giovedì 18 novembre 2010

Vecchi chierici e nuovi barbari (3.1)


1. Secondo[1] la tradizione classica, i barbari sono coloro che balbettano, coloro che parlano una lingua incomprensibile, coloro che abitano oltre i confini, gli estranei nemici della civiltà. Con l’indebolimento progressivo di tutti i confini è tuttavia oggi sempre più difficile intendere in termini spaziali l’antitesi tra barbarie e civilizzazione. Oggi, secondo un comune modo di sentire, i barbari sono fra noi e, da qualche tempo, proprio nel nostro Paese, sembrano godere di una certa attualità. Accade, infatti, sempre più spesso che i quotidiani avvenimenti si prestino a essere interpretati come preoccupanti segni di imbarbarimento. Così la categoria della barbarie ha finito per imporsi all’attenzione tra lettori di cronaca, opinionisti, politici, letterati e filosofi. Si tratta certamente una categoria alquanto imprecisa, senz’altro politicamente scorretta, poco scientifica, suscettibile di essere rifiutata nei salotti buoni e in quelli alternativi. Tuttavia, poiché altri concetti più nobili non sembrano sempre in grado di gettar luce sulla crisi attuale, può darsi che proprio la barbarie possa risultare efficace. In casi come questo un concetto deve solo mostrare la sua utilità.

2. Qualunque riflessione sul nostro attuale imbarbarimento chiama in causa il nostro modello di civilizzazione (o modernizzazione). La storia del nostro Paese è costituita, in effetti, da un lungo susseguirsi di faticosi tentativi di uscita dalla barbarie. Una civilizzazione mancata, dunque, cui hanno preso parte molti attori che si sono sostituiti gli uni agli altri, ma che hanno comunque sempre fallito l’obiettivo. Per restare nell’età moderna, la Chiesa cattolica, tra Cinquecento e Seicento, è stata responsabile di uno dei fallimenti più evidenti nella modernizzazione del nostro Paese. Al fallimento controriformistico ha fatto seguito il fallimento della modernizzazione liberal borghese, che ha prodotto uno Stato elitario, burocratico, separato dai cittadini e un capitalismo del tutto periferico, debole e assistito. La modernizzazione fascista ha fallito anch’essa, gettando peraltro il paese nel baratro. La Resistenza ha inaugurato una Repubblica fondata sul lavoro che avrebbe dovuto finalmente realizzare i principi della modernità, i principi della liberté, egalité e fraternité, ma che si è poi arenata sotto il peso del conflitto di classe, della “Repubblica dei partiti”, delle divisioni territoriali, della Guerra fredda e delle mafie.

3. Tutti questi tentativi sono stati contraddistinti dal modello comune della modernizzazione illuministica secondo cui, di volta in volta, una classe dirigente colta e ideologizzata (il clero, la borghesia, il partito di massa), custode, come si dice oggi, di una grande narrazione, provvedeva a formare le masse, a organizzarle e a indirizzarle verso l’obiettivo. Le grandi narrazioni modernizzatrici erano elaborate a tavolino dai clerk (il termine rende bene il passaggio delle élite dal mondo religioso al mondo laico) e venivano inculcate alle masse con pazienza, attraverso istituzioni complesse come le chiese, i partiti, la scuola pubblica, i giornali, la radio e la televisione. La storia d’Italia è trascorsa alla costante ricerca di una sempre nuova classe dirigente che fosse capace di trasformare la vecchia società verticale in una società moderna, democratica, orizzontale. Le ondate successive di modernizzazione hanno certo prodotto qualche risultato, ma hanno lasciato inalterata la zavorra sociale e culturale premoderna che, spesso riuscendovi, ha sempre tentato di riportare il Paese al punto di partenza. I barbari tra noi ci sono sempre stati.

4. Insomma, il nostro Paese, per il peso della tradizione e per i suoi abissali ritardi, si è trovato a vivere, in tempi rapidi e spesso sotto la spinta di pressioni esterne, tutti quei cicli di modernizzazione per i quali altri paesi hanno impiegato secoli. E le cose sono venute male. La storia non fa sconti. Il periodo recente che va dal boom dei primi anni Sessanta agli anni Settanta ha rappresentato la massima concentrazione di tutte le grandi narrazioni sette – ottocentesche, di tutte le utopie modernizzatrici, il massimo sforzo di mobilitazione, il massimo tentativo di politicizzazione di tutto l’esistente; ma ha anche rappresentato, almeno per il nostro paese, una colossale sconfitta. Le grandi narrazioni (quella cattolica, quella resistenziale, quella democratica, quella socialista o marxista, quella liberale men che mai, …) non sono riuscite a radicarsi veramente, a diventare istituzioni, tradizione autentica, senso comune e hanno lasciato inalterato lo zoccolo duro della barbarie.

5. Dopo la sconfitta degli anni Settanta ci si poteva comunque attendere l’apertura di un qualche nuovo ciclo modernizzatore. Invece non è accaduto niente di tutto questo. Il Paese si è fermato, la storia si è fermata. I partiti e le classi dirigenti sono stati travolti dagli scandali, i chierici si sono disarmati (si sono rifugiati nel minimalismo, nel nichilismo, oppure sono diventati retori, uomini di spettacolo, servi del potere), le grandi narrazioni si sono frantumate in una miriade di dialetti per iniziati. In altri termini c’è stata effettivamente, nel nostro Paese, una novità epocale: la fine del modello illuministico di modernizzazione, ovvero la rinuncia, da parte delle classi dirigenti, degli intellettuali e della cultura, a elaborare un progetto di portata storica capace di guidare la trasformazione della società. Questa mancanza di prospettiva è ampiamente percepibile negli eventi degli ultimi decenni. Qualcuno si è spinto a parlare di fine della politica. Insomma, per esprimerci in termini correnti, siamo entrati nella post modernità senza avere mai realizzato alcuna solida modernità.

6. Qui sono entrati in scena i barbari che hanno abbandonato il loro ruolo di zavorra silenziosa e sono diventati protagonisti fragorosi e ingombranti della scena pubblica. Di fronte alla delusione delle modernizzazioni fallite, di fronte al vuoto progettuale dei vecchi chierici, negli strati medio bassi della nostra società ha cominciato a manifestarsi una sorta di attivismo barbarico che rifiutava esplicitamente di essere portatore di una visione sociale complessiva e di un progetto di modernizzazione, che aveva come caratteri distintivi quello di essere comunque contro tutto e contro tutti e di praticare sistematicamente l’occupazione delle posizioni sociali e il saccheggio delle risorse. Quel vasto strato sociale barbarico che per secoli aveva atteso di farsi catechizzare da qualche élite ha cominciato a identificarsi nelle sue rappresentazioni collettive, a diventare visibile e a esprimersi con vigore. Anche e soprattutto in campo politico. La sensazione che fossero degli stranieri era molto forte. Le prime ondate sono arrivate dalla periferia e si sono organizzate attorno al progetto leghista di costruire centri di potere locale, sottraendoli al potere centrale, arrivando a darsi l’obiettivo della spaccatura del Paese. Poi l’invasione è arrivata da dentro, dal centro stesso, con la marcia di Forza Italia alla conquista dello spazio politico lasciato vuoto da Tangentopoli, con l’ambizioso progetto di abbattere la vecchia classe politica. Le due direttrici di marcia hanno poi finito per unificarsi in una morsa che ha spogliato il paese per una quindicina di anni.

7. Il berlusconismo e il leghismo hanno avuto il carattere di una vera e propria mobilitazione rivoluzionaria (così è stata vissuta da coloro che vi hanno partecipato) che avrebbe dato finalmente il potere alle masse, avrebbe realizzato le promesse non mantenute delle grandi narrazioni sette – ottocentesche (del resto Forza Italia è una caricatura del liberalismo, come la Lega è una caricatura del socialismo). Il nuovo potere delle masse doveva esercitarsi senza alcuna mediazione tradizionale: tutto movimento, niente organizzazione, niente chierici. I leader dovevano essere esattamente uguali ai loro seguaci. Entrambi i progetti si sono serviti di personale politico improvvisato, raccogliticcio, formato in modo frettoloso e approssimativo, hanno sviluppato narrazioni elementari, in gran parte di natura simbolica (la metafora calcistica, il Dio Po, …), hanno esaltato la figura del leader e il rapporto diretto con il popolo, hanno inventato la democrazia dei sondaggi, hanno usato massicciamente gli slogan e il linguaggio pubblicitario. Entrambi si sono presentati come l’antipolitica (Roma ladrona, il partito del fare, il Presidente operaio, …) e hanno, coerentemente con l’etimologia del termine, portato avanti un progetto di dissoluzione dell’unità nazionale e di devastazione delle istituzioni. Sono riusciti ad accaparrare un enorme bottino che è stato distribuito, in infiniti rivoli, ai vari clan.

8. Mentre Berlusconi ha realizzato il suo disegno puntando sull’individualismo estremo di una massa d’individui in condizione prepolitica (giocando sulla tradizionale assenza di un polo liberale), Bossi ha invece realizzato il suo basandosi sul solidarismo della comunità ristretta a forte identificazione etnica. Ma le due invasioni sono due facce della stessa medaglia barbarica. Da un lato l’anarchismo individualistico, dall’altro il comunitarismo arcaico (l’unico comunitarismo che in un certo senso è in grado di riprodursi da solo, sulla base della tradizione locale). Entrambe corrispondono a stili politici tipicamente anti moderni e anti illuministici (qualcuno, beato lui, dice post[2]). L’unica differenza tra i due è che la Lega ha dovuto faticosamente occupare il territorio, usando uno stile da terza internazionale (comprese le formazioni paramilitari, …), mentre Berlusconi ha potuto occupare l’intero paese in forma soft, grazie a un partito leggero, praticamente di sua proprietà (gli uomini con la valigetta), e ai suoi mezzi di comunicazione.

9. Com’è potuto accadere tutto ciò? La ragione non si trova in qualche profonda mutazione economica o sociale, bensì in una mutazione di tipo culturale. Al posto delle vecchie fratture di tipo economico - sociale era venuta progressivamente emergendo, nel nostro paese, una frattura culturale che è stata inavvertita e incompresa. A partire dagli anni Sessanta, gli opinionisti e gli intellettuali hanno annunciato con entusiasmo l’avvento nel nostro paese della cultura di massa. Di volta in volta sono state osannate le virtù di cose come la televisione, il design pubblicitario, la moda, i grandi magazzini, i cartoni animati, i fumetti e i fotoromanzi, le radio libere, il tifo sportivo, la marijuana, il country romagnolo, il Festival di San Remo.[3] Si condannava la politica estera dell’America, ma ci si entusiasmava per la sua cultura di massa (dal cinema alla musica, alla letteratura, ai movimenti) che sembrava rappresentare la liberazione e la modernità. Si coltivava l’ingenua illusione che la cultura di massa avrebbe portato con sé uno sviluppo della democrazia.[4] In realtà, in un paese dalla modernizzazione imperfetta come il nostro, la cultura di massa non si sarebbe tradotta in una maggior democratizzazione, sarebbe semplicemente diventata il veicolo di rappresentazione e di espressione della massa barbarica. I mass-mediologi degli anni ’60 non avrebbero mai immaginato che le comunicazioni di massa, la moda e l’opinione avrebbero rubato la scena al discorso politico pubblico e avrebbero profondamente trasformato la politica stessa.

10. La fenomenologia di questo processo è abbastanza nota. Il discorso politico di matrice illuministica è stato stravolto da meccanismi di manipolazione incentrati sulle emozioni, proposti e riproposti come forme di trasgressione e di liberazione. Abbiamo avuto la riduzione del linguaggio politico a forme elementari, lo sdoganamento della menzogna e del turpiloquio, la promozione dell’egocentrismo e del narcisismo, il culto del corpo, il mito dello sballo, la sessualità come merce. E, ancora, abbiamo avuto il tifo degli stadi, l’esaltazione della forza, ma anche della violenza e della sopraffazione, l’irrisione della debolezza o della diversità, il mito del successo facile, del denaro e della celebrità, lo stravolgimento e l’uso strumentale della memoria e della storia. Berlusconi e Bossi hanno saputo interpretare meglio di ogni altro questa rivoluzione della libertà senza istituzioni e/o della libertà contro le istituzioni. Così, al posto di un repubblicanesimo democratico maturo abbiamo avuto la riproduzione allargata del populismo, ovvero del qualunquismo autoritario di massa. La cultura di massa, in sé, non è né buona né cattiva, ma può avere effetti disastrosi nei paesi dove le istituzioni democratiche siano già deboli in partenza.[5]

11. Di fronte all’invasione dei barbari, l’opposizione è rimasta attardata in vecchi dilemmi sette – ottocenteschi, è rimasta prigioniera del “modello illuministico” di modernizzazione, proponendosi come ultimo baluardo anti barbarico, tentando talora di difendere vecchie ideologie, oppure sviluppando talvolta arditi sincretismi (giungendo anche a scoprire il liberismo, come fosse una novità). Ma, soprattutto, si è accontentata, nei fatti, di vivere di una rendita di opposizione, difendendo e promuovendo le carriere politiche del proprio personale, attraverso scissioni, unificazioni e innumerevoli cambiamenti di sigle. Ne sono emersi un miscuglio ideologico incerto e un personale politico sempre più rassegnato e comunque incapace di competere con la mobilitazione barbarica. L’opposizione non è stata in grado di espugnare i fortini dei barbari perché questi si collocavano ormai al di là dell’unico modello di modernizzazione conosciuto. Il messaggio politico dell’opposizione non arrivava più al destinatario, appariva sempre più come una chiacchiera in difesa di vecchi assetti e l’opposizione stessa appariva come uno schieramento conservatore (e, in un certo senso, lo è poi diventato anche di fatto).

12. Vediamo ora se e come il nostro concetto di barbarie sia in grado di farci vedere le attuali contingenze politiche da un punto di vista diverso dal solito. La situazione politica è stata recentemente rimessa in movimento da Fini e dai finiani. Questa componente del PdL, per cause che non stiamo ad analizzare, dopo una lunga convivenza subalterna con i barbari, ha tentato di marcare la propria identità, recuperando una narrazione illuministica da destra europea (difesa dell’unità nazionale, difesa delle istituzioni repubblicane, laicità, legalità,  merito, competizione, ecc.). Ebbene, la frattura con i barbari è stata immediata e inevitabile, a causa – più che altro – della comparsa di un orizzonte radicalmente diverso di cultura politica. Non si è trattato di una bega tra leader, bensì di una frattura oggettiva tra i rispettivi mondi di riferimento. È sintomatico di questa situazione che Fini sia apparso come uomo dell’opposizione e che nel PD sia subito emersa una tendenza a includerlo in un’ampia alleanza contro Berlusconi e Bossi. Un’istintiva contrapposizione dei chierici illuminati contro i barbari.[6] Ma proprio per questo Fini sta rischiando molto perché – pur potendo contare, in un modo o nell’altro, su un prossimo ritiro dalla scena di Berlusconi - non è detto che riuscirà a farsi capire dai barbari tanto da ottenere il loro sostegno elettorale.

13. Il PD ha esattamente lo stesso problema. Uno dei fatti più drammatici e inspiegabili dell’attuale situazione politica è costituito dal fatto che, pur in presenza di una gravissima crisi della maggioranza, il principale partito dell’opposizione non riesca ad aumentare i suoi consensi, anzi riesca addirittura a diminuirli (siamo al 23%). Questo significa che la narrazione “democratica” che il PD sta cercando faticosamente di elaborare (oltretutto sul modello d’importazione americano, che in origine era del tutto settecentesco!) è riuscita a trovare qualche consenso tra i cosiddetti “ceti riflessivi” e presso lo zoccolo duro storico della sinistra. Non è però riuscita ad andare oltre. È come se il PD fosse imprigionato, nella sua bolla culturale di riferimento, da un involucro invisibile. Più il PD si scaglia contro Berlusconi, più si confina e si isola nel suo stesso universo linguistico privato. Nonostante l’obiettiva debolezza della maggioranza, il PD non riesce ancora a parlare ai barbari.

14. Ma, a quali barbari dovrebbe rivolgersi il PD? In realtà il vero competitore del PD non è il PdL (i voti della maggior parte degli attuali berlusconiani non andranno mai a sinistra) ma è costituito dalla Lega. Se il PD vuole allargare la sua base elettorale, deve cercare di prendere voti alla Lega. L’unico modo per farlo è sciogliere la questione del Nord, cioè il nodo del federalismo. Se il PD non riuscirà a competere con la Lega sul terreno della giustizia territoriale, del federalismo e della sicurezza, non si schioderà dal 20-24%, potrebbe anzi perdere ulteriormente. La verità è che il PD ha paura della Lega, perché non la capisce, perché non è in grado di parlare ai barbari, e forse non lo vuole neppure. Ma anche perché il PD, se prendesse questa strada, dovrebbe cambiare radicalmente il proprio stile politico, dovrebbe sollevarsi dalla palude tirandosi su per il codino, come il Barone di Münchhausen.

  15. Per il PD allora è molto più comodo dare per scontato che i barbari si terranno il Nord, dove sono radicati, e cercare qualche alleanza tattica con tutti gli eterogenei vecchi residui del modello illuministico (cattolici, democratici, socialisti, ecologisti, …) e in particolare con l’UDC. Si tratta però di una scelta quanto mai problematica che, oltre a tutto, impone anche al PD di guardare con diffidenza Di Pietro[7] e Grillo, che, sebbene collocati a sinistra, sono barbari anche loro, e risultano ugualmente incomprensibili. Questa strategia, inoltre, non sembra entusiasmare neppure i sostenitori del PD e comunque non pare abbia successo nel coinvolgere gli elettori barbari. Anche la strategia di quelle forze che guardano al centro sembra davvero priva di prospettive, perché al centro, oggi, non ci sono più i moderati, ma ci sono, appunto, i barbari in libera uscita. I nuovi barbari non si faranno catechizzare da Casini o da Rutelli, ma si venderanno al miglior offerente, imponendo la loro domanda politica (ormai hanno imparato come si fa).

16. Sia il nuovo partito di Fini, sia il PD, riusciranno ad allargare i loro consensi solo se riusciranno a innovare radicalmente il loro modo di far politica, a ricucire la frattura culturale, a parlare con i barbari, a trattare con i barbari, a offrire loro una prospettiva politica credibile capace di parlare il loro linguaggio. Il nuovo stile politico che verrà dovrebbe sciogliere un difficile dilemma; dovrebbe valorizzare gli aspetti più nobili e irrinunciabili del modello illuministico di modernizzazione, ma dovrebbe tradurli ed esprimerli in modo nuovo, attraverso forme compatibili con la vita quotidiana dei barbari e con la visione barbarica del mondo.

 

Giuseppe Rinaldi (18/11/2010 – 05/07/2021 rev.)

 



NOTE


[1] Questo articolo è nato come rielaborazione di un mio breve intervento al dibattito, organizzato recentemente da Città Futura, su neo liberismo e barbarie.

[2] Oggi si ritiene che la deriva politica verificatasi in Italia negli ultimi decenni sia una normale manifestazione di quella che viene chiamata postdemocrazia. In realtà il caso italiano pare avere caratteristiche molto specifiche.

[3] Ultimo epigono di questa tendenza è stato l’onorevole Bersani, che non ha mancato di farci sapere che il Festival di San Remo è il posto giusto per stare in contatto con il popolo.

[4] La teoria secondo cui i jeans e la Coca Cola porterebbero con sé la democrazia è dura a morire; spesso la si applica ai paesi del terzo mondo. La Cina odierna mostra come i jeans e la Coca Cola possano convivere benissimo con la più totale mancanza di democrazia.

[5] L’impatto della cultura di massa sulle vicende storiche recenti del nostro paese non è stata ancora ben compresa, come si vede dal dibattito recentemente condotto sul quotidiano La Repubblica da Baricco e da Scalfari. Entrambi, pur se con accenti diversi, hanno espresso la convinzione che la modernità illuministica sia esaurita e che sia ormai inevitabile scovare le tracce del nostro futuro proprio tra le manifestazioni del barbarico. Come si comprende dal contenuto di questo articolo, non concordo con la distinzione tra barbari e imbarbariti che è stata da loro introdotta.

[6] Ciò creerebbe un cambiamento radicale della geometria dello spazio politico del nostro paese: all’attuale struttura approssimativamente tripolare (destra – barbari - sinistra) si sostituirebbe una nuova struttura bipolare (destra e sinistra- barbari).

[7] L’attribuzione di una natura barbarica al movimento di Di Pietro è invero piuttosto problematica. In termini di contenuto, i temi agitati dall’IDV sono pienamente in linea con le narrazioni sette - ottocentesche di matrice liberal democratica (giustizia, legalità, difesa della Costituzione, …). Il suo stile politico è invece tipicamente barbarico, basato su un linguaggio semplificato, sulla personalizzazione dello scontro; l’organizzazione del partito è di tipo movimentistico ed è incentrata sul leader. Bisogna dare atto all’IDV di avere colto l’esigenza di innovare lo stile politico per cercare di fare breccia nell’elettorato barbarico. Finora la sintesi è però riuscita solo parzialmente. Oltretutto, tra l’IDV e il movimento di Fini c’è un’obiettiva sovrapposizione di temi per cui, tra le due formazioni, ci sarà probabilmente una forte concorrenza (per gli stessi motivi, potrebbe esserci anche, in futuro, una qualche convergenza).














 

 

venerdì 12 marzo 2010

Mariuoli, furbetti e birichini. L'irresistibile ascesa della cricca M&P&A

1. La recente ondata di scandali sta inducendo l’opinione pubblica a interrogarsi, per l’ennesima volta, circa la recrudescenza dell’illegalità nel nostro Paese. Ciò accade tuttavia in un quadro in cui, stando alle statistiche, la criminalità, e in particolare la criminalità violenta, sta progressivamente diminuendo. Gli scandali recenti non riguardano tanto la criminalità comune, quanto le sottospecie dei crimini commessi dai pubblici ufficiali e dei crimini societari, con connessioni non infrequenti con la criminalità organizzata. Per brevità parleremo di crimini relativi a malavita, politica e affari (M&P&A). Sembra effettivamente che nel nostro Paese questi crimini siano in forte aumento. Nel recente rapporto della Corte dei Conti, relativo al 2009, si segnala che le denunce alla Guardia di Finanza per corruzione sarebbero aumentate del 229%, mentre i reati di concussione sarebbero aumentati del 159%. Il Corruption Perceptions Index ci ha collocati, sempre per l’anno 2009, al 63° posto (esattamente tra la Turchia e l’Arabia Saudita). In effetti questi dati indicano che qualcosa di grave sta accadendo e invocano una qualche spiegazione. Perché proprio in Italia? Perché proprio questo tipo di crimini? Si tratta di un fatto nuovo o dell’emergere di una realtà perdurante?

La mia opinione è che non si tratti di un problema nuovo, bensì di un problema strutturale, legato profondamente ai trascorsi storici del nostro Paese, legato in particolare alla configurazione che hanno assunto, nel nostro Paese, i due terreni principali ove prosperano le consorterie M&P&A, ovvero lo Stato e il mercato. L’Italia infatti è un paese dove non hanno mai funzionato bene né lo Stato, né il mercato.

2. Il malfunzionamento dello Stato italiano è noto da tempo e può essere sintetizzato con il titolo di un noto studio di Scoppola, La Repubblica dei partiti. Si tratta di uno Stato nato dal fascismo senza una vera e propria epurazione e dove spesso la continuità ha prevalso sulla discontinuità, dove la mediazione partitica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, fino a sostituirsi allo Stato stesso. All’occupazione dei partiti ha fatto da pendant una burocrazia conservatrice, priva di ogni capacità di innovazione e priva di un rapporto diretto con il paese reale. Le Istituzioni sono state viste dai partiti più come terreni da occupare che come elementi di una nuova identità repubblicana. Le culture politiche dei principali partiti hanno spesso alimentato l’anti-statalismo e i partiti di massa hanno sempre considerato i loro elettori più come a un gruppo di interessi che come cittadini. Non a caso nel nostro Paese è stato inventato il termine “lottizzazione” per indicare la spartizione sistematica dei posti di potere in funzione del peso elettorale di ciascun partito, o di ciascuna corrente. Questa situazione ha prodotto una condizione cronica di inefficacia e inefficienza della Pubblica Amministrazione e ciò ha, a sua volta, alimentato la tradizionale diffidenza dell’italiano medio nei confronti dello Stato.

3. Anche il malfunzionamento del mercato nel nostro Paese è noto da tempo. È stata spesso lamentata la mancanza di un ceto imprenditoriale dotato di una qualche solida tradizione e di una responsabile etica degli affari. Nel nostro Paese si è formato un ceto imprenditoriale raccogliticcio caratterizzato dalla diffidenza verso il mercato – eredità tipica dell’epoca fascista – e dall’abitudine a ottenere aiuti e privilegi sotto varie forme da parte dello Stato. Per decenni si è avuto nel nostro Paese uno sviluppo drogato attraverso gli aiuti statali e la crescita del debito pubblico; di conseguenza la maggior parte delle imprese a lungo andare non ha retto al confronto con la concorrenza straniera. In seguito alla scomparsa dell’Italia industriale[1] si è assistito alla progressiva finanziarizzazione dell’economia. L’attività finanziaria ha preso il sopravvento sulle attività produttive, creando quel perverso meccanismo del denaro che pretende di produrre infinitamente denaro. Al già debole ceto imprenditoriale si sono così sostituiti gli avventurieri della finanza, capaci di costruire rapidamente grandi fortune, ma continuamente bisognosi di appoggi nei partiti, per manipolare le regole del gioco, e di connivenze con la malavita per le faccende più sporche.

4. La debolezza dello Stato, prigioniero dei partiti, e il soffocamento progressivo del mercato e della concorrenza hanno generato un sistema di illegalità generalizzata capace di mantenersi e accrescersi costantemente. Come nella favola di Carroll, anche quando crediamo di star fermi, in realtà stiamo regredendo. La cosiddetta Tangentopoli ha rappresentato soltanto un momento di disvelamento di un sistema che si era costituito in precedenza e che ha continuato a funzionare successivamente. Le condanne e il disfacimento di alcuni partiti hanno colpito solo la superficie, perché i meccanismi profondi insiti nella struttura dello Stato e nella struttura economica hanno continuato a funzionare e a rigenerarsi. La cricca M&P&A non ha mai cessato di operare e oggi sappiamo attraverso quali canali e modalità ha trovato nuovi sbocchi.[2] Forse si tratta dell’unico settore veramente innovativo nel nostro Paese.

5. Ciò continuerà ad accadere finché, nel nostro Paese, Stato e mercato non riusciranno a trovare una loro giusta collocazione reciproca. Spesso infatti ci si dimentica della natura potenzialmente criminale dell’attività economica che è mossa dall’interesse individuale e che è portata a invadere ogni campo e a infrangere ogni regola[3] (nella storia, in effetti, ogni regola giuridica e morale è stata infranta in nome del profitto). Per convincersi del potenziale criminale intrinseco all’attività economica basti pensare alle manovre finanziarie che hanno scatenato l’attuale crisi internazionale. Nel nostro piccolo, un esempio tipico è costituito dallo scudo fiscale: gli scudati possono essere interpretati come dei criminali esportatori di capitale all’estero in violazione delle leggi vigenti, oppure come dei salvatori della patria nel momento del bisogno. Ancora nel nostro piccolo, chi produce una costruzione abusiva contando sul condono edilizio può essere considerato un pericoloso criminale distruttore di beni pubblici, oppure un accorto operatore economico che sa il fatto suo. L’attività economica si muove sempre lungo confini pericolosi, ha dunque bisogno di regole certe che distinguano il lecito dall’illecito e di istituzioni forti che siano in grado di sancire con sicurezza gli illeciti. In altri termini l’attività economica ha bisogno di Stato. I paesi che hanno minore corruzione hanno saputo intervenire rafforzando l’autorevolezza, l’efficacia e l’efficienza dello Stato, incanalando il mercato senza tuttavia soffocarlo. Hanno saputo evitare gli scogli dell’interventismo, ma anche gli scogli del laissez faire indiscriminato, costruendo un’interazione virtuosa tra la regolazione statuale e lo sviluppo economico.

6. Uno Stato privo di autorevolezza, inefficace e inefficiente come quello italiano non lascia sufficiente libertà al mercato, dove e quando dovrebbe farlo, e interviene futilmente e a sproposito dove e quando non dovrebbe farlo. Abbiamo così, da un lato, interventi economici dirigistici che si traducono in sperperi o al più fanno da tappabuchi, senza la capacità di innestare alcun tipo di sviluppo, alimentando oltretutto il perverso sistema M&P&A. Dall’altro, l’attività economica è lasciata priva di controlli, in una situazione di anarchia, e questo non può che moltiplicare a lungo andare gli illeciti. La moltiplicazione degli illeciti fa sì che gli scandali si susseguono gli uni agli altri con periodicità sempre più frequente e che si moltiplichino i danneggiati (siano essi i cittadini onesti che pagano le tasse, quelli che si sono affidati a Tanzi, o gli Enti locali che hanno comperato i derivati,…). La presenza di questo Stato – troppo forte e invasivo e troppo debole nello stesso tempo - ha reso impossibile l’introduzione, nel nostro Paese, di riforme efficaci per contrastare i processi degenerativi, ma piuttosto ha teso a perpetuare una logorante situazione di crisi permanente (ben più grave dell’attuale crisi finanziaria internazionale) e, conseguentemente, di emergenza permanente, cui il sistema politico ha tentato di far fronte prospettando improbabili riforme che non sono mai riuscite a prendere il via (una situazione di riforma permanente che conosciamo piuttosto bene). Come ha suggerito Ricolfi, da anni stiamo in realtà sperimentando, in questo Paese, l’arte del non governo.

7. Si dirà: ma sono in fondo gli elettori che stanno alimentando questa situazione. Gli esponenti della maggioranza rispondono spesso all’opposizione con il ritornello: “Voi vi lamentate sempre, ma poi perdete le elezioni”. In una situazione simile a quella che abbiamo delineato è bene ricordare che le alternative razionali che stanno di fronte all’elettore medio sono sostanzialmente due.

-Dando per scontato il degrado progressivo del Paese, scommettere sulla deregulation, pensando di poter essere tra coloro che, in un modo o nell’altro, ci guadagneranno qualcosa (o perché si potrà fare il lavoro nero, o perché si potrà andare in ufficio a far niente, o perché si potranno evadere le tasse, o perché si potrà avere condonato un abuso edilizio, o perché si potrà pensare di usufruire di favori o raccomandazioni, o perchè si potrà pensare di vendere il proprio voto, di speculare sulle forniture,…). È chiaro che la deregulation amplifica i comportamenti economici potenzialmente criminali, abbassa la produttività, destabilizza le istituzioni e indebolisce ulteriormente lo Stato. Ma questo degrado può essere considerato come un processo inevitabile: per mal che vadano le cose, si cerca di galleggiare. In una simile situazione una parte dei cittadini può essere indotta a utilizzare i servizi delle agenzie criminali che scoprono così nuovi ruoli e nuove funzioni.

-Non rassegnandosi al degrado progressivo del Paese, scommettere su una nuova regulation che sia in grado di portare lo Stato all’altezza dei suoi compiti e che sia in grado di correggere efficacemente le storture del mercato. Ciò significa potare senza pietà la parte parassita dello Stato interventista e nello stesso tempo intervenire per potare l’economia illegale e criminale e stabilire un quadro di regole certe che siano in grado di alimentare uno sviluppo sano. Tuttavia questa strada richiede che ciascuno sappia rinunciare a un vantaggio immediato in funzione di un miglior vantaggio futuro. È una strada che può essere praticata solo in presenza di un elevato grado di fiducia (come quello, ad esempio, che gli americani hanno accordato a Obama) e in presenza di una ragionevole aspettativa circa l’efficacia dei provvedimenti, certamente severi, che dovranno essere messi in programma. Tutte condizioni che non si verificano nel nostro Paese.

 Purtroppo negli ultimi anni coloro che hanno promesso una nuova regulation si sono mostrati del tutto incapaci di realizzarla, finendo per alimentare soltanto ulteriore sfiducia e qualunquismo, e finendo per spingere la maggioranza degli elettori a giocare la carta più certa della deregulation. Questo è anche il motivo per cui è vano sperare in un cambiamento politico a partire dagli scandali.

8. Oggi, in Italia, coloro che chiedono esplicitamente una migliore regolazione sono in netta minoranza, sia a destra che a sinistra. Da un lato abbiamo, nella Cdl, la corrente di Fini che ha proposto a più riprese una serie di interventi per consolidare le istituzioni e per fornire delle risposte alle esigenze elementari dei cittadini; dall’altro abbiamo l’Idv di Di Pietro che ha fatto della difesa della legalità il suo campo di battaglia privilegiato. Si tratta tuttavia di voci che non sono, a tutt’oggi, in grado di proporre un programma complessivo di riforma dello Stato e del mercato. I due maggiori partiti, la Cdl e il Pd non sono attualmente in grado di fornire una proposta solida di regulation. La Casa della libertà, perché si è sempre presentata come rappresentante degli interessi di coloro che vogliono lo sviluppo del mercato selvaggio, la deregolamentazione e l’indebolimento dello Stato e delle Istituzioni. Il Partito democratico, perché finora non è stato in grado di proporre un modello di regolazione convincente e fattibile. La causa fondamentale della cronica insufficienza del Pd si trova nella storia pregressa delle formazioni che lo compongono: esse hanno sempre privilegiato, sopra ogni altra cosa, la mediazione politica, non hanno mai saputo identificarsi fino in fondo con le istituzioni repubblicane, con la difesa della legalità e la valorizzazione del mercato. In particolare, in campo economico, non hanno mai elaborato una chiara idea dello sviluppo economico, di come funzioni o non funzioni il mercato e di quali siano le regole di cui il mercato ha effettivamente bisogno per tracciare una netta linea di demarcazione tra legalità e illegalità.

9. È abbastanza chiaro che il Paese si è cacciato da tempo in una situazione senza via d’uscita. In questa situazione la crescita dei reati del tipo M&P&A è il prezzo amaro che gli italiani devono pagare per avere scelto in maggioranza la deregulation, dopo aver fallito clamorosamente nel tentativo di introdurre una regulation efficace. Entrambi gli schieramenti, maggioranza e opposizione, appaiono oggi completamente appiattiti a rincorrere le emergenze. In questa situazione solo una catastrofe economica e politica – con macerie enormi e visibili a tutti – potrebbe distogliere il nostro sistema politico dal circolo vizioso dell’inconcludenza. Ma non è detto neppur questo. In questo Paese è sparita da tempo la capacità di imparare dai propri errori.

 Giuseppe Rinaldi (12/3/2010 – 03/07/2021 rev.)

 

NOTE

[1] L’espressione è di Luciano Gallino.

[2] Le recenti rivelazioni ai giudici del figlio di Ciancimino – se fossero confermate - vanno ben oltre questo quadro, di per sé già abbastanza inquietante.

[3] Cfr., a questo proposito, Loretta Napoleoni, Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, ilSaggiatore, Milano, 2008.







mercoledì 3 marzo 2010

I barbari saccheggiati. Come l’Italia è diventata finalmente un paese comunista

 

Il recente volume di Luca Ricolfi “Il sacco del Nord” (*) rappresenta un importante punto di svolta nel dibattito intorno alla cosiddetta “questione meridionale”. L’argomento potrebbe sembrare vagamente demodé, legato a fumose e ottocentesche diatribe, invece si colloca con prepotenza al centro delle più importanti questioni di attualità. Il sottotitolo del volume “Saggio sulla giustizia territoriale” contribuisce a illuminare circa il rilievo delle questioni trattate. Il volume non intende fornire nuove spiegazioni circa gli squilibri territoriali presenti nel nostro Paese e neppure elaborare nuove proposte di riforma. Intende, come afferma in apertura l’Autore, “semplicemente offrire al lettore uno strumento nuovo di osservazione, un paio di lenti che permettono di vedere cose che, con gli strumenti di osservazione tradizionali, proprio non si vedono”. In sostanza si tratta di un volume il cui scopo principale è quello di descrivere nella maniera più obiettiva possibile le differenze territoriali presenti nel nostro paese.


Per descrivere gli squilibri territoriali, l’Autore è stato costretto a un lungo tour de force che lo ha portato a rivedere sostanzialmente i criteri con cui viene comunemente elaborata la contabilità nazionale. L’Autore dimostra con solide argomentazioni come la nostra contabilità nazionale nasconda sistematicamente una serie di grandezze che sarebbe invece necessario prendere in considerazione ogni qualvolta si ragioni intorno alle politiche pubbliche. La contabilità nazionale, nel nostro Paese, non permette di calcolare l’efficienza della pubblica amministrazione, non permette di calcolare l’effettivo funzionamento del fisco e le vere dimensioni dello stato sociale, non permette di scoprire un’immensa sacca di parassitismo e, soprattutto, nasconde i sistematici sotterranei trasferimenti di risorse dalle regioni più produttive verso le regioni meno produttive. Il volume è denso di considerazioni metodologiche (che tuttavia risultano a una lettura attenta perfettamente comprensibili anche ai profani della scienza economica) attraverso le quali vengono ricalcolate tutte le grandezze necessarie.


I risultati sono piuttosto sconcertanti. Vengono identificati e messi in luce i processi che, indipendentemente dai retaggi storici profondi, riproducono costantemente e anzi accentuano il divario tra le regioni più sviluppate (collocate prevalentemente al Nord) e le regioni meno sviluppate (collocate prevalentemente al Sud). Ma il risultato più rilevante è la quantificazione dettagliata dei meccanismi perversi attraverso i quali una quota rilevante di risorse prodotte nelle regioni del Nord è incanalata e distribuita nelle regioni meno produttive del Sud: circa 50 miliardi all’anno, l’equivalente di due o tre finanziarie.  Si tratta di meccanismi che vanno ben al di là della solidarietà nei confronti delle regioni più povere del Paese e che appaiono, a lungo andare, in grado di strangolare lo stesso sviluppo economico delle regioni più sviluppate.


L’autore non trae conclusioni politiche specifiche dalla sua indagine, che è prettamente descrittiva e accuratamente non valutativa, ma alcune conclusioni sono del tutto evidenti, anche a una lettura frettolosa. Mi proverò esplicitarne alcune. Una prima conclusione che si trae inevitabilmente dalla descrizione presentata è il fallimento totale delle politiche meridionalistiche che sono state seguite dal dopoguerra fino ad oggi (propugnate da tutti i governi sia di destra sia di sinistra). Addirittura si può trarre la conclusione che le politiche meridionalistiche messe in atto abbiano ottenuto dei risultati del tutto opposti alle intenzioni; abbiano cioè contribuito ad aggravare più che a sanare la condizione delle regioni meno sviluppate.


In secondo luogo, la descrizione di Ricolfi permette di comprendere appieno quali siano le profonde radici economiche dell’emergere progressivo della Lega Nord e perchè questo partito sia riuscito a egemonizzare una parte dei ceti produttivi del Nord e una parte della classe operaia. Ben al di là degli intendimenti soggettivi dei leghisti, il sacco del Nord è dunque una realtà strutturale latente che, oltre a danni intrinseci di natura economica, ha determinato come sottoprodotto politico e sociale la disgregazione della sinistra al Nord, lo sviluppo della cosiddetta “questione settentrionale” e ha contemporaneamente gettato diverse regioni del Sud nelle mani del malgoverno, della criminalità organizzata o in quelle dei faccendieri e procacciatori di voti.


In terzo luogo, la descrizione di Ricolfi fornisce tutti gli elementi per comprendere la diffusione nel nostro Paese – sempre per opera della Lega Nord - della cosiddetta tematica federalista. Quello della Lega non è un vero federalismo (basta consultare un qualunque manuale di scienza della politica per capire che il federalismo è aggregativo e non disgregativo), ma piuttosto una forma di autonomismo o di secessionismo, espressione del disagio e del rancore del Nord. Dietro ai miti delle ampolle e del dio Po, la Lega, in assenza di altre voci meglio qualificate, è riuscita a porre al pubblico il problema della giustizia territoriale. E lo ha posto tanto che il federalismo fiscale, l’obiettivo culminante della sua azione politica, è sul punto di essere realizzato (bisogna dire, nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica). Peccato che il federalismo fiscale, per com’è stato impostato dalla riforma sostenuta dalla maggioranza, non riuscirà con ogni probabilità a risolvere nessuno dei problemi strutturali evidenziati dalla ricerca di Ricolfi.


In quarto luogo, la descrizione di Ricolfi fa risaltare la totale inconsistenza della politica della sinistra italiana intorno alla questione meridionale (che, come abbiamo visto, significa soprattutto “questione settentrionale”). Il partito democratico, come al solito, sulla giustizia territoriale non sa cosa dire. Da un lato, in più occasioni, ha continuato a farsi portavoce della redistribuzione verso il Sud in nome di un’indiscriminata solidarietà, guadagnando così peraltro sempre maggiori diffidenze da parte dell’elettorato; dall’altro lato si è fatto portatore di un federalismo fiscale gelatinoso, imposto in sostanza dalla concorrenza, poco sentito e dibattuto,  e che nessuno ha capito bene di che cosa si tratti. Le varie frange che si collocano alla sinistra del partito democratico altro non sanno se non chiedere a viva voce la reiterazione della tradizionale politica di assistenzialismo e trasferimento di risorse verso il Sud, ignari dei 50 miliardi che ogni hanno le regioni del Nord pagano in un modo o nell’altro a favore di quelle del Sud. Nessuno sembra essersene accorto, ma in Italia il comunismo è stato realizzato già da un pezzo.

L’attuale blocco di potere trova il suo fondamento (e la sua base elettorale) proprio nel rancore nordista per la spoliazione e nel parassitismo sudista spoliatore: questa unificazione di opposti interessi è stato senz’altro il capolavoro politico dell’attuale Capo del governo. Ma ciò è stato possibile mistificando e nascondendo la vera natura dei rapporti economici tra le due aree del Paese, non senza la complicità della miopia buonista dell’opposizione. Tra l’altro, va anche considerato che un trasferimento colossale da 50 miliardi all’anno non può che avvenire grazie all’intermediazione della burocrazia e della classe politica, che proprio su questa intermediazione fonda la propria perpetuazione e i propri privilegi. Ciò contribuisce a creare e a mantenere in vita un ceto politico inefficace, inefficiente e parassita, quando non malavitoso che non ha nessun interesse a modificare questa situazione.


Così il problema della giustizia territoriale non potrà che aggravarsi. Invece di continuare a proporre la distribuzione di risorse inesistenti per ottenere qualche voto in più, l’opposizione dovrebbe comprendere che la soluzione della questione meridionale non può che passare prioritariamente attraverso la soluzione della questione settentrionale. Ma questo significa cominciare seriamente e convintamente a cavalcare l’obiettivo della giustizia territoriale, anche perché, in caso contrario, tra un po’ non ci saranno più risorse per nessuno, né per i settentrionali né per i meridionali. Il partito che si dice democratico, proprio per il suo dirsi democratico, dovrebbe essere primariamente interessato ai problemi della giustizia territoriale e dovrebbe essere in prima linea a combattere per realizzarla (e non dovrebbe lasciare questo campo all’avversario). Dovrebbe capire che giustizia territoriale non significa oggi, nel nostro paese, principalmente distribuzione senza contropartite. Dovrebbe combattere apertamente le sacche di improduttività, di inefficienza, di parassitismo. La questione settentrionale costituisce oggi l’autentico e radicale problema politico per la sinistra italiana: si tratta di mettere da parte definitivamente il vecchio meridionalismo, la politica degli aiuti infiniti, per riscoprire il rigore - come sostiene Ricolfi - della vecchia contabilità liberale, quella grazie a cui perlomeno si riesce facilmente a capire chi produce cosa, chi consuma cosa e chi fa il furbo. Ciò implica una profonda rivoluzione che metta urgentemente nell’armadio una serie di schemi di pensiero che sono risultati disastrosi alla prova dei fatti. Per tutti quelli che, stufi dei luoghi comuni, sentissero l’esigenza di cambiare idea su tutte queste questioni, il libro di Luca Ricolfi può rappresentare davvero un buon punto di partenza.

 

Giuseppe Rinaldi (3 marzo 2010)

 

  

(*) Cfr. Luca Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale. Guerini e Associati, Milano, 2010