martedì 2 dicembre 2014

Il collasso morale del Partito Democratico

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Negli ultimi mesi, nell’area che comprende il centro sinistra e la sinistra, alcuni eventi decisamente traumatici hanno suscitato un certo stupore e stanno destando svariati interrogativi. Si tratta di eventi per i quali è davvero difficile trovare una qualche spiegazione convincente ed esauriente e che meritano tuttavia grande attenzione, perché sono in grado di destabilizzare definitivamente il già malconcio sistema politico italiano.
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Da un lato abbiamo il PD che, sotto la segreteria di Renzi, ha realizzato un clamoroso successo elettorale alle recenti elezioni europee. Successo elettorale che peraltro è stato confermato nelle recenti elezioni regionali (nonostante l’elevato, anomalo e allarmante tasso di astensioni). Per converso, l’avversario storico del PD, Berlusconi, appare quanto mai confinato all’angolo e il centro destra appare diviso e privo di orientamenti, per una serie di motivi che non staremo qui ora a indagare. L’unica componente in controtendenza sembra essere la Lega di Salvini. Anche il movimento di Grillo sembra aver perso la spinta propulsiva iniziale, che lo aveva portato a rappresentare un quarto dei votanti alle scorse elezioni politiche, e sembra avviato verso un periodo di alta instabilità, caratterizzato da spaccature interne e da scarsi successi in campo politico. I recenti rivolgimenti ai vertici del M5S sembrano costituire una rivelazione dell’intrinseca debolezza di questa formazione più che un momento di ristrutturazione in vista di una nuova crescita. D’altro canto, per completare il panorama, l’area politica collocata alla sinistra del PD sembra in crisi permanente, sia dal punto di vista elettorale che dal punto di vista delle idee, dei programmi e delle strategie comuni. Insomma, il PD è rimasto il solo partito ad avere un consenso corposo da parte dell’elettorato, ad avere al proprio interno una struttura organizzativa relativamente democratica, ad aver espresso, in un recente Congresso, una linea politica attraverso la quale il governo Renzi sta cercando di realizzare - seppure in condizioni difficilissime - quella trasformazione di cui il Paese ha urgente bisogno, per riuscire a risollevarsi dal baratro nel quale si trova.[1]
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Ebbene, dal punto di vista del PD, ci sarebbero tutti i motivi per essere soddisfatti e, soprattutto, ci sarebbero tutti i motivi per profondere una vigorosa iniziativa politica, volta a sostenere l’attività di governo, volta ad allargare i ranghi degli iscritti e dei militanti, volta a intavolare con il pubblico un dibattito appassionato e approfondito sul merito delle riforme che si stanno intraprendendo. Il PD ha l’opportunità di mostrare agli italiani che la sinistra sa essere, finalmente, concreta, determinata e fattiva. Nello stesso tempo, sembra ormai chiaro a tutti che, nella situazione in cui si trova il Paese, occorre agire in fretta, con una certa flessibilità, diciamo pure senza guardare troppo per il sottile, rinviando a tempi migliori il perfezionamento eventuale delle diverse riforme.
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È accaduto invece, negli ultimi tempi, che proprio il PD abbia dato ai suoi elettori e, più in generale, al pubblico un’immagine disastrosa di irresponsabilità, di divisione e di inconcludenza. Il Presidente del PD che, un giorno sì e uno no, attacca il Segretario, fronde di deputati e senatori della cosiddetta minoranza che minacciano costantemente di non votare i provvedimenti proposti dal governo, che vogliono contrattare su tutto - come se recentemente non avessero fatto e perso un Congresso. A ciò possiamo giungere le ripetute minacce di scissione da parte degli insoddisfatti del momento, compresi alcuni nuovi leader (come Civati) e alcuni dirigenti storici (come la Bindi). Ma non basta. La cosiddetta minoranza del PD ha saldato la propria linea d’azione con la Cgil della Camusso e con la Fiom di Landini, scatenando, nel Paese, nelle Piazze, un’opposizione contro il governo come non si era mai vista nei confronti dei governi di destra. A quest’ondata di contestazione contro il governo si sono ovviamente aggrappate tutte quelle forze minoritarie collocate a sinistra del PD, che hanno così trovato una insperata occasione di far vedere al Paese che esistono anche loro. Il clou della protesta anti governativa non è ancora arrivato, si avrà nel ventilato sciopero generale prossimo venturo.
Insomma, nel momento in cui il PD potrebbe dire di avere finalmente in mano le sorti del Paese, di avere la possibilità di provare a cambiare effettivamente il Paese, questo stesso partito, incredibilmente, si trova a discutere nientemeno che di scissione e una sua componente di rilievo si appresta a organizzare uno sciopero generale che è, di fatto, uno sciopero contro lo stesso governo guidato dal PD. Viene in mente l’intrepido on. Diliberto che scendeva in Piazza contro il governo di cui era ministro. Tutto ciò non può che costituire una gioiosa macchina da guerra a favore della destra (la quale peraltro potrebbe anche riuscire a riorganizzarsi in tempi non troppo lunghi). Il risultato di tutto ciò è che, nei sondaggi, la popolarità di Renzi è ora in diminuzione e che le percentuali delle intenzioni di voto per il PD hanno ripreso a scendere. La spaccatura indotta nel PD e nella sinistra è senz’altro uno dei motivi della bassissima percentuale di afflussi alle urne delle recenti elezioni regionali, nonché della bassissima percentuale di partecipazione ad alcune primarie regionali che si sono tenute in questi giorni. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che agli elettori non piacciono i partiti che litigano continuamente al proprio interno e che sono sempre pronti alle spaccature, soprattutto se sono partiti che hanno in mano il governo e le sorti del Paese.
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Se questo è il quadro, di fronte a questo comportamento da Tafazzi, dovremmo domandarci, anzitutto, se le giustificazioni addotte dall’ormai ampio spettro degli anti renziani (dentro e fuori il PD) abbiano o meno qualche fondamento, se esse mettano in gioco questioni così gravi da valere una perdita di consenso, il blocco delle già difficoltose riforme avviate, un’eventuale caduta del governo, un colossale insperato favore alla destra e - cosa che si è palesata in questi ultimi giorni – un pericoloso ingolfamento tra le sempre più probabili elezioni politiche e le concomitanti dimissioni del Presidente della Repubblica.
Non entrerò qui nel merito - per brevità - delle questioni del contendere, legate soprattutto alla riforma del mercato del lavoro e alle riforme istituzionali e alla legge elettorale. Diciamo genericamente che è del tutto comprensibile che ci siano diversi punti di vista, diverse interpretazioni circa il merito di ciascuna riforma. Chi scrive peraltro è assai critico su alcune soluzioni che probabilmente saranno adottate da Renzi. Il problema è che, come si diceva poc’anzi, nell’attuale situazione del Paese (basterebbe ricordare l’enorme debito pubblico, le cifre della disoccupazione, la crisi della politica, l’anomalia del sistema politico di una forza come quella di Grillo che non fa alleanze con nessuno, …), non possiamo davvero permetterci di guardare troppo per il sottile. Le riforme di questo governo non produrranno il migliore dei mondi possibili; sono le riforme abborracciate che siamo in grado di fare, dati i limiti di questo personale politico, dati questi rapporti politici, data questa situazione economica e finanziaria. Fare uno sciopero politico (perché è di questo che si tratta!) contro il governo in questa situazione significa fare uno sciopero contro tutti quegli italiani che dalle riforme non si aspettano certo l’apertura dell’età dell’oro ma si aspettano quei cambiamenti elementari, che sono ormai questione di vita o di morte, che la classe politica non ha mai saputo o voluto fare nei decenni scorsi.
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Se è così, dobbiamo cercare di trovare una spiegazione a questo cupio dissolvi che sembra essersi impadronito non solo di alcuni dirigenti della sinistra del PD, della Cgil della Fiom, ma che sembra avere trovato un ampio riscontro (la cosa deve avere anche sorpreso quegli stessi dirigenti) nel cosiddetto «popolo della sinistra». Una riprova ne è la partecipazione consistente che si è avuta nello sciopero e nella recente manifestazione romana contro la riforma del mercato del lavoro. Insomma, dovremmo tentare di capire come mai, nell’ambito della sinistra, tutte le volte che si è vicini a vincere si comincia a litigare, poi ci si spacca, passando così il testimone all’avversario politico di turno.
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Un’interpretazione facile è che la minoranza del PD che ha perso il recente Congresso si stia organizzando (con l’appoggio della Cgil e della Fiom) per mandare a casa Renzi e per prendere in mano nuovamente il partito. Pur trattandosi di un comportamento miope e irresponsabile (come quello di chi si appresta a segare il ramo dell’albero su cui è seduto) potrebbe, in effetti, avere una certa logica. Ma questo spiegherebbe il comportamento dei dirigenti della minoranza di sinistra, non il comportamento di coloro che, molto numerosi, si sono dimostrati disponibili ad accogliere gli appelli e a scendere in piazza contro il governo. Costoro non scendevano in Piazza contro i governi della destra – i quali non facevano assolutamente niente - e tuttavia sono disposti ora a scendere in Piazza contro il governo del PD che per lo meno – comunque lo si giudichi - qualcosa sta cercando di fare.
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Occorre allora un’altra spiegazione. Presso i militanti della sinistra, della base del PD, della Cgil e della Fiom, il conflitto con Renzi, come segretario e come capo del governo, non è un conflitto che viene consumato e vissuto semplicemente a livello politico. Se fosse così, le considerazioni politiche che abbiamo svolto finora, che vertono su quel che è possibile nell’attuale situazione e su quel che è impossibile, su quel che è tatticamente opportuno e su quel che è inopportuno, sarebbero più che sufficienti per indurli a desistere dal loro sistematico impedimento all’attività del governo. Si tratta invece di un conflitto che viene vissuto su un piano prevalentemente morale. Se in politica si possono fare (anzi è doveroso fare) dei compromessi, allo scopo di ottenere ciò che è possibile ottenere in una data situazione, in campo morale ogni compromesso è concepito come un tradimento. Renzi che fa politica, che si barcamena come può – si ricordi con che razza di parlamento ha a che fare[2] – e che è costretto a fare quotidianamente dei compromessi, appare essenzialmente come un traditore. Solo così si possono spiegare le diffuse fantasie che assimilano Renzi a Berlusconi, solo così si possono spiegare le difese a oltranza di un articolo 18 che nell’attuale situazione del mercato del lavoro non significa più nulla, solo così si possono spiegare certe opposizioni dure e pure nei confronti delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Si sta costruendo nella sinistra un divide di tipo morale tra il bene e il male, tra amici e nemici, tra i difensori del lavoro e della democrazia e il resto dei traditori. Questo blocco anti renziano non ha nulla di politico e di razionale, è piuttosto una chiara manifestazione irrazionale di odio – ha rivelato questo fondo di odio proprio Landini, quando ha accusato il governo di usare calcolatamente la forza pubblica contro i lavoratori e quando gli è scappato che i sostenitori di Renzi sono dei disonesti.
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In un momento in cui il PD e la sinistra, Cgil e Fiom compresi, avrebbero massimamente bisogno di politica, di capire che non si può avere tutto e subito e che la tattica ha la sua importanza, che i rapporti di forza hanno la loro importanza, che si deve sempre prima o poi fare i conti con la realtà, essi si sono fatti irretire in una spaccatura morale di tipo fondamentalista. Si parla di valori, di dignità del lavoro, dei diritti violati, del rispetto della Costituzione, delle regole della democrazia. Tutte cose in sé belle e giuste, cui è difficile dire di no, ma che devono poi trovare un compromesso con la realtà. Chi si mobilita grazie all’indignazione (è una parola di moda) morale non ha invece nessuna voglia di fare i conti con la realtà, di porsi dei problemi di fattibilità, di entrare nel merito delle amare questioni dei costi economici, non vuole saperne di ragionare sulla base degli effettivi rapporti di forza. In altre parole, si tratta di un colossale ritorno dell’immaturità politica.
Nel nostro Paese, tutte le volte che viene meno quel poco di maturità politica che ci possiamo permettere prende il sopravvento il moralismo, l’appello ai valori, la logica per cui chi non è d’accordo con te non può essere altro che un nemico o, peggio, un traditore. In queste situazioni i politici (e sindacalisti) trovano molto comodo agitare i valori, perché intanto sui valori è facile avere consensi e non è mai possibile alcuna verifica di efficacia. I valori si condividono, servono a distinguersi dagli altri, non devono produrre alcunché. Ha ragione Renzi quando chiede «dove eravate?» ai sindacati e quando fa notare che, con il suo predecessore alla segreteria, il PD non aveva mai oltrepassato il 20% o giù di lì.
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È possibile che in Italia continuiamo ad avere a che fare con il moralismo e con l’immaturità politica? Il fatto merita però una qualche miglior spiegazione. Dobbiamo domandarci quali siano gli ambiti entro cui è possibile che si formi una qualche maturità politica. Ebbene, i partiti e i sindacati sono proprio tra i principali luoghi deputati alla formazione della maturità politica dei militanti, degli elettori e più in generale dei cittadini. Sono però almeno trent’anni che i partiti e i sindacati sono diventati delle organizzazioni burocratiche, luoghi di correnti e di puri giochi di potere, talvolta anche di malaffare (si pensi alle spese allegre dei consiglieri regionali, oppure allo stipendio e alla liquidazione di Bonanni), luoghi da cui militanti ed elettori sono stati sempre più allontanati, per lasciare il posto a politici e sindacalisti di carriera. Sono decenni che nei partiti e nei sindacati non si discute più di nulla, le decisioni sono prese dall’alto e i momenti congressuali sono delle farse. Farsa è stato, evidentemente, il Congresso recente del PD, visto che, nel dettaglio delle riforme, non si è discusso di nulla e che, comunque, quelli che hanno perso continuano a mettere i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Sono decenni che tutti conoscono il trend impressionante della disaffezione nei confronti della politica da parte dei cittadini italiani. Recentemente si è discusso con preoccupazione del pesante crollo del tesseramento all’interno dello stesso PD. Nulla tuttavia è cambiato, perché qualunque cambiamento significherebbe mettere in discussione le oligarchie, cioè le uniche cose che contano davvero.
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Oggi, per effetto di questa tendenza al degrado dei partiti e dei sindacati, la sinistra in senso ampio è una sinistra senza cultura politica. È questa una condizione che merita di essere compresa in dettaglio. Diciamo che, schematicamente, presso la fascia meno giovane, sopravvivono ancora, come fossero imbalsamate, le vecchie parole d’ordine degli anni ‘70, in una situazione che però è completamente mutata. Non c’è stato alcun adeguamento, alcun cambiamento, alcuna maturazione. Non s’è imparato più nulla. Si ripetono sempre le vecchie tiritere. I sociologi in casi come questi parlano di ritualismo. È la situazione in cui si continuano celebrare e difendere i fini entro cui si è stati socializzati, anche se questi sono diventati completamente inefficaci e/o impraticabili. D’altro canto, quelli della nuova generazione, diciamo pure per semplificare, i renziani, sono dilettanti allo sbaraglio, mancano di qualsiasi tradizione e di qualsiasi retroterra, sono, in un certo senso, per forza di cose, innovatori ma anche anomici. Badano molto più ai risultati concreti che non ai fini ultimi. Non può essere diversamente. I ritualisti sono dei moralisti astratti, mentre gli innovatori anomici non hanno alcuno schema morale prefissato. Per questo questi secondi possono apparire ai primi come dei devianti o degli immorali. Per tenere insieme in modo produttivo le due componenti ci vorrebbe, appunto, una cultura politica capace di discutere, capace di apprendere, di confrontarsi con la realtà, capace di innovare, di adeguarsi ai tempi, di costruire il consenso senza rompere ed escludere nessuno. Ma, come si è visto, nel PD ci sono solo correnti, una cultura politica comune non c’è, non c’è neppure la coscienza che sia necessaria, non c’è nessuno che faccia qualcosa per costruirla e che ci spenda un centesimo.
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Proprio qui emerge il limite fondamentale di Renzi (e dei renziani), che non è tanto dovuto ai contenuti della sua attività di governo (è stato peraltro già detto che chi scrive ha parecchi dubbi su diversi punti del programma renziano), ma è dovuto alla sua concezione della politica e del partito. Oggi il PD è un partito di correnti, con una forte personalizzazione dei leader. È un partito che, nella sua breve esistenza, ha perso per strada centinaia di migliaia di militanti, ha chiuso le sezioni, che ha abbandonato qualunque tipo di radicamento nella società civile. È un partito che ha cessato di essere uno spazio del discorso politico, del dibattito, della formazione, della costruzione delle linee politiche. In altri termini è un partito senza una cultura politica omogenea, diffusa presso dirigenti, militanti ed elettori. In una situazione simile, i vecchi militanti non possono fare altro che aggrapparsi ai residui dei simboli e delle parole d’ordine, mentre i più giovani non possono che tentare qualunque forma di sperimentazione, anche le più avventate e improbabili. Qui stanno le basi del moral divide che sta facendo collassare il PD e la sinistra tutta in questi giorni.
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Renzi che è segretario del PD avrebbe dovuto essere consapevole di questa situazione e del pericolo gravissimo che essa comporta. Avrebbe per prima cosa dovuto procedere a un rinnovamento della cultura politica e dell’organizzazione interna del partito. L’unico che, recentemente, ha manifestato un’esplicita consapevolezza in questa direzione è stato Fabrizio Barca, guarda caso di provenienza non PD, il quale ha articolato una serie di proposte di riforma e di costruzione di un modello nuovo di partito e di cultura politica. Forse alcune delle specifiche proposte di Barca sono discutibili, ma l’esigenza che egli sottolineava era di importanza vitale e  avrebbe dovuto essere accolta in pieno e praticata urgentemente e con convinzione. Invece questa proposta di riforma è stata combattuta sia dagli innovatori anomici che dai ritualisti, e così non se n’è fatto un bel niente.[3]
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Il risultato ora è che Renzi si trova a governare il Paese essendo a capo della corrente maggioritaria del PD, senza tuttavia avere nulla alle spalle, se non un pugno di transfughi che sono saltati sul carro del vincitore, gli hanno giurato fedeltà in cambio della distribuzione di una serie di posizioni di potere. Un gruppo di transfughi, peraltro neanche tanto coeso, che potrebbe proprio girargli le spalle da un momento all’altro: ci sono sempre quelli specializzati in queste manovre acrobatiche. La corrente minoritaria sa bene questa cosa e ha deciso di giocare la carta dell’indignazione morale, della guerra dei simboli e delle parole d’ordine, contro il segretario e contro il capo del governo, per rimettere in discussione i rapporti di forza interni, senza aspettare il prossimo Congresso. Inaspettatamente, ha trovato un seguito di massa.  Non passa minimamente neanche per la testa di costoro che, dopo aver perso il Congresso, sarebbe stato per lo meno necessario dare una chance a chi lo ha vinto, nell’interesse stesso del Partito e del Paese. E che, comunque, sarebbe in ogni caso necessario in primo luogo mettere mano a una ristrutturazione organizzativa del partito e alla costruzione di una nuova cultura politica. Tutto ciò servirebbe per riuscire a fare finalmente dei congressi autentici, per rimettere le scelte fondamentali sempre più nelle mani dei militanti e degli elettori, per riuscire a promuovere così nel Paese un effettivo dibattito di livello politico e non uno scontro moralistico. Decisamente, è più facile scendere in Piazza contro il governo.
 
 2/12/2014
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
NOTE
 
[1] I dati economici sono sempre estremamente gravi. La situazione economica, sociale e culturale del Paese è tale per cui molto probabilmente, per un bel po’, non ci sarà proprio alcuna ripresa. Questa remora specifica dell’arretratezza italiana è spesso trascurata nelle analisi, ingenerando ingiustificate illusioni.
 
[2] Si tratta di un parlamento di nominati, che rappresenta una parte minima del Paese perché, già alle ultime elezioni politiche, l’astensione era stata altissima. Si tratta di un parlamento in cui una delle forze più rilevanti ha deciso di auto escludersi dal gioco politico delle alleanze, costringendo a un’alleanza innaturale il PD e il partito di Alfano. Se il PD avesse avuto il coraggio, si doveva allora andare subito a nuove elezioni, il famoso doppio turno oggi tanto invocato.
 
[3] Nel mio piccolo, e ciò vale come riscontro empirico di quanto sostenuto in questo post, nell’ambito della discussione intorno al ruolo dell’Associazione Città Futura di Alessandria, nel mese di marzo della scorsa primavera, ho prodotto un documento politico culturale (“Uno spazio di discorso per una sinistra che non c’è” disponibile ora nell’archivio di Città Futura). Esso individuava proprio l’esigenza – nel nuovo quadro politico determinato dalla fine del berlusconismo e dall’affermazione del governo Renzi - di costituire e mantenere vivo uno spazio di discorso libero e aperto, per realizzare un minimo di dibattito autentico sul territorio locale. Cosa che altrove, nei sindacati e nei partiti, avrebbe continuato a non essere possibile. La finalizzazione era proprio quella di dare un contributo alla costruzione di una nuova cultura politica per una sinistra che sapesse andare oltre i rituali simbolici e oltre il praticismo errabondo. Quel documento, ovviamente, è stato guardato con sufficienza sia dai ritualisti che dagli innovatori anomici e non se ne è fatto proprio nulla. In compenso si sono anche deteriorati i rapporti personali, grazie a una sorta di legge dell’horror vacui: quando non c’è cultura politica autentica, il suo posto vien preso da tutta la spazzatura delle idiosincrasie e dei limiti individuali.
 
 
 

giovedì 20 novembre 2014

Non ci resta che guardare

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Il sale della terra di Wim Wenders è un film documentario che intende presentare al vasto pubblico la biografia e l’opera del brasiliano Sebastião Salgado, viaggiatore ai quattro angoli del mondo, fotografo, documentarista, testimone ravvicinato di alcuni dei momenti più drammatici della storia del nostro mondo presente. Questo documentario tuttavia non pare proprio costituire un’opera occasionale, sembra piuttosto rappresentare in modo esemplare gli ultimi esiti dell’estetica cinematografica di Wenders che stanno portando sempre più il regista verso una programmatica negazione della scrittura e del cinema d’autore.
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Wenders sembra aver ormai deciso di non narrare più in prima persona, bensì di offrire ad altre persone (intellettuali, musicisti, artisti in genere) la possibilità, - saremmo tentati di dire: il mezzo - di raccontare la propria esperienza sullo schermo. Sembra così aver deciso di rinunciare a qualunque aspetto di scrittura di fiction per l’assemblaggio di materiali documentari. Si tratta di un lungo filo conduttore che parte probabilmente da una crisi personale di Wenders come autore e che lo sta inducendo a esplorare le possibilità di un cinema fatto di documenti visivi, mimici e sonori, costringendolo a rinunciare completamente a un proprio stile personale e ad andare alla scoperta di contenuti e personaggi sempre nuovi, di depositi di materiali audiovisivi utilizzabili per montare un film. Così Wenders ha messo in scena Buena Vista Social Club, dedicato all’allora dimenticato Compay Segundo, oppure ha messo in scena alcuni artisti del blues in L’anima di un uomo - questo, tra l’altro, secondo le sue dichiarazioni - dovrebbe essere solo il primo di una lunga serie di film dedicati al blues. Di questa tendenza, fa anche parte Pina, il documentario dedicato alla danzatrice Pina Bausch.
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In contrasto con questa sempre più intensa attività d’impianto documentaristico, troviamo, a dire il vero, nell’ultimo decennio, alcune prove narrative che decisamente non hanno completamente convinto, come La terra dell’abbondanza del 2004, oppure Non bussare alla mia porta del 2005, oppure, ancora, Palermo Shooting del 2008. Tutti film interessanti, con alcuni elementi di grande genialità e di creatività sparsi qua e là, ma che sembrano tutte opere solo parzialmente riuscite, che decisamente possono sembrare forse appunti per un film che (forse) verrà. Rispetto ai recenti sviluppi wendersiani, Il sale della terra è estremamente interessante perché, oltre a rientrare nel mainstream documentaristico, contiene o, se si preferisce, sfiora, due temi che sono stati prepotentemente presenti nell’opera passata del regista, e cioè il tema dell’avventura e il tema ontologico del rapporto tra l’immagine e la realtà.
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Per quel che concerne la persistenza del tema dell’avventura, è sufficiente ricordare Fino alla fine del mondo, film peripatetico per eccellenza, oppure i film “americani”, tra cui Paris, Texas. Il tema del rapporto tra l’immagine e la realtà è invece uno dei motivi conduttori di tutti film wendersiani. Esso viene posto in maniera esplicita proprio in Fino alla fine del mondo - dove uno dei protagonisti percorre il globo intero per produrre una collezione di immagini da trasferire nella mente della madre cieca - oppure in Lisbon Story, dove un regista perduto, svanito nel nulla, ha disseminato tutta la città di Lisbona di microtelecamere per riprendere, in un certo senso, la vita in diretta, in modo automatico, cancellando completamente la soggettività dell’autore. In Fino alla fine del mondo c’è, però, ancora una denuncia del pericolo dell’invasione dell’immagine, tant’è che la macchina dei sogni futuribile, inventata dallo scienziato, conduce l’autore alle soglie della follia e della dipendenza e tant’è che solo la scrittura d’impianto narrativo tradizionale riuscirà a salvare lo stesso protagonista.
Nel Cielo sopra Berlino è invece posto esplicitamente il problema della progressiva divaricazione tra vita e rappresentazione. Gli angeli che vivono nel cielo sopra Berlino sono costretti a essere muti testimoni delle vicende umane, a costatare quotidianamente la loro scandalosa impotenza. Uno di questi angeli deciderà di farsi umano per amore, ma poi si troverà a dover ricercare l’assoluto, da umano, proprio attraverso l’arte e l’immagine. Saremmo tentati di dire che questa precisa esplicitazione del problema, forse un po’ intellettualistica ma senz’altro chiara ed efficace, sia merito più dell’autore del testo filmico, Peter Handke, che non di Wenders.
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Continuando a seguire questo tipo di ricerca intorno al rapporto tra immagine e vita, tra testo e autore, Wenders non ha esitato neppure a sperimentare la dissociazione tra la scrittura filmica e la sua realizzazione. È esattamente quanto è avvenuto in Al di là delle nuvole, mettendo i propri occhi al servizio dell’arte di Antonioni, ormai quasi cieco. Insomma, l’evanescenza della vita vissuta, la distruzione del soggetto narrante, l’autonomia relativa delle immagini, la quasi perversione di vedere al posto di un altro, l’ambivalenza nei confronti degli automatismi di produzione e registrazione delle immagini, sono solo alcune delle ossessioni che hanno sempre accompagnato il cinema di Wenders.
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Tutti questi motivi, sia quello dell’avventura sia quello dell’immagine, in un modo o nell’altro, sono prepotentemente presenti nel non-film dedicato a Salgado. Va subito detto che il documentario in sé è piuttosto piatto e noioso; Wenders volutamente si sottrae, evita qualsiasi impennata d’autore e segue, a passo a passo, l’illustrazione di una sommaria biografia del fotografo attraverso un susseguirsi d’interviste e l’esibizione dei relativi scatti fotografici. Insomma, una lunga ed estenuante proiezione di diapositive. Non c’è nessun serio e approfondito lavoro d’indagine o di scavo intorno alle radici dell’impresa avventurosa e iconica di Salgado; il tutto viene ridotto a chiacchierate piuttosto superficiali tra il regista e il fotografo, in cui il fotografo non fa che mostrare le sue, invero splendide, fotografie. Viene addirittura il sospetto che i due siano superficialmente legati da una specie di cordone emotivo, determinato dalla comune sensibilità per le problematiche dell’avventura e dell’immagine, ma che nessuno dei due abbia davvero la voglia di rivelarsi, di mettersi in gioco, di scavare nelle proprie motivazioni profonde.
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I dettagli della biografia di Salgado che sono forniti allo spettatore sono del tutto gratuiti e occasionali: veniamo sapere che non era tanto bravo a scuola, che ha avuto un figlio handicappato, che a causa dei suoi viaggi per il mondo non ha quasi mai vissuto con i figli. Che i suoi progetti, pianificati a tavolino, l’hanno assorbito totalmente per periodi di lunghissima durata, tra i cinque e i dieci anni ciascuno. Insomma, sembra trattarsi di una specie di monaco o asceta, dedito all’avventura e alla raccolta delle immagini. Non ci è detto nulla della sua complessiva visione del mondo, delle sue idee politico sociali – e dire che le immagini sembrerebbero mostrare una spiccata predilezione per le tematiche politico sociali. L’estetica di Salgado è descritta come il frutto di un mero impulso a viaggiare, a stare sul posto, a conoscere le cose direttamente, a indirizzare sempre l’obiettivo ovunque la realtà mostri di rivelarsi in qualcosa di formalmente perfetto. Esemplare in questo senso è il racconto delle manovre per avvicinare l’orso bianco. Salgado, proprio come il regista protagonista assente di Lisbon Story, sente l’impulso di essere sempre in presa diretta con il mondo, di essere lì dove la vita autentica accade, mostra di avere una specie di sete di rappresentazione che non si estingue mai. Qualunque cosa ci sia dall’altra parte. Diciamo pure che di Salgado emerge un’immagine complessiva davvero schematica, tanto che allo spettatore può anche venire il legittimo sospetto che il Salgado di Wenders sia terribilmente riduttivo rispetto a quello autentico, ma su questo punto sospendiamo il giudizio, poiché ne sappiamo troppo poco.
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Le foto di Salgado, dettagliatamente e copiosamente mostrate nel corso del film, attraverso i vari progetti cui il fotografo ha lavorato, quasi come se il linguaggio del cinema si fosse arreso definitivamente al linguaggio della diapositiva, portano lo spettatore letteralmente fino alla fine del mondo e gli mostrano, in un bianco e nero effettivamente straordinario, una sintesi del degrado umano e sociale, una sintesi delle devastazioni della storia e delle devastazioni dell’ambiente. Ma anche una sintesi dell’irriducibile varietà dell’esperienza umana, da cui forse il titolo stesso del film. Si tratta di foto di grande impatto visivo che, in effetti, non possono non colpire lo spettatore. Il film ha avuto e avrà un certo successo, proprio grazie a questo straordinario artista visivo che è Salgado. Dove sta il problema allora?
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Intanto, come dicevamo, il film è terribilmente piatto e noioso. È infatti un non-film. Ripete sempre lo stesso modulo narrativo delle foto sfogliate, con la sovrapposizione delle brevi considerazioni dell’autore che vertono spesso sulle condizioni avventurose e/o drammatiche in cui le foto sono state scattate. Le foto sono decisamente troppe e vanno incontro all’effetto della cancellazione reciproca nella memoria visiva dello spettatore: l’ultima foto, sempre più straordinaria, sempre più sorprendente, finisce per avere la meglio sulle foto precedenti, per indurre a dimenticarle. Alla fine non ci si può ricordare della marea di foto che ci sono state mostrate, alla fine lo spettatore ha la sensazione che una miriade di cose siano entrate dentro di lui, ma non ricorda bene che cosa. Certe foto avrebbero dovuto essere messe in una mostra, oppure raccolte in album, avrebbero dovuto essere guardate per dei quarti d’ora interi, con concentrazione, ma il cinema non consente tutto questo. E qui si mostra tutto il limite anche tecnico del gioco wendersiano tra cinema e fotografia.
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È chiaro comunque che, dal punto di vista di Wenders, Salgado rappresenta una sorta di magico connubio tra l’avventura e l’immagine, e la cosa è sottolineata a ogni piè sospinto. Il fatto è però che questo connubio viene sbattuto sullo schermo e, grazie al forte impatto emotivo delle immagini mostrate, non viene mai problematizzato, non viene mai analizzato, non viene mai approfondito. Per Wenders, Salgado rappresenta l’occhio puro del mondo, più o meno come l’angelo del Cielo sopra Berlino, che vede tutto, che ricorda tutto, ma che mette costantemente da parte i propri sentimenti, la propria situazione personale, evita qualsiasi intervento poiché sa perfettamente di essere impotente. Così l’impotenza diventa arte.
Le rappresentazioni tragiche dell’umanità violata diventano, nelle foto di Salgado, un perfetto bianco e nero, diventano capolavoro artistico, diventano preziosi volumi d’arte fotografica da stampare diffondere presso quella parte del mondo che può ancora permettersi la contemplazione del bello. Non c’è nessuna incertezza, nessun imbarazzo esplicito da parte di questo occhio puro del mondo, nessun dramma di coscienza, nessuna remora morale, soltanto un cieco impulso ad andare a cercare oggetti sempre nuovi, sempre straordinari, sempre impegnati, nel senso dell’engagement di certi intellettuali occidentali, da trasformare in rappresentazioni patinate. Non è detto perché lo fa. Non certo per soldi. Salgado non si tira indietro di fonte ai rischi personali e il suo è certamente un lavoro pericoloso. Deve sempre essere in prima linea. Sembra il suo un impulso irrazionale che viene appena razionalizzato attraverso l’assunzione di un mestiere, il mestiere del fotografo artista. Grazie a questo impulso profondo, Salgado lavora come una macchina automatica, è proprio come la perfetta telecamera nascosta di Lisbon Story, oppure è come il satellite artificiale che fotografa in alta risoluzione tutto quello che accade sulla superficie del pianeta, come accade in un altro film wendersiano.
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Non sappiamo come autenticamente Salgado abbia inteso risolvere tutti i complessi problemi che nascono dall’interazione ravvicinata con gli oggetti e i soggetti delle sue fotografie. Salgado non lo dice. Wenders si guarda ben bene dal chiederglielo e dal dircelo. Solo una volta ci viene detto che il fotografo - di fronte all’immersione nell’orrore dei massacri ruandesi - è rientrato e ha dovuto prendersi un momento per rimettersi in sesto psicologicamente. Non sappiamo cosa abbia provato Salgado a fotografare le ultime ore di vita dei bambini destinati a morire di fame o di sete nel deserto, cosa abbia provato di fronte al carnaio dei cercatori d’oro, di fronte ai cadaveri in decomposizione dei massacri ruandesi, oppure per quale motivo si spingesse fino a trovarsi faccia a faccia con l’orso bianco o fino a fotografare in primo piano le lotte tra i maschi dei trichechi. Insomma, Salgado ci viene presentato come un testimone spinto da una sorta di coazione a ripetere, da un cieco impulso verso il mondo, verso la “realtà”, per rappresentarla, per toglierla dalla banalità del quotidiano – spesso per registrare l’orrore del quotidiano - e farla diventare arte. L’avventura produce l’arte e l’arte chiama costantemente l’avventura.
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Si noti che Salgado - almeno a quanto pare dal film - non fotografa banalmente per documentare, per denunciare, per compiere atti politici, per intervenire nelle situazioni, per accumulare documenti storici, fotografa per rappresentare, per amore della rappresentazione, per produrre una rappresentazione importante, significativa, artistica. La foto deve essere esteticamente perfetta, ma deve avere anche un contenuto che colpisce come un pugno allo stomaco. Possiamo però ingenuamente domandarci: è lecito dire che la foto di un bambino che sta morendo di fame è bella? Ci può essere poesia nella sofferenza, nella degradazione, nella morte? Salgado, nel 1945, sarebbe andato a fotografare i sopravvissuti di Auschwitz? Ne avrebbe fatto un libro fotografico? Il fatto è che, stando al film, l’uso eventuale, positivo o negativo, della rappresentazione prodotta non sembra riguardarlo più di tanto. Nel film non c’è un solo accenno a qualche tipo di conseguenza, di impatto autentico sulla realtà, che sia avvenuta in seguito alla documentazione fotografica da lui fornita. Potremmo considerare Salgado – per come emerge dal film wendersiano - come un irresponsabile avventuriero dello sguardo. Come una specie di collezionista. Forse Wenders ha voluto parlare di sé stesso fingendo di fare un film su Salgado.
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Possiamo subito immaginare un’obiezione. Si può ben sostenere che l’uso dipende da chi guarda, dipende dallo spettatore, dipende dalla reazione che avviene dentro, di fronte all’immagine, di fronte al fatto messo in bianco e nero sulla carta. Questo sarebbe, secondo una certa tradizione, l’effetto catartico dell’arte. Certo, tutto ciò sarà anche vero, ma con ciò ritorniamo comunque alla contraddizione insita nell’occhio puro del mondo: sappiamo bene ormai che tra lo spettatore e l’immagine non c’è mai un rapporto puro, scevro da qualsiasi condizionamento, sociale, economico, culturale. Dietro Salgado, stando al film, sembra non esserci alcun retroterra legato all’industria culturale e al mercato dell’arte. Chi ha comprato i suoi scatti? Chi ha organizzato le sue mostre? Dove sono stati pubblicati? Chi li ha visti? Come ha reagito il pubblico? Quanto vale sul mercato una sua foto? Quanti scatti – scatti che documentano orrore, degradazione e sofferenza autentici - sono stati scartati, distrutti, per selezionare la foto perfetta, quella con tutti i requisiti? C’è, o ci sarà mai, un Archivio Salgado messo a disposizione dell’umanità? Sono tutte questioni che è inutile chiedere a questo film. Non sono questioni secondarie, se si vuol fare un documentario su uno dei grandi artisti-fotografi dei nostri tempi.
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La parte finale del film è senz’altro la più deludente. Salgado ritorna in Brasile alla sua fattoria, che era finita in uno stato di abbandono, dove realizza una specie d’impresa ecologica di rimboschimento. Il romantico viaggiatore radicale che abbandona la sua terra natale per viaggiare continuamente, che vuol sempre trovarsi in presa diretta, faccia a faccia, con il mondo (con la povertà, con la violenza, con la fame, con la morte, con la devastazione della natura) torna a casa, diventa un ecologista riformista e si mette a piantare degli alberi. Nel film tuttavia questo esito viene presentato come un normale sviluppo, come una normale conseguenza e non come un fallimento dell’estetica dell’occhio puro del mondo. La catastrofe umana che Salgado ha raccontato in modo così avventuroso e, riconosciamolo pure, in modo così splendido, viene quasi messa da parte, viene esorcizzata attraverso la piantagione di milioni di alberi. Continua a non esserci alcuna riflessione autentica sulla drammatica impotenza dello sguardo o sulla vacuità dell’avventura. L’obiettivo così ravvicinato, che ha scandagliato turpitudini atrocità e brutture, trova così la sua finale consolazione proprio distogliendosi dall’umano. Forse, proprio nello stesso modo, anche il cinema visionario di Wenders è tornato a casa, si è ritualizzato, è diventato piatto documentario, testimone superficiale di un’esperienza estetica e avventurosa forse in sé straordinaria, ma che resta, paradossalmente, proprio per chi ne aveva fatto un programma, poco riflettuta e poco consapevole. Le domande che hanno, in un certo senso, fondato tutta la ricerca wendersiana ci sono ancora, sono ancora tutte lì, ma ora pare non abbiano più speranza di trovare una risposta.
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Forse un film del genere ha oggi qualche successo, oltre che per l’indubbia bellezza delle foto di Salgado, perché non potendo più vivere direttamente alcuna avventura, tutti comunque sogniamo qualche sprazzo d’avventura. Non certo l’avventura sguaiata dei conquistatori o dei guerrieri, ma l’avventura dei viaggiatori e, perché no, dei generosi testimoni che rischiano di persona per mostrare la verità umana e la verità della natura in presa diretta. E poi perché tutti, ormai, ci siamo abituati a guardare. La nostra vita è sempre più un lungo e smisurato guardare, attraverso gli innumerevoli strumenti che riproducono e memorizzano le immagini. I romantici fotografi viaggiatori come Salgado sono i nostri occhi, sostituiscono la nostra presenza. Ci fanno vedere in diretta lo stato delle cose. Ma dietro alle fotocamere o alle telecamere, come l’introvabile regista di Lisbon Story, anche noi siamo sempre più evanescenti, anzi, siamo decisamente tutti svaniti.
 
20/11/2014
Giuseppe Rinaldi
 

lunedì 17 novembre 2014

Il viaggio di Parmenide alla Dimora della Notte (parte 2/2)

Selene_s
In quel che segue verrà presentato il testo del proemio in una versione di lavoro, opportunamente rivista e resa comprensibile da un punto di vista puramente storico - filosofico. È il caso di precisare che il testo che segue non va assolutamente inteso come una nuova traduzione o come un nuovo commentario. Ciò cadrebbe assolutamente al di fuori, soprattutto delle competenze, ma anche delle intenzioni dell’autore. Il testo costituisce piuttosto il tentativo di mettere a punto, confrontando tra loro le varie traduzioni e i vari commentari esistenti, una versione che sia precisa e attendibile dal punto di vista storico filosofico e, soprattutto, che sia allineata con il più recente dibattito interpretativo. L’intento è che questo testo possa costituire una guida utile per chi voglia studiare, problematizzare e comprendere la filosofia Parmenide, al di là delle mistificazioni vecchie e nuove.
Questo lavoro, che ha un carattere del tutto personale e che è senz’altro suscettibile di miglioramenti, nasce dalla totale insoddisfazione per le traduzioni che circolano nel nostro Paese, che hanno l’effetto di rendere incomprensibile il pensiero di Parmenide, quando non di stravolgerlo dal punto di vista ideologico, rendendolo al più compatibile con scadute interpretazioni idealistiche o spiritualistiche. Per questa esigenza di chiarezza è stata abbandonata qualsiasi pretesa di riprodurre l’andamento del verso epico parmenideo. È anche stato abbandonato, ove ritenuto possibile, il linguaggio ottocentesco pesantemente retorico - letterario a base di “fanciulle”, “giustizia che molto punisce”, “soavi parole” e simili sciocchezze. Non trattandosi di un lavoro specialistico, nelle note al testo, quando si sono dovuti citare i termini originali in greco, si è adottata la traslitterazione comunemente usata.
 
Frammento 1
 
Le cavalle, che mi portano fin dove il mio animo è in grado di giungere,[1] mi trasportavano,[2] quando si misero a condurmi per la via,[3] assai vociferata,[4] che appartiene alla divinità,[5] che porta [per tutti i luoghi[6]] l’uomo che sa.[7] Su quella via fui portato. Proprio là mi portarono le intelligenti[8] cavalle, tirando il carro, e le vergini[9] indicavano il percorso.
L’asse dentro i mozzi mandava un sibilo acuto, e s’infiammava, poiché era premuto, da una parte e dall’altra, da due cerchi rotanti, quando le vergini Figlie del Sole, che avevano lasciato la dimora della Notte, si affrettarono ad accompagnarmi verso la luce, dopo essersi tolti con le mani i veli dal capo.
Là si trova la porta[10] della strada della Notte e del Giorno, un architrave e una soglia di pietra la sostengono da ambo le parti e la porta, alta fino al cielo,[11] è chiusa da grandi battenti.[12] Di questi, la severa Giustizia[13] tiene le spranghe che scorrono avanti e indietro.[14]
Le vergini, allora, rivolgendole parole gentili, la persuasero con abilità, affinché, senza esitare, per loro togliesse via dalla porta i fermi delle spranghe.[15] E questa, subito aprendosi, spalancò i battenti, facendo ruotare negli incavi, in senso inverso, gli assi di bronzo[16] fissati con incastri e con chiodi. Di là, subito, attraverso la porta, le vergini fecero avanzare carro e cavalle, diritto per la grande strada.
La Dea mi accolse gentilmente, prese la mia mano destra nelle sue mani e incominciò a parlare e così mi disse: «O giovane, giunto alla nostra dimora, trasportato da cavalle e accompagnato da guidatrici immortali, rallegrati[17] poiché non è la cattiva sorte[18] che ti ha condotto a percorrere questa strada (essa è infatti lontana dai percorsi degli uomini), ma la legge e la giustizia.[19]
È necessario che tu apprenda[20] tutto: sia il nucleo solido e ben persuasivo[21] della realtà autentica[22] sia le rappresentazioni degli uomini,[23] nelle quali non c’è un vero affidamento.[24] Ma anche questo imparerai: in qual modo i fenomeni[25] [che essi percepiscono e rappresentano] devono esser considerati come esistenti,[26] pervadendo tutto attraverso tutto[27] ».
 
 
 
NOTE
 
[1] Cioè anche: «…tanto lontano quanto il mio animo è in grado di aspirare» . Il termine di difficile traduzione è thumòs, traducibile genericamente con «animo» ma che possiede significati molto diversi, come vita, sentimento, volontà, pensiero. Insomma, non è chiaro il tipo di motivazione che spinge il filosofo al viaggio.
[2] …pémpon, «mi trasportavano».
[3] Tarán traduce «when they brought and placed me on the resounding road», cioè «quando mi presero e mi posero sulla via…».
[4] Il termine originale è polúphēmon. Cerri, sulla base di attestazioni omeriche, traduce “… la via ricca di canti… della divinità” ma questa soluzione non è molto condivisa dagli altri traduttori. Secondo Palmer è possibile un uso passivo del termine, per cui andrebbe bene “famosa”, “discussa”, “nota”, eccetera. Cfr. Palmer 2009: 51. Qui si propone «vociferata», ma potrebbe andar bene «famosa».
[5] Il termine è daímonos «della divinità» con valore possessivo. Non è chiaro di quale divinità si tratti. Secondo alcuni si ritiene si tratti di Helios (vedi Palmer); secondo altri potrebbe addirittura trattarsi della stessa dea con cui poi Parmenide s’incontrerà (cfr. Coxon : 271). Non è chiaro se il soggetto di «…che porta per…» sia la via oppure la divinità. La maggior parte degli interpreti considera la via come soggetto.
[6] Il testo è alquanto corrotto ed è andato soggetto a svariate letture, nessuna delle quali è del tutto convincente. Palmer propone «per tutte le città». Anche «per tutti i luoghi».
[7] L’originale è eidóta phōta. L’uomo sapiente. Si riferisce probabilmente a Parmenide in qualità di iniziato.
[8] Il termine è polúphrastoi …íppoi. Tarán traduce «well-discerning».
[9] … koûrai. Tarán traduce: «maidens» cioè «vergini». Anche Coxon concorda. Al più potrebbe andar bene «giovani». L’uso nostrano di tradurre «fanciulle» è piuttosto fuorviante.
[10] …púlai, cioè «i due pilastri della porta».
[11] Secondo Cerri aithériai significa «alte fino al cielo». Questa soluzione risolve la questione di una eventuale collocazione delle porte nel cielo diurno, piuttosto che nell’oltretomba.
[12] …plēntai megáloisi thurétrois…«sono chiuse da grandi battenti». Cfr. Cerri 1999: 177.
[13] Si tratta di Dikē polúpoinos. La connotazione è di «vendicativa». Tradurre con «giustizia retributiva» come fanno alcuni  sembra però esagerato e forse antistorico.
[14] … klēîdas amoiboús…«chiavi girevoli» «chiavi che si alternano». Reale traduce «le chiavi che aprono e chiudono». Poiché il termine chiave evoca per noi le serrature meccaniche, probabilmente è meglio chiavistelli o spranghe.
[15] … balanōtòn ochēa… Coxon traduce «locked bar»; Cerri traduce «spranga a serrami». Si tratta evidentemente di un chiavistello fatto con una spranga orizzontale, scorrevole in una sede, con uno o più pioli verticali rimovibili che fungevano da fermi, per la chiusura. Molti traduttori hanno fantasticato con improbabili chiavi. La serratura della porta di Parmenide in realtà era molto simile a quella del portone di una vecchia stalla. Tarán traduce: «...persuaded her to push back quickly from the gates the bolted bar».
[16] …poluchálkous áxonas…«assi fatti di bronzo».
[17] …chaîre.. «rallegrati». Non si tratta di un saluto, ma di una tranquillizzazione. Cfr. Cerri 1999: 183.
[18] L’espressione moîra kakē allude alla morte. Il percorso compiuto da Parmenide è anche il percorso delle anime dei morti, per cui la Dea lo tranquillizza e nello stesso tempo lo mette a parte dell’eccezionalità del viaggio intrapreso.
[19] Si tratta di thémis e díkē. Alcuni commentatori maiuscolizzano, personalizzandoli come divinità, i due concetti astratti.
[20] …pánta puthésthai… Tarán 1965: 9 traduce: «It is necessary that you shall learn all things». Coxon 2009: 52 traduce: «You must be informed of everything». Cerri 1999: 149 traduce «Bisogna che tutto tu sappia».
[21] La versione più diffusa è … Alētheíēs eukukléos atremès ētor. Palmer 2009: 363 traduce: «unshaken hearth of well-rounded reality». Tarán 1965: 9 traduce «unshaken hearth of well-rounded truth». Però Coxon 2009: 54 traduce: «unmoved hearth of persuasive reality». Non è infatti del tutto chiaro perché la verità (o la realtà) debba essere rotonda (al più sarebbe plausibile sferica, con riferimento all’ente sferico del successivo frammento 8). Cfr. quanto osserva Cerri: le fonti in proposito sono molto discordanti. Solo Simplicio ha tramandato eukukléos, mentre diverse altre fonti danno eupeithéos, cioè «ben convincente» o «persuasivo». Cfr. Cerri 1999: 184.
[22] Il termine è alētheíēs….ētor. È stato variamente interpretato. Dando prevalenza a un senso epistemologico, Tarán traduce «truth». Dando prevalenza al senso ontologico in alcune traduzioni si trova «realtà». Qualora si vogliano tenere insieme entrambe le connotazioni, con riferimento a una fase del pensiero in cui non sia ancora avvenuta la separazione tra ontologia e epistemologia, potrebbe essere tradotto con «realtà autentica», realtà fondamentale. 
[23] Il termine originale è brotōn dóxas. «le opinioni degli uomini» oppure «le opinioni dei mortali». Filosoficamente, nell’ottica di un monismo debole, potrebbe valere come «rappresentazioni». Sarebbero le rappresentazioni fenomeniche.
[24] …pístis alēthēs.
[25] Il termine fondamentale è dokeûnta. Reale lo traduce con «le cose che appaiono». Probabilmente si tratta di quel che intendiamo comunemente con “fenomeni”, anche se questo termine è successivo a Parmenide. Tarán 1965: 31 traduce: «Nevertheless you shall learn these [opinions] also, how the appearances, which pervade all things, had to be acceptable». Va precisato che non è del tutto chiaro se dokeûnta è la stessa cosa della dóxa del verso precedente, oppure se si tratta di cose diverse.
[26] … eînai… Sarebbe «devono essere», lasciando in sospeso il carattere esistenziale o meno del termine. Dal punto di vista di un’interpretazione modale si potrebbe intendere sensatamente: «…che tipo di esistenza hanno i fenomeni». Si confermerebbe quindi l’acquisizione da parte di Parmenide di una prima consapevolezza del fatto che «l’essere si dice in molti modi».
[27] Ci sono diverse letture dell’originale assai discusse nella letteratura: per ónta oppure perōnta. La soluzione di Cerri 1999: 149 «Saprai tuttavia anche questo, perché le parvenze dovevano plausibilmente stare in un tutto, pur tutte restando» pare priva di qualunque senso filosofico. Anche la traduzione di Reale e Ruggiu 1991: 89 non è molto chiara: «…come le cose cha appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso». Afferma Palmer :380 «Sebbene alcuni interpreti, […] abbiano difeso la lettura per ónta  […] seguo l’opinione prevalente degli editori più recenti accettando perōnta […], essendo Reale e Ruggiu 1991 e Cerri 1999 le sole edizioni recenti che adottano per ónta».
 
17/11/2014
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
1986 Capizzi, Antonio
Introduzione a Parmenide, Laterza, Bari.
 
1999 Cerri, Giovanni (a cura di)
Parmenide di Elea. Poema sulla natura, Rizzoli, Milano.
 
2009 Coxon, A. H.
The Fragments of Parmenides. A Critical Text with Introduction and Translation, the Ancient Testimonia and a Commentary, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1986]
 
2006 Graham, Daniel W.
Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
2009 Kahn, Charles H.
Essays on Being, Oxford University Press, Inc., New York.
 
1999 Kingsley, Peter
In the Dark Places of Wisdom, The Golden Sufi Center. Tr. it.: Nei luoghi oscuri della saggezza, Marco Tropea Editore, Milano, 2001.
 
2008 Mourelatos, Alexander P. D.
The Route of Parmenides. Revised and Expanded Edition, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1970]
 
2009 Palmer, John
Parmenides and Presocratic Philosophy, Oxford University Press, Inc., New York.
 
1998 Popper, Karl R.
The World of Parmenides. Essay on the Presocratic Enlightement, Routledge, Londra. Tr. it.: Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, Piemme, Casale Monferrato, 1998.
 
1945 Russell, Bertrand
History of Western Philosophy and its Connection With Political and Social Circumstances from the Earliest Times to the Present Day, Allen & Unwin, London. Tr. it.: Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano, 1983.
 
1991 Reale, Giovanni & Ruggiu, Luigi (a cura di)
Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, Rusconi Libri, Milano.
 
1965 Tarán, Leonardo
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, Princeton University Press, Princeton.
 

Il viaggio di Parmenide alla Dimora della Notte (parte 1/2)

Selene
Il poema Sulla natura di Parmenide inizia con un proemio ove il filosofo immagina di compiere un viaggio su un carro, trainato da cavalle e scortato dalle Eliadi, le figlie di Helios, fino alla dimora di una divinità non ben precisata. Nel proemio è descritto il viaggio e l’incontro con la divinità, la quale poi comincia a istruire Parmenide. Il seguito dell’opera è costituito dagli insegnamenti della divinità stessa la quale affronta una serie di complesse questioni filosofiche. Il poema è stato scritto secondo le regole formali dell’epica e ciò probabilmente aveva la funzione di facilitarne la memorizzazione e la recitazione.[1] Il primo frammento rimasto dell’opera è costituito appunto dal proemio. Si tratta senz’altro di uno dei testi più controversi della storia della filosofia. In esso compaiono infatti eventi, luoghi e personaggi di non immediata comprensione e che hanno suscitato interpretazioni molto diverse.
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I problemi di traduzione costituiscono senz’altro una remora per l’intelligibilità del proemio e dell’opera di Parmenide nel suo complesso. Alcune traduzioni hanno tentato di riprodurre il verso epico, utilizzando peraltro spesso termini desueti e di scarsa pregnanza filosofica. Altre hanno tentato talvolta di aderire alla lettera alla terminologia originaria, perdendo comunque sempre in intelligibilità complessiva. Altre si sono fatte guidare da discutibili interpretazioni globali della filosofia di Parmenide, da una sua presunta collocazione entro il disegno dello sviluppo della filosofia occidentale, con il risultato di non far altro che confermare i pregiudizi più diffusi nell’ambito accademico. A tutto ciò va aggiunto che ci sono anche diverse varianti di lettura degli originali, nei punti in cui risultano corrotti o controversi.
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Tornando al proemio, occorre tenere conto del fatto che gli ascoltatori di Parmenide (opere del genere venivano lette ad alta voce in pubblico) non dovevano avere probabilmente alcuna difficoltà a identificare i luoghi e personaggi citati; probabilmente si trattava di riferimenti legati alla cultura comune diffusa. Si tratta tuttavia di riferimenti che oggi sono andati perduti e che, al più, si può cercare di ricostruire faticosamente. Un ulteriore problema è costituito dal fatto che, nel corso della storia della filosofia, è stato più volte suggerito che il proemio dovesse avere una interpretazione allegorica e sono stati compiuti molti sforzi, spesso assai ingegnosi e fantasiosi, in questa direzione. Oggi però generalmente gli studiosi ritengono che l’interpretazione allegorica non abbia granché fondamento.[2] Nonostante la situazione di grande incertezza, secondo Palmer, uno dei più accreditati studiosi odierni di Parmenide, sembra tuttavia si sia ormai raggiunto un certo grado di accordo circa l’identificazione dei tempi, dei luoghi e dei personaggi del proemio.
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Nel proemio si dice esplicitamente che le vergini figlie del Sole, che accompagnano Parmenide nel suo viaggio, abbiano appena lasciato un luogo ben preciso e cioè la dimora della Notte. Secondo Palmer, si tratta della dimora della Dea della Notte (Núx) di cui si parla nella Teogonia di Esiodo. Questa dimora è descritta come un luogo terribile che si trova nell’abisso del Tartaro, cioè nel mondo sotterraneo. Essa è abitata, alternativamente, dalle due divinità della Notte e del Giorno (Núx e Hēmérē) che si alternano secondo il ciclo giornaliero. Verosimilmente, le figlie del Sole che indicano la strada al filosofo viaggiatore stanno dunque compiendo il percorso ciclico che va dal mattino verso la sera, per tornare nuovamente alla dimora della Notte. Spiega Palmer: «Come si apre il proemio, […] esse sono rappresentate mentre stanno conducendo Parmenide indietro verso la dimora della Notte. Così la traiettoria descritta va dalla luce verso il regno dell’oscurità, la traiettoria di una katabasis o di una discesa nell’oltretomba».[3] Ogni greco educato con Esiodo avrebbe ben saputo riconoscere gli elementi della descrizione del viaggio di Parmenide. Il trionfo di Zeus sui Titani nella Teogonia si conclude con il loro imprigionamento nel Tartaro, il mondo sotterraneo, che è descritto come circondato da un recinto con porte di bronzo costruite da Poseidone, assai simili alle porte descritte nel proemio di Parmenide. Proprio nel Tartaro sono collocati diversi luoghi e diverse divinità che sono citati nel proemio. Va ricordato anche che nel Tartaro confluivano le anime dei morti per comparire di fronte alla Giustizia.
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Le guide accompagnatrici di Parmenide sono le Eliadi (Hēliádes koûrai), vergini figlie di Helios, di stirpe divina e quindi immortali. In Omero, esse pascolano le mandrie, di pecore e di bestiame, anch’esse immortali, di proprietà del loro padre. Sono le sorelle di Fetonte, celebre per avere tentato di guidare il carro del padre, per avere così causato un disastro cosmico e per essere così stato fulminato da Zeus. Le Eliadi, piangenti sul corpo del fratello, secondo il mito, sarebbero state trasformate in pioppi.
Tutti questi riferimenti implicano che le cavalle e il carro che trasportano Parmenide appartengano in qualche modo a Helios o siano comunque a lui connesse. È dunque importante sottolineare il carattere cosmico e astronomico di tutti questi luoghi e personaggi. Aggiunge Palmer: «Helios stesso deve essere la “divinità” di cui si parla al fr. 1.3 e la “strada vociferata” così descritta deve essere il corso che Helios percorre ogni giorno nel cielo».[4] La dea che manovra il chiavistello della porta non può essere che Díkē, la Dea della giustizia che è garante dell’ordine cosmico e della successione regolare del giorno e della notte.
Nell’interpretazione dei contenuti del Proemio, occorre anche tenere presente che il mondo sotterraneo era considerato come il mondo dei morti. Quando la Dea si rivolge a Parmenide per la prima volta, lo invita a rallegrarsi e gli fa presente che il suo viaggio fin lì non è stato determinato da una brutta sorte, cioè dalla morte, come accade, appunto, agli uomini comuni. Insomma, Parmenide si trova a percorrere la strada dei morti pur non essendo ancora morto, e ciò per volere della legge (Thémis) e della giustizia (Díkē).
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Chi è davvero, allora, la divinità che intrattiene Parmenide? Sono state ovviamente avanzate innumerevoli interpretazioni. Seguendo un’ipotesi già prospettata da Walter Burkert, secondo Palmer: «…l’interpretazione più plausibile e facilmente confermabile è che la dea sia la stessa Núx o Notte. La prima ragione per sostenere questa identificazione è semplice e immediata e si può trovare nello stesso testo del proemio. Le figlie di Helios, seguendo il ciclo cosmico, portano Parmenide esattamente alla dimora della Notte (dōmata Nuktòs) dalla quale provengono, e la Dea che lo saluta al suo arrivo gli dà il benvenuto nella “sua casa”».[5] Secondariamente, nella cosmologia di Parmenide, nella seconda parte del Poema, compaiono come principi fondamentali proprio Luce e Notte (interpretati dalla tradizione come fuoco e terra). Naturalmente sono state proposte molte altre interpretazioni, più o meno fondate.[6] La forza nell’interpretazione di Palmer sta nel fatto che gli indizi si trovano nel testo stesso di Parmenide.
L’identificazione dei luoghi e delle figure del proemio corrisponde comunque a un materiale mitologico che era molto diffuso in un’area amplissima e che aveva come centro la spiegazione dei cicli cosmici e del contrasto tra il mondo supero e il mondo sotterraneo. È assai probabile che siano presenti anche elementi legati alla cultura pitagorica. Sono stati anche rilevati elementi legati alla cultura religiosa locale di Elea.[7]
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Gli ultimi versi (28-32) del frammento sono i più rilevanti dal punto di vista strettamente filosofico poiché contengono una sorta di anticipazione programmatica dell’intero contenuto della rivelazione della dea, il quale costituisce poi la filosofia dello stesso Parmenide. Essi introducono, tra l’altro la coppia, concettuale dóxa e alētheía, la cui specifica interpretazione è assai legata all’interpretazione più generale della filosofia di Parmenide. La vulgata tradizionale, secondo la quale egli sarebbe stato sostenitore di un monismo stretto, non poteva che caricare esclusivamente la alētheía di tutti i valori ontologici ed epistemologici, e, come conseguenza, doveva svalutare completamente la dóxa, doveva cioè assimilarla a pura illusione. Il sopravvenire di nuove e diverse interpretazioni, in termini di monismo debole (generous monism, come dice Palmer), ha indubbiamente riacceso la questione dei rapporti tra le due parti del Poema e ha finito per conferire maggiore importanza alla dóxa, la quale viene ora considerata come riferentesi al mondo fenomenico, in perfetta continuità con la tradizione della scienza ionica.
Il problema teorico più consistente sta nella definizione della traduzione più opportuna per il termine alētheía. Sono qui in gioco due accentuazioni di significato. In senso principalmente gnoseologico, sarebbe la verità, mentre in termini ontologici sarebbe la realtà. Posto che il filosofo non avesse ancora distinto adeguatamente i due punti di vista, si potrebbe pensare a qualcosa come la «realtà autentica». Parmenide sarebbe stato il primo filosofo a rendersi conto dell’esigenza di distinguere tra una realtà autentica, accessibile con l’argomentazione razionale (come mostra di saper fare la Dea), e una realtà fenomenica che è quella che emerge nelle percezioni e nelle rappresentazioni degli uomini.
Ciò che non è ancora del tutto chiaro è in quale rapporto venissero a trovarsi queste due forme di realtà e di conoscenza che comunque – pare ormai di capire – erano da Parmenide considerate come entrambe esistenti e valide, seppure l’una gerarchicamente subordinata all’altra. Palmer parla di una co-presenza, nella visione parmenidea, tra l’ente com’è conosciuto discorsivamente in termini di realtà autentica e l’ente fenomenico, come è conosciuto attraverso i sensi.[8] Se questo è vero, Parmenide non potrebbe proprio essere considerato come l’ultimo profeta di un essere[9] unitario, prima della decadenza del pensiero occidentale, ma sarebbe proprio colui che ha riconosciuto per primo che «l’essere si dice in molti modi»[10] determinando così la possibilità di una ontologia di tipo pluralistico. Il pluralismo ontologico, che è stato ingenerosamente imputato a Socrate, a Platone e a tutti i loro successori, da filosofi come Nietzsche ed Heidegger e da tutti i loro imitatori, dovrebbe essere, in primo luogo, imputato a Parmenide.
 
17/11/2014
            Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
1986   Capizzi, Antonio
Introduzione a Parmenide, Laterza, Bari.
 
1999   Cerri, Giovanni   (a cura di)
Parmenide di Elea. Poema sulla natura, Rizzoli, Milano.
 
2009   Coxon, A. H.
The Fragments of Parmenides. A Critical Text with Introduction and Translation, the Ancient Testimonia and a Commentary, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1986]
 
2006   Graham, Daniel W.
Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
2009   Kahn, Charles H.
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1999   Kingsley, Peter
In the Dark Places of Wisdom, The Golden Sufi Center.  Tr. it.: Nei luoghi oscuri della saggezza, Marco Tropea Editore, Milano, 2001.
 
2008   Mourelatos, Alexander P. D.
The Route of Parmenides. Revised and Expanded Edition, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1970]
 
2009   Palmer, John
Parmenides and Presocratic Philosophy, Oxford University Press, Inc., New York.
 
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1945   Russell, Bertrand
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1991   Reale, Giovanni  &  Ruggiu, Luigi   (a cura di)
Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, Rusconi Libri, Milano.
 
1965   Tarán, Leonardo
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, Princeton University Press, Princeton.
 
 


NOTE


 
[1] La dea, tra le altre cose, ingiunge a Parmenide di ricordare e riferire quanto rivelato.
[2] Cfr. su questo punto Palmer 2009: 52-53.
[3] Cfr. Palmer 2009: 53. La discesa nell’oltretomba è un motivo conduttore assai diffuso e ha indubbiamente legami particolari con la cultura pitagorica che pare non fosse estranea a Parmenide e alla città di Elea.
[4] Cfr. Palmer 2009: 56.
[5] Cfr. Palmer 2009: 58.
[6] Secondo Cerri, si tratterebbe di Persefone. Anche Kingsley – uno studioso non accademico le cui teorie sono considerate piuttosto discutibili dalla comunità scientifica – ha sviluppato una complessa teoria che è incentrata intorno a Persefone.
[7] Capizzi 1986 ha tentato una reinterpretazione del contenuto del Poema a partire dalla situazione politico sociale di Elea e dalla topografia dei luoghi. Pur avendo messo in luce aspetti assai interessanti, la sua interpretazione in certi punti risulta piuttosto artificiosa e poco fondata. Si tratta di una interpretazione che ha avuto una accoglienza piuttosto fredda da parte degli studiosi. Un’altra interpretazione analoga, incentrata soprattutto sugli aspetti magico religiosi e pitagorici, è quella di Kingsley 1999, anch’essa non bene accolta dalla comunità degli studiosi.
[8] Cfr. Palmer 2009: 180 e segg..
[9] Parmenide, oltretutto, non parla quasi mai di «essere», bensì di «ente». Si tratta di una differenza non piccola che è stata sistematicamente ignorata dagli acrobatici traduttori nostrani, ansiosi di far collimare il loro filosofo con le metafisiche ottocentesche di cui erano assidui fautori. Anche i traduttori francesi hanno cominciato a rendersi conto che Parmenide non si è mai occupato dell’être, bensì dell’ente, per cui hanno cominciato a introdurre, nelle traduzioni, il loro desueto participio presente che suona come étant. Gli inglesi non hanno mai avuto problemi, perché being è esattamente un participio presente che funziona a perfezione (e che noi traduciamo sistematicamente in modo errato, come «essere» anziché come «essente» o «ente»).
[10] Questa espressione è tipicamente aristotelica.