martedì 30 aprile 2013

Rimbocchiamoci le maniche

 

Contro i troppo facili ecumenismi della nostra epoca, dovrebbe essere ricordato che il Primo Maggio (International Workers’ Day) è la festa dei lavoratori dipendenti. Tutti gli altri possono anche partecipare, ma la festa è dei lavoratori dipendenti. Per individuarli, resta basilare il criterio marxiano: sono lavoratori dipendenti quelli che non possiedono i loro strumenti di produzione. Certo, col tempo si sono aggiunti altri diversi tipi di dipendenti, soprattutto al di fuori dell’industria. Resta comunque il comune denominatore di lavorare in condizione di dipendenza. Ciò fa sì che il lavoro, la più importante fonte di realizzazione personale, sia reso disponibile solo entro le condizioni di dipendenza vigenti, cioè solo entro gli assetti sociali, economici e culturali o, se si preferisce, nel contesto della società e dalla storia in cui ciascuno è immerso. Questa condizione, paradossalmente, fa del lavoratore dipendente il soggetto politico per eccellenza, colui che per poter realizzare sé stesso attraverso il suo lavoro non può prescindere dall’intero contesto ordinatore della polis cui appartiene. Questo è il fondamento oggettivo del legame tra lavoro e cittadinanza. Questo è anche l’unico senso accettabile di quel “fondata sul lavoro” che compare nella nostra Costituzione. Oggi tuttavia tutto il mondo è diventato polis e la dipendenza si è così ampliata enormemente.


In Occidente, per un certo periodo storico, la prospettiva dell’emancipazione del lavoro ha avuto qualche successo, grazie alle politiche riformiste degli Stati nazionali che hanno dato luogo a varie forme di protezione. Tutti questi diritti oggi sono tuttavia messi in discussione dalla concorrenza dei lavoratori dei paesi meno sviluppati. Solo oggi siamo costretti a convenire che l’emancipazione effettiva dei lavoratori potrà avvenire solo nel contesto dell’emancipazione di tutti i lavoratori del mondo. Questa nuova chiarezza, questa nuova lucidità che la storia ci propone e ci impone, invece di attrezzare il mondo del lavoro per realizzare il cambiamento definitivo, lo ha invece ulteriormente disarticolato e frantumato (rivelando a tutti una sua inaccettabile centratura occidentalistica). Invece di globalizzare la lotta per l’emancipazione del lavoro si è preferito fare la lotta contro la globalizzazione e chiudersi nelle frontiere nazionali, nella difesa di quel che era stato acquisito, erigendo barriere doganali, combattendo profughi, migranti, pretendendo protezioni e protezionismi di vario genere, chiedendo agli Stati nazionali interventi di welfare divenuti ormai impossibili.


Di fronte al mondo globalizzato, il mondo del lavoro avrebbe dovuto essere in grado di elaborare, proporre e imporre una risposta politica globale, una politica del lavoro planetaria (forse l’internazionalismo non aveva tutti i torti). Esso è invece ancora prigioniero delle frontiere nazionali e questa è la causa fondamentale della sua attuale sconfitta (non certo il capitalismo finanziario, che in quanto tale, fa solo il suo mestiere). Così l’obiettivo dell’emancipazione attraverso il lavoro è stato messo progressivamente da parte, sia nel mondo sviluppato sia in quello sotto sviluppato, per lasciare spazio alla concorrenza individuale, ai mercati del lavoro, quei luoghi dove gli esseri umani compaiono e si scontrano per lo più in quanto merci, in quanto unità di conto. Molti hanno pensato che questo sacrificio della componente umana avrebbe per lo meno assicurato la tenuta dello sviluppo economico, ma si è ampiamente visto che non è proprio così. Sviluppo economico e sviluppo umano non possono essere separati. Alla radice del mancato sviluppo c’è sempre una mancanza di sviluppo umano.


Oggi manca dunque decisamente una cultura planetaria del lavoro adeguata ai tempi. Non è più praticabile la vecchia cultura della lotta di classe, legata a classi che non ci sono più, legata all’Occidente coloniale, legata agli stati nazionali, legata a uno schema conflittuale che si è dimostrato sterile e dannoso (gli Stati di classe hanno dato esiti drammatici in primo luogo per gli stessi lavoratori). È diventata difficilmente praticabile anche la cultura delle riforme, sia per la crisi finanziaria degli Stati, sia perché il cambiamento suscita resistenze, paure e conflitti di interesse. In questo nuovo contesto gli attuali movimenti dei lavoratori e le attuali organizzazioni sindacali sono quanto mai limitati e insufficienti. A livello mondiale non esiste un’organizzazione sindacale capace di tener testa al Fondo monetario e alla Banca mondiale, o alle organizzazioni del commercio internazionale. Non esiste un diritto internazionale del lavoro che assicuri minime condizioni uguali per tutti. Del resto, in Europa, più o meno come fanno i singoli Stati, i diversi sindacati nazionali non intendono fondersi in un sindacato europeo. È vero che mancano i livelli di contrattazione, ma non si sta facendo nulla per istituirli.


Nel nostro Paese in particolare il mondo del lavoro risente di un’arretratezza cronica: la vecchia cultura del lavoro appare ormai del tutto inadeguata, una nuova cultura del lavoro non è ancora all’orizzonte. Le organizzazioni sindacali continuano a essere divise tra loro, ricalcando vecchie logiche politiche e schemi di potere. Nonostante la retorica unitaria, nessun passo avanti è stato fatto per arrivare all’unificazione delle sigle confederali e i passi unitari che si erano fatti negli anni Settanta sono stati smantellati con cura. I sindacati rappresentano sempre più coloro che il lavoro ce l’hanno e sono sempre più incapaci di tutelare i giovani, le donne, i disoccupati, gli immigrati. Ben pochi sforzi sono stati fatti per innovare i vecchi schemi di contrattazione, per modificare la logica delle vecchie relazioni industriali. Le riforme del mercato del lavoro, che in altri paesi hanno garantito buoni livelli di occupazione e hanno fatto da volano allo sviluppo economico, nel nostro paese sono osteggiate. Del resto quando si è cercato di fare qualcosa, si sono fatti solo dei danni. Il problema più grave è senz’altro quello che oppone occupati e disoccupati, vecchi e giovani. Con mezzo secolo di ritardo, si sta appena ora cominciando a ragionare sul salario di cittadinanza. In Europa questo istituto manca del tutto solo in due o tre Paesi. Da noi le varie organizzazioni sindacali sono contrarie, perché temono di perdere il monopolio della contrattazione. Nel nostro Paese poi, i sindacati sono in conflitto quasi su tutto e spesso operano come burocrazie autoreferenziali. Solo dopo decenni di colpevole silenzio, si sta facendo strada, con molta fatica, l’esigenza di una legge che, in ossequio all’art. 39 della Costituzione, regolamenti lo stato giuridico delle organizzazioni sindacali.


Da tutto ciò si ricava che la situazione presente dei lavoratori dipendenti non è certo esaltante. L’emancipazione futura, tuttavia, se verrà, non potrà che essere opera dei lavoratori stessi, non solo del nostro Paese ma di tutto il mondo. Certo, viva la festa dei lavoratori ma, per favore, rimbocchiamoci le maniche!

 

Giuseppe Rinaldi (30/04/2013)

 (In occasione del 1° maggio 2013)












sabato 27 aprile 2013

I galli sulla "monnezza". La attuale situazione del PD e i nostri compiti

  


1. Farà piacere a molti elettori del centro sinistra sapere che l’attuale Partito Democratico è composto di ben sedici correnti ufficiali[1] le cui denominazioni sarà bene qui riportare per dovere di informazione. Ci sono ben sette correnti di area socialdemocratica: i Riformisti e Democratici/Dalemiani, i Veltroniani, A Sinistra, Democrazia e Socialismo, Semplicemente Democratici, Vivi il Pd - Cambia l’Italia, Insieme per il Pd. Ci sono poi cinque correnti cosiddette di area cristiano-sociale cui appartengono i Popolari/Quarta Fase, i Democratici Davvero/Bindiani, i Teodem, gli Ulivisti e i Cristiano Sociali. Abbiamo poi tre gruppi di area liberale e cioè l’Associazione TrecentoSessanta/Lettiani, i Democratici Rinnovatori e Coraggiosi (sic!) e i Liberal Pd. Non manca poi ancora l’area ecologista cui – del tutto inspiegabilmente – appartiene un solo gruppo, quello degli Ecologisti Democratici. Queste sarebbero le cosiddette sensibilità del PD. Questa sarebbe tutta intera la famosa ricchezza di punti di vista del PD. Se consideriamo che le grandi ideologie politico sociali del Novecento, quelle almeno che sono potabili in una democrazia, non sono più di tre o quattro, si resta davvero meravigliati di fronte alla sottigliezza dei Democratici, capaci di organizzarsi e darsi battaglia per delle questioni che i comuni mortali sono del tutto incapaci di percepire.

 

2. È chiaro che, dalla fondazione a oggi, nel Partito Democratico non si è formata alcuna vera amalgama, né tra la classe dirigente, né tra i militanti, tanto che il partito assomiglia sempre più a un condominio litigioso, dove ciascun gruppo lavora per proprio conto, e spesso contro gli altri. Osservava, ormai molto tempo, fa Giorgio Ruffolo in un suo articolo:[2] «C’è chi dice che il Partito Democratico non c’è più. C’è chi dice che non c’è mai stato. Sulla sua esistenza grava un peccato originale. Pur di non riconoscersi in una identità socialista questo nuovo partito ha scelto un non-luogo politico, esponendosi al rischio, puntualmente verificatosi, di costituirsi come congerie di gruppi e progetti disparati. […] Il fatto è che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni, Sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica in pubblicità». Identità socialista a parte, non si può che concordare con la diagnosi di Ruffolo. Poniamo pure che, dopo il craxismo, una ripresa del socialismo democratico in Italia fosse un’impresa ardua. Poniamo pure che avesse un senso il progetto di costruire un partito nuovo capace di comporre la sinistra laica e la sinistra cattolica sotto l’ombrello della cultura repubblicana e democratica. Ebbene – trattandosi di un progetto nuovo, di cui peraltro non c’è uguale in Europa – occorreva allora realizzare un forte investimento nella costruzione della casa comune, nella costruzione di un’identità repubblicana e democratica. Bisognava definire con cura quale fosse il modello sociale da realizzare (cosa che avrebbe comportato scelte nette in campo sociale, in campo economico e in campo politico istituzionale, in campo culturale), quale fosse il modello di democrazia che si aveva in mente, quali fossero gli interessi da difendere e quali fossero gli interessi da colpire. E tutto ciò andava discusso e spiegato ai militanti, agli elettori, ai cittadini.

 

3. Invece, scrive sempre Ruffolo nel suo vecchio articolo, “…non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del Partito Democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, istituzionali e sociali capace di concretarla. Niente di tutto questo. Al suo posto c’è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico angusto proponendo temi; un’azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le iniziative della parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla scelta contingente delle alleanze. Non si discute su che cosa ci si deve impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c’è da stupirsi se la gente non si appassiona alle vicende del Partito Democratico? Se perde consensi e simpatie?”. L’articolo di Ruffolo è di tre anni fa e dice cose che erano evidenti già da un pezzo.

 

4. Se tuttavia la ricchezza dispersiva delle correnti del PD fosse stata almeno produttiva, ci sarebbe ben poco da obiettare. Discorsi come quelli di Ruffolo potrebbero essere accantonati come i discorsi dei “soliti intellettuali”. Purtroppo questo assetto del Partito si è dimostrato disastroso alla prova dei fatti. Può essere allora utile riconsiderare i passaggi essenziali della storia recentissima del Partito Democratico. Il Partito Democratico è nato, dopo un’interminabile gestazione,[3] nell’ottobre del 2007 e il primo segretario ne è stato Walter Veltroni. Quattro mesi dopo, nel gennaio 2008, si ebbe la caduta del governo Prodi (impallinato dall’alleato Mastella). Il nuovo partito appena fondato riuscì a perdere le elezioni pur avendo conseguito il 37,5% dei voti alla Camera (insieme all’IDV). Un anno dopo, a febbraio, in seguito a ulteriori risultati elettorali negativi e a conflitti interni insanabili, Veltroni diede le dimissioni e gli subentrò, provvisoriamente, Franceschini. Alle elezioni europee del 2009 il PD, invece di crescere, ebbe solo il 26,1% dei voti. In questo clima depressivo il Partito cercò allora di darsi una segreteria e un’organizzazione più stabile. Così avvenne che il 25 ottobre 2009 Bersani divenne segretario, battendo i propri contendenti (Franceschini e Marino) nelle elezioni Primarie. Non era sfuggito a nessuno che la vittoria di Bersani rappresentava la vittoria degli apparati dei vecchi partiti della Prima repubblica confluiti nel PD e delle loro regole del gioco. Ci si poteva comunque attendere una forte ripresa di iniziativa politica e un aumento dei consensi, tanto più che l’ultimo governo Berlusconi stava distruggendo l’Italia (e Grillo non c’era ancora). La segreteria Bersani invece sviluppò una fiacca opposizione al governo Berlusconi e fu costantemente dominata dal problema delle alleanze. Si scelse cioè di fare un’opposizione tutta concentrata sul bilancino degli accordi con gli altri partiti per fare coalizioni che potessero risultare vincenti.

 

5. Nonostante le scarse iniziative del partito, i pessimi esiti del governo Berlusconi sollevarono l’indignazione popolare e determinarono comunque buoni risultati del centro sinistra alle elezioni amministrative del 2011 e la vittoria dei “sì” nei quattro referendum (che avevano però trovato molte opposizioni nel partito). Questi due eventi avevano rappresentato un segnale complessivo di rimonta della sinistra che il partito non seppe tuttavia cogliere. Va ricordato che la segreteria PD era stata più volte sconfessata dalla base popolare nelle primarie per la scelta dei candidati a sindaco di importanti città italiane. A questa nuova domanda politica di opposizione il partito rispose con un timido programma di alleanze a sinistra tra PD, IDV e SEL (la famosa “foto di Vasto”). Tuttavia il progetto non venne mai portato a termine perché fu subito bloccato dall’opposta tendenza interna all’alleanza con l’UDC di Casini. Come l’asino di Buridano, Bersani non riuscì né a incassare l’alleanza con l’UDC né a dare seguito alla foto di Vasto. Così quando, non per merito dell’opposizione, Berlusconi fu costretto a dimettersi (novembre 2011), il partito di Bersani continuò a essere inchiodato al 25% e a non avere deciso nulla in termini di politica delle alleanze.[4] L’impreparazione più totale a condurre una battaglia elettorale[5] (nonostante l’avversario Berlusconi fosse allora debolissimo) e l’urgenza della crisi finanziaria suggerirono così di dare vita al governo Monti (dal novembre 2011 fino a oggi), determinando una lunga sequela di compromessi con il PdL, senza ottenere nessuna contropartita. La partecipazione al governo Monti determinò oltretutto anche l’allontanamento con l’IDV e molte difficoltà con SEL.

 

6. Durante il governo Monti non è stato fatto nulla che somigliasse a una seria preparazione alla battaglia elettorale del 2013. Con molta difficoltà si riuscì a formare, solo all’ultimo momento, una coalizione striminzita (Italia Bene Comune) e si decise di fare le primarie di coalizione per la scelta del candidato a Presidente del Consiglio. Oltretutto il PD ha dato chiaramente anche il suo contributo a rendere impossibile una riforma elettorale, evidentemente convinto di poter godere dei vantaggi del porcellum.[6] Come è noto, le primarie di coalizione, che hanno dato vita a un dibattito piuttosto ampio, ma anche assai superficiale, sono state vinte ancora una volta da Bersani, nonostante la forte contrapposizione del nuovo competitore Renzi.[7] Ancora una volta sono stati determinanti gli apparati e i centri di potere dentro e fuori al partito. Nel periodo delle primarie del 25 novembre 2012 si è registrato il massimo dei consensi nei sondaggi (32-34%) che comunque non è mai arrivato alla quota che aveva ottenuto Veltroni. Come è ormai riconosciuto da tutti gli osservatori, dopo la designazione di Bersani alle Primarie di coalizione e le mini primarie per i parlamentari, il partito si è seduto nell’attesa della vittoria (“Smacchieremo il giaguaro!”). La strategia di non prendere posizione su niente per non scontentare (all’interno e all’esterno) è stata disastrosa e ci ha portato alla facile rimonta di Berlusconi, alla vittoria clamorosa di Grillo e alla attuale situazione di blocco politico e istituzionale. Ce n’era a sufficienza affinché tutta la segreteria si dimettesse il giorno dopo la pubblicazione dei risultati elettorali. Siamo ancora in attesa di avere dai dirigenti del PD un’analisi attendibile sulle cause di questa sconfitta clamorosa.

 

7. Invece, grazie ancora al porcellum, il partito perdente nei fatti è stato incaricato di fare il nuovo governo, in un quadro reso ora impossibile dalla presenza del M5S. Se la cronaca di questi anni della segreteria Bersani ne ha mostrato abbondantemente l’inconsistenza strategica, quello che è avvenuto, dalle ultime elezioni in qua, mostra una sconcertante incapacità tattica (dalla paura di tornare alle urne, alla rincorsa di Grillo, alla rincorsa del pastrocchio col PDL, fino ai tremendi pasticci legati all’elezione del Presidente della Repubblica). Andare a chiedere il soccorso di Napolitano perché il partito non riusciva a mettersi d’accordo su un candidato è stata senz’altro una pubblica umiliazione assai più grave di quella subita nello streaming con i grillini. È ormai evidente a tutti che il vero problema di questo Paese non è Berlusconi, ma è l’incapacità del centro sinistra di costruire un’alternativa valida per il Paese. «Veniamo da lontano e andiamo lontano», si diceva una volta. Da tempo sembra subentrata nel PD una colossale miopia che ha tagliato i ponti con la migliore tradizione del passato e che gli impedisce di guardare oltre la sopravvivenza quotidiana delle sue numerose fazioni. Ormai non si discute più di nulla, ci si schiera sulle persone. Capi e capetti delle infinite fazioni, come tanti galli sulla “monnezza” - come dicono a Napoli, continuano a beccarsi e a litigare, mentre il Paese va in rovina.

 

8. Dopo avere fatto il disastro, naturalmente ora pretendono di essere sempre loro a rimediare. Sicuramente ci sono stati dei problemi, siamo il partito dalle tante sensibilità, sicuramente si aprirà una discussione,… . Non viene neppure loro in mente che dovrebbero – per parafrasare la corrente Serracchiani - semplicemente andarsene. Questo singolare meccanismo di cui il Paese è prigioniero va ben oltre il PD, investe un po’ tutti i partiti e merita perciò una riflessione. La politica dell’emergenza entro cui viviamo da alcuni decenni ha una sua logica, comprensibile soltanto nell’ambito dello scambio mafioso. Tutti conoscono il cavallo di ritorno tipico dell’agire mafioso (una volta si faceva con i cavalli). Hai comprato l’auto nuova? Qualcuno te la ruba e ti informa su come fare a riaverla. Paghi il pizzo e ritrovi la tua auto bella e lustra come prima. Insomma, io ti creo il problema, tu mi paghi e io risolvo il problema che ti ho creato. La politica in Italia funziona allo stesso modo. I partiti creano i problemi (che non ci sarebbero altrimenti). Paghiamo loro il pizzo in termini di consenso elettorale e i partiti ci promettono di risolvere i problemi che loro stessi hanno creato. Così i partiti diventano indispensabili. Più siamo sull’orlo dell’emergenza, più abbiamo bisogno di loro. Chi ha votato per i grillini si è accorto che in Italia i partiti vivono esclusivamente sulla riscossione del pizzo.

 

9. Il caso del Partito Democratico è oggi davvero esemplare, direi paradigmatico. È vero che abbiamo una legge elettorale demenziale. Ma se un partito avesse effettivamente il consenso di una parte consistente degli italiani riuscirebbe a vincere con qualsiasi legge elettorale.[8] Quando c’è uno stallo del genere e quando non c’è alcuna speranza di cambiare la legge elettorale, l’unica cosa è tornare alle urne. Gli elettori non sono proprio dei subnormali e, visto quel che è capitato nella prima tornata, potrebbero prendere le loro precauzioni (sarebbe soltanto una versione particolare del tanto osannato doppio turno!). Invece il PD (e non solo lui) ha il terrore di tornare alle elezioni, perché, nella situazione in cui si trova, non gli resterebbe che perdere di nuovo e di più. Allora è meglio tirarla per le lunghe. Così si tiene il paese nell’emergenza e così si mantengono le poltrone appena conquistate, che salterebbero con ogni probabilità in caso di nuove elezioni. Il tutto viene spiegato in termini di responsabilità, per salvare la Patria dal tracollo. Questi partiti vivono così bene sull’emergenza, tanto che, se l’emergenza non c’è, la creano.

 

10. Non bisogna neanche illudersi troppo sui progetti di scissione o di rifondazione di un nuovo partito della sinistra da parte di quegli stessi che non sono riusciti a tenere in piedi il PD. La promessa degli scissionisti è che, una volta troncati i legami con il marcio, con i cattivi, si riuscirà a fare finalmente il partito dei buoni. Per come vanno le cose, in uno qualunque dei 16 gruppettini in cui il Pd potrebbe sfasciarsi, ci sarebbero sempre, accanto ai pochi ingenui e sinceri, i furbacchioni pronti a ripetere il giochetto del cavallo di ritorno. Appoggiateci perché siamo indispensabili. Appoggiateci non per le nostre qualità, ma perché altrimenti senza di noi sarebbe la catastrofe. Non sono neanche tanto credibili i pianti e i lai di coloro che, dentro il PD, si ribellano oggi ai loro leader, quelli che occupano le sedi, quelli che invocano la pulizia. Per loro vale la stessa domanda che abbiamo fatto ai seguaci di Maroni dopo la crisi della Lega Nord: «Scusate, ma voi dove eravate?». Si dice ora: «Faremo al più presto il Congresso». Il Congresso risolverà tutto. Questa è la grande promessa. Qualcuno però aveva già detto che le Primarie erano una specie di Congresso del Pd. Poi qualcun altro si è accorto che le elezioni del Presidente della Repubblica erano un’altra specie di Congresso del PD, svolto in diretta di fronte a milioni di italiani. Il periodo, non breve, che si prospetta ora con il Governo Letta, sarà senz’altro un lungo congresso del PD. Il PD vive in un Congresso Infinito e Permanente. Insomma, dobbiamo governare con Berlusconi per dare tempo alle fazioni del PD di fare il Congresso.

 

11. Ma la colpa non è solo dei dirigenti e dei quadri del partito. La colpa è anche di quei due o tre milioni di elettori di sinistra (tra cui il sottoscritto) che hanno pagato due euro per fare le primarie. In democrazia, quando non si è soddisfatti della proposta politica non li si vota più. Invece come tanti asini abbiamo continuato a votare, scegliendo tra i nomi improbabili che ci venivano proposti, illudendoci di avere libertà di scelta. Il quadro migliore di questo elettorato/ mandria del centro sinistra è stato tracciato da Ricolfi qualche tempo fa, in un articolo su La Stampa: «…la fortuna-sfortuna più importante della sinistra è il suo elettorato. Delle tre opzioni di cui, secondo la celebre analisi di Albert Hirschman, l’elettore-consumatore può servirsi, l’elettore di sinistra ne trascura sempre una: la defezione (exit). All’elettore progressista piacciono solo le altre due: la protesta (voice) quando le elezioni sono ancora lontane, la lealtà (loyalty) al momento del voto. L’elettore di sinistra, secondo tutte le indagini, è il più fedele, il più leale, o il più gregario, se preferite. Può mugugnare, indignarsi, criticare, parlare male del Pd per anni e anni ma poi, arrivato al dunque, immancabilmente mette la crocetta nella casella giusta. Con ciò, verosimilmente, raggiunge lo scopo che si prefigge (togliere voti all’odiato Cavaliere), ma ottiene anche un effetto che forse non desidera: quello di permettere alla classe dirigente del Pd di rimandare, ancora una volta, il momento di cambiare. Rinunciando a inviare ai politici l’unico segnale che essi (talora) mostrano di comprendere, l’elettorato di sinistra è destinato a tenersi i dirigenti che ha».[9] Non so se mi sbaglio, ma mi sembra che l’ora della defezione sia proprio arrivata. Non vi voteremo mai più.

 

 

27/04/2013

Rivisto il 15/05/2013

Rivisto il 9/03/2021

 

NOTE

 

[1] La banale fonte è Wikipedia. Naturalmente è possibile che, negli ultimissimi tempi, alcuni gruppi si siano disfatti e altri siano nati. Questa sarebbe la “vivacità” del Partito Democratico.

[2] Giorgio Ruffolo, La Crisi di un partito senza identità, in La Repubblica del 22/9/2010. L’articolo è del 2010, dunque quel che si è visto in questi giorni non può certo dirsi una sorpresa.

[3] È bene ricordare che il famoso episodio in cui Nanni Moretti disse, tra l’altro, «Con questi dirigenti non vinceremo mai! […] Non sanno più parlare al cuore, alla testa e all’anima delle persone», era avvenuto nel  2002. Il Film in cui compare l’invettiva «D’Alema, dì una cosa di sinistra!» è invece del 1998.

[4] Non mi stanco di ripetere che una percentuale del 25% nei sondaggi non tiene conto del circa 40% di astenuti, incerti, schede bianche, ecc… Questo significa che un 25% nei sondaggi corrisponde, in realtà, un 12-15% di consensi sugli aventi diritto al voto.

[5] Circola in questi giorni un mito secondo il quale l’errore di Bersani sarebbe stato quello di non chiedere di andare alle urne subito e di avere invece appoggiato il governo Monti. Ci si dovrebbe ricordare che il PD non aveva un programma, non aveva un quadro chiaro di alleanze e non voleva andare a votare col porcellum perché aveva paura di perdere.

[6] Gli stessi termini del compromesso sulla legge elettorale, rifiutati nel 2012, si ripresenteranno ora con la legge elettorale che dovrebbe essere approntata dal governo Letta (se nascerà). Niente ci assicura che il risultato sarà migliore del porcellum.

[7] Il PD ha perso tre milioni di voti, soprattutto nelle regioni più fedeli. Evidentemente per scegliere un buon candidato non bastano le primarie. Gli elettori del PD obiettivamente si sono sbagliati: hanno scelto il leader che aveva più probabilità di perdere.

[8] Il PD non ha ancora saputo spiegare in modo convincente perché ha perso le elezioni. Di solito, chi perde le elezioni sta fermo per un turno (negli USA per quattro anni) e si attrezza per vincere le elezioni successive. In Italia, quelli che hanno perso le elezioni si apprestano a governare insieme! Va detto che un simile miracolo non sarebbe stato possibile senza l’apporto determinante della strategia isolazionista dei grillini.

[9] Luca Ricolfi, La Sinistra che non impara dai suoi errori, su La stampa del 27-2-2013.