martedì 19 aprile 2011

Psicoanalisi e danni collaterali. Su "Habemus papam" di Nanni Moretti (2.1)

habemus_papam
1. Habemus papam è sicuramente un film interessante e, per molti aspetti, insolitamente ben fatto. Si tratta forse di uno dei migliori film di Nanni Moretti. La storia procede con l’alternanza sapiente di toni comici e drammatici, seppure con vari intermezzi e digressioni, verso l’epilogo della grande rinuncia. Per quanto si tratti di una storia paradossale, si sviluppa con lucida consequenzialità e finisce per catturare lo spettatore. Michel Piccoli ha fornito una grande prova di recitazione. Passata però la prima favorevole impressione, se ci si domanda cosa abbia voluto dire Moretti con questo film, ci si accorge che i conti non tornano del tutto e che, più che le cose esplicitamente dette, nella trama del film sembrano pesare le cose non dette. Si ha l’impressione che Moretti abbia evitato di dichiarare fino in fondo quel che pensa, forse per opportunismo, forse per buona educazione, forse per non sconcertare il pubblico, forse per lasciarci il gusto di scoprirlo da noi. Se proviamo a cercare di individuare quale sia la tesi del film, ci troviamo immediatamente in grandi difficoltà. Ciò vale naturalmente se si ammette che una qualche tesi ci debba essere: oggi sono di moda opere così aperte che finiscono per essere addirittura spalancate, per essere cioè compatibili con tutto e il contrario di tutto. Ma non sembra questo il caso nostro. Se una tesi c’è, comunque non si trova certo in superficie.
 
2. Il film[1] si apre, in Piazza S. Pietro, con la cerimonia funebre per la morte del papa e con il conclave per l’elezione del successore. Il tutto viene rappresentato come una palese situazione di morte del padre. La folla in piazza attende, gli occhi delle telecamere sono puntati sull’evento, i cardinali sfilano recitando la litania dei Santi, entrano nella Cappella Sistina e ha inizio il conclave. Ci sono i nomi dei papabili che tutti già conoscono e le prime votazioni si concentrano su di essi, anche se nessuno di loro riesce a prevalere. A un certo punto, contro ogni previsione, senza alcuna spiegazione esplicita, i voti si concentrano sul cardinal Melville (Piccoli), praticamente uno sconosciuto, il quale, dopo qualche attimo di sbalordimento, accetta il suo nuovo ruolo. Tuttavia, al momento di presentarsi ufficialmente al balcone per la proclamazione, il nuovo papa non riesce letteralmente a entrare in scena. Viene colto dal panico, emette un urlo straziante e si accascia. Racconterà di avere avuto un’esperienza di estraneazione, una specie di perdita della memoria del proprio passato. Tutti i tentativi di rasserenarlo sono vani, per cui si giungerà a una situazione di stallo. Il nuovo Papa è già stato eletto, ma non ancora proclamato, per cui il conclave non può concludersi e i cardinali saranno costretti a stare rinchiusi nella cappella fino alla fine della vicenda.
 
3. Dopo una visita medica di controllo, che accerta il buon stato di salute del nuovo pontefice, viene così convocato, con urgenza e segretezza, uno psicoanalista, il prof. Brezzi (Moretti). Egli tuttavia non riesce a trattare l’insolito caso per una serie di limitazioni imposte dai cardinali. Viene allora svolto un secondo tentativo di analisi, questa volta in incognito, presso una psicoanalista all’esterno del palazzo, l’ex – moglie di Brezzi (Buy), che ugualmente non sembra avere alcun effetto certo. Durante l’uscita clandestina per la seduta di analisi, il neo eletto, ancora sconvolto, elude la sorveglianza degli accompagnatori, fugge e comincia a vagare per la città. La fuga viene tenuta nascosta all’opinione pubblica e agli stessi cardinali, cui viene raccontata la pietosa bugia del papa raccoltosi in preghiera nei suoi appartamenti. Una guardia viene incaricata di mostrare ogni tanto la propria ombra e di scuotere le tende, per attestare la presenza del pontefice. Nel corso della fuga, attraverso una serie densa di riflessioni, incontri ed esperienze, il papa neoeletto si riprende e matura progressivamente la decisione del gran rifiuto. Viene alla fine rintracciato e riaccompagnato al conclave per il completamento della proclamazione, ma egli si presenta al pubblico dal balcone dichiarando, contro ogni aspettativa, la propria rinuncia, suscitando così il panico tra i fedeli. Così la finestra resta vuota.
 
4. Viene subito in mente la figura di Celestino V e del suo “gran rifiuto”. Avremmo a che fare, in tal caso, con una constatazione sofferta circa l’impossibilità di esercitare il potere temporale e di mantenere, nello stesso tempo, la propria dimensione spirituale, con una critica alla carenza di spiritualità e alla mondanizzazione della Chiesa. Più ampiamente, se ci si concentra sulla fuga del neoeletto papa e sul suo girovagare per le strade e i quartieri di Roma, non può mancare il richiamo alle molte opere letterarie dove il protagonista, solitamente uomo celebre e famoso, compie un viaggio in incognito in mezzo alla gente comune e finisce per scoprire una nuova realtà, un punto di vista diverso che la sua posizione gli vietava di scorgere. Potrebbe essere il caso del grande inquisitore di Dostoevskij, con il suo Cristo redivivo che prende a girare per il mondo, come per saggiare direttamente i frutti della sua stessa rivelazione. Un invito, dunque, nei confronti della Chiesa, a uscire dai palazzi per frequentare di più le strade del mondo. Sarà anche vero in parte, ma così perdiamo di vista molti altri elementi. Viene anche in mente l’Enrico V di Shakespeare che, prima della battaglia, percorre in incognito l’accampamento e ascolta i discorsi dei suoi soldati, da cui trae una conferma della propria missione storica. Peccato che il novello papa di Moretti tragga invece, dal suo viaggio nel mondo, la determinazione a rinunciare. Tutte ipotesi, insomma, che potrebbero trovare qualche aggancio, cui gli autori hanno senz’altro alluso, ma che non sembrano esaurire la complessità del testo.
5. Si può comunque ridimensionare facilmente l’ipotesi che si tratti di un film critico nei confronti della Chiesa. I cardinali vengono trattati con grande simpatia, sono ritratti come dei giocherelloni ingenui, fiduciosi, speranzosi, sinceramente sconvolti dagli eventi. Di loro viene spesso mostrato il lato umano, gli aspetti prosaici della vita quotidiana. Soprattutto sono convinti, nonostante qualche gag farsesca, nel chiuso del conclave, di interpretare la volontà divina. La scena della luce che si spegne, all’inizio del conclave, con le conseguenze tragicomiche che ne derivano, ha senz’altro un qualche potenziale critico sarcastico sul meccanismo dell’elezione papale, ma rimane sempre nell’ambito della benevolenza. Tutti i cardinali sembrano sinceramente ricercare il bene della Chiesa. Diversi di loro pregano di non essere eletti, anche se altri sembrano aver ricevuto qualche delusione per la mancata osservanza dei pronostici: si veda la scena in cui Moretti comunica ai candidati più chiacchierati le quotazioni su di loro degli scommettitori. Se c’è qualcosa che può infastidire è proprio l’eccesso di candore con cui viene dipinta la compagine dei cardinali. Non c’è traccia di lotte di potere, di complotti, di dissapori, di discussioni esacerbate. Si tratta dunque di un film straordinariamente benevolo nei confronti della Chiesa.
 
6. Oltre ai cardinali, c’è anche un altro protagonista silente del film che viene trattato con assoluta benevolenza: le masse dei fedeli che si accalcano nelle piazze, davanti alle televisioni, che prima hanno pianto il vecchio papa e che ora attendono con ansia la presentazione del nuovo eletto, che reagiscono con sincera partecipazione, mano a mano che gli avvenimenti si svolgono. Ancora più ampiamente, nel film viene spesso messa in scena, senza ombra di critica, l’opinione pubblica mondiale, interessata e partecipe alle vicende vaticane: le telecamere che spiano le fumate, che attendono la dichiarazione di elezione, che scrutano l’ombra alla finestra, che inquadrano il balcone vuoto. Forse l’unico soggetto che viene un po’ satireggiato, ma neanche troppo, è costituito dagli operatori dei media. I giornalisti sembrano poco perspicaci (non distinguono la fumata nera dalla fumata bianca, ripetono senza capire bene quello che stanno dicendo), molto curiosi, ma poco critici. Si capisce che si tratta di docili manovali che non attendono altro che di fare il loro mestiere, cioè di costruire l’immagine mediatica del nuovo papa, che poi è quello che tutti vogliono.
 
7. Chi si aspettava da Moretti un attacco contro la Chiesa gerarchica, o contro la superstizione popolare, sarà dunque sicuramente rimasto deluso. Se queste prime ipotesi non reggono, potrebbe allora trattarsi di una specie di commedia umana incentrata sul dramma interiore di chi è stato chiamato a ricoprire un incarico di enorme responsabilità. In tal caso la chiave del film dovrebbe ritrovarsi nel personaggio del papa. Tuttavia il Papa senza nome messo in scena da Moretti, pur essendo dotato di intensità e di spessore umano, è stranamente privo di caratterizzazioni. Non viene fornita nessuna informazione specifica circa la sua storia personale, la sua vocazione, la sua formazione, i suoi trascorsi nell’ambito della carriera ecclesiastica. Il personaggio poi sembra non avere alcun messaggio particolare da proferire; non ha un insegnamento morale, non è particolarmente critico nei confronti della Chiesa istituzionale,[2] non è un rivoluzionario, ma non è neanche un eremita. Sembra piuttosto un uomo normale, l’uomo qualunque. Per quanto venga anche figurativamente rappresentato dentro a un giardino a forma di labirinto, gli elementi che caratterizzano il suo conflitto interiore non vengono mai esplicitati, non vengono mai argomentati. Tutto sembra ruotare intorno a un improvviso blocco emotivo venuto dal nulla, a un imprevedibile disagio psicologico, esistenziale, che gli impedisce di accettare il suo nuovo ruolo. Il grido “non ce la faccio” rappresenta l’irruzione di un ostacolo sconosciuto allo stesso protagonista.
 
8. Una sola informazione biografica ci viene però fornita, attorno alla quale, stranamente si sofferma e ruota la narrazione. Costretto dall’esigenza di nascondere la sua identità, il neo papa, interrogato sulla sua professione, dichiara alla psicoanalista di fare l’attore. Emerge ben presto tuttavia che, in effetti, il Papa senza nome, da giovane, avrebbe voluto fare l’attore, avrebbe cercato di entrare in una scuola di recitazione, ma sarebbe stato escluso per palese incapacità (non così la sorella, che avrebbe invece effettivamente praticato il mestiere dell’attore, dando al fratello, futuro papa, l’occasione di conoscere le opere di Čechov). Insomma, tutto quel che emerge del passato del Papa senza nome è che egli è stato un aspirante attore, scartato perché privo di attitudini. La sua fugace discesa nel mondo lo porterà tuttavia proprio a frequentare una compagnia di attori che stanno mettendo in scena Čechov. La frequentazione delle prove della compagnia teatrale permetterà al Papa in incognito di riprendersi dal blocco psicologico e, infine, di prendere la decisione finale. Seguendo questo schema, si sarebbe indotti a ritenere che il nostro personaggio abbia preso coscienza della propria inettitudine a fare il papa attraverso il ricordo della propria inettitudine rimossa a fare l’attore.[3] Tutto ciò è però ancora molto poco. Se così fosse, il film ruoterebbe intorno alla fragilità psicologica di un singolo personaggio. Sarebbe la storia drammatica, magari čhecoviana, di un attore fallito che non riesce a fare il papa. Oppure una storia un po’ esagerata intorno a una rimozione. Anche l’analisi dettagliata del personaggio non sembra dunque portare molto lontano.
 
9. L’unico elemento che sembra essere in grado di conferire una maggiore coerenza contenutistica al film è la presenza, piuttosto paradossale nel contesto, dei due psicanalisti. Brezzi (Moretti) è chiamato al conclave, fin dalle prime battute, per psicoanalizzare il papa riluttante (nonostante - chiarisce subito il cardinal Gregori - l’ipotesi dell’anima non abbia nulla a che vedere con l’ipotesi dell’inconscio psicoanalitico). Viene scelto proprio lui perché è considerato come  “il più bravo” nella sua professione. In effetti, egli cerca subito di procedere secondo la tecnica psicoanalitica, anche se le limitazioni che gli vengono imposte (l’impossibilità di condurre il colloquio in privato, la proibizione di parlar dell’infanzia, dei sogni, ecc.) rendono impossibile la conduzione di un’analisi canonica. Da alcuni accenni, egli sembra tuttavia propendere per l’ipotesi che il novello papa sia affetto da qualche forma di depressione. È degno di nota un passaggio in cui, sulla base della lettura esplicita del testo, vuol mostrare ai cardinali che nella stessa Bibbia si parlava già della depressione.
Dopo il fallimento del primo tentativo di analisi, il papa riluttante viene dirottato, questa volta in incognito,  presso una psicoanalista rinomata (l’ex moglie di Brezzi) con cui egli intrattiene un colloquio, del quale però poco a nulla ci viene rivelato. Il narratore ci tiene a farci sapere che si tratta di una psicoanalista eterodossa, sostenitrice di una teoria secondo cui la causa di tutti i disturbi psichici starebbe in una traumatica carenza di accudimento, avvenuta nell’età infantile. Siamo così autorizzati a immaginare che la psicoanalista abbia indirizzato lo sconosciuto, presentatosi come un attore, a riflettere sulla propria infanzia e sulle sue carenze di accudimento. Forse il colloquio con la psicoanalista ha permesso al papa l’avvio di una riflessione sul proprio passato, ma – stando al testo – sarà solo l’incontro casuale con un attore čhecoviano esaltato, e con la sua compagnia teatrale, a risvegliare in lui il ricordo della passione giovanile per la recitazione, ma anche il ricordo del suo fallimento come attore. In un passaggio del film, il papa fuggitivo assiste alle prove della compagnia e si capisce che il suo massimo desiderio sarebbe ancora quello di riprendere a recitare.
 
10. Vediamo ora in che senso la psicoanalisi possa rappresentare una chiave di lettura non banale dell’intera vicenda. Si può sospettare anzitutto che, come in una scena onirica freudiana, il film debba essere ricostruito a partire dai dettagli e non dal filo della narrazione principale. Se questo è vero, potrebbe trattarsi non tanto di un film contro la Chiesa, o un film relativo al dramma personale di chi è chiamato a una grande responsabilità, ma di un film che intende porre il problema della crisi della leadership,[4] utilizzando tuttavia, come strumento interpretativo, il linguaggio un po’ ingombrante della psicoanalisi, usando cioè concetti come il rapporto di dipendenza nei confronti della madre, la difficoltà ad assumere la figura genitoriale, il ruolo genitoriale come elemento illusorio e la religione come sostituto illusorio della figura paterna. Del resto la tematica della morte del padre è stata alquanto dibattuta nell’ambiente psicoanalitico. Vediamo.
Un elemento interpretativo, ampiamente disponibile nel testo, sembra essere costituito proprio dal dettaglio più volte ripetuto, ma lasciato sempre sullo sfondo come una boutade, della carenza di accudimento. Certo, la carenza di accudimento viene normalmente evocata nei confronti del rapporto tra madre e figlio; tuttavia, se proviamo a generalizzare appena un po’, funziona benissimo anche in relazione alla figura del padre. Le folle di fedeli simili a umili fraticelli francescani, che Moretti ci presenta a più riprese, piene di devozione e di speranza, sono folle di bambini in cerca di affetto e di accudimento. Anche i cardinali sono presentati come dei bambini bisognosi di accudimento. Lo psicanalista Brezzi finirà per intrattenere i cardinali - nell’attesa della guarigione dell’eletto, davanti agli appartamenti papali ostinatamente chiusi - giocando a carte e organizzando tra di loro nientemeno che un appassionante ed elaborato torneo di volley, che può essere interpretato come una sorta di trattamento psicologico collettivo, oppure una sorta di accudimento collettivo.
In questa situazione di generale dipendenza, l’evento sconvolgente, che muove tutta la narrazione del film, è che uno dei cardinali, l’eletto, avrebbe dovuto smettere di essere accudito, avrebbe dovuto diventare adulto e assumersi l’esercizio della figura genitoriale, l’esercizio del potere. Avrebbe dovuto diventare un padre. Avrebbe dovuto, d’un tratto, passare dall’etero direzione all’auto direzione, essere estremamente convinto del proprio ruolo e così infondere fiducia a tutti. Per impersonare bene un ruolo, sottolinea il testo del film, bisogna dimenticare sé stessi e entrare nel personaggio. Disgraziatamente, e in ciò sta l’ironia di Moretti, la scelta del conclave è caduta su un soggetto che avrebbe voluto fare l’attore, ma che non ne aveva alcuna qualità. Moretti non manca di suggerire accuratamente, attraverso l’introduzione del personaggio dell’attore esaltato, che per fare l’attore occorre avere un che di maniacale. Il film ci parla dunque dell’eterna vicenda della ricerca del padre da parte delle folle immature, della difficoltà nel rivestire i panni della figura paterna[5] e nell’assumersi la responsabilità della cura genitoriale.
 
11. Se si assume questa chiave interpretativa, molte delle tessere sconnesse vanno a posto. Il film ci mostra che la leadership è cosa altamente indesiderabile, che rappresenta un tradimento della propria vera natura, l’assunzione di una maschera fasulla. Ci tiene anche a farci vedere che la leadership è in realtà una costruzione illusoria, può funzionare anche se dietro non c’è nulla. Infatti, in seguito alla fuga nel mondo del vero Papa, per alcuni giorni, una beota guardia svizzera viene messa a gozzovigliare nell’appartamento pontificio, a muovere le tende, a mostrare il suo profilo, vestito di bianco; ebbene tutto questo è sufficiente a dare l’illusione del padre, l’illusione della genitorialità e, ancor più dietro, l’illusione di Dio convenientemente rappresentato in Terra.
Nel film, il carattere illusorio della religione viene ribadito a più riprese. Lo psicoanalista Brezzi, quando è interrogato dai cardinali, dichiara di essere non credente, suscitando qualche imbarazzata riprovazione. Mentre organizza il torneo di volley, chiacchierando casualmente, contrappone la terribile bellezza del darwinismo all’affermazione del cardinal Gregori secondo cui l’inferno potrebbe essere vuoto (estrema manifestazione di accudimento). Già ne La stanza del figlio, la morte del figlio avviene per una cieca necessità, inspiegabilmente. Gli eventi dunque accadono e basta, siamo immersi in una realtà dove non c’è provvidenza, non c’è speranza, non c’è salvezza, ma solo il brusio del vuoto.
Se c’è solo il vuoto, se l’umanità è composta di creature smarrite bisognose di accudimento, allora bisogna che qualcuno si sacrifichi per gli altri e reciti opportunamente la parte del padre. Lo spettacolo rassicurante deve continuare. La leadership viene presentata dunque come una costruzione illusoria, eppure necessaria. Una costruzione dolorosa, poiché nel conclave molti pregano di non essere eletti. Solo in seguito al rifiuto del ruolo da parte del neo eletto, si paleserà, per il popolo in piazza e per i cardinali, un vuoto inquietante e generalizzato, tale da investire anche la dimensione metafisica.
 
12. L’analisi di Moretti si può tuttavia estendere ben oltre la religione. Forse – sembra suggerire il testo del film - viviamo ormai in una società dove qualunque leadership è divenuta impossibile, dove tutti preferiscono impersonare la parte del bambino accudito (rischiando il deficit di accudimento) piuttosto che dell’adulto maturo. Il prezzo per chi accetta fino il fondo di fare il leader sta diventando sempre più gravoso e insostenibile, poiché deve rinunciare a se stesso, immedesimarsi nel personaggio e recitare fino in fondo. Forse, in assenza di pretendenti, il leader in futuro potrà opportunamente essere sostituito da un fantoccio che si limiti a muovere le tende, a mostrare la propria ombra. Nel film sono forniti diversi elementi sparsi di analisi del fenomeno della leadership: viene sottolineato che o si è leader o si è gregari, come se si trattasse di un aut-aut senza alternative; il leader, nell’assumere il suo ruolo, deve cancellare il proprio passato, deve cancellare la propria storia, la propria individualità; deve presumibilmente anche rassegnarsi a perdere i rapporti affettivi familiari; deve identificarsi col nuovo ruolo ai limiti della follia (come l’attore esaltato); deve credere fino in fondo nel suo progetto, per quanto strano possa essere, e deve riuscire a trascinare il suo pubblico; deve tener conto delle debolezze umane e assecondarle piuttosto che contrastarle, deve mantenersi lucido, coordinare tutti i minimi dettagli e, al momento giusto, saper essere intransigente. È un ritratto un po’ forzato e schematico, ma abbastanza calzante, del leader carismatico. Si tratta del leader che opera fino in fondo secondo la weberiana etica dell’intenzione, l’etica che presiede a tutte le forme di fondamentalismo.
 
13. Sorprendentemente, e qui sta secondo noi il limite contenutistico dell’analisi di Moretti, non c’è dunque posto per il leader responsabile, per un leader che operi secondo l’etica della responsabilità. Quando la società intera viene interpretata attraverso il modello dei rapporti di dipendenza infantili, allora si finisce col ritenere che le dinamiche affettive finiscano sempre per avere la meglio e che la maturità individuale sia, in fondo, qualcosa di impossibile. L’analisi psicoanalitica della leadership finisce per trascurare uno dei requisiti fondamentali della democrazia e cioè il fatto che tutti debbono essere abbastanza maturi da essere in grado – magari a turno, magari per sorteggio – di assumersi l’onere della leadership; finisce cioè per avallare una teoria che giustifica e alimenta l’immaturità collettiva. Gli eterni bambini che non cresceranno mai non possono dare vita a un sistema democratico.[6]
 
14. I due psicoanalisti messi in scena da Moretti sembrano presentarci tuttavia due versioni leggermente diverse della leadership, anche se entrambe poco compatibili con una leadership democratica. Il modello di Brezzi (che poi è quello di Moretti) è quello del distanziamento ironico. Moretti presenta il proprio psicoanalista come “il più bravo” di tutti sul mercato. È il conoscitore delle debolezze umane perché è in grado di condividerle. Si dimostra capace di amministrare lo sconcerto dei cardinali, si dimostra perfettamente in grado di risvegliare il loro lato pulsionale e infantile, li organizza, li distrae, li intrattiene, li fa divertire. Riesce facilmente a diventare il centro dell’attenzione – complice la dottrina freudiana della neutralità dell’analista – senza fare però assolutamente nulla di costruttivo. Non sembra avere nulla di propositivo da proporre. Non si comporta, insomma, come un leader responsabile.
Il modello di leadership che invece viene proposto dal personaggio della Buy è piuttosto diverso. Ci viene infatti presentata una scena abbastanza lunga, e probabilmente non casuale, in cui si vede la psicoanalista all’opera nella gestione del ruolo genitoriale nei confronti dei due figli che stanno litigando tra loro, non esitando a utilizzare un tono secco e imperioso – prendendosi la responsabilità dell’accudimento materno, anche attraverso l’esercizio dell’autorità. In fondo, la teoria dell’accudimento definisce con chiarezza chi deve essere accudito e chi deve invece accudire, senza ombra di confusione (la difficoltà ad assumere il ruolo genitoriale sembra dunque essere – stando al testo del film – principalmente maschile). Si tratta comunque, anche in questo caso, di un ruolo asimmetrico e nient’affatto paritario e democratico – anche se giustificato, poiché esercitato nei confronti dei bambini. Si comporta in modo responsabile, ma nel quadro di una relazione di dipendenza. Insomma, o prendere ironicamente le distanze dal potere o prendersi la briga di esercitare il potere. Non si intravvede diversa alternativa. Non c’è modo di esercitare democraticamente il potere, non ci sono relazioni paritarie. È quasi inutile sottolineare come questa visione possa essere considerata come un residuo ideologico sessantottino, con svariati strascichi postmoderni.
 
15. Il fatto di trattare il problema della leadership usando come paradigma le relazioni asimmetriche di attaccamento che si costituiscono in famiglia, oppure la relazione che si realizza nella religione tra la guida spirituale e i fedeli, non può che risultare estremamente limitativo, nonché indice di una prospettiva piuttosto conservatrice. La rinuncia del cardinal Melville, che nel testo del film viene rappresentata come una scelta eroica, dal punto di vista di una teoria della leadership democratica rappresenta in realtà una sconfitta. Perché Melville prende solo coscienza della propria personale inettitudine a esercitare il potere, perché decide di restare un bambino non cresciuto, perché non riesce a formulare un progetto responsabile, né di conservazione del potere, né di riforma, né di rivoluzione. Il messaggio è che la debolezza umana è sempre la stessa, la religione non è riformabile, il potere non è riformabile. Al più possiamo tenerci lontani dal mondo illusorio del potere, lasciare che qualcuno, chi se la sente, pensi a fare il burattinaio, a muovere le tende, a fabbricare miti, a produrre consolazione. È la rinuncia romantica dell’io narcisista, il rifiuto di sporcarsi le mani, la rinuncia a costruire una leadership democratica, con tutto quel che comporta sul piano del controllo delle dinamiche libidiche.
La cultura politica democratica si fonda necessariamente sul modello di esseri umani adulti che hanno lasciato da parte le loro dipendenze infantili e i ruoli carismatici, che si riconoscono come una comunità di eguali, esseri razionali che non si sentono infallibili, che discutendo tra loro ritengono di poter giungere all’individuazione del bene comune. L’esigenza della democrazia è proprio quella di andare oltre la polarità inconciliabile tra massa bisognosa di cure e il leader carismatico. Indulgere sulla polarità tra leader e massa è il modo tipico di intendere la leadership caratteristico della destra berlusconiana, per definizione portatrice di una visione antropologica pessimistica. Come descrizione del berlusconismo, il film sarebbe perfettamente centrato. Il problema è che il film non riesce a vedere oltre il pessimismo antropologico. Non basta il gran rifiuto, ci vuole un altro modello di leadership.
 
Giuseppe Rinaldi
 
19/04/2011
10/10/2016 (rev.)
(*) Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su Città Futura il 19/04/2011.
 
 
NOTE
 
[1] Sarò costretto, nel corso dell’articolo, a raccontare gran parte del film. Chi non lo avesse ancora visto, e non volesse dunque sapere come va a finire, è avvertito.
[2] In alcuni passaggi dice che nella Chiesa molte cose devono cambiare, ma si tratta, appunto, di passaggi di sfuggita.
[3] Forse perché incapace di immedesimarsi nel personaggio. La tesi è sostenibile in base ai rapporti tra Čechov e Stanislawskij e in base alla follia immedesimatrice – fino al ricovero - che mostra l’attore čhecoviano disturbato incontrato dal papa in albergo.
[4] Qualcuno ha collegato la tematica di questo film al rifiuto di Moretti di fare il leader del movimento dei girotondi.
[5] Non entro nel merito di quanto pesino, in questa scelta, le nevrosi personali di Moretti. In effetti, in passato, è accaduto spesso che una certa cultura di sinistra abbia scambiato l’egocentrismo e le nevrosi personali di Moretti per discorsi politici profondi.
[6] Che Moretti abbia scelto proprio la Chiesa cattolica – uno dei pochi regimi assolutisti sopravvissuto - come terreno per le sue analisi sulla leadership è del tutto illuminante.
 

domenica 17 aprile 2011

Le primarie prese sul serio








1. Le “primarie” (*) rappresentano sicuramente un’importante novità introdotta nel panorama politico italiano. L’intento dei promotori delle primarie era chiaro e del tutto condivisibile: inaugurare un metodo trasparente per la selezione della classe dirigente, cui potessero partecipare non solo gli iscritti ai partiti, ma anche gli elettori. Il tutto rientrava in un progetto di rinnovamento della politica che il nuovo Partito Democratico aveva ampiamente propagandato. È chiaro che, se c’era bisogno di un metodo nuovo per selezionare la classe dirigente, si intendeva con ciò, implicitamente, che i vecchi metodi fossero stati piuttosto fallimentari. Tuttavia questo elemento d’analisi non è mai stato specificatamente approfondito. Il risultato è che spesso i vecchi metodi hanno continuato a sopravvivere, accanto al nuovo metodo. Si è trattato comunque di un’innovazione coraggiosa, in un periodo in cui il “porcellum” autorizzava i massimi dirigenti dei partiti a compilare le liste dei candidati, senza alcuna possibilità di scelta da parte degli elettori.

2. L’introduzione delle primarie è stata evidentemente ispirata all’esperienza elettorale americana, dove queste sono state usate sistematicamente, fin dalla fine dell’Ottocento. Purtroppo per noi, il sistema dei partiti americano si è sviluppato in maniera del tutto indipendente rispetto al sistema europeo. Ciò che va bene in America non è detto che debba funzionare altrettanto bene da noi. In effetti, il trapianto delle primarie nel nostro Paese ha comportato una serie di problemi, con cui abbiamo tuttora  a che fare.

 3. In primo luogo, le primarie americane sono regolamentate per legge. Si tratta di vere e proprie istituzioni.[1] Questo assicura che le primarie si svolgano secondo rigorose regole formali e si abbiano dunque tutte le garanzie necessarie che convengono a una consultazione elettorale vera e propria.

In secondo luogo, nonostante siano regolamentate per legge, le primarie americane presentano varie configurazioni, legate alle tradizioni e alle esigenze locali. Sono dunque piuttosto flessibili per quel che riguarda la forma giuridica. Sono per noi interessanti due aspetti, nell’ambito di questa varietà: la regolamentazione del diritto di voto e le modalità di scelta dei candidati. Per quanto riguarda la prima questione ci sono primarie chiuse e aperte: a quelle chiuse possono partecipare soltanto gli iscritti al partito; alle primarie aperte possono partecipare gli iscritti a uno speciale elenco di elettori (ci si può registrare come iscritti o indipendenti).[2] La scelta dunque, da noi, è caduta sulle primarie aperte. Per quanto riguarda la seconda questione, merita una particolare attenzione il caucus (consiglio, in lingua indiana). Il caucus è un seggio elettorale strutturato come un’assemblea, dove tutti gli elettori di una sezione s’incontrano contemporaneamente; la riunione ha una durata prefissata e si tiene di solito in un’ampia sala (palestra, aula magna o simili). Coloro che hanno già un’idea su come votare si mettono agli angoli opposti della sala. Gli incerti si mettono sparpagliati al centro. Ebbene, durante l’assemblea, coloro che hanno già un’idea cercano di convincere gli incerti sviluppando una serie di capannelli e discussioni animate. Alla fine della discussione ci si conta, e il gruppo che è riuscito a raccogliere il maggior numero è quello che vince tutte le deleghe (la logica è maggioritaria). Questo sistema è stato criticato perché toglie la segretezza al voto, ma non sfuggirà che esso permette, a tutti gli elettori, una discussione approfondita, in prima persona, (cosa che nel nostro sistema avviene solo sotto la forma della propaganda preelettorale).[3]

4. In terzo luogo, occorre ricordare che in America non esiste la tradizione del partito organizzato, tradizione che è invece assai diffusa in Europa, proveniente dai partiti di massa dell’Ottocento. I partiti americani sono poco più di comitati elettorali che si mobilitano e funzionano solo in funzione delle elezioni. Al di fuori delle elezioni, i partiti coincidono essenzialmente con i gruppi parlamentari e, nella società civile, sopravvivono soprattutto come orientamenti di cultura politica, come complesso di tradizioni e di valori. Ne deriva un fatto di assoluto rilievo, e cioè che, nella tradizione elettorale americana, gli elettori, nel momento in cui scelgono il loro candidato alle cariche pubbliche, scelgono anche il programma politico del candidato stesso, contribuendo così a definire la linea del partito. Questo è il motivo per cui lo scontro che avviene durante le primarie è uno scontro autentico, sostanziale per la vita del partito, uno scontro che serve certamente a selezionare le personalità migliori, ma soprattutto è uno scontro che serve a mettere a punto il programma elettorale. Insomma, durante le primarie, gli elettori (o gli iscritti) selezionando nello stesso tempo il candidato e il programma, svolgono l’equivalente di un nostro congresso di partito. Per questo stesso motivo, i candidati e i programmi che vengono sconfitti alle primarie  sono abbandonati al loro destino, senza tanti complimenti, evitando così la formazione di una burocrazia partitica. Negli States non si finanziano i partiti, si finanziano le campagne elettorali di questo o quel candidato. Non si milita principalmente per un partito, ma si milita per un candidato e per il suo programma.

5. Come stanno le nostre primarie rispetto a questo quadro? Le primarie nel nostro Paese, per intanto, continuano a essere svolte in forma privata, a costituire cioè forme di mobilitazione interna ai partiti e a non avere alcuna veste istituzionale – salvo, come si è detto, la legge della Regione Toscana. Grazie a questo carattere non istituzionalizzato, la tipologia funzionale delle primarie italiane è andata ampliandosi in maniera incontrollata: originariamente, le primarie avrebbero dovuto servire per scegliere i candidati di un partito (specificatamente il PD) alle cariche pubbliche. In secondo luogo, sono state utilizzate per la scelta del segretario del PD (che non è una carica pubblica, anche se il segretario del maggior partito dell’opposizione può aspirare a essere proposto per la presidenza del consiglio, in caso di vittoria elettorale). Ultimamente, le primarie sono state utilizzate anche a livello di coalizione, per la scelta del candidato a una carica pubblica (sindaco, governatore,...) proposto da una coalizione di partiti. Questa pluralità di scopi ha complicato obiettivamente la vita e il destino delle primarie, anche se, paradossalmente, ha contribuito a metterle sempre più al centro della vita politica.

6. Alcuni problemi delle primarie nostrane sono ben noti. Il punto più debole in assoluto sembra quello delle candidature, cioè della formazione delle liste. Mentre in America il partito nasce e si organizza in occasione delle elezioni proprio intorno a delle candidature, nel nostro caso il partito organizzato esiste già e, inevitabilmente, finisce per avere un peso fondamentale nella definizione dei programmi e delle candidature stesse. Nell’opinione comune, il partito organizzato c’è e si suppone che abbia comunque già un programma (sennò, cosa ci starebbero a fare i congressi e i gruppi dirigenti?),[4] dunque il focus dell’attenzione si concentra quasi esclusivamente sulle persone dei candidati.

Da questa indesiderabile conseguenza emergono inevitabilmente degenerazioni che sono diventate ormai assai familiari. Si può dar luogo alla formazione di liste pilotate dei candidati, dove un solo candidato abbia qualche possibilità di essere eletto e dove gli altri recitano il ruolo di comparsa. Le liste possono essere corrispondenti alle correnti interne del partito, per cui le primarie finiscono con il costituire la conta delle correnti. Le liste dei candidati, sia per chi vi compare che per gli assenti,  possono essere espressione delle lotte di potere personale all’interno del partito stesso. Insomma, da noi le primarie implicano principalmente una netta e pericolosa personalizzazione della politica e, contemporaneamente, una collocazione in secondo piano dei programmi elettorali. Spesso i programmi proposti dai diversi candidati non sono programmi effettivamente alternativi, spesso sono programmi generici, poco chiari. Il dibattito tra i candidati spesso non è un vero dibattito[5] e quindi l’elettore finisce per non avere fondati elementi per scegliere. Il confronto tra i candidati viene spesso giocato sulla base di caratteristiche estrinseche come la popolarità, l’appartenenza alla corrente, le capacità di comunicazione, e così via. Mentre la formazione delle liste avviene per lo più tra gli addetti ai lavori, all’elettore resta soltanto da scegliere tra i candidati, molti dei quali possono anche essere dei perfetti sconosciuti. Insomma, sembra spuntare, qua e là, il fantasma della democrazia plebiscitaria.

7. Questi problemi si presentano in forma allargata nei casi delle primarie di coalizione. Nella situazione politica italiana, data l’enorme frantumazione partitica, la scelta dei candidati alle cariche istituzionali difficilmente può essere ricondotta a un unico partito. Ci si trova spesso di fronte all’opportunità di scegliere il candidato per una coalizione. Intanto, bisogna che la coalizione sia già formata prima dell’inizio del processo delle primarie, e bisogna che abbia una sua solidità.[6] La qual cosa non accade spesso, poiché i partiti candidati a entrare in coalizione sono spesso in concorrenza tra loro, litigiosi e incapaci di fare causa comune. Ciò sembra accadere a maggior ragione, se i partiti sono all’opposizione: paradossalmente, sembra che stare all’opposizione contribuisca a ulteriori divisioni, più che a fare fronte comune. Molti preferirebbero andare prima alle elezioni e poi fare la coalizione[7] (le rotture di coalizioni sono all’ordine del giorno e non c’è alcun modo per punire coloro che rompano una coalizione). Bisogna poi che tutti partiti della coalizione siano disposti a fare le primarie, che si mettano d’accordo sulle liste, e che siano disposti ad accettare i risultati dell’elezione. Queste condizioni sono davvero difficili da soddisfare. Se le primarie interne a un partito spesso servono a regolare i conti tra le correnti del partito, le primarie di coalizione altrettanto spesso servono per regolare i conti tra i partiti della coalizione (per avere una misura della loro influenza). Coalizioni precarie e traballanti possono uscire con le ossa rotte dalle primarie di coalizione. Forse le primarie di coalizione, posto che si facciano, presentano qualche chiarezza in più rispetto ai programmi, perché i programmi in competizione finiscono con il coincidere con i programmi dei singoli partiti, e qui c’è una maggior disponibilità alla differenziazione.

8. Un altro aspetto rilevante è quello dei tempi. Il fatto che le primarie americane siano istituzionalizzate impone il rispetto di procedure precise, ma anche di tempi precisi. Entro le scadenze istituzionali si sa che bisogna avere candidati e programmi. Nel nostro paese, non essendo le primarie regolamentate in termini istituzionali, intanto si assiste sempre al balletto “le facciamo o non le facciamo”; poi, inevitabilmente, finisce che la decisione si prende all’ultimo minuto, il più tardi possibile (perché c’è sempre qualcuno che pensa di trarre vantaggio dall’allungamento dei tempi). Questo significa che i candidati si scelgono all’ultimo minuto, in seguito a trattative estenuanti, e che i programmi elettorali vengano fabbricati in quattro e quattr’otto, con il “taglia e incolla”. Dunque manca il tempo per sviluppare un dibattito effettivo con gli elettori potenziali. Lo scivolamento dei tempi conferisce dunque alle primarie nostrane una deriva ancora maggiormente plebiscitaria.

9. Un altro aspetto concerne la palese diseguaglianza delle opportunità per i diversi candidati. Le primarie americane si svolgono in una situazione di storica debolezza delle organizzazioni dei partiti. Ciò costringe i candidati a dotarsi di loro lobby personali, di personali found raiser, gruppi di sostenitori. Le primarie italiane si svolgono in una situazione dove i partiti sono ancora piuttosto organizzati e burocratizzati. Questo significa che la burocrazia partitica si schiera inevitabilmente per questo o quel candidato.[8] L’apparato che controlla il partito non riesce a essere neutro. Le primarie dove per caso vince un outsider fanno notizia e creano un terremoto organizzativo. Lo stesso vale se – in caso di primarie di coalizione – diversi partiti hanno ciascuno il proprio candidato (o più di uno). Questo rende la vita difficile a chiunque non sia addentro all’organizzazione e abbia intenzione di candidarsi. Si troverebbe a dover fare una campagna elettorale in una situazione piuttosto difficile.

10. Abbiamo poi avuto modo di notare spesso che chi perde non ci sta. Abbiamo già sottolineato che nel sistema americano chi perde viene abbandonato al proprio destino, senza tanti complimenti. Sarà un sistema spietato, ma per lo meno è chiaro. È interesse del partito selezionare effettivamente chi ha le migliori chance di riuscita. Dopo che il candidato è stato scelto, il partito – o la coalizione- si ricompone sulla persona e sul programma del vincitore, per affrontare la sfida elettorale. Nel nostro paese, invece, le primarie plebiscitarie si organizzano per confermare una decisione già presa dal partito o dal consesso dei partiti (o dai loro gruppi di potere). Qualora l’esito delle primarie sia diverso dalle attese, si tende a rimettere tutto in discussione, a non accettare la decisione delle urne (con rischi di spaccature interne o spaccature di coalizioni), a mettere in discussione le primarie stesse.[9] Insomma, per fare le primarie, ci vuole una certa maturità democratica.

11. Le primarie, quale che sia il loro valore effettivo, nonostante i difetti che abbiamo elencato, hanno tuttavia finito per diventare di fatto vincolanti. È diventato molto difficile non farle. Paradossalmente, è chi non vuole fare le primarie che deve spiegare e convincere gli altri. Chi vuole le primarie gode, in un certo senso di un assenso preventivo.[10] Sarei tentato di parlare di un mito delle primarie che si sta diffondendo per ogni dove. Un consenso peraltro spropositato rispetto – come si è visto - alla modesta pratica e teoria dello strumento, così come lo stiamo realizzando nel nostro paese. Poiché le primarie sono diventate un mito, allora spesso vengono realizzate come un rituale. Poiché bisogna farle, facciamole e non pensiamoci più.

12. Sembra dunque che le primarie, nel nostro paese, siano davvero giunte al bivio. Le soluzioni sostanzialmente sono due. La prima è già stata adombrata, più o meno timidamente: si potrebbe tranquillamente decidere che non si fanno più, che sono controproducenti. Si potrebbero fare le primarie chiuse, cioè riservare solo agli iscritti ai partiti la scelta dei programmi e delle candidature.  Sarebbe una scelta legittima, non c’è che dire, e indubbiamente più chiara. Anche se bisognerebbe stare molto attenti a trovare le argomentazioni giuste di fronte agli elettori, per giustificare una simile decisione. E, soprattutto, bisognerebbe spiegare come si possa realizzare, in modo diverso, l’obiettivo per cui le primarie aperte erano nate: produrre il ricambio della classe politica dando la parola al corpo elettorale. Obiettivo che finora è stato realizzato solo marginalmente.

13. La seconda soluzione sta nel prendere le primarie sul serio. In tal caso, tutto quel che s’è fatto finora non basta ancora. Si tratta di capire come possa un elettorato potenziale avere autenticamente una qualche voce in capitolo nella costruzione del programma e nella scelta dei candidati. È chiaro che la strada rituale e plebiscitaria non porta da nessuna parte. Le primarie prese sul serio potrebbero essere una seria occasione per introdurre nel nostro paese momenti di democrazia deliberativa (di cui tutti parlano, ma che nessuno pratica). Cosa potrebbe significare in concreto? Una volta i programmi si costruivano nelle sezioni e nei congressi. Adesso sono in crisi le une e gli altri (i congressi sono solo dei rituali esteriori dove si decidono le cariche del partito). E poi le primarie ampliano l’elettorato, ben oltre gli iscritti che fanno vita di partito. Allora si tratta di considerare le primarie come uno spazio (sia nel senso di un tempo adeguato, sia nel senso di un’arena pubblica) nel quale gli elettori vengano convocati (come nei caucus americani) e nei quali abbiano occasione di partecipare a un autentico dibattito intorno alla definizione dei programmi e delle candidature. Agli elettori potenziali devono essere offerti dei momenti deliberativi in cui possano prendere informazioni, possano discutere, confrontarsi intorno alle soluzioni dei problemi, discutere di programmi, fare delle scelte. E, certo, possano anche conoscere i candidati, vederli all’opera, nelle loro differenze, nelle loro capacità. Insomma, si tratta di creare uno spazio di dibattito autentico nel quale si costruisca, con gli elettori potenziali, la scommessa elettorale. Uno spazio autentico da usare anche per ricostruire la partecipazione politica, mai così bassa nel nostro paese.

14. Altrimenti si continuerà a demandare la definizione delle candidature alle burocrazie dei partiti, la costruzione del programma a qualche team di ghost writer, e la campagna elettorale a qualche agenzia di pubblicità. A questo punto, la primaria plebiscitaria potrebbe solo mettere il timbro su un processo politico ancora una volta illusorio e vuoto di partecipazione effettiva.

Giuseppe Rinaldi

 

(*) La versione originale è stata pubblicata il 17/04/2011 su “Città futura”. L’attuale versione è stata rivista il 6/9/2012.

 

NOTE

[1] In Italia solo la Regione Toscana ha varato una legge locale sulle primarie.

[2] Anche nelle primarie aperte americane può accadere che gli avversari del partito si iscrivano tra gli elettori per pilotare la scelta di un candidato debole.

[3] Questa prassi assomiglia alquanto alle tecniche di democrazia deliberativa di cui si discute da qualche tempo.

[4] Anche se i programmi in questo caso sono poco più che generici elenchi di desiderata.

[5] Spesso il dibattito elettorale che precede le primarie è reticente, pieno di imbarazzi e di appelli all’unità del partito. Spesso degenera sul piano delle differenziazioni personalistiche.

[6] Questa possibilità è legata naturalmente a quanto è specificato dalla legge elettorale.

[7] La legge elettorale in discussione che dovrebbe sostituire il porcellum allo stato attuale (autunno 2012) sembra andare proprio in questa direzione.

[8] Non è in discussione che i diversi membri del partito possano parteggiare per l’uno o l’altro candidato. È in discussione il fatto – paradossale forma di analfabetismo democratico – che gli organismi ufficiali del partito organizzino le primarie per scegliere il candidato e, contestualmente, emanino ufficialmente dei comunicati a sostegno del loro candidato preferito. È chiaro che, in caso di vittoria di un altro candidato, gli organismi ufficiali sarebbero poi costretti, di fatto, a dimettersi.

[9] A ciò possono contribuire anche episodi di effettive irregolarità, come nel caso recente di Napoli, dove si è avuto il sospetto di votanti pilotati. Sono accaduti recentemente, soprattutto a livello delle elezioni dei sindaci casi in cui le primarie hanno sovvertito le aspettative delle organizzazioni dei partiti partecipanti. Ciò è accaduto a Napoli, con la scelta imprevista del candidato De Magistris e a Milano, con la scelta altrettanto imprevista del candidato Pisapia. Fatti simili sono avvenuti a Genova.

[10] È interessante, ad esempio quanto è avvenuto nel PdL. Il segretario Alfano ha annunciato trionfalmente che il PdL avrebbe fatto le primarie. Quando (estate 2012) Berlusconi ha annunciato la sua intenzione di ricandidarsi, lo stesso segretario Alfano si è sforzato di sostenere che – solo nel caso della ricandidatura di Berlusconi – le primarie non sarebbero più state necessarie.