lotta
Tipi di suicidio (Barbagli 2009).
 
È chiaro che il caso dei suicide bombers rientrerebbe nel tipo del suicidio come arma di lotta. È un suicidio che si compie a beneficio degli altri (cioè il gruppo o l’organizzazione di riferimento) e contro gli altri (il nemico che deve essere combattuto). Questo tipo permette effettivamente di collocare con una certa precisione le missioni suicide e i comportamenti similari. Infatti Barbagli dedica a questi casi l’intero capitolo VII, intitolato Il corpo come bomba. La tipologia di Barbagli risulta alquanto più coerente di quella di Durkheim, anche se è concentrata esclusivamente sul punto di vista soggettivo e taglia fuori completamente ogni eventuale riferimento alle norme sociali di vario genere che possono contribuire a determinare il gesto. Il riferimento va puramente al significato del gesto dal punto di vista individuale.
 
8. Le tipologie non vanno assolutizzate poiché sono meri strumenti di lavoro. Si tratta di strumenti concettuali per circoscrivere e rappresentare i fenomeni nel miglior modo possibile. Pur senza voler diminuire l’importanza della proposta di Barbagli, ci permettiamo qui di proporre una diversa tipologia, leggermente più analitica, che permetta di sistemare in termini descrittivi le più importanti forme conosciute di suicidio, comprese quelle rare e quelle emergenti, cioè quelle che preoccupano in modo particolare l’opinione pubblica, anche in termini transculturali. È chiaro che l’elaborazione di una nuova tipologia non può che essere giustificata in termini di utilità, chiarezza ed esaustività. Noi abbiamo particolarmente in mente l’obiettivo di collocare e differenziare i sucide bombers nell’ambito dell’orizzonte suicidario, evidenziandone però il rapporto con la dimensione sociale e culturale.
 
 
Regolazione sociale bassa
Regolazione sociale elevata
 
Auto distruzione
1. Privato
 
4. Doveroso
4.1 Autonomo
4.2 Eteronomo
Risposta
 
2. Reattivo
 
5. Di protesta
 
Attacco
 
3. Distruttivo
 
6. Arma di lotta
 
Tipologia analitica del suicidio discussa nel presente articolo.
 
Si propone anzitutto di distinguere, tornando in un certo senso sulle orme di Durkheim, se l’atto in questione sia sottoposto o meno a un qualche tipo di regolazione sociale. La regolazione sociale, se c’è, può essere tranquillamente identificata da un osservatore esterno poiché è facilmente separabile dalle intenzioni del soggetto che agisce. Si stabilisce semplicemente quanto la scelta suicidaria sia condizionata da norme sociali o quanto invece sia condizionata da una scelta individuale, relativamente libera e indipendente. Si prescinde dunque totalmente dalla questione se il suicida sia maturo o immaturo, sano o malato; come si prescinde dal fatto che la società in cui vive sia funzionale o disfunzionale.
La seconda variabile è invece relativa al senso attribuito o, se si preferisce, alla finalità dell’azione suicidaria dal punto di vista di chi la compie. Essa permette di distinguere se questa è prettamente ripiegata su se stessa, oppure se intende perseguire anche altri scopi evidenti. Ciò può essere determinato da un osservatore che interpreti dall’esterno le intenzioni del soggetto inferite dal suo comportamento. Potremo così distinguere il suicidio come a) mero intento di soppressione di sé, senza altri sovraccarichi di significato, oppure b) come risposta individuale a una qualche situazione o condizione sopravvenuta, oppure, ancora, c) come soppressione di sé accompagnata dalla distruzione o annientamento di un obiettivo, di un colpevole, di un nemico, veri o presunti che siano questi.
 
9. Incrociando le due variabili (regolazione sociale e finalità del gesto), otterremo quindi i seguenti sei tipi di cui forniremo una succinta descrizione (si veda per comodità la tabella acclusa al testo).
1 - Privato. Comprende tutte quelle forme di suicidio in cui l’obiettivo principale è quello di mettere fine alla propria vita in conseguenza di un moto interiore, senza che ciò costituisca una reazione a specifici fatti esterni. Il moto interiore può essere dovuto a patologia o follia (può essere cioè completamente irrazionale), o dovuto a qualche stato alterato di coscienza, o a motivi futili, oppure può anche essere determinato attraverso un meditato processo di decisione. Sono i suicidi che, nella percezione dell’opinione pubblica, sono di solito considerati come inspiegabili. Si tratta di suicidi derivanti per lo più da una sorta di disaffezione per la vita, dal vuoto esistenziale, da mancanza di senso. Sarebbero compresi in questa categoria anche i “suicidi dei protestanti” o quelli degli intellettuali su cui ha insistito Durkheim. Abbiamo evitato per questa categoria il termine “egoistico” per il pesante sovraccarico valorale che questo termine porta con sé.
2 - Reattivo. Comprende tutti quei casi in cui il suicidio è principalmente una reazione a una specifica situazione o condizione esterna venutasi a determinare. Si tratta di casi in cui l’individuo non si sarebbe mai suicidato per un moto interiore e in cui il gesto costituisce invece una sorta di risposta individuale a un preciso problema sopravvenuto. La casistica può essere davvero molto ampia. Ad esempio, un torto subito, una malattia incurabile, un cattivo trattamento ricevuto dai genitori, situazioni familiari negative, casi di bullismo, situazioni di vergogna per la divulgazione di fatti privati, conseguenze varie della crisi economica, la perdita dei risparmi, la perdita del lavoro, l’abbandono da parte del partner o il divorzio. All’origine dunque ci sono cause esterne ben precise che mettono in moto una risposta suicida, la quale appare così all’osservatore esterno come dotata di un preciso motivo.[18]
3 - Distruttivo. Comprende tutti quei casi di suicidio privato o di suicidio reattivo in cui però il suicidio (talvolta anche di gruppo) è accompagnato da un disegno distruttivo nei confronti di un qualche obiettivo (solitamente un assassinio o una strage). Gli obiettivi sono costituiti da coloro che sono considerati in qualche modo responsabili della situazione (fino all’estremo di colpire a caso). In questa categoria trovano posto gli omicidi - suicidi di coppia, le piuttosto comuni stragi familiari, oppure i casi di rampage shooting o di school shooting che ogni tanto salgono alla ribalta delle cronache. È chiaro che in alcuni di questi casi ci può essere anche una componente culturale (ad esempio, una componente di cultura maschilista nei casi di femminicidio - suicidio) ma si tratta di casi nei quali prevale l’intento distruttivo più che l’ossequio a una norma socialmente diffusa.
4 - Doveroso. Comprende tutti quei tipi di suicidio il cui obiettivo sia circoscritto alla morte del suicida stesso e che però siano prescritti da una regola presente in una certa cultura, facoltativa o obbligatoria che sia. Sono cioè suicidi culturalmente marcati, il cui codice culturale è esplicito e noto a tutti. Poiché si tratta di un gruppo assai variegato, può essere opportuno suddividere questo tipo in due ulteriori sottogruppi: 4.1) suicidio doveroso autonomo, cioè per scelta morale individuale, oppure 4.2) suicidio doveroso eteronomo, cioè per un’imposizione esterna. Si tratta insomma di distinguere tra autonomia ed eteronomia, in altre parole di individuare la prevalente fonte interna o esterna della motivazione.[19] Il suicidio doveroso autonomo, per senso del dovere, è forse il solo tipo che può essere considerato, dal nostro punto di vista occidentale, autenticamente “altruistico”, poiché nasce da un impulso o da una considerazione individuale che porta a un sacrificio di sé a favore degli altri (spesso si tratta di congiunti, amici, commilitoni e simili), secondo un impulso o una regola morale elaborata e fatta propria.[20] La regola morale adottata solitamente risulta evidente all’osservatore, a partire dal contesto.
Il suicidio doveroso eteronomo invece è comandato da una norma esterna che è recepita come un dovere imprescindibile. Il suicida in questo caso è assoggettato alla norma, diremmo che ne è addirittura una vittima. Al più il tipo può esser detto vagamente “altruistico” come intendeva Durkheim nel senso di una sottomissione alla cultura comune, agli usi e costumi. Qui possiamo collocare casi come il sari o il seppuku. In un territorio incerto, a metà strada tra l’imposizione esterna e l’internalizzazione, stanno senz’altro i cult suicides,[21] di cui si sono avuti vari esempi negli scorsi decenni. Insomma tutti quei casi in cui il suicidio è contemplato e messo in pratica entro gruppi che condividono una micro cultura di carattere para religioso. Il suicidio collettivo è ottenuto in questi casi, grazie a meccanismi di imitazione, lavaggio del cervello, suggestione, riti di esaltazione collettiva, uso di sostanze psicotrope e simili.
5 - Di protesta. Comprende tutti quei casi in cui il suicidio ha principalmente il significato di una protesta e costituisce dunque un atto rivolto al pubblico, per reagire contro un fatto specifico, contro una norma o per istituire una nuova norma, oppure per affermare un principio violato. Può avere il significato della testimonianza, della denuncia, della pubblica manifestazione, o della pubblica vendetta. Anche in questi casi, il significato dell’atto non può che apparire evidente all’osservatore. Esempi possono essere costituiti dal martirio passivo cristiano, oppure dall’auto immolazione (come nel caso dei bonzi o di Jan Palack). Può essere compreso anche il caso del suicidio vendicativo (cfr. Barbagli 2009) che è possibile però solo in un contesto altamente normato. Anche il suicidio di Socrate (implicito nel suo rifiuto di fuggire) può essere inserito in questa casistica. Solitamente, i casi compresi in questo tipo rifiutano l’uso della violenza contro obiettivi esterni.
6 - Arma di lotta. Il suicidio è qui inteso come arma di combattimento contro un nemico (di solito soverchiante) per difendere o promuovere una qualche causa. Ci si uccide principalmente per distruggere un nemico. Si tratta quindi di un tipo di suicidio che ammette o addirittura esalta la violenza contro gli altri. Si tratta quasi sempre di suicidi doverosi eteronomi, cioè di suicidi che sono culturalmente marcati e che possono avere anche un senso altruistico verso il proprio specifico gruppo cui viene ad aggiungersi un senso distruttivo nei confronti del nemico. La casistica è assai ampia e in genere riguarda a) i conflitti più ritualizzati, come le guerre, oppure b) i conflitti più informali, come i movimenti di guerriglia, di resistenza o gli attacchi terroristici di gruppi ideologizzati. Gli esempi più tipici nel primo caso sono gli human wave attacks, i kamikaze giapponesi, i basij della rivoluzione khomeinista, oppure, nel secondo caso, le tigri tamil, le varie forme di martirio attivo sviluppatesi sul terreno dell’islamismo radicale come i suicide bombers o, più in generale, le suicide missions.
 
La tipologia analitica presentata, come si vede, è puramente descrittiva e ha principalmente un intento classificatorio. Essa permette, però, di distinguere, con una relativa semplicità e chiarezza, i principali tipi di suicidio conosciuti, compresi quelli venuti più recentemente alla ribalta delle cronache. Permette, insomma, di mettere un minimo ordine in un fenomeno davvero variegato. Casi particolarissimi, trovandosi talvolta nell’intersezione tra due gruppi contigui, possono non trovarvi un’adeguata sistemazione. Nessuna tipologia è perfetta.
 
10. Poiché sono culturalmente marcati, i tipi di suicidio che si trovano nella colonna destra della tabella spesso, nelle rispettive culture, non sono considerati effettivamente come suicidi ma come comportamenti aventi un particolare status positivo. Ciò vale anche per noi. Chi si fa uccidere per salvare un amico non lo riteniamo un suicida bensì l’autore di un sacrificio di sé degno di ammirazione. Questa diversa considerazione pubblica a maggior ragione vale, ad esempio, per il sari, dove la vedova che s’immola è onorata nella cultura di appartenenza come una moglie esemplare. Tipico è anche il caso del mondo islamico, dove il suicidio individuale è rigorosamente proibito per motivi religiosi. In tal caso, gli attacchi suicidi, che sono diventati pratica frequente dell’islamismo radicale, non sono, in effetti, considerati come dei suicidi ma sono considerati come azioni di martirio o morte sacra e, come tali, sono invece approvati dalle rispettive comunità di riferimento, sono avallati dalle autorità politiche e religiose e sono celebrati e onorati, dai parenti, dai militanti e dalla popolazione. Si tratta di casi di martirio attivo, per dirla con Khosrokhavar.[22] I suicidi culturalmene marcati sono quindi interpretati in modo particolare, in relazione alle più diverse culture di riferimento. Lo status positivo che è conferito a tali gesti fa sì che, in alcune situazioni, si formino vere e proprie liste di attesa per gli aspiranti, con relative operazioni di selezione.
 
11. Tutti i tipi di suicidio che implicano un grado di regolazione sociale elevato (quelli sul lato destro dello schema) rappresentano prevalentemente dei mezzi per un fine che va oltre l’individuo stesso. I soggetti che ricadono in questi tipi in condizioni normali si guarderebbero bene dal suicidarsi; accade tuttavia che, in certe condizioni, sia di auto sia di etero direzione, il suicidio possa essere messo in opera in quanto considerato come unico mezzo possibile per raggiungere una finalità che è stimata più della propria vita. Come ha bene specificato Durkheim, costoro in generale pongono totalmente se stessi in qualcosa di altro. Di fronte a questa casistica, occorre dunque spiegare, in termini di teoria sociale e non di semplice patologia individuale, come sia possibile che un individuo si ponga un fine che implichi necessariamente la cancellazione della sua stessa vita. È chiaro che tutto ciò non è riconducibile all’“altruismo” secondo i confusi significati che il termine assume in Durkheim. Si tratta piuttosto di un particolare legame che connette il singolo individuo alla propria cultura, sia quella interiorizzata sia quella che opera come istituzione esterna.
 
12. Va anzitutto notato, per quanto ciò costituisca un’osservazione banale, come questo comportamento non possa che essere specifico dell’animale uomo. Si tratta di un comportamento reso possibile dal fatto che, dentro la mente dell’animale uomo, alberga la cultura (Durkheim avrebbe parlato di rappresentazioni collettive). Solo nell’ambito di un animale culturale unico, qual è l’uomo, può essere prospettato qualcosa come un inquietante sacrificio di sé come mezzo per un fine che è altro da sé. Parafrasando Dawkins, l’autore de Il gene egoista, potremmo ipotizzare che, in questi casi, sia in azione qualcosa come un meme egoista,[23]  cioè una rappresentazione collettiva, interiorizzata nell’ambito delle relazioni sociali, che è in grado di usare per i suoi scopi gli individui che la ospitano, non esitando così a sacrificarli. Per interpretare questi tipi di suicidi, si deve dunque spiegare come sia possibile che rappresentazioni collettive, idee o memi - si dica come si vuole - possano insediarsi e albergare nella mente di un individuo e possano fare sì che il soggetto ponga se stesso in qualcosa di altro da sé, tanto da procurare la propria morte e, talvolta, anche quella di altri.
12.1. L’antropologo Scott Atran – che ha condotto per molti anni ricerche su questi temi e, in particolare, sul terrorismo suicida[24] - ha elaborato alcune categorie concettuali che sono assai utili per chiarire come tutto ciò sia possibile. Atran ha individuato e studiato una particolare categoria di persone che egli ha chiamato devoted actors.[25] Costoro sarebbero caratterizzati e motivati, nelle loro scelte, da due elementi causali strettamente connessi: a) la condivisione di sacred values e b) la condizione di identity fusion con il proprio gruppo. Vediamo meglio di che si tratta.
I sacred values sono valori assoluti, valori quindi che possono richiedere qualsiasi sacrificio, compresa la vita stessa. Sono i valori di base, gli assiomi, indiscutibili e non trattabili, che stanno a fondamento di tutto. La qualificazione della sacralità è decisiva, poiché essa permette di collocare questi valori in un ambito di straordinarietà e d’intangibilità. Il sacro è l’opposto esatto dell’ordinario, del quotidiano, del profano, di ciò che è vano e transeunte. Il sacro è quel qualcosa di “altro” che permane, oltre ogni volatilità, qualcosa in cui, alla lettera, si tratta di mettere se stessi, proprio come ha sostenuto Durkheim.
12.2. I sacred values non sono semplicemente dei contenuti di tipo intellettualistico. Si tratta di contenuti che in quanto sacri sono profondamente sentiti sul piano emotivo. Sono cioè marcati emotivamente.[26] Un valore non marcato si può tranquillamente sottoporre a critica e aggirare come si vuole, lo si può eventualmente rifiutare. Lo si può, insomma, padroneggiare. Nel caso invece di un valore emotivamente marcato e definito in termini sacrali, non è facile sottrarsi ai suoi effetti, perché la marca emotiva (il sentimento associato) lo trasforma in qualcosa di oggettivo, di autonomo e quindi di assoluto. In questo caso è piuttosto il soggetto a essere padroneggiato. Si tratta allora di comprendere come si istituisca la relazione tra la marca emotiva e il valore sacro. Qui interviene l’esperienza collettiva della identity fusion.
12.3. Per comprendere come funzioni la identity fusion, occorre anzitutto considerare che i valori, di cui sono portatori i singoli individui, sono solitamente considerati – almeno in Occidente – come un punto di vista tra i tanti. In una simile situazione è difficile caricare i valori di una forte marca emotiva, di conseguenza il valore non può che essere in qualche misura relativizzato. È come se dicessimo: «Io ci credo, ma so bene che, tra gli altri che stanno intorno a me, molti non ci credono e sono liberi di non crederci».
Possono esserci, invece, altre situazioni in cui il valore può essere marcato emotivamente in modo così forte da essere assolutizzato. Ciò accade quando ci si viene a trovare in una situazione collettiva nella quale il valore è condiviso da tutti gli altri significativi e trova, insieme a essi, una comune espressione, spesso di tipo rituale. Nello stato di identity fusion quella che noi comunemente definiamo come individualità singolare (quella parte di noi disposta a relativizzare) viene confinata e neutralizzata, oppure caricata negativamente. Il suo posto viene preso dalla identità collettiva, cioè dai sacred values e dal forte investimento emotivo che li accompagna. Così – e solo così - il singolo diventa, intellettualmente ed emotivamente, uno con il suo gruppo.
12.4. La netta barriera tra sacro e profano, tra noi e loro, che si crea attraverso questo tipo di procedimenti non ha, e non può avere, alcun resoconto razionale (anche se può essere giustificata a posteriori con argomentazioni e resoconti razionali) e si trova così al riparo da qualunque confutazione. Essa traccia un limite insuperabile. È costituita da una potente marca emotiva che circoscrive un territorio che sarà d’ora in avanti esente da qualsiasi considerazione utilitaristica, da qualsiasi convenienza personale. Il mantenimento della barriera tra il valore e il disvalore diventa così di vitale importanza per il gruppo e può comportare il sacrificio supremo per il devoto che è diventato uno con il suo gruppo. Nei gruppi in cui prevalgono i devoted actors il senso del sacro, la proibizione e il sacrificio di sé si accompagnano costantemente come una esperienza totale.
12.5. La teoria di Atran è chiaramente uno sviluppo delle nozioni di effervescenza collettiva e di rappresentazioni collettive di Durkheim. Non si tratta dunque di concetti nuovi. L’elemento nuovo è costituito dal fatto che ormai dei sacred values e della identity fusion sono state fornite delle precise definizioni operative e sono state condotte delle vere e proprie misurazioni psicometriche. In altri termini, sono stati ormai reperiti ampi riscontri empirici[27] alla teoria (cosa che Durkheim non poteva neppure lontanamente immaginare). Questi due elementi causali uniti insieme, sacred values e identity fusion, sarebbero così in grado di spiegare come il singolo devoted actor riesca ad aggirare l’impulso biologico alla conservazione e quindi possa essere indotto a procurarsi la morte considerata come mezzo per un fine supremo.
 
13. I meccanismi che abbiamo descritto analiticamente possono sembrare complicati ma nella pratica sono in realtà veramente elementari, davvero alla portata di tutti. Possono tranquillamente funzionare senza la piena consapevolezza degli interessati. Su questo punto c’è un ampio accordo tra gli studiosi che anche solo vagamente si sono ispirati a Durkheim. Si tratta di meccanismi che trovano ampio impiego nella vita quotidiana di chiunque, come ha mostrato Collins in modo davvero sorprendente.[28] In un certo senso, in quanto animali culturali, tutti abbiamo la possibilità di comportarci come dei devoted actors e spesso lo facciamo, anche se non sempre con una intensità emotiva tale da impegnare la nostra vita. Talvolta l’impegno totale di taluni devoted actors suscita l’ammirazione da parte di chi invece non si sente di assumere alcun impegno totale a lunga scadenza.
Atran ritiene che questi meccanismi siano delle caratteristiche del comportamento umano che sono state selezionate dall’evoluzione culturale. I processi genetici possono, infatti, arrivare a spiegare al più la solidarietà solo tra gruppi ristretti che condividano lo stesso patrimonio genetico.[29] Ciò non basta tuttavia per spiegare comportamenti che implicano il sacrificio di sé a favore di gruppi molto ampi che siano costituiti per lo più di sconosciuti. Senza questa predisposizione evolutiva di tipo culturale non potrebbe dunque sussistere una solidarietà sociale capace di andare al di là di piccoli gruppi di consanguinei. Specifica dell’uomo dunque non è tanto la socialità, diffusa tra molte specie animali, bensì una socialità culturalizzata.
Senza questa predisposizione non sarebbe neppure possibile quel complesso di fenomeni che chiamiamo religioni che richiedono, da sempre, la partecipazione e il sacrificio di innumerevoli attori devoti. Non solo le religioni tout court, ma anche e soprattutto le religioni laiche, le ideologie, come, ad esempio, la nazione, la classe o la razza. Nel caso di insiemi sociali molto ampi, è indubbiamente necessario passare attraverso un processo di simbolizzazione. Il sacrificio in questi casi non può che avvenire a favore di un oggetto che esiste solo in quanto è simbolizzato e investito di marche emotive. Si veda in proposito, ad esempio, la teoria di Anderson sulla nazione intesa come comunità immaginata.[30]
Attraverso i semplici meccanismi evidenziati da Atran, la cultura può così chiedere il massimo sacrificio ai singoli a favore di gruppi sociali assai ampi ed è perfettamente in grado di produrre individui che, in certe condizioni, accettino di sacrificarsi in nome di entità immaginate. Se l’oggetto ultimativo nel quale l’individuo mette se stesso è un oggetto immaginato, un costrutto culturale, è chiaro che questo può essere un oggetto di qualsiasi tipo, vero o falso, bello o brutto, buono o cattivo, serio o ridicolo. Insomma, la cultura ci mette in grado di sacrificarci per qualcosa; se ci sacrifichiamo per delle stupidaggini, è solo colpa nostra.
 
14. Per diventare un devoted actor disposto al sacrificio è quindi del tutto sufficiente essere persone normali, non occorre essere subnormali o persone eccezionali. Il requisito è semplicemente quello di un’esclusiva identificazione con il sacred value e di una identity fusion con altri significativi che lo condividano. Il meccanismo che sta alla base dei suicidi culturalmente marcati sarebbe dunque lo stesso che più in generale sta alla base della solidarietà sociale, della religione e delle ideologie. Ciò deve valere anche - per quanto possa risultare drammatico – per le missioni suicide. Tutto ciò implica la conseguenza specifica che i suicide bombers non siano prevalentemente dei folli o dei mostri.[31] Tutti gli studi condotti – ormai si contano a decine – testimoniano che si tratta per lo più di individui normali.[32] Quel che c’è di “anormale” in loro o, meglio, di estremamente pericoloso per loro stessi e per gli altri, sono le specifiche rappresentazioni collettive, le idee, i memi che popolano le loro menti, con le relative marche emotive appiccicate. In questione, dunque, non è tanto il fatto di sacrificarsi, quanto il fatto che costoro si sacrificano per uno scopo discutibile.
Se questo è vero, allora ci si può domandare se le famose condizioni materiali non abbiano alcun peso. È ovvio che ci siano anche delle condizioni specifiche, biografiche, storiche, economiche e sociali che possono facilitare l’adozione, da parte di un individuo, della prospettiva del devoted actor, tanto da indurlo al sacrificio. Non si deve affatto pensare che i devoted actors vivano in un mondo irrealistico, privo di agganci con la realtà. Le vedove cecene che hanno avuto la famiglia distrutta dalla guerra civile, chi ha sempre vissuto in un campo profughi, chi ha forti sentimenti di vendetta, chi si sente vittima di ingiustizia, di umiliazione, chi appartiene a una minoranza perseguitata, chi non vede un futuro davanti a sé, chi non ce la fa a costruirsi una propria identità, chi conduce una vita borderline o deviante; tutti costoro possono facilmente mettersi nell’ottica del gesto di lotta estremo, del martirio, del sacrificio; tutti costoro possono cioè essere indotti, a partire dalla loro oggettiva condizione, a decidere di mettere la propria vita in qualcosa di altro da sé. Affinché però le condizioni oggettive – magari terribilmente drammatiche - si trasformino nell’atto del sacrificio suicidario, magari distruttivo, occorre che l’individuo in questione si strutturi internamente come un devoted actor e questo salto non è implicito nelle condizioni materiali.
 
15. A parere di chi scrive - qui mi spingo appena un po’ oltre Atran - possiamo a rigor di logica, considerare il devoted actor come l’estremo opposto di un’altra figura che ci è piuttosto familiare e che potremmo definire come il relativist actor. L’attore relativista è il tipico attore che si è formato nella tradizione individualistica e pluralistica occidentale.[33] Si noti che, come tale, questo “relativismo” non ha niente a che vedere con il relativismo inteso come orientamento metodologico o filosofico. Ha piuttosto a che fare con la privatizzazione della sfera dei valori,[34] un reale processo storico, sociale e culturale cui abbiamo ampiamente assistito in Occidente negli ultimi quattro secoli. È, questo, l’individuo che è in grado di costruire la propria identità personale con la consapevolezza che questa è una tra le tante. L’investimento emotivo che egli necessariamente riserva ai propri valori, alle proprie rappresentazioni, non gli impedisce di convivere accanto ad altri che pensano e operano in maniera completamente diversa. L’attore relativista è in grado di orientare e controllare la propria emotività e di evitare di rivolgerla dove non sia appropriato (cioè contro un altro soggetto a lui prossimo che abbia una diversa scala di valori).
Il devoted actor ha, invece, come riferimento, un’unica comunità di individui del tutto simili a lui, dove tutti si assomigliano, dove si ha un investimento collettivo monolitico nei confronti degli stessi sacred values. Dove ci si sente sempre uno con il gruppo e dove, quindi, non si ammettono diversità. Dove l’eventuale violazione può essere percepita come una minaccia e magari condannata con la morte. Il devoted actor, dato il suo orientamento monolitico, non capisce come altri possano fondare il loro specifico orizzonte in maniera diversa, in modo pluralistico. Non capisce come si possa convivere con altri che pensano e agiscono diversamente. La diversità di valori è percepita come una forma di blasfemia, un insulto a quanto vi è di più sacro. L’eventuale prevalenza storica, nella società, di un pluralismo di valori è considerata come un pericolo, una catastrofe, una perdita del proprio mondo di riferimento.
 
16. A questo punto siamo in grado di elaborare, sempre sulla falsariga di Durkheim, un ulteriore spezzone di teoria che ci permetta anche di comprendere il senso generale dei suicidi non doverosi (quelli cioè collocati sul lato sinistro della tipologia analitica che abbiamo proposto). Viene spontaneo ritenere che, come ci sono i suicidi dei devoted actors, così possano anche esserci i suicidi dei relativist actors. Come possono essere interpretati? Sono evidentemente i suicidi di coloro che – in un contesto di pluralismo di valori, dove la regolazione sociale sia piuttosto bassa come nella società occidentale - non riescono a reggere il compito di elaborare una loro costruzione individuale personale, cioè una costruzione che stia in piedi autonomamente, senza il puntello costante delle rappresentazioni collettive. Una costruzione che abbia un minimo di coerenza, che goda di un sano investimento emotivo, che sia in grado di mantenere una relativa indipendenza dagli altri e, nello stesso tempo, di convivere serenamente con gli altri. Forse è proprio questo il senso effettivo del grado ottimale d’integrazione cui si riferiva Durkheim. Il suicidio eventuale del relativist actor deriva allora da un’incapacità di autocostruzione individuale o, più facilmente, dal suo fallimento.[35]
Per contrasto, il suicidio del devoted actor deriva invece, come s’è visto, da una costruzione troppo riuscita,[36] cioè da una resa incondizionata alla formazione ricevuta dal proprio ambiente, dal proprio gruppo o, se si preferisce, dall’adesione profonda e incondizionata a un modello monolitico e precostituito.[37] Sul piano preventivo o, diciamo così, terapeutico, nei termini di un’ipotetica terapia dell’identità personale, mentre il devoted actor dovrebbe imparare a relativizzare le proprie posizioni, il relativist actor andrebbe un po’ socializzato o, se si vuole, “sacralizzato” (cioè, in termini spicci, bisognerebbe dargli uno scopo nella vita) – ma non troppo, onde salvarlo dalle derive del fondamentalismo.
 
17. C’è ancora un altro spunto teorico che può essere interessante - e con ciò arriviamo anche ai terroristi suicidi nostrani, cioè ai giovani cittadini europei responsabili dei recenti attacchi in Europa. Le due condizioni estreme che abbiamo individuato (devoted actor e relativist actor), che caratterizzano in modo basilare il rapporto che il singolo intrattiene con la propria cultura, sono indubbiamente legate seppure in modo probabilistico, alle caratteristiche di fondo della società stessa. Il devoted actor è più facile incontrarlo nelle società ristrette, fortemente gerarchizzate, costituite di piccoli gruppi, con forte pressione sociale, cultura tradizionale e scarsa mobilità. Il relativist actor è più frequente nelle grandi società complesse, orizzontali e molto mobili, tipiche dell’Occidente. Attore relativista, dunque, non si nasce, si diventa. Lo si può diventare, in modo particolare, se si cresce in Occidente. Lo si diventa senza neanche accorgersene. S’impara a relativizzare nel corso della socializzazione primaria, nella vasta gamma di interazioni personali che sono permesse (e che sono necessarie) nelle società complesse. Lo si diventa anche grazie ai viaggi oppure all’istruzione. La letteratura, il cinema, la televisione, la rete ci mettono ogni giorno in presenza di orizzonti valoriali diversi dai nostri, tra i quali, volenti o nolenti, impariamo a destreggiarci. Insomma, l’attore relativista occidentalo-centrico non può fare a meno, nella stessa pratica quotidiana, di esercitare una certa dose di tolleranza e di mettere sotto un qualche controllo i propri investimenti emotivi.
Tuttavia questo rapporto che il singolo intrattiene con la propria cultura non è stabilito una volta per tutte, non è affatto definitivo. Non è una predisposizione genetica ma un prodotto culturale. Come tale, può cambiare secondo le circostanze. Non si esclude – ad esempio - che un genuino relativist actor, di buone condizioni economiche, educato nelle migliori scuole occidentali, abitante in qualche grande metropoli, per qualche motivo accidentale, imperscrutabile, venga a trovarsi in una qualche grave difficoltà esistenziale, trovi di fronte a sé qualche ostacolo insormontabile, abbia la percezione di avere fallito, di non riuscire a sviluppare una propria identità personale, com’è implicitamente richiesto a ogni individuo occidentale.[38] Oppure non si esclude che possa essere fascinato da qualche personalità a tutto tondo di devoted actor, conosciuta direttamente o incontrata nei meandri della rete. Chi si arrabatta per tenere insieme i propri pezzi, chi è insicuro circa la propria costruzione, può anche arrivare a considerare come un modello da imitare chi esibisce un modello di perfezione personale, magari inserito in un modello di società perfetta.
In tal caso, costui potrebbe anche essere spinto, coscientemente o no, a trasformarsi, di punto in bianco, in un devoted actor. È sufficiente spostare la propria concentrazione, logica ed emotiva, su un nuovo insieme di core values (acquisiti o scoperti non importa come o dove[39]) che verranno così sacralizzati. È sufficiente poi trovarsi in uno stato di fusion emotiva con un gruppo di condivisione che diventi, così, il gruppo di riferimento. Si noti che, oggi, dato il potere della rete, può trattarsi anche di un gruppo collocato a distanza, magari all’altro capo del mondo, un gruppo cioè del tutto virtuale, mai incontrato di persona. La nascita (o più propriamente la rinascita) del devoted actor può accadere anche del tutto inaspettatamente, grazie alla capacità che abbiamo di modificare la dislocazione delle nostre marche emotive e di ristrutturare conseguentemente la nostra identità personale. Può aver così luogo un cambiamento complessivo, una vera e propria mutazione, in grado di trasformare completamente una persona in un’altra persona. Tutto ciò si chiama conversione o, se si preferisce, riferendoci all’ambito da cui siamo partiti, radicalizzazione.
 
Giuseppe Rinaldi
28/09/2016
 
 
OPERE CITATE
 
1983 Anderson, Benedict
Imagined Comunities, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
 
2010 Atran, Scott
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2014 Atran, Scott & Sheikh, Hammad & Gómez, Ángel
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2009 Barbagli, Marzio
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2004 Collins, Randall
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1897 Durkheim, Émile
Le Suicidie. Étude de Sociologie, Alcan, Paris. Tr. it.: Sociologia del suicidio, Newton Compton, Roma, 1974.
 
2004 Gallino, Luciano
Dizionario di sociologia (2a ediz.), UTET, Torino. [1978]
 
2005 Gambetta, Diego (a cura di)
Making Sense of Suicide Missions, Oxford University Press.
 
2006 Lukes, Steven
Individualism, ECPR Press. [1973]
 
1968 Merton, Robert K.
Social Theory and Social Structure, The Free Press, Glencoe. Tr. it.: Teoria e struttura sociale (3 voll.), Il Mulino, Bologna, 1974.
 
2002 Khosrokhavar, Farhad
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1973 Lukes, Steven
Émile Durkheim. His Life and Work: a Historical and Critical Study, Penguin Books, London.
 
2007 Sadri, Mahmoud
Terrorism as Suicidal Homicide. A Durkheimian Approach, in Ozeren, Suleyman & Gunes, Ismail Dincer & Al-Badayneh, Diab M. (a cura di), Understanding Terrorism: Analysis of Sociological and Psychological Aspects, IOS Press, Amsterdam.
 
1982 Thompson, Kenneth
Emile Durkheim, Ellis Horwood Ltd., London. Tr. it.: Emile Durkheim, Il Mulino, Bologna, 1987.
 
 
NOTE
 
[1] La ricerca che ha dato origine a questo articolo è stata, in origine, motivata dall’ennesimo tragico fatto di cronaca dell’attacco suicida di matrice islamista accaduto a Nizza il 14 luglio 2016.
[2] Cfr. Gallino 2004.
[3] Un’impostazione durkheimiana di fondo è palese in studiosi come Atran, Pape e Pedahzur. Si veda un concreto esempio di applicazione delle categorie di Durkheim allo studio del terrorismo suicida in Sadri 2007.
[4] Chi desideri una concisa sintesi può consultare Lukes 1973 o Thompson  1982.
[5] Durkheim, in una famosa nota de Il suicidio, aveva anche contemplato la possibilità del suicidio fatalistico, che tuttavia non ha ritenuto degna d’interesse.
[6] I protestanti erano considerati da Durkheim meno integrati nella comunità religiosa a causa del libero esame.
[7] È interessante il fatto che Durkheim ritiene invece che le guerre abbiano una funzione di integrazione, poiché suscitano passione e partecipazione). Lo stesso dicasi per le rivoluzioni. Ciò è sostenuto non tanto per ragioni teoriche quanto in base alle statistiche disponibili.
[8] La distinzione tra solidarietà meccanica e solidarietà organica era stata elaborata da Durkheim nella sua opera sulla Divisione del lavoro sociale.
[9] Cfr. Durkheim  : 277.
[10] Cfr. Durkheim : 277-278.
[11] Cfr. Durkheim : 280.
[12] Cfr. Durkheim : 287.
[13] Si noti che Durkheim distingue accuratamente tra i momenti di crisi economica e altri momenti, come le guerre e le rivoluzioni, che avrebbero invece l’effetto di diminuire i suicidi in conseguenza del forte senso di unità, dovuto alla effervescenza collettiva, che si crea in simili occasioni.
[14] Merton 1968: 348.
[15] Il suicida che non ha famiglia (cioè non integrato) cade nel tipo egoistico, il divorziato che ha perso la famiglia (cioè l’ordine normativo istituzionale) finirà nel tipo anomico. Il confine è davvero labile.
[16] Cfr. Barbagli 2009.
[17] In Durkheim il suicidio egoistico è quello che è legato a una progressiva autonomizzazione degli individui (come nel caso della riforma protestante o delle professioni intellettuali). Il suicidio altruistico è invece quello condotto per obbedire ciecamente a norme sociali. È chiaro che la dimensione causale qui è esplicita. La tipologia di Barbagli è limitata alle intenzioni degli individui.
[18] Ci possono essere certamente dei casi che possono stare a cavallo tra il tipo 1 e il tipo 2. Sono quei casi dove ci può essere nell’individuo una predisposizione generica al suicidio e dove un evento specifico, una causa scatenante, può determinare il passaggio all’atto.
[19] La distinzione indubbiamente è problematica e dunque di tipo filosofico. Dipende dall’assunzione della possibilità di un libero arbitrio, cioè dalla possibilità che il soggetto possa affrancarsi dai condizionamenti e decidere autonomamente. Se è vero che sulle decisioni del soggetto possono pesare i condizionamenti più diversi è altrettanto vero che il soggetto ha sempre a disposizione uno spazio di alternative tra le quali scegliere.
[20] Ad esempio, la madre che accetta di morire per salvare il bambino che ha in grembo lo fa certamente di sua spontanea volontà. Lo stesso vale per colui che, facendo scudo all’amico col proprio corpo, si fa colpire al suo posto. Il prete che si offre in cambio del rilascio degli ostaggi civili è un altro caso. Oppure il tecnico che in un disastro nucleare si avvicina all’area contaminata per intervenire, ben sapendo di causare così la propria morte. È chiaro che questi esempi hanno certamente a che fare con l’adesione a una norma, ma qui le norme sono fortemente internalizzate e, talvolta, sono anche norme che contrastano con i comportamenti statisticamente più diffusi.
[21] Durkheim li aveva del resto catalogati come suicidi mistici nell’ambito del tipo del suicidio altruistico acuto.
[22] Cfr. Khosrokhavar 2002.
[23] Il meme è l’equivalente culturale del gene nella teoria dell’evoluzione culturale.
[24] Cfr. Atran 2010.
[25] Lascio in inglese, perché reso in italiano suona un po’ ridicolo. Cfr. Atran 2014.
[26] Per una definizione scientifica della nozione di marca emotiva si può vedere Damasio.
[27] Cfr. ad es. Atran 2014.
[28] Cfr. Collins 2004.
[29] Si veda la teoria di Dawkins e, più in generale, la sociobiologia.
[30] Cfr. Anderson 1983.
[31] Val la pena qui di ricordare la nozione della banalità del male.
[32] Cfr. Gambetta 2005.
[33] Cfr. Lukes 2006.
[34] Il fatto che ci siamo abituati a conservare nel privato i nostri valori non sminuisce minimamente l’investimento emotivo che possiamo fare nei loro confronti. Ciò non ha assolutamente nulla a che fare con il relativismo filosofico o con il nichilismo i quali professano la nullità di tutti i valori.
[35] Non stiamo qui a occuparci della questione se la causa del fallimento sia prevalentemente individuale o sociale, anche se il problema è senz’altro serio e degno di approfondimento. Non stiamo neanche parlando di stupidaggini para filosofiche come ad es. il naufragio del soggetto bensì di un effettivo concreto fallimento nella costruzione dell’identità personale, obiettivo verso cui ogni individualità occidentale è implicitamente o esplicitamente spinta.
[36] Forse è proprio ciò che intendeva Durkheim quando parlava di eccesso di integrazione.
[37] Ovviamente, nel mondo c’è una miriade di devoted actors che non si faranno mai saltare in aria. Ciò non toglie che la loro struttura interna è proprio quella e funzionano proprio in quel modo. Viene in mente l’opposizione di Rokeach tra open e closed mind. 
[38] Si noti che lo sviluppo di questa disposizione è un requisito fondamentale della democrazia. Qui si aprirebbe tuttavia la questione – sollevata tempo fa da Merton, del rapporto talvolta perverso tra fini e mezzi che può instaurarsi nella società individualistica occidentale.
[39] Spesso ciò può essere vissuto come riscoperta delle proprie origini, della propria etnia o della religione dei padri.