giovedì 17 dicembre 2020

Alessandria 1993. Il declino della politica. Parte II














1. In generale,[1] se si dà uno sguardo all’andamento delle elezioni locali nel periodo 1993-2017, ci si accorgerà intanto come la nuova legge elettorale abbia reso assai difficile se non impossibile comparare il risultato elettorale locale con l’andamento delle elezioni politiche nazionali. È come se la gran parte dei rapporti tra politica locale e politica nazionale si fosse bruscamente interrotta. La politica nazionale sembra da allora destinata a restare sempre più sullo sfondo e per lasciare spazio alla lotta politica locale. Questo fenomeno potrebbe a prima vista esser considerato come un positivo avvicinamento della politica al mondo comune della gente comune che vive sparsa nei vari territori. Insomma, come un ampliamento della partecipazione. Ma potrebbe anche essere interpretato, invece, un fenomeno degenerativo di abbassamento della politica a beghe meramente locali. Quale delle due ipotesi sia la più plausibile  emergerà alla fine della nostra analisi.

2. Per intanto possiamo cominciare a prendere atto di un significativo offuscamento della distinzione tra destra e sinistra. Mentre per il periodo 1946-1990 la distinzione tra destra e sinistra delle varie forze politiche non pone difficoltà di rilievo, per il nuovo periodo le difficoltà decisamente aumentano. Mentre il precedente sistema era marcatamente bipolare, il nuovo sistema che è venuto instaurandosi è decisamente pluripolare, popolato di molte forze che non sono più collocabili sull’asse destra – sinistra. La prima forza di questo nuovo mondo pluripolare è stata indubbiamente la Lega Nord, la quale per certi aspetti poteva essere considerata di sinistra e, per altri, di destra. Così molti hanno pensato a una sua collocazione al di là delle categorie della destra e della sinistra, riconoscendo così la fine della struttura bipolare della politica. Sono gli anni nei quali ci si interrogava sulla fine della dicotomia tra destra e sinistra. Da allora questo processo è continuato e si è consolidato fino ad oggi. Si pensi che nelle elezioni alessandrine del 2017 una forza politica si è addirittura qualificata come quarto polo. Ormai i poli sono davvero diventati molteplici, addirittura si sprecano. A livello locale ormai solo con fatica e nei riguardi delle formazioni politiche di maggior peso è possibile azzardare una qualificazione destra – sinistra. Nelle varie consultazioni elettorali troviamo una pletora di candidati e di liste che non sono più ben collocabili. Questa novità è difficilmente interpretabile. Può darsi che il nuovo sistema elettorale abbia registrato un pluripolarismo già presente nei fatti tra gli elettori e prima non visibile. Ma può darsi anche che abbia dato una mano a produrlo. E poi, in termini valutativi, si tratta di un arricchimento del panorama politico, del pluralismo, o soltanto di una maggior confusione?

3. I risultati elettorali locali a partire dal 1993 mostrano una notevole complessità e ambiguità nella lettura e nella interpretazione. Da un lato occorre tener conto del voto personale dei candidati alla carica di sindaco al primo turno e il voto del ballottaggio eventuale al secondo turno, che è ancor più un “voto personale” del candidato a sindaco. In proposito, è vero che il voto delle liste della coalizione entra automaticamente a far parte del voto personale del candidato a sindaco, ma il candidato può ottenere in sovrappiù voti che non sono andati ad alcuna lista, oppure voti di un candidato che ha votato per un’altra lista (si tratta del cosiddetto voto disgiunto). A maggior ragione ciò accade nel ballottaggio, ove a essere votati sono solo i candidati e non più le liste. D’altro canto occorre tener conto del voto alle liste che, oltre ad alimentare indirettamente il voto personale del candidato, com’è stato detto, determina essenzialmente la composizione del Consiglio comunale. Quando le liste apparentate a un candidato sono numerose, si può riscontrare una ampia varietà di posizioni, da riferimenti a marchi nazionali fino a liste che ricalcano il nome del candidato a sindaco. Il fatto nuovo infatti è che le liste non sono più costituite dei tradizionali partiti organizzati della Prima repubblica di cui s’è detto in precedenza. Le coalizioni che appoggiano i diversi candidati sono ora per lo più il prodotto dell’aggregazione di variegate forze politiche, alcune di marchio nazionale e molte altre di marchio solo locale. Molte liste hanno un carattere assolutamente transitorio e temporaneo, assomigliano cioè decisamente più a dei comitati elettorali a favore di un candidato che ai partiti permanenti della Prima repubblica. Oppure sono liste monotematiche che mettono l’accento su una particolare questione o problema e hanno poco o nulla dire circa gli orientamenti generali.

4. I programmi presentati dai candidati a sindaco non coincidono più esattamente con i programmi dei partiti di marchio nazionale. Dietro alle liste e dietro al candidato ora c’è un programma elettorale di coalizione, in cui si riconoscono il candidato a sindaco e le diverse liste coalizzate. Un programma dunque prevalentemente incentrato sulle esigenze e sui problemi locali, la cui redazione è spesso affidata al candidato stesso o a una commissione locale ove prendono posto rappresentanti delle liste coalizzate. I partiti al loro livello nazionale non forniscono dunque più alcuna stretta prescrizione circa il contenuto dei programmi locali. D’altro canto, nonostante la retorica della partecipazione, raramente o mai il programma è costruito attraverso forme partecipative e/o di dibattito pubblico.

Purtroppo è costatazione comune che il programma elettorale – dopo la presentazione burocratica – tenda a essere del tutto rimosso dal dibattito politico corrente, anche in caso di vittoria. Accade raramente che siano organizzati momenti periodici di confronto con i cittadini e di valutazione dell’attuazione del programma. Spesso la valutazione dell’attuazione del programma non si fa neanche in Consiglio. Questi programmi di fatto assomigliano sempre più a elenchi di obiettivi, a liste della spesa che interpretano i desiderata delle varie forze della coalizione. Si tratta di elenchi momentanei e privi di storia, destinati a finire ben presto nel dimenticatoio. Col passar del tempo non si è formata alcuna autentica tradizione programmatica nell’ambito di forze persistenti e bene individuabili sul terreno locale. Si può dire vagamente, ad esempio, che le liste di sinistra sono state a favore della chiusura del centro storico, o per la raccolta differenziata. Ma cose del genere non bastano a qualificare l’esistenza di una qualche visione complessiva dello sviluppo della Città. Non esiste alcun archivio pubblico facilmente accessibile dei programmi delle liste, per cui anche soltanto a livello storico è difficile ricostruire gli orientamenti prevalenti delle molte liste elaborate e presentate. Nell’intervallo di tempo tra una consultazione e l’altra le formulazioni programmatiche sono bellamente dimenticate o rimosse.

In teoria, secondo gli intenti della legge, i candidati avrebbero dovuto essere portatori di una proposta politica originale, tagliata su misura per la città. È chiaro dunque che avrebbe proprio dovuto essere l’originalità del programma a fare la differenza. In realtà, come si vedrà di consultazione in consultazione, l’originalità del programma passerà ben presto in secondo piano per lasciare posto a una sommatoria di desiderata provenienti dalle varie liste coalizzate. Una sorta di programma di compromesso avente lo scopo di aggregare quante più forze possibili, in modo da avere qualche speranza di vittoria. In altri termini il programma si riduce spesso a un compromesso al ribasso, condito spesso con vaghe formulazioni da libro dei sogni. Si tratta di un sistema che prenderà forma col passar del tempo. Alle elezioni del 1993, ad esempio, troviamo ancora diversi marchi di partiti nazionali (Lega Nord, PDS, Federazione dei Verdi, Democrazia Cristiana, PRC, MSI-DN, UDC di Costa) ma troviamo anche nomi del tutto locali come Alleanza per Alessandria, Laici Socialisti Verdi, Alleanza progressista e Nuova proposta. Abbiamo tuttavia ancora 7 liste dotate di un marchio nazionale contro 4 liste locali. Col passar del tempo, i marchi locali sempre più temporanei e indistinti tenderanno numericamente a prevalere. Per chi volesse rendersene conto, abbiamo compilato un’apposita tabella con tutte le liste presentate da 1993 a oggi dai candidati che sono giunti al ballottaggio.

5. Passiamo ora a esaminare con qualche dettaglio quanto emerge dai dati elettorali. Prima di approfondire le diverse specifiche questioni, diamo un’occhiata alle caratteristiche più generali del periodo. Cominciamo dalla partecipazione elettorale e cioè dall’affluenza alle urne. Se si considera la serie degli aventi diritto e dei votanti validi, dal 1946 fino al 2017, quel che emerge anzitutto, soprattutto negli ultimi tempi, è un notevole e progressivo aumento della astensione. Se la legge elettorale che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco (la già citata Legge 25 marzo 1993, n.81) voleva riportare i cittadini alle urne, voleva aumentare la partecipazione, ebbene almeno su questo punto si può dire che, almeno ad Alessandria, abbia clamorosamente fallito. Si consideri che nel 1946 (7 aprile) gli aventi diritto furono 59.170 e i votanti validi 50.133, pari all’84,7% degli aventi diritto. Nel 2017, su 74.681 aventi diritto si ebbero 41.592 votanti validi, pari al 55,7%. Al secondo turno ancor meno, con il 46,4%. Nelle apposite tabelle che abbiamo preparato è contenuta una fotografia severa di un implacabile progressivo massacro della partecipazione elettorale. Gli alessandrini del 2017 sono diventati più civicamente analfabeti di quanto non li avesse lasciati il fascismo nel lontano 1946.

6. Un altro semplice parametro da prendere in considerazione è il numero dei candidati alla carica di sindaco che si sono presentati di volta in volta. Nel periodo 1993-2017 a ogni tornata elettorale si sono presentati in media 8 candidati per ciascuna consultazione. Fa eccezione la tornata elettorale del 2012 ove i candidati presentati sono stati 16, il doppio della media. Non è facile spiegare la frenesia di candidature in quell’anno. È stata quella la tornata elettorale successiva alla gestione Fabbio, che aveva visto l’insorgere di alcune questioni tormentate come la chiusura del teatro e il dissesto finanziario. Più in dettaglio, i candidati alla carica di sindaco, dal 1993 al 2017, sono stati 48, con una media, appunto, di 8 candidati per ciascuna tornata elettorale. È interessante esaminare la ripartizione delle candidature in termini di genere. Le candidature femminili sono state 9, contro 39 candidature maschili. In percentuale, abbiamo dunque avuto il 19% di candidature femminili contro l’89% di candidature maschili. Evidentemente il mondo della politica locale pare avere ancora una caratterizzazione fortemente maschile. In contrasto con questo panorama, l’indice di successo delle candidature femminili è stato assai più elevato. Su sei tornate elettorali i successi femminili sono in netta prevalenza su quelli maschili: due sindacature alla Calvo e poi Scagni e Rossa, contro i due mandati di Fabbio e Cuttica. Quattro candidati femminili vittoriosi contro due maschili. Solo due partiti tuttavia, la Lega Nord e il PD, hanno espresso candidature femminili vittoriose. Dato che i numeri sono piccoli, può trattarsi di eventi casuali. Un’adeguata interpretazione richiederebbe specifiche indagini sulle biografie politiche dei protagonisti e sulla dinamica interna della scelta delle candidature all’interno dei partiti, questioni che esulano dal nostro studio. È comunque degno di rilievo il fatto che l’elettorato alessandrino non abbia esitato a dare il proprio consenso a un numero elevato di candidature femminili.

7. Un altro semplice parametro da considerare è il numero di liste presentate. A ogni tornata elettorale il numero delle liste presentate da tutti i candidati ha continuato a crescere fino al 2012. Solo nel 2017 c’è stata una lieve inversione di tendenza. La media è di 20 liste per ciascuna elezione. La continua crescita numerica delle liste può essere considerata come un indice tipico dello svuotamento progressivo di significato dei partiti nazionali nel contesto locale e di frammentazione del sistema politico locale.

Nel 1993, Calvo aveva vinto da sola con la sola lista del proprio partito. Anche i suoi competitori avevano presentato relativamente poche liste. Evidentemente il sistema delle liste non era ancora ben collaudato. Col passare del tempo, sono stati soprattutto i candidati che hanno ottenuto maggiori consensi, in particolare coloro che hanno avuto accesso al secondo turno, a presentare il maggior numero di liste. Il record spetta a Fabbio 2007, con undici liste più quella del proprio partito. Si tende spesso a guardare con indulgenza questo fenomeno della proliferazione delle liste, attribuendogli un mero significato di tattica elettorale. In realtà, quando il numero delle liste a favore di un candidato a sindaco cresce vertiginosamente, diventa lecito domandarsi se non si tratti di meri espedienti per mettere insieme pacchetti di voti. Spesso è davvero difficile poi rapportare le così numerose liste con il programma del candidato. Il programma in questi casi può diventare una mera copertura retorica dello scambio di interessi immediati.

Che le molteplici liste siano alquanto artificiose è dimostrato dal fatto che queste, dopo le elezioni, non si siano quasi mai trasformate in presenza politica effettiva attiva sul territorio, o a sostegno del governo locale o all’opposizione. L’elevato numero di liste non è dunque da intendersi in termini di elevato pluralismo, di grande articolazione del dibattito politico. Nonostante l’elevato numero di liste, il dibattito politico locale e la partecipazione hanno teso a diminuire progressivamente, fin quasi a sparire.

8. Uno degli scopi della Legge 81/’93 era senz’altro quello di permettere l’elezione di candidati dalle spiccate caratteristiche, dotati di capacità e nello stesso tempo investiti della fiducia dei cittadini elettori. Tutto ciò doveva essere ottenuto attraverso il cosiddetto voto disgiunto per il candidato e per la lista. Mentre il voto alla lista implica sempre il trasferimento del voto anche al candidato apparentato alla lista stessa, è data la possibilità all’elettore di votare solo per il candidato, oppure per una specifica lista e per un diverso candidato. Così ciascun candidato può totalizzare un voto personale non coincidente con la somma dei voti delle liste a esso stesso apparente .

Se si considera la differenza tra il voto personale e il voto di lista si avrà un indice della capacità di attrazione del candidato nei confronti di elettori che non hanno votato per alcuna lista o che addirittura hanno votato per un’altra lista. Calvo 1997 è stata la candidata che ha attratto maggiormente al di fuori delle proprie liste. Il che può essere stato un effetto del fatto di avere già compiuto, all’epoca, un mandato di sindaco. Per il resto, i voti strettamente personali sembrano tendenzialmente in diminuzione. Col passare del tempo inoltre il voto personale disgiunto tende a diminuire anche considerando tutti i candidati partecipanti alla competizione e non solo i due finalisti.

Ciò può essere segno del fatto che la qualità personale dei candidati tende a essere considerata sempre meno importante dagli elettori. O comunque segno del fatto che agli elettori i candidati paiono essere sempre meno attrattivi tanto da meritare un voto personale. Col passare del tempo, le personalità dei singoli candidati sono sempre meno capaci di pescare al di fuori delle proprie liste. Possiamo pensare a candidati fabbricati su misura della coalizione che li sostiene e dunque poco capaci di costruire un proprio serbatoio personale di consensi. Inoltre, in generale, l’aumento della astensione che abbiamo segnalato suggerisce che sia i candidati sia le liste tendano a essere sempre meno appetibili per gli elettori. Il voto disgiunto dunque, invece di essere attivamente sfruttato dagli elettori per valorizzare personalità riconosciute come valide, andando al di là degli schieramenti, pare tenda a diventare sempre più un fatto residuale. Sembrano contare dunque sempre più gli schieramenti rispetto alle qualità personali, più o meno come nei Consigli comunali prima del 1993. Tanto rumore per nulla?

9. Nel periodo 1946-1990 i partiti erano, in effetti, il centro della competizione elettorale. Erano i partiti a decidere le candidature dei consiglieri ed erano i consiglieri eletti a votare il Sindaco e la Giunta. Un aspetto davvero interessante è dunque il rapporto che è venuto a instaurarsi, dopo il 1993, tra il candidato a sindaco e il proprio partito. Ogni candidato a sindaco nella elezione diretta è ora sostenuto in particolare dal suo stesso partito, insieme alle altre liste della coalizione. Anche nei rari casi in cui il sindaco non sia specificatamente un uomo di partito, c’è sempre almeno un partito che lo presenta e lo sostiene in modo particolare. Inutile quasi ricordare comunque che il partito che ha maggior peso nella coalizione spesso ha facilità nel proporre e sostenere un proprio candidato. Si tratta spesso di partiti che hanno un marchio nazionale. È interessante allora andare a vedere quale sia la quota di consensi che almeno i principali candidati hanno ricevuto dai loro stessi partiti. Il maggior apporto dei voti da parte del suo partito è stato assicurato dalla Lega Nord a Calvo 1993 (19.268) e poi dal PDS a Mario Ivaldi 1997 (12.206). La quota dei voti apportati al candidato dal suo stesso partito tende tuttavia a diminuire col passare del tempo. I candidati, col passare del tempo, tendono dunque a essere sempre meno sostenuti dal loro stesso partito. D’altro canto ciò significa anche che la capacità dei partiti di assicurare al loro candidato una quota certa e consistente di voti pare essersi decisamente affievolita. I partiti che esprimono il candidato tendono dunque sempre più a mescolarsi con le altre liste locali di appoggio. E tendono dunque a essere soggetti anche loro a una miriade di condizionamenti.

10. I partiti (anche quelli che hanno un peso, con riconosciuto marchio nazionale) tendono dunque a funzionare sempre meno come partiti organizzati sul territorio (come accadeva nel precedente periodo 1946-1990) e tendono sempre più a comportarsi anche loro come comitati elettorali che, in prossimità delle elezioni, nel corso di un confronto o magari di una lotta interna fratricida, scelgono di appoggiare un candidato piuttosto che un altro. Del resto, nella mancanza di presenza continuativa sul territorio, al momento della raccolta dei consensi elettorali, può accadere che il bottino si faccia sempre più magro. Un altro motivo della diminuzione di peso del partito del candidato è dovuto al fatto che, comportandosi ormai solo più il partito locale come comitato elettorale del suo stesso candidato, ciò può creare facilmente fratture, inimicizie personali, frazionismi che contribuiscono a lacerare i partiti locali stessi e a diminuire ulteriormente il loro peso nella raccolta dei voti.

I metodi per diminuire le lacerazioni interne in occasione della scelta del candidato ci sarebbero. Mi riferisco in particolare alle primarie, assai discusse ma poco praticate. Tuttavia questo metodo non risulta sia mai stato usato per scegliere i candidati a sindaco in Alessandria. Le primarie furono una parola d’ordine lanciata all’indomani della formazione del PD, nel 2007. All’inizio ebbe grande consenso e sembrava destinata a diffondersi anche presso altri partiti. Poi la simpatia per le primarie è andata via via decrescendo e ora anche nel PD la si pratica sempre più raramente. Tuttavia le primarie, sul piano prettamente di teoria, non possono che essere la logica conseguenza della scelta di fondo della elezione diretta del sindaco. Sta a testimoniarlo la plurisecolare tradizione americana. A meno che non si voglia tornare all’italico nostro vecchio sistema dei notabili, prima del proporzionale.

L’assenza di primarie per l’individuazione dei candidati ha conseguenze piuttosto gravi nella vita interna stessa dei partiti (almeno di quelli principali). La conseguenza è che il candidato a sindaco che eventualmente vince le elezioni diventa anche leader del partito locale, prende in mano il partito stesso e provvede tosto a mettere da parte gli eventuali oppositori interni o gli eventuali concorrenti. In tal modo si pone fine a qualsiasi possibilità di controllo da parte del partito sull’operato del sindaco eletto. È come se l’elezione diretta avesse contagiato in profondità la struttura stessa dei partiti e ne avesse del tutto minata la già precaria democrazia interna.

Ma non è finita. In caso di vittoria, con la fine della sindacatura, si apre una nuova lotta interna che determinerà, a seconda degli esiti, eventualmente una nuova leadership. Questo fenomeno appare piuttosto evidente nel PD alessandrino (e nei suoi antecedenti PDS e DS). La candidata Scagni, dopo avere esercitato un mandato di sindaco, con la perdita nei confronti di Fabbio entra in dissidio con il partito e nel 2012 si presenta con lista propria contro la nuova candidata Rossa del proprio vecchio partito. Dal canto suo, la candidata Rossa nel 2017 ha trovato in concorrenza molte liste con all’interno fuoriusciti dal suo stesso partito. Si può sostenere che si tratti solo di questioni personali, ma la ricorrenza di fatti del genere può far avanzare il sospetto che si tratti piuttosto ormai di un dato strutturale. La competizione personale interna al partito, non regolamentata, senza primarie, è destinata a trasformarsi in una costante sequela di faide interne che lacerano il partito stesso e lo dissanguano. Più o meno come nei comuni medievali, dove i perdenti erano fatti fuori senza pietà e condannati all’esilio. L’indebolimento progressivo del PD in seguito a questa situazione è testimoniato dai risultati elettorali, dai dodicimila voti raccolti nel 1997 a favore di Mario Ivaldi ai sette-ottomila delle ultime consultazioni. Per capire di cosa stiamo parlando, ricordo che nelle elezioni del 1990 il PCI aveva raccolto 17.775 voti, la DC 14.252 e il PSI 20.807. Un capitale elettorale completamente dilapidato.

11. Una simile debacle complessiva merita qualche tentativo di interpretazione. Ciò che abbiamo descritto è una tendenza che potremmo definire come “americanizzazione” del voto locale. Il fatto di avere spostato l’asse della competizione elettorale dai partiti ai candidati ha cambiato profondamente la natura stessa dei partiti. Ha fatto sì che i partiti si mobilitino principalmente in occasione della competizione elettorale tra i candidati stessi, nel momento in cui – appunto – devono funzionare da comitato elettorale di qualcuno. In queste condizioni, la militanza politica permanente degli iscritti s’isterilisce, poiché non è più la militanza per il partito – quale che sia il candidato – ma la militanza per un candidato, e per il suo programma, nel momento elettorale. Non ha più alcun senso per me lavorare per il partito se poi il partito candida il mio avversario interno. In questo modo accade che, nelle occasioni elettorali, il partito non abbia più una base agguerrita di militanti da impiegare nelle iniziative di propaganda. A mobilitarsi sono soltanto i diretti supporter del candidato. Che poi sono quelli  che pensano di partecipare in qualche modo allo spoils system. Insomma, finisce che le primarie sono sostituite dalle elezioni stesse. Il candidato che perde è fatto fuori, quello che vince si prende il partito e fa fuori i suoi avversari interni. Se non si fanno primarie, se non c’è un autentico dibattito politico, se i candidati poi sono scelti per lo più attraverso compromessi di coalizione, è chiaro che i supporter indipendenti saranno sempre di meno. Il numero sempre più elevato delle liste di coalizione d’altro canto rende sempre più difficile organizzare eventuali elezioni primarie. Questo perché le coalizioni si fanno sul momento, in base a mille compromessi, e l’ingresso in scena della opinione degli elettori non può che disturbare i manovratori.

12. Un altro aspetto interessante che possiamo ricavare dai dati è che anche i partiti principali (quelli che hanno un marchio nazionale e hanno un relativamente elevato numero di voti) col passare del tempo tendano a funzionare sempre meno bene anche solo nel ruolo già limitativo – e autolesivo, come abbiamo visto - di comitati elettorali. Abbiamo messo a confronto il PD, la Lega Nord e Forza Italia (trascurando i diversi nomi con cui questi partiti si sono presentati alle elezioni locali nel periodo considerato). Ebbene, tutti e tre mostrano un trend discendente anche soltanto nella loro capacità di fungere da comitati elettorali. Il PD, nel suo declino, declina un po’ meno dei concorrenti. Nelle ultime elezioni del 2017 il PD è presente con 8.077 voti, la Lega Nord con 5.280 voti e Forza Italia con 3.996 voti. L’unico andamento lievemente anomalo in questo declinare è il caso di Forza Italia che – in quanto partito personale - ha segnato un inatteso exploit di 14.206 voti a supporto della candidatura di Fabbio 2007, per scendere però poi ai 4.000 circa delle ultime elezioni.

13. Il quadro che emerge dunque sembra proprio essere quello di una sorta di americanizzazione della politica locale, dove però sono esaltati soprattutto i difetti del modello americano. I partiti locali sono sempre meno presenti e sempre più incapaci di sviluppare un’attività politica costante sul territorio. Essi tendono a funzionare più che altro come comitati elettorali solo in occasione delle elezioni, quando c’è da scegliere e da sostenere un candidato. In occasione delle elezioni questi partiti tendono ad allearsi con una moltitudine di liste locali, nate sulla base di interessi momentanei e destinate a sparire altrettanto presto, dopo le elezioni. Spesso sono i partiti stessi che alimentano la formazione di queste liste temporanee, pensando di trarne qualche immediato vantaggio. La campagna elettorale è condotta con strumenti che tendono sempre più a fare a meno dei militanti o dei supporters. Tende a mettere in rilievo, sui manifesti, le faccione dei candidati e tende a far circolare pochi slogan ecumenici che non vogliono dire gran che. Non si fanno neanche più i gazebo, perché non ci sono più i militanti che sarebbero necessari. La propaganda sui social è ancora più misera e povera di informazione. I programmi effettivi dei candidati – in genere improvvisati e scritti frettolosamente in orrendo burocratese da oscuri ghost writer – non vengono neppure divulgati e raramente sono fatti oggetto di serio dibattito pubblico. Anche perché uno spazio pubblico ove si dibatta autenticamente di politica non c’è più. La campagna elettorale talvolta può animarsi con la presenza sul territorio locale di qualche leader nazionale giunto da fuori che viene a fare un comizio, a stringere un po’ di mani e a fare un po’ di selfie. La campagna elettorale locale spesso si risolve in qualche serata in cui i candidati sono presentati al pubblico e sono superficialmente intervistati da qualche giornalista o presentatore. Dove le domande sono spesso preconfezionate. Dove il pubblico, se c’è, manifesta il proprio parere con fischi e/o con applausi sfegatati. Sono questi i massimi risultati dei diversi comitati elettorali al lavoro. Fine delle elezioni, fine del dibattito politico.

14. La scena più divertente cui abbiamo assistito, in quel di Alessandria, in una delle scorse campagne elettorali, è una serata nella quale tutti i candidati a sindaco erano stati invitati a presentarsi pubblicamente portando con sé un oggetto che fosse simbolicamente rappresentativo del proprio programma elettorale. E i candidati erano invitati dal presentatore a parlare del proprio programma elettorale a partire da quell’oggetto. Una simpatica riesumazione di «mostra e dimostra», una tecnica narrativa classicamente usata nelle scuole elementari americane. In un’altra serata più o meno dello stesso genere, chi scrive ricorda che il candidato aspirante sindaco che ricevette il maggior numero di applausi dal pubblico presente fu colui che aveva promesso severissimi provvedimenti contro i padroni dei cani che abbandonano per strada le deiezioni dei loro cari animaletti. Così la politica alessandrina sembra destinata a occuparsi sempre più attentamente di questioni altamente “concrete”, come gli oggettini simbolici da mostrare al pubblico o come le deiezioni dei cani, e sempre meno di argomenti fumosi e “astratti”, come l’uscita della città dal declino sociale, economico e culturale che l’attraversa ormai da tempo.

15. Abbiamo parlato di declino della politica in Alessandria e tale è. Con qualche rigore in più forse avremmo dovuto parlare di fine della politica. Ma forse Alessandria non merita neanche lontanamente l’applicazione di una simile categoria che è di ordine più che altro filosofico. Insomma, pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro! Ci siamo attenuti ai dati elettorali e le nostre interpretazioni sono ampiamente emerse dai dati stessi. Avremmo potuto usare altre strategie di analisi, ad esempio andando a leggere e comparare i programmi presentati dai candidati, oppure leggendo i bilanci, oppure facendo l’analisi del contenuto delle dichiarazioni dei politici locali. O esaminando i provvedimenti delle Giunte. O intervistando un campione della popolazione sulle questioni del governo locale. Altri volenterosi, se ci saranno, potranno provvedere con tali modalità. Difficilmente tuttavia pensiamo si troveranno conclusioni diverse dalle nostre. Forse la valutazione potrebbe ulteriormente peggiorare.

Ci si lamenta spesso del declino economico della città. Tuttavia ci si dimentica troppo facilmente del fatto che dietro al declino economico c’è sempre il declino della classe politica unito al declino dello spirito pubblico. L’immobilismo. La mancanza di creatività, di capacità strategiche. La gestione dell’ordinario. La cura degli interessi particolari. Invece del grande salto nella modernità, in seguito alle grandi trasformazioni dei primi anni Novanta, Alessandria ha fatto, a quanto pare, un grande salto nella mediocrità.

Giuseppe Rinaldi (17/12/2020)

 

Scarica la pubblicazione intera in PDF (60 pagine, con tutte le tabelle e le figure)

 



[1] Questo saggio, che pubblico suddiviso in due puntate, riprende in toto la parte interpretativa di un più ampio lavoro di riflessione e documentazione contenuto in un mio fascicolo di una sessantina di pagine che ha un titolo analogo (versione 2.1). Per motivi di spazio ho escluso qui le numerose figure e tabelle, e i relativi commenti. La pubblicazione originaria è disponibile e può essere agevolmente scaricata attraverso gli appositi link forniti in calce. Ho avuto modo di discutere di alcuni aspetti del presente saggio con gli amici Franco Livorsi e Nicola Parodi. Li ringrazio per le loro critiche, consigli e suggerimenti. Naturalmente la responsabilità di quanto contenuto nel saggio è solo mia.

 

mercoledì 9 dicembre 2020

Alessandria 1993. Il declino della politica. Parte I











1. La storia[1] delle elezioni amministrative nelle città italiane presenta una cesura comune, costituita dal 1993. In quell’anno si tennero per la prima volta le elezioni amministrative con la nuova legge (Legge 25 marzo 1993, n. 81) che introduceva la cosiddetta elezione diretta dei sindaci. Più in generale, in quel periodo si stava consumando la fine della cosiddetta Prima repubblica, fatto che avrebbe comportato notevoli cambiamenti nell’ambito del sistema politico del Paese. Nella successiva Seconda repubblica, il sistema dei partiti italiani, rimasto relativamente stabile dal 1946, entrò in un periodo di sempre più ampi e marcati rivolgimenti. Si ebbe la progressiva dissoluzione dei partiti tradizionali che erano nati con la Repubblica, accanto all’introduzione di nuovi e assai poco prevedibili soggetti politici, spesso definiti come movimenti piuttosto che partiti.

2. La Guerra fredda aveva indubbiamente ingessato il sistema dei partiti italiani, ponendo da un lato la pregiudiziale antifascista, contro il MSI e i suoi derivati, e dall’altro la pregiudiziale anticomunista, ossia la conventio ad excludendum nei confronti dei partiti di matrice socialista e comunista, solo alla fine parzialmente superata nei confronti del PSI. Questa situazione aveva così determinato una specie di sistema politico bloccato ove solo alcuni soggetti politici erano di fatto legittimati a entrare a far parte delle forze di governo a livello nazionale. A livello delle amministrazioni locali i limiti, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei comunisti, erano meno tassativi ma erano comunque presenti. Si formarono così, nel Paese, ben identificabili e durature tradizioni politiche locali legate ai partiti più importanti. In particolare si evidenziarono le “aree rosse” e le “aree bianche”, caratteristiche non nuove che avevano lontane radici nella cultura politica italiana, fin dal Risorgimento.

3. I partiti della Prima repubblica avevano svolto – talvolta senza neppure averne la piena consapevolezza - un ruolo importante di corpi intermedi capaci da un lato di canalizzare la domanda politica che partiva dal basso e dall’altro di organizzare la società civile dandole la forma di una società politica assai articolata, ricca di una moltitudine di spazi partecipativi, come le sezioni, i circoli, le parrocchie, le SOMS e i dopolavoro, le Feste dei vari partiti e così via. Di questa articolazione facevano parte anche i sindacati confederali, nella logica della cinghia di trasmissione. Era questa la Repubblica dei partiti, assai ben descritta dallo storico Pietro Scoppola.[2] 

4. La presenza dei partiti come importanti e diffusi corpi intermedi permetteva che ci fosse una assai marcata corrispondenza tra la vita politica nazionale e quella locale. I dibattiti che si tenevano tra le forze politiche nazionali avevano un’immediata risonanza presso le forze politiche organizzate a livello locale. La risonanza era spesso amplificata da una copiosa attività pubblicistica ed editoriale, diffusa capillarmente anche e soprattutto grazie a una intensa e diffusa militanza. I congressi periodici dei partiti, che si tenevano sempre a partire dai livelli locali, alimentavano il dibattito tra le diverse linee e/o correnti e contribuivano alla formazione e alla selezione del personale politico, cose che avvenivano sul territorio. Non di rado nell’ambito stesso dello spazio politico così strutturato trovavano posto attività formative di vario genere, comprese le scuole di partito, rivolte ai militanti, e numerose attività più ampiamente di carattere culturale rivolte alla cittadinanza. I leader politici locali erano non di rado personalità di elevato profilo conosciute e rispettate. I loro interventi sui giornali locali alimentavano costantemente il dibattito politico, sia sui temi locali sia sui temi di più ampia portata, nazionale e internazionale. A tutto ciò si aggiungeva una folta schiera di intellettuali, anch’essi ben noti, spesso politicamente schierati, che contribuivano ad alimentare il dibattito politico e a compiere una importante funzione di divulgazione culturale, riportando sul piano locale i grandi dibattiti e i nuovi orientamenti culturali.

5. Tutto ciò contribuiva a formare uno spazio politico comune, caratterizzato da un linguaggio politico condiviso, magari carico di sofisticati bizantinismi, grazie al quale comunque venivano definite le diverse posizioni, veniva prodotta una critica reciproca, venivano elaborate e diffuse varie e molteplici argomentazioni a proposito delle questioni di rilievo che poi erano condensate nei materiali di propaganda, diffuse sui giornali di partito. L’opinione pubblica mediamente aveva conoscenza, spesso tutt’altro che superficiale, delle diverse posizioni dei diversi soggetti politici.

Non si trattava certo di un sistema perfetto. Infatti ebbe a terminare in maniera piuttosto rovinosa, anche e soprattutto per degenerazione interna. Tuttavia fu in grado di svolgere a lungo la funzione di organizzare uno spazio politico consapevole e attivo in un Paese come l’Italia che era, all’epoca, gravemente lacerato dalle tensioni della Guerra fredda. Si trattava dopotutto di un paese a sovranità limitata, come scopriranno molte inchieste nei decenni successivi.

6. Il sistema politico della Prima repubblica implose nel giro di pochi anni, proprio intorno all’inizio degli anni Novanta. Sicuramente ebbero grande rilievo in ciò le vicende di Tangentopoli, che contribuirono a rendere noto all’opinione pubblica il lato oscuro interno di quel sistema politico che aveva retto le sorti del Paese dal 1946. Ma c’era anche un lato oscuro internazionale. L’altro potente motore del dissolvimento del sistema politico della Prima repubblica fu infatti determinato a livello internazionale proprio dalla fine della Guerra fredda, con la relativa implosione (piuttosto rapida e inaspettata) del mondo comunista. Nel nostro Paese tutta la galassia delle numerose forze che ruotavano intorno alla sinistra ne fu travolta. Iniziò un lungo stillicìdio di scissioni, tentativi di aggregazione, cambiamenti di nome, e così via. In questi processi, come abbiamo già ricordato, non fu estraneo il ruolo della magistratura che aveva preso a reprimere per lo meno le deviazioni più evidenti e clamorose. Anche la DC, il partito dei cattolici, che aveva maggiormente tratto vantaggio dalla condizione di sovranità limitata dell’Italia nella Guerra fredda, cominciò a perdere la propria posizione privilegiata di arbitro del sistema ed entrò in un processo di risonanza che ne produsse la rapida dissoluzione. Com’è noto, frammenti di DC e di PCI, dopo anni di incerte navigazioni, entrarono a costituire l’attuale PD nel 2007.

7. Tutte le rapide trasformazioni avvenute all’inizio degli anni Novanta lasciavano presumere che alla Repubblica dei partiti, che era di fatto una democrazia sotto tutela, avrebbe potuto e dovuto succedere una Repubblica dei cittadini, uno spazio politico nuovo nel quale i cittadini finalmente avrebbero avuto l’opportunità di prendere nelle proprie mani la dimensione della vita politica. La grande indignazione contro la corruzione, suscitata dalle vicende di Tangentopoli, lasciava ben sperare nella determinazione degli italiani di pretendere migliori prestazioni dal sistema politico, di aprire le porte alla partecipazione di chi era stato ingiustamente escluso, di una politica incentrata prima di tutto sulla trasparenza. Una politica capace di fare a meno di una burocrazia partitica asfissiante, del clientelismo, del consociativismo e della corruzione.

Si trattava, in altri termini, di lasciare un libero sviluppo alla cultura civica degli italiani, prima sacrificata dal fascismo, ravvivata parzialmente nell’ambito della Resistenza ma poi alquanto imbalsamata e ritualizzata nella paternale Repubblica dei partiti. Non a caso in quel periodo si sviluppò un acceso dibattito, tra gli intellettuali più indipendenti e più attenti alle trasformazioni del nostro Paese, sulle vicende storiche della cultura civica degli italiani. Si trattava di costruire un nuovo modello di politica e un corrispondente sistema politico rinnovato che avessero finalmente le loro radici in una cultura civica autentica nella quale la partecipazione fosse il risultato di una autentica mobilitazione dal basso e non della costante chiamata alle armi dei partiti paternalisti.

8. Su quali basi si potevano autorizzare simili aspettative, si poteva realizzare un simile programma? Come sappiamo, nel nostro paese la cultura civica di tipo laico e repubblicano non aveva mai avuto grande fortuna e, dopo la Resistenza, era stata ben presto messa da parte. È appena il caso di ricordare la progressiva sparizione del Partito d’Azione. Le forze laiche (liberali, repubblicani, radicali) avevano sempre avuto scarsi consensi a livello elettorale. Le uniche forme di mobilitazione conosciute erano quelle dall’alto, quelle tradizionali dei partiti a forte impronta ideologica. Nel nostro Paese, pur sotto il paternalismo dei Partiti, erano state compiute alcune battaglie laiche importanti, anche attraverso lo strumento referendario, ma queste non avevano mai avuto una traduzione in termini di sistema politico, nonostante i tentativi e gli auspici di alcuni valorosi intellettuali e militanti. Il pensiero autenticamente repubblicano, nonostante gli illustri trascorsi storici, non è mai riuscito a diventare nel nostro Paese una sorta di senso comune, come invece era accaduto in Francia. Lo Stato è sempre stato considerato dalla gran massa degli italiani come qualcosa di estraneo.

Gli stessi movimenti del Sessantotto non avevano saputo dare vita a un solido fronte civico laico e spesso erano rimasti impegolati nelle secche della ideologia rossa, in qualcuna delle tante declinazioni. Le stesse forze della sinistra, che erano in via di dissoluzione (PSI, PCI e derivati, parte della DC), avevano solo sempre afferrato la superficie, la retorica, la forma della democrazia piuttosto che la sostanza, finendo di fatto col praticare sempre più la politique politicienne, ossia forme spregiudicate di realismo, di cinismo, carrierismo e opportunismo. La cultura civica democratica, se uno non ce l’ha, non se la può dare con un colpo di bacchetta magica. A lungo le forze della sinistra furono lacerate tra i custodi dei vecchi linguaggi ideologici e gli “innovatori” sempre più spregiudicati e rotti a tutte le avventure.

9. Alcuni tentativi di aggregazione di nuove forze civiche democratiche si ebbero nei primi anni Novanta. Dalle lotte contro la mafia era nata La Rete di Leoluca Orlando. Da Tangentopoli nascerà l’Italia dei Valori del giudice Di Pietro. Da un problema oggettivo sempre più grave e visibile nascerà la galassia delle forze ambientaliste, la quale anch’essa tuttavia non ha mai saputo sviluppare pienamente una tradizione civica democratica, tradizione che non le apparteneva fin dalle origini. Possiamo citare anche il Partito Radicale che in quel periodo seppe guadagnare una certa visibilità, affrontando temi sentiti dalla opinione pubblica laica non schierata. Alcune battaglie dei radicali erano senz’altro battaglie laiche e democratiche, che non avevano mai trovato posto nei programmi dei partiti paternalistici della Repubblica dei partiti. Sono stati, col senno di poi, tutti tentativi magari generosi ma minoritari e fallimentari. Queste forze, invece di dare vita a una nuova cultura civica democratica finirono per trasformarsi in piccoli partiti, per lo più monotematici, senza alcun ampio respiro.

10. Così, col senno di poi, in questo vuoto, al posto di un nuovo modello di politica, civica e democratica, abbiamo avuto, alla fine, lo sviluppo dell’antipolitica. Al posto dell’irrobustimento e della crescita dello spirito pubblico abbiamo avuto il declino della politica. Sono troppo note le vicende dell’antipolitica per seguirle qui in dettaglio. Furono la Lega Nord di Bossi e il partito televisivo di Berlusconi a organizzare le prime forme di antipolitica. E l’antipolitica degli anni Novanta (e successivi) fu indubbiamente alle origini del populismo dei decenni più recenti. Il populismo, manco a dirlo, ebbe un gran successo di pubblico, ben più delle battaglie civiche e democratiche dei piccoli partiti laici. Gli italiani, catechizzati per lunghi anni entro le fumose ideologie paternalistiche della Repubblica dei partiti, si scoprì non avessero sviluppato alcun robusto antidoto contro il populismo e ne caddero vittime quasi inconsapevolmente. Così anche quel che restava dei partiti della Prima repubblica cominciò a rincorrere il populismo. Le strutture partecipative vennero smantellate per rincorrere i miti del partito televisivo, della leadership personale, del pragmatismo programmatico. Purtroppo, a fronte dell’uso sempre più pronunciato di immaginosi simbolismi di carattere retorico faceva da pendant una politica reale sempre più confinata alla mera amministrazione, alla mera aritmetica del potere, alle logiche della distribuzione in cambio del consenso. Una politica che rinunciava sempre più ai programmi per mettere, al loro posto, la persona dei leader politici. In un tempo in cui le persone dei leader si facevano sempre più deboli, sbiadite, prive di qualità. E le deboli persone non sapranno reggere alla gravità dei compiti che esse stesse si imponevano.

11. La legge sull’elezione diretta dei sindaci promulgata nel marzo del 1993 (Legge 25 marzo 1993, n. 81) aveva cercato di rispondere alla nuova, seppur generica, domanda di nuova politica che si respirava nel Paese. Si trattava anzitutto (1) di dare più forza all’esecutivo e di porre fine alle alchimie politiche dei consigli comunali che spesso producevano l’immobilismo, la clientela, il consociativismo e la spartizione delle posizioni di potere. Uno degli espedienti fu quello di dare al sindaco, eletto direttamente dai cittadini, la facoltà di scegliersi la propria squadra di governo. La Giunta era ora scelta e nominata dal sindaco e di essa non potevano più far parte i consiglieri eletti. Un consigliere eletto per entrare in Giunta doveva dimettersi. Si trattava poi di permettere (2) una migliore selezione del personale politico, sottraendolo all’influenza corruttiva dei partiti. La competizione elettorale diretta e l’avallo popolare avrebbero dovuto contribuire alla discesa in campo di personalità più preparate e nello stesso tempo più fidate e stimate dal grande pubblico. L’elezione diretta di un personaggio noto al pubblico, capace e stimato, avrebbe permesso (3) una maggiore facilità nei rapporti tra gli elettori e l’amministrazione, avrebbe permesso la trasmissione della domanda politica dal basso verso l’alto e la possibilità, da parte dell’amministrazione, di orientare i cittadini verso gli obiettivi comuni e le scelte di fondo davvero rilevanti. Per questo, ogni candidatura doveva essere accompagnata (4) da un programma di governo preciso e circostanziato, intorno al quale avrebbero potuto ampiamente coalizzarsi tutte le forze alleate. Il Consiglio avrebbe dovuto fungere (5) da organo di controllo dell’esecutivo e avrebbe avuto il potere di sfiduciare l’Amministrazione stessa in caso di incapacità di realizzare il proprio programma.

Insomma, si trattava di realizzare, almeno a livello locale, quella esperienza autenticamente democratica che si tardava a intravvedere nei meandri della politica nazionale. Naturalmente tra i fautori della legge c’erano coloro (all’epoca non erano pochi) che tifavano per l’introduzione nel nostro Paese di un modello presidenziale o semi-presidenziale. I guasti della degenerazione del sistema proporzionale erano infatti sotto gli occhi di tutti.

12. Sono ormai passati trent’anni e a questo punto può essere opportuno fare un bilancio di quel che è successo da allora, non solo sulla base dei pregiudizi ideologici circa i vari sistemi elettorali, ma sulla base delle effettive realizzazioni. È davvero strano che gli studi in questo campo a livello nazionale siano pochi e decisamente poco illuminanti, segno del fatto che nel nostro Paese lo spirito del pragmatismo debba percorrere ancora molta strada. Indubbiamente nell’immagine dell’opinione pubblica alcuni sindaci – soprattutto di città medio grandi – sono divenuti celebrità mediatiche. Indubbiamente alcuni di questi hanno mostrato grandi capacità e ottenuto notevole consenso popolare. Ma ci sono stati anche molti flop che non possono essere facilmente messi da parte. E poi c’è la zona grigia dei comuni medio piccoli, dove non è davvero chiaro quel che sia effettivamente accaduto.

13. Alessandria, città media per eccellenza, può essere presa come caso paradigmatico. O, se si vuole, per lo meno, come un caso interessante di sviluppo e realizzazione del nuovo sistema politico locale, capace anche di gettare qualche luce su quel che sta accadendo più in generale nel nostro Paese. Non si tratta principalmente di dare valutazioni specifiche sui sindaci che si sono succeduti, che sarebbero comunque sempre valutazioni di parte, bensì di comprendere quale tipo di sistema politico si sia effettivamente instaurato a livello locale, come funzioni di fatto, al di là delle belle intenzioni, quali siano le diversità rispetto al sistema precedente, e soprattutto quali siano i punti di forza e di debolezza di questo ormai relativamente nuovo sistema.

La nostra analisi sarà incentrata soprattutto intorno ai dati elettorali. Si tratta dunque prima di tutto di fatti e non di opinioni. Fatti che nel corso del tempo mostrano delle tendenze, producono degli effetti, spesso indipendentemente dalla volontà stessa dei protagonisti. Si tratta di dati elementari, tuttavia non facilmente reperibili, nonostante tutte le proclamazioni retoriche sulla trasparenza che abbiamo sentito in questi decenni. In questo senso il sito web della Amministrazione alessandrina è davvero alquanto carente. Per avere alcuni dati abbiamo dovuto andare a sfogliare i vecchi giornali locali, ricorrere a siti istituzionali nazionali o, addirittura, a Wikipedia. I dati elettorali che si sono lentamente accumulati nei decenni possono svelare – entro certi limiti – i meccanismi di funzionamento del nuovo sistema, possono mostrarne le caratteristiche di fondo e le tendenze presenti e future.

Il periodo 1946 - 1990

14. Prima di procedere a interrogarci su quanto sia accaduto nella politica alessandrina dal 1993 a oggi, è il caso di dare un’occhiata, seppur frettolosa, a quanto era accaduto nel precedente periodo compreso tra il 1946 e il 1990, il periodo della cosiddetta Prima repubblica. L’aspetto più appariscente di quel periodo – se confrontato con il periodo successivo – è che il sistema politico che era emerso a livello locale era a grandi linee uno specchio di quello nazionale, fatte salve piccole variazioni. E nel periodo, il sistema politico nazionale – per i motivi estrinseci legati alla Guerra fredda – era rimasto notevolmente stabile. I partiti erano grossomodo gli stessi ovunque. Le competizioni elettorali alessandrine hanno a lungo rispecchiato la competizione elettorale nazionale. Le forze politiche, che erano in gran parte le stesse, spesso riportavano nei territori locali analoghe distribuzioni percentuali di voti. Nell’ambito di questo sistema, ogni città col passare del tempo aveva maturato una propria specifica tradizione politica locale, virata tendenzialmente a destra, al centro o a sinistra. Fu questa una delle conseguenze della Repubblica dei partiti, nel bene e nel male. Come si vedrà dai dati, si è trattato dunque di un sistema relativamente stabile e prevedibile.

15. Allo scopo di avere a disposizione una sintesi generale di questo lungo periodo, abbiamo realizzato una ricostruzione grafica dell’andamento del voto amministrativo in Alessandria nel periodo 1946-1990. Il commento che seguirà sarà condotto sulla scorta dei tre grafici, riportati in fondo a questo capitolo, che si consiglia di avere sott’occhio per meglio seguire le interpretazioni sintetiche che seguono (cfr. figure 1-3).

16. Nel 1946, all’indomani della Liberazione, il partito più votato ad Alessandria è lo PSIUP (si tratta del partito che successivamente prenderà il nome di PSI, da non confondere con l’omonimo partito degli anni sessanta-settanta). Nei nostri grafici è stato indicato come PSIUP-PSI. A seguire, abbiamo poi il PCI e poi ancora la DC. Insieme, PSIUP-PSI e PCI avevano raggiunto, in quella consultazione, la cifra ragguardevole di 34.121 voti. Nel primissimo dopoguerra, Alessandria era dunque una città rossa per eccellenza.

17. Nelle due tornate elettorali successive (1951 e 1956), che hanno un andamento piuttosto simile tra di loro, si nota un piccolo ma decisivo cambiamento. Abbiamo un lieve ma decisivo sorpasso della DC (che passa dalla terza alla prima posizione) e una diminuzione sensibile di PCI e PSI (che passano in seconda e terza posizione). Ciò tuttavia non era bastato a modificare l’orientamento prevalente delle Giunte. Sono questi gli anni in cui – sul piano nazionale - la DC riesce a sfruttare in pieno la conventio ad excludendum nei confronti delle forze della sinistra e la propria rendita di posizione nell’ambito della Guerra fredda.

18. Le elezioni del 1960 mostrano i primi segni di un’inversione di tendenza che si svilupperà pienamente nel decennio successivo. Il PCI cresce e sopravanza di poco la DC, mentre il PSI mostra già qualche segno di affaticamento, preludio a una più significativa discesa nelle elezioni successive. La ripresa elettorale del PCI nel periodo 1960 – 1964 è probabilmente legata al nuovo sviluppo economico e anche alla ripresa della conflittualità sociale.

19. Le elezioni del 1964 in particolare mostrano una tendenza che perdurerà fino al 1975: una costante crescita del PCI (evidentemente sull’onda dei movimenti sociali) una stabilizzazione della DC (che raggiunge qui il suo culmine elettorale) e un declino del PSI (che raggiunge il suo minimo nel 1970). Nella contrazione del PSI indubbiamente ha avuto un ruolo la vicenda interna al mondo socialista della scissione dello PSIUP, presente quest’ultimo alle elezioni locali alessandrine nel 1964 e nel 1970. In Alessandria la scissione dello PSIUP ebbe un certo peso, date le figure rilevanti tra i politici locali che vi furono coinvolte.

20. Le elezioni del 1975 sono quelle in cui il PCI ottiene in Alessandria il suo massimo storico (nei confronti della DC). Il PSI nel 1975 (anno che segna il massimo sviluppo ma anche la prima crisi dei movimenti) riesce a invertire il suo processo discensivo, con una risalita costante che lo porterà al suo massimo storico nelle elezioni del 1990. Le elezioni del 1975 sono dunque elezioni di svolta, dove comincia la discesa del PCI e della DC e la risalita del PSI (che continuerà fino al 1990, quando sarà bruscamente arrestata dalla crisi di Tangentopoli). È questo un quadro locale che rispecchia tuttavia la situazione internazionale (la crisi dell’Unione Sovietica) ma soprattutto quella nazionale, con l’alleanza DC-PSI in funzione anticomunista. Sono queste le ultime ripercussioni della Guerra fredda.

21. Dal 1946 al 1990, Alessandria vede un’ininterrotta serie di sindaci socialisti, sostenuti alternativamente da maggioranze di sinistra o di centro-sinistra. Abbiamo anzitutto le due brevi esperienze di Moccagatta (7 aprile-22 settembre 1946) e di Porta (1946-1947) nell’immediato dopoguerra che costituiscono indubbiamente un periodo di transizione. Abbiamo poi il lungo periodo di Basile (1947-1964), seguito da Abbiati (1964-1967), Magrassi (1967-1972), Borgoglio (1972-1979), Barrera (1979-1985), Mirabelli (1985-1991), Priano (4 febbraio – 30 luglio 1992) e Veronesi (25 settembre 1992 - 24 febbraio 1993). Esula dagli scopi di questo studio entrare nel merito di tutte queste sindacature.

22. Tornando al piano elettorale, se diamo uno sguardo alle forze politiche minori (con meno di 10.000 voti), notiamo anzitutto la costante decrescita del PSDI (nei nostri grafici questa denominazione assomma, per brevità, le tormentate formazioni del PSLI - PSDI - PSU), evidentemente risucchiato dalla costante crescita socialista dopo il 1970. Il PSI e il PSDI si trovavano infatti in competizione più o meno nella stessa area elettorale.

Per quanto riguarda i partiti del fronte laico, del PLI e del PRI, abbiamo un andamento elettorale relativamente costante attraverso il tempo - seppure con consensi elettorali piuttosto ridotti. Sul fronte laico, va segnalata la presenza del Partito d’Azione soltanto alle elezioni del 1946, ove aveva però totalizzato pochissimi voti. Sul fronte dell’estrema destra, è altrettanto costante è l’andamento nel MSI (seppure con vari cambi di denominazione), nei cui confronti tuttavia è sempre valsa la esclusione antifascista.

23. Nelle elezioni del 1990 si intravvedono alcuni significativi cambiamenti che porteranno poi alla svolta del 1993. Abbiamo la comparsa di diversi partiti nuovi, che hanno un corrispettivo nazionale: abbiamo due partiti ispirati alla tematica ambientale (Lista Verde e Verdi Arcobaleno – i Verdi già in versione plurale e già divisi in partenza!) e uno ispirato al comunitarismo etnico: la Lega Nord. La Lega Nord, alla sua prima comparsa elettorale in Alessandria, guadagnò appena 2.373 voti. Mentre i partiti ambientalisti rimarranno formazioni di minoranza, la Lega Nord riuscirà tuttavia a vincere, da sola, le successive elezioni del 1993, imponendo la nuova figura del sindaco Francesca Calvo, con 30.797 voti al secondo turno. Né il PCI né la DC nel lungo periodo precedente avevano mai neppure sfiorato la soglia dei 30.000 voti. Nel breve volgere di tre anni in Alessandria si assisterà dunque alla fine di un mondo. La politica sarebbe diventata un’altra cosa.

(continua)

 Giuseppe  Rinaldi (10/12/2020)

Figura 1

Figura 2

Figura 3

Il fascicolo può essere scaricato con il link nella colonna destra della Home Page

 

NOTE

 [1] Questo saggio, che pubblico suddiviso in due puntate, riprende in toto la parte interpretativa di un più ampio lavoro di riflessione e documentazione contenuto in un mio fascicolo di una sessantina di pagine che ha un titolo analogo (versione 2.1). Per motivi di spazio ho escluso qui le numerose figure e tabelle, e i relativi commenti. La pubblicazione originaria è disponibile e può essere agevolmente scaricata attraverso gli appositi link forniti in calce. Ho avuto modo di discutere di alcuni aspetti del presente saggio con gli amici Franco Livorsi e Nicola Parodi. Li ringrazio per le loro critiche, consigli e suggerimenti. Naturalmente la responsabilità di quanto contenuto nel saggio è solo mia.

[2] 1991. Scoppola, Pietro, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Il Mulino, Bologna.