giovedì 29 agosto 2019

La crisi delle liberal democrazie e la bottega delle soluzioni alternative

















1. L’intervento di Filippo Orlando nel dibattito sulla crisi delle liberal democrazie che si sta tenendo su Città Futura mi ha fatto nascere alcune serie perplessità delle quali intendo dar conto in questo articolo. Anche se dissento su molti punti del suo intervento, mi pare tuttavia che l’amico Orlando susciti, seppure talvolta in modo non del tutto chiaro, un complesso di questioni di notevole attualità e credo che le sue tesi meritino di essere esaminate e discusse con grande attenzione. Anche perché sono tesi piuttosto popolari e diffuse nell’ambito della cultura politica della sinistra, o di quel che oggi ne rimane.

Per comodità, riassumo per punti le tesi contenute nell’intervento di Orlando (“Liberalismo e democrazia, la storia in movimento” del 21/08/2019), in modo da poterle discutere adeguatamente, in maniera ordinata. Anche se ho cercato di attenermi al testo quanto più possibile, è chiaro che questa mia sintesi può anche non corrispondere del tutto alle intenzioni dello stesso Orlando. Spero che non me ne vorrà se involontariamente ho tralasciato qualcosa d’importante o se ho travisato qualcosa.

Tesi 1 – La crisi attuale delle liberal democrazie è strutturale e non solo contingente. Per cui quello che sta oggi emergendo è in realtà un vizio originario.

Tesi 2 - C’è una differenza sostanziale tra liberalismo e democrazia, per cui, al limite sarebbe da combattere (o da superare) il liberalismo per tenerci la democrazia.

Tesi 3 – La crisi strutturale oggi emergente delle liberal democrazie risale molto indietro nel tempo, alle origini, non del liberalismo o della democrazia moderni, ma dello Stato moderno stesso.

Tesi 4 – All’origine dello Stato moderno c’è un velleitario tentativo di auto fondazione nei termini di un razionalismo politico astratto, con la conseguente rimozione della questione religiosa e, più in generale, della componente irrazionale.

Tesi 5 – Quel lontano deficit fondazionale dello Stato moderno si è perpetuato fino ad oggi, contaminando le varie forme di governo che si sono succedute, rendendole deboli e incapaci di affrontare le situazioni di eccezione. Questo permette ora ai populismi (a sfondo autoritario, nazionalistico e/o etnico religioso) di insidiare con successo le liberal democrazie.

Tesi 6 – Non basta dunque difendere le liberal democrazie dagli attacchi contingenti. Occorre rianalizzare l’intero processo della costruzione dello Stato moderno, onde superare il razionalismo politico astratto e in un certo senso riconoscere e recuperare quanto era stato rimosso. In tal modo si riuscirà ad andare oltre le macchine astratte delle liberal democrazie attuali, costruendo una forma di Stato nuova, capace di affrontare con maggiore sicurezza i suoi nemici.

Procederò ora, in quel che segue, a commentare le diverse tesi, cercando di argomentare i miei punti di dissenso.


2. Tesi 1. Si sostiene che la crisi delle liberal democrazie sia strutturale e non contingente. Osservo in proposito che, effettivamente, nel corso della loro storia, le liberal democrazie hanno attraversato periodi di crisi anche assai gravi e prolungati – si pensi, ad esempio, all’epoca dei totalitarismi. Si è trattato di crisi che comunque finora sono state superate, producendo anche svariate trasformazioni e adeguamenti ai tempi. L’attuale crisi, determinata principalmente dai populismi, potrebbe essere interpretata nello stesso modo. Le democrazie liberali sono frutto di un processo storico che è ancora in pieno sviluppo. Anzi, si può dire che, nel mondo contemporaneo, la forma di governo liberal democratica non abbia mai avuto un simile successo in termini di espansione. I giovani di Hong-Kong che scendono in piazza in nome della liberal democrazia ne solo la prova visibile, proprio in questi giorni.

Altro è sostenere invece che - nonostante questi tangibili successi – le liberal democrazie soffrano di un deficit strutturale che le rende intrinsecamente deboli. Un deficit strutturale che sarebbe sempre stato presente da sempre, fin dalle origini. Insomma, saremmo in presenza di un sistema politico intrinsecamente bacato e che invece è stato sempre dato per buono. Nel momento in cui si avanza una simile supposizione, faccio notare che intanto si prendono le distanze dalla liberal democrazia come oggi è configurata e si va alla ricerca di una qualche soluzione alternativa. Secondariamente, se le cose stanno così, si considera che la crisi attuale sia piuttosto ineluttabile, forse anche dotata di qualche fondamento nelle debolezze degli odierni sistemi liberal democratici. E si considera che qualunque rimedio di tipo contingente che sia proposto sia illusorio e inefficace, a meno di non rimuovere, purché sia possibile, il difetto di fondo del sistema. Se si sostiene qualcosa del genere, è chiaro che il discorso si slega dall’analisi politica contingente e finisce col diventare un discorso di teoria politica di ordine generale. Poiché le liberal democrazie hanno le loro origini filosofiche nel Sei-Settecento, se si vuol affrontare la questione di un eventuale baco originario, è da lì che bisogna partire. Si tratta, in sostanza, se abbiamo capito bene, di mettere in discussione l’intera teoria politica della modernità. Naturalmente, non c’è niente di male nel promuovere una simile impresa. Però bisogna esplicitare e ben sapere a cosa si va incontro.


3. Tesi 2. Si tratta però a questo punto di chiarire quale sia esattamente l’oggetto che viene dichiarato strutturalmente come guasto e obsoleto. Nel testo che stiamo esaminando, l’oggetto di analisi non è del tutto chiaro. Si tratta del liberalismo, della democrazia o di entrambi? Oppure si tratta nientemeno che dello Stato moderno in tutte le sue espressioni? Cominciamo a ragionare intanto del rapporto tra liberalismo e democrazia. Nel testo dell’amico Orlando si tiene intanto a sottolineare che «Tra liberalismo e democrazia passa una differenziazione e una contrapposizione di cui oggi troppo spesso si è persa memoria, ma non per questo esse non sono presenti e non agiscono nella realtà». Personalmente faccio fatica a seguire Orlando su questa strada. Nell’ottimo riepilogo storico filosofico con cui Livorsi ha contribuito a questo dibattito, si mostra con chiarezza lo sviluppo concomitante delle due teorie e delle corrispondenti forme di governo. Nelle odierne liberal democrazie per di più le differenze tra le due correnti di pensiero e tra le loro implementazioni si sono sempre più assottigliate. La differenza più rilevante, a tutt’oggi, mi pare sia dovuta al fatto che i liberal-democratici propendono per uno Stato minimo, mentre i liberal-democratici propendono per un maggiore intervento statale in una pluralità di campi. I liberali propendono per il laissez-faire in campo sociale ed economico, mentre i democratici propendono maggiormente per il riformismo e l’intervento dello Stato.  Nel testo di Orlando si suggerisce che il liberalismo sarebbe cattivo perché santifica la proprietà privata, mentre la democrazia sarebbe preferibile perché più social oriented. La cosa ha senz’altro un qualche fondamento e riposa sulla diversa concezione dell’individuo in rapporto alla società che hanno i due orientamenti. Ciò può avere qualche conseguenza a proposito delle politiche distributive, ma le contrapposizioni oggi non sono effettivamente così forti. Nello stesso Paese si possono tranquillamente alternare governi che abbiano un’impostazione più liberal-democratica a governi che abbiano una maggior impostazione liberal-democratica. I cittadini sono liberi di scegliere di volta in volta. E’ impossibile oggi distinguere una forma di governo liberale da una democratica, perché ormai hanno troppe cose in comune. Certo, è possibile distinguere tra politiche più liberali e politiche più democratiche, ma non mi pare questa la questione qui in discussione.

Segnalo, per inciso, per rispondere a un cenno storico di Orlando, che il movimento operaio ha dato senz’altro una spinta allo sviluppo della democrazia nella sua componente socialdemocratica (nonostante tipi come Noske), mentre vorrei ricordare che il regime sovietico è nato da un colpo di Stato proprio nei confronti della socialdemocrazia, dopo un periodo di movimentismo consigliare. Qui concordo pienamente con Franco Livorsi quando mette il comunismo terzinternazionalista tra i nemici della liberal democrazia.


4. Tesi 3 – È chiaro che quando si va alla ricerca di un peccato originale è difficile fermarsi e si è indotti a tornare, appunto, risolutamente alle origini. Secondo l’amico Orlando il baco strutturale che oggi si rivela in tutta la sua gravità nelle liberal democrazie non apparterrebbe solo al liberalismo e neppure solo alla democrazia. Il baco apparterrebbe niente meno che allo Stato moderno, quella forma di Stato che si è sviluppata in Europa tra Cinque e Seicento e che poi si è evoluta variamente fino a oggi, combinandosi poi con le varie forme di governo.

Si tratta di un baco – suggerisce Orlando - che c’era già nel realismo politico e nel giusnaturalismo contrattualistico e che poi si è trasmesso via via fino a oggi. Un baco che sarebbe presente esemplarmente nel Leviatano di Hobbes.  Bisogna dunque trovare un baco comune - sempre passato come inavvertito - a teorici come Machiavelli, Bodin, Montesquieu, Locke, Rousseau, … fino a Benedetto Croce e a Kelsen. Magari fino a Bobbio e Sartori. A noi pare proprio che la maggior parte di costoro abbia piuttosto poco in comune. Il tratto forse più comune, per lo meno rispetto ai padri fondatori, è che si tratta di filosofi della modernità, cioè filosofi dell’illuminismo. La sensazione che si ha, leggendo Orlando, è che il baco strutturale nella teoria dello Stato che stiamo cercando sia costituito proprio dalla modernità illuministica. Insomma, noi che siamo ormai post moderni continuiamo a tirarci dietro i peccati della modernità. Sono questi i peccati che ci fanno continuamente inciampare. Se la storia deve andare avanti, bisogna lasciare da parte le zavorre. È questa – com’è noto - una tesi diffusissima, direi addirittura di moda, e, a mio modesto avviso, in termini generali estremamente perniciosa.


5. Tesi 4 – Nello specifico, all’origine dello Stato moderno ci sarebbe la rimozione (dovuta principalmente a Hobbes, il padre dell’assolutismo contrattualistico) della questione religiosa (se vogliamo, più ampiamente, la rimozione della componente irrazionale della vita). In una sorta di illimitata tracotanza, i primi teorici dello Stato moderno, Hobbes principalmente, avrebbero preteso di emancipare lo Stato dal fattore religioso, dall’irrazionale. Avrebbero cercato di costruire lo Stato come macchina terrena, un Dio terreno (Leviathan) del tutto razionale e capace di auto fondarsi, appunto, su basi contrattuali. Avrebbero cioè trasformato lo schema teocratico del potere (dall’alto al basso) in una forma di potere terreno (basato appunto sulla libera volontà dei contraenti).  Con ciò tuttavia essi avrebbero tagliato i ponti con la dimensione dell’irrazionale, confinata nel privato e nell’interiorità. Afferma in proposito Orlando che: «[…]alla base del razionalismo politico moderno vi è un precetto, un fondamento religioso – teologico non pienamente razionale […] alla origine della dottrina moderna e liberale dello stato, vi è un elemento fondante di origine religiosa, vi è, in sostanza una vera e propria teologia politica, pur se parzialmente razionale».

Se abbiamo compreso bene, il problema sarebbe costituito dal fatto che lo Stato moderno, nella sua fondazione contrattuale, avrebbe messo in campo un certo fondamentalismo razionalistico. Avrebbe dato luogo alla costruzione di un vero e proprio impianto (Gestell), per dirla con Heidegger. E avrebbe perso i legami con la realtà effettuale, con la società, con gli esseri umani quali essi sono veramente. Avrebbe tra l’altro cacciato la religione nel privato, per mantenere la pace. Insomma, con questa amputazione dell’irrazionale, il Leviatano è così risultato certo un gigante onnipotente ma dai piedi di argilla. A uno sguardo retrospettivo – osserva Orlando - questa pretesa della modernità sarebbe del tutto infondata e velleitaria, e sarebbe alle origini dell’attuale debolezza degli Stati e dei relativi governi liberal democratici. La conseguenza generale sarebbe che: «[…]il razionalismo moderno, anche se ne ha perso memoria, non è in grado di auto fondarsi su basi puramente razionali ed astratte. In sostanza la teoria politica moderna, liberale e razionale, non sa dare ragione di se stessa». Come dire che lo Stato moderno fondato su basi contrattuali sarebbe il risultato di un progetto che ha smarrito la sua stessa ragione di essere, un progetto insensato. L’irrazionale buttato dalla porta rientra ora dalla finestra (qualche secolo dopo!).


6. Orlando non cita alcun riferimento bibliografico per questa insolita interpretazione di Hobbes e della nascita dello Stato moderno. Gli chiederemo personalmente. Tuttavia l’accenno alla teologia politica non può che metterci sulle tracce di Carl Schmitt. Il valoroso filosofo e giurista nazista che è andato soggetto a una consistente renaissance, soprattutto nel nostro Paese, soprattutto dopo la crisi del marxismo, per opera di altrettanti valorosi marxisti nostrani (uno per tutti, Mario Tronti). È stato Schmitt a “fondare” quella che sta oggi diventando una disciplina accademica che porta il nome di teologia politica. La sua convinzione di fondo, in questo campo, era che: «Tutti i concetti significativi della teoria moderna dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Schmitt, che ha operato nel periodo di Weimar e nella successiva Germania nazista, in tutto il coso della sua opera, è stato uno degli avversari più feroci del liberalismo e della democrazia. Il motivo fondamentale della sua avversione al liberalismo era che questo, nel suo esasperato tecnicismo, metteva in campo forme di governo deboli, incapaci di affrontare effettivamente i problemi della politica che sorgono nel momento dello stato di eccezione, quando occorre prendere le decisioni cruciali. Ricordiamo che per Schmitt la politica è fondamentalmente un fatto conflittuale, interno ed esterno. L’essenza della politica sarebbe costituita dal rapporto tra amico e nemico, concezione dietro la quale si trova la nota volontà di potenza di nicciana memoria. L’incapacità del liberalismo di affrontare lo stato di eccezione sarebbe dovuta alla sua natura razionalistica e in fin dei conti tecnica. Schmitt, per sostenere le sue tesi antiliberali si è occupato a lungo di Hobbes e ha scritto un libro proprio sul Leviatano. Hobbes sarebbe stato il primo a concepire con chiarezza il disegno di un Dio in terra, di uno Stato macchina capace di auto fondarsi attraverso la procedura del contratto (che Hobbes avesse in mente un regime assolutistico non toglie che il processo costruttivo fosse di tipo contrattualistico!). Di lì poi sono venuti tutti i diversi contrattualismi, quello liberale di Locke e quello democratico di Rousseau. Schmitt pensava che tutte queste macchine stupide, illusorie, inefficaci e inefficienti, non fossero adatte, appunto, ad affrontare i veri problemi della politica, i quali problemi derivano dall’irrazionale volontà di potenza che domina la condizione umana e gli affari del mondo.

Ci sono in effetti notevoli analogie tra le tesi di Schmitt su Hobbes e sul liberalismo e quelle riproposte da Orlando nel suo articolo. Non so se Schmitt è la sua fonte diretta. Molti autori post marxisti e post moderni si sono rifatti a Schmitt (considerandolo come una gran scoperta) e lo hanno usato per polemizzare contro il liberalismo, contro la società aperta, contro la tecnologia e la scienza, contro il capitalismo e la globalizzazione. La tesi esposta da Orlando – quale che sia la sua fonte - è comunque tipicamente postmoderna, per la sua caratterizzazione anti illuministica, anti fondazionalistica, per l’impiego di nozioni come quella di rimozione, o ancora se vogliamo, per la sua tipica impostazione decostruzionistica. Questo non ne fa certo, per principio, una tesi sbagliata. Per accettarla o rifiutarla definitivamente occorrerebbe tuttavia esaminare con maggior cura la fonte effettiva e le specifiche argomentazioni. Quanto è presentato nell’intervento lascia piuttosto l’impressione di una ermeneutica un po’ spregiudicata. Al confronto, la tesi marxiana dello Stato come comitato di affari della classe dominante appare come un assunto dotato di ben maggiore fondatezza. Per lo meno sul piano storico empirico si possono trovare molti esempi a sostegno.


7. Tesi 5 – La argomentazione di Orlando prosegue affermando che il deficit fondazionale dello Stato moderno, che abbiamo cercato di ricostruire, si sarebbe perpetuato fino ad oggi e questo permetterebbe ora ai populismi (a sfondo nazionalistico e/o etnico religioso) di insidiare le liberal democrazie. Dobbiamo arguire quindi che il baco originario nascosto sia più che altro legato allo Stato di per sé, più che alle singole forme di governo. E sia legato in particolare al meccanismo contrattualistico e alle modalità di costituzione del potere statale. Qualunque tipo di forma di governo (assolutista, liberale, democratica, socialdemocratica…) ne sarebbe soggetta. Tutte le culture politiche liberaldemocratiche avrebbero ereditato il baco, tutte sarebbero discendenti della tracotante auto fondazione contrattuale moderno -illuministica. In cosa consista esattamente questo baco Orlando non lo dice con chiarezza. Ricorrendo a Schmitt, possiamo presumere che le liberal democrazie avrebbero messo da parte illusoriamente il conflitto, l’irrazionale (la religione, la lingua, il mito, …) e non sarebbero in grado di affrontare con successo uno stato di eccezione. Lo stesso irrazionale messo da parte in forma miope ritorna ora come minaccia. Affrontare il problema dell’odierna crisi delle liberal democrazie risulterebbe dunque vano se non si affronta il problema assai più radicale che sta al cuore stesso dello Stato moderno. Curare il baco quindi significa che bisogna mettersi a “curare lo Stato moderno”. Insomma, la crisi sarebbe tanto epocale da costringerci a rivedere i fondamenti stessi della politica moderna. È questa indubbiamente una tesi generale che ha goduto e gode di un certo successo in una serie di culture della sinistra influenzate dal pensiero post marxista e post moderno. Si tratta di una tesi che ha favorito lo sviluppo di un certo filone di anti politica sinistrese, minoritario certo ma sicuramente non poco influente.


8. Può darsi – osservo in proposito - che alle origini del contrattualismo hobbesiano ci fossero una certa ingegneria meccanicistica e un intento fondamentalistico – peraltro giustificato dall’esigenza di mantenere la pace nel contesto delle guerre civili e religiose del tempo. Tuttavia nello sviluppo successivo del contrattualismo la macchina è stata accuratamente smontata e rimontata più volte ed è stato elaborato un complesso sistema di pesi e contrappesi e un sistema di garanzie che si è accresciuto continuamente, come attesta Bobbio ne L’età dei diritti. Qui la storia davvero non si è fermata. Per quel che riguarda lo stato di eccezione, contrariamente alle opinioni dello Schmitt, le liberal democrazie hanno spesso mostrato nei fatti di essere in grado di far fronte alle situazioni di rischio in modo assai più efficace dei totalitarismi mitologici. Si potrebbero fare innumerevoli esempi storici.

Per quel che riguarda l’irrazionale e la religione, in realtà, lo Stato moderno – a mio modesto avviso – non ha mai seriamente cercato di metterli da parte – come sembra sostenere Orlando. Di questa circostanza ci sono prove empiriche a bizzeffe. Nella storia delle dottrine politiche moderne di cui stiamo discutendo, pare che Orlando abbia dimenticato, o proprio rimosso, il costante matrimonio tra gli Stati moderni (e relative forme di governo) con il “popolo” e con la nazione, entità che hanno avuto la loro formazione e promozione nell’ambito del romanticismo (che è stato nei fatti anti illuminista per eccellenza). Tanto che tutti gli Stati odierni almeno dell’Occidente andrebbero definiti come Stati-nazione. Rousseau, il padre della democrazia, condivideva già diversi tratti e orientamenti romantici. Le questioni religiose (insieme alle questioni etniche, linguistiche, mitologiche), anziché essere rimosse, si sono costantemente mescolate con le nazioni e con le questioni delle nazionalità. E poi si sono intrinsecamente cementate con gli Stati-nazione. Questo fatto è evidente ancora al giorno d’oggi. Si pensi che, ancora oggi, la Brexit sta andando in palla per qualche centinaio di kilometri di confine, in Irlanda.

Qui sono io – questo punto – a dover avanzare l’esigenza di una distinzione, troppo spesso trascurata, quella tra illuminismo e romanticismo. Perché il vezzo comune è oggi quello di buttare via le eredità positive dell’illuminismo (ad esempio le teorie politiche della modernità delle quali s’è detto) in cambio di alcune vere e proprie tare del romanticismo. Non ho qui lo spazio per sviluppare l’analisi della questione del romanticismo come anti-illuminismo. Isaiah Berlin ha scritto un bel saggio in proposito. Avanzo soltanto l’ipotesi – a mo’ di esempio -  che in Europa il Secolo breve o, se vogliamo, la Guerra dei trent’anni (1914-1945) non ci sarebbero mai stati se non ci fosse stato lo scandaloso intimo matrimonio tra lo Stato e la nazione. Proprio quel matrimonio foriero di guerra e totalitarismi che stiamo cercando di superare con la federazione europea. Infatti, il grande Kant, che ancora non conosceva il potere terribile delle nazioni, poteva osare pensare all’ipotesi di una pace perpetua. Lo Stato moderno dunque non pare proprio aver “rimosso” l’elemento irrazionale, l’elemento religioso, etnico e quant’altro. Ci ha anzi sguazzato, e quando l’ha fatto maggiormente i risultati sono stati drammatici. Se un’accusa si può fargli è proprio quella di non averlo rimosso abbastanza. Tra l’altro, la teoria politica dello Schmitt era volta proprio a riportare l’irrazionale nella politica e la sua non è propriamente una teoria “moderna” e illuministica nella tradizione contrattualistica. Schmitt ha mirato al ripristino dei particolarismi del sangue e del suolo, proprio contro l’universalismo illuminista. Una teoria già pienamente sovranista e populista, insomma.


9. Dietro alla tesi che stiamo discutendo, c’è probabilmente un retro pensiero (di cui però credo sia del tutto esente l’amico Orlando) che a mio giudizio è decisamente pericoloso: quello che, in fondo in fondo, i particolaristi, i romantici, gli irrazionalisti, i fondamentalisti religiosi, i popoli, le masse, pur nelle loro espressioni magari poco eleganti, abbiano fondamentalmente ragione. Di fronte a costoro, i diritti e i doveri, la tolleranza, i pesi e contrappesi, la divisione dei poteri, lo stato di diritto, i rituali parlamentari, i formalismi procedurali appaiono come vuoti procedimenti meccanici, appunto espressioni di una macchina che ha perso il senso della propria ragion d’essere. I formalismi della ragione non scaldano i cuori e non cementano le società. Contro il Gestell, qualunque forma di ribellione, qualunque manifestazione vitale è spiegabile, comprensibile e quindi benvenuta. Quelli che si ribellano hanno sempre ragione. Qualcuno si è spinto fino a postulare la ribellione dei corpi, inventando la biopolitica. Secondo questo retro pensiero, hanno ragione i ceti medi impoveriti della rust belt a votare per Trump contro gli odiosi intellettuali liberal come Clinton o Obama. Hanno ragione i “poveri” Paesi ex comunisti di Visegrad a reagire contro l’immigrazione. Si hanno da comprendere i britannici pro-brexit, perché in fondo l’Europa è un carrozzone burocratico, hanno ragione i poveri delle periferie a votare per Salvini, perché la sinistra li ignora e poi perché soffrono per la globalizzazione. E hanno ragione quelli che vogliono avere in casa una pistola, visto che lo Stato (illuminista e astratto) non li protegge. La voce del popolo (e non quella del Leviatano) è pur sempre la voce di Dio. All’illusorio Dio macchina terreno si contrappone il Dio popolo terreno con tutta la sua energia vitale. Qualche volta al posto del popolo si parla delle masse, ma è esattamente la stessa cosa.


10. Ho citato il Gestell heideggeriano come esempio di questa tendenza. Abbiamo più volte citato lo Schmitt e i suoi epigoni. Ma sarebbe bene il caso di non scordare che molte delle tesi che sto confutando sono del tutto analoghe ad altre tesi che - sarà un caso? – risalgono tutte alla mittel Europa del primo mezzo Novecento. Altre tesi che sono molto popolari tra i post marxisti e post moderni. Possiamo prendere, come esempio, uno dei testi più sopravvalutati della filosofia contemporanea e cioè la Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. In questo scritto sciagurato, contorto e dotato peraltro di scarsa coerenza interna, gli intellettuali della Scuola di Francoforte, in fuga dalle persecuzioni naziste e approdati negli Stati Uniti, non trovarono di meglio che realizzare un autentico manifesto della reazione contro la ragione occidentale, contro la democrazia liberale e la società aperta. Lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per Herbert Marcuse. Chi non ricorda la tolleranza repressiva? Ma potremmo anche parlare di Lukács o di Benjamin. Ugualmente, sempre su questa strada, l’ebreo polacco Zygmunt Bauman, autore oggi osannato dalla sinistra, intellettuale in fuga dal comunismo reale, non ha trovato di meglio, nel suo libro più famoso intitolato Modernità e olocausto, che accusare l’illuminismo e la modernità nientemeno che dello sterminio degli ebrei. La colpa è sempre della macchina e non mai di chi la dirige. Si noti che i francofortesi e Bauman sono scappati da paesi totalitari e hanno trovato ospitalità nei “tolleranti” paesi liberal democratici. Non importa. Il nemico è sempre lo stesso, il Leviatano, lo Stato macchina contrattuale, “la razionalità che tenta di auto fondarsi”, la divisione tra pubblico e privato, la tecnica, il calcolo, le procedure formali, lo Stato di diritto. Certa sinistra, fino a quando non farà approfonditamente i conti con tutta questa spazzatura politico culturale, di fronte alle insorgenti minacce alla liberal democrazia sarà sempre lì a chiedersi da che parte stare.


11. Tesi 6 – Qui siamo alle conclusioni. Si sostiene che il baco della modernità illuministica avrebbe indebolito alla radice lo Stato moderno e quindi, conseguentemente, le attuali forme di governo liberal democratiche. Fino a disarmare le attuali liberal democrazie di fronte al populismo irrazionale, o, se vogliamo, di fronte ai barbari – come spesso si dice. Di fronte ai vari Orban, Morawiecki, Trump, e compagnia bella.

Se abbiamo tutti questi sospetti circa i profondi difetti strutturali delle liberal democrazie, allora è chiaro che un appello politico a difendere le liberal democrazie dagli attacchi contingenti non può bastare. Risulta, anzi, sospetto di collusione col nemico o, perlomeno, di collusione con il baco originario. Occorre dunque rianalizzare l’intero processo della costruzione dello Stato moderno, onde recuperare il rimosso e superare il razionalismo politico astratto dello Stato moderno. Solo in tal modo si riuscirà davvero a contrapporsi con successo agli attuali nemici della liberal democrazia.

Nel suo intervento Orlando purtroppo non dice la cosa più importante e cioè non dice esattamente cosa vorrebbe mettere al posto dello Stato macchina e delle liberal democrazie bacate. Il suo discorso analitico lascia aperte diverse strade e non dice quale effettivamente si voglia percorrere. Ad esempio, in primis, la strada schmittiana: lo Stato liberal democratico nell’emergenza, nella situazione di eccezione, dovrebbe farsi decisionista e fare piazza pulita di tutti gli impicci della macchina inceppata. Non dovrebbe cioè guardare troppo per il sottile. Ma questo lo stanno già facendo benissimo Orban, Trump e Salvini. Oppure, lo Stato liberal democratico dovrebbe aprirsi maggiormente alle componenti irrazionali (e etniche, religiose), dovrebbe farsi esso stesso un poco populista, dovrebbe magari usare il mito, più o meno come nel caso della Brexit o dell’America great again. Anche qui, qualcuno ci ha già pensato. Oppure ancora, si potrebbe provare a ridisegnare la macchina dello Stato moderno, per definizione inefficiente e squalificata, intervenendo sui meccanismi della partecipazione. In questo senso c’è una miriade di micro proposte, da Porto Alegre fino alla democrazia della rete dei grillini. Si tratta di proposte che però finora non hanno dato prove persuasive e comunque potrebbero sempre essere accusate di vacuo riformismo, cioè di lasciare in piedi la “macchinazione” nel senso del Gestell originario. Si potrebbe, infine, cercare di dare un fondamento non contrattualistico alla democrazia, costruire un corpo politico che non sia più concepito come macchina, fondato magari su un’ipotetica socialità originaria dell’uomo o sui bisogni originari dell’uomo, ma qui siamo nel campo dell’utopia. Sennò, ancora, sullo sfondo resta pur sempre la vecchia anarchia o il nichilismo esistenziale, quest’ultimo decisamente più di moda.   

Resta comunque non chiarito cosa facciamo intanto, nell’attesa di avere identificato il “grande baco” e nell’attesa di avere finalmente fondato una nuova teoria politica post hobbesiana, cioè post contrattualistica.  Siccome qualcuno ci sta scippando la liberal democrazia che c’è, noi stiamo qui a ragionare su quella che invece avrebbe dovuto essere e che invece non c’è. E che magari invece un giorno ci sarà.  


12. A proposito di soluzioni alternative, la questione che stiamo discutendo ha una singolare analogia con l’argomento che ho affrontato in un mio recente saggio titolato Populismi, ircocervi e sarchiaponi (pubblicato su Città Futura il 18/06/2019). E’ uno scritto piuttosto serio, nonostante il titolo sia un poco scherzoso.  Il saggio – di una ventina di pagine - contiene una analisi critica circostanziata alle teorie di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe. Si tratta di teorie che per molti versi sono del tutto analoghe alle tesi sullo Stato moderno e sulle relative forme di governo avanzate dall’amico Orlando. Laclau e Mouffe, autori post moderni e post marxisti, sono sostenitori di una democrazia radicale considerata come alternativa a quella della tradizione giusnaturalistica moderna. Non a caso si rifanno non tanto a una teoria del contratto quanto a un’eclettica teoria del conflitto, basata su Gramsci, Althusser e - udite, udite – proprio il nazi riciclato Carl Schmitt. L’occasione per la scrittura del mio saggio era stata la pubblicazione in Italia del libro di Chantal Mouffe intitolato Populismo di sinistra. E’ abbastanza significativo che la Mouffe, nel suo libro, partendo da un impianto che è schmittiano nella sostanza, abbia cercato di rivalutare proprio il populismo – quello di sinistra – nell’intento di ovviare ai bachi strutturali del liberalismo. E’ abbastanza chiaro, per questi orientamenti, che il vero nemico non è tanto il populismo, quanto proprio il liberalismo. Mouffe non dice una sola parola su come si combatte il populismo di destra e si concentra tuttavia con grande impegno sui difetti strutturali del liberalismo democratico. Solo superando la liberal democrazia che c’è, con l’introduzione di una piuttosto fumosa democrazia radicale, sarà possibile valorizzare la parte buona del populismo contro la parte cattiva. Cioè realizzare il sogno di Orlando: integrare la protesta anti democratica in una democrazia radicale di tipo nuovo, completamente diversa da quella attuale, troppo contaminata dal “liberalismo”. In questo senso, la contrapposizione tra liberalismo e democrazia qui ci starebbe.

Detto per inciso, nell’intervento di Marco Ciani “Il disordine della ragione pubblica”, intervento che in un certo senso ha aperto il nostro dibattito, si faceva un lodevole sforzo per argomentare a favore della nuova interpretazione del contratto liberaldemocratico da parte di Rawls e dei cosiddetti – appunto – neo contrattualisti. Ebbene, dal punto di vista dei nostri post marxisti e post moderni, la teoria di Rawls non sarebbe altro che l’ennesima espressione della macchinazione, ovvero della illusione hobbesiana di fondare il Dio in terra. Non a caso Rawls è stato accusato di eccessiva astrazione ed è stato contrastato dai comunitaristi nord americani alla Sandel, sostenitori del radicamento etnico culturale. L’irrazionale è sempre all’opera.


13. Per finire, l’impressione drammatica che si ha è che in certi ambienti post marxisti e postmoderni, pur attraverso le più strambe variazioni ideologiche, la cosa più importante sia quella di conservare il nemico. Occorre pur sempre un bersaglio contro cui scagliarsi che dia un senso alla vita. In fondo, de-costruire è pur sempre meglio che costruire. Le costruzioni intanto, per definizione, non possono avere un fondamento e vanno abbattute. Qualsiasi teoria, comprese le teorie nazi, può andar bene purché serva ad attaccare il nemico. E il nemico è quello di sempre. La democrazia liberale puzza di tecnica e di capitalismo, e la tecnica e il capitalismo sono il male assoluto. Una volta che questo sia stato deciso, tutto il resto ne consegue. La tradizione moderna illuministica è marcia per definizione e quindi bisogna per forza inventare o recuperare delle narrazioni alternative che ne mostrino l’intrinseca debolezza. Il problema è che queste narrazioni alternative hanno spesso una trama logica che non sta in piedi. Il linguaggio del razionalismo illuministico ci ha dato le Costituzioni, ci ha dato la nozione dei diritti, ci ha dato quel complesso di principi etico politici sintetizzati nelle tre parole d’ordine dei rivoluzionari francesi. Tanto che in tutto ciò, effettivamente, non possiamo non dirci moderni. Il linguaggio delle ipotesi alternative alla modernità invece ci ha dato finora soltanto un cumulo di spazzatura. La quale però viene avidamente consumata, divulgata, chiacchierata, esaltata e presentata di volta in volta come soluzione alternativa. Sarebbe ora di scendere dal castello delle illusioni e mostrarsi così pragmatici da prendere quel che c’è di buono, senza schifarlo troppo, anche da uno come Hobbes. E se le liberal democrazie sono minacciate, sarebbe il caso di difenderle, senza stare troppo a pensarci sopra, senza fare troppi distinguo. Sennò si rischia facilmente di stare dall’altra parte.



Giuseppe Rinaldi

29/08/2019










domenica 11 agosto 2019

Le elezioni di Salvini, … e quelle di Zingaretti














1. Ora che, finalmente, l’unico concreto obiettivo che il segretario del PD ha continuamente sbandierato negli ultimi tempi, e cioè la caduta del governo gialloverde e le (presumibili) nuove elezioni, pare sia stato raggiunto, nonostante tutta la simpatia umana e qualche moto di compassione che possiamo provare per Zingaretti, non vediamo proprio cosa ci sia da essere così tanto soddisfatti. Cosa ci sia tanto da ridere. La situazione politica non è mai stata così drammatica per la sinistra italiana e per il PD. Forse gli ultimi a rendersene conto sono proprio certi dirigenti del PD che paiono, da un bel po’, vivere in un bel mondo a parte. Dopo le elezioni del 4 marzo 2018 – le quali furono, ricordiamolo, disastrose per la sinistra e per il PD – che hanno consacrato il governo gialloverde e, soprattutto, dopo le elezioni europee del 26 maggio 2019 che hanno segnato un’avanzata netta della Lega rispetto al M5S, nonché dopo infiniti sondaggi che hanno continuamente attestato la crescita della popolarità di Salvini fino a cifre tra il 35 e il 40 %, chiunque non avesse spesse fette di salame davanti agli occhi si poteva attendere che Salvini  avrebbe deciso lui quando far saltare il governo e andare a nuove elezioni, e cioè nel momento giudicato tatticamente più favorevole. Evidentemente quel momento è arrivato. In politica non sono mica tutti allocchi. Se Salvini apre di sua iniziativa la crisi proprio adesso, vuol dire che, secondo i suoi disegni, politicamente gli conviene. Il tuo principale avversario, sceglie di andare a elezioni anticipate proprio ora e tu dici «Sì, bene, era ora! Andiamo a elezioni!». Forse sarebbe appena il caso di cercare di capire le mosse del tuo avversario, invece di festeggiare e di assecondarlo.


2. Si può decidere di assecondare la linea del proprio avversario solo se si ha una ragionevole prospettiva di vincere. Noi saremo anche un po’ miopi, ma non ci pare proprio di scorgere dove stia, in questo caso, l’asso nella manica del PD. Forse è il caso di fare un ripassino per avere chiara qual è la situazione attuale del PD. Dopo la sconfitta clamorosa avvenuta il 4 marzo 2018, il PD ha passato un lungo anno di coma e di afasia profonda. Invece di fare subito, tatticamente, l’unica cosa che avesse un qualche senso – cioè formare un governo con il vincitore di allora che era il M5S – il PD (che era oltretutto reduce da una scissione interna) ha preferito mettersi da solo nell’angolo. Favorendo – non contiamoci storie - così sul piano esterno la nascita del governo gialloverde. E dando luogo, sul piano interno, alla sbiadita e penosa segreteria di transizione di Martina, sotto la guida del quale il partito è stato a guardare quel che facevano i gialloverdi – sempre minacciato dai mugugni di Renzi. Tutto quel che è riuscito a fare Martina è stato di traghettare il PD verso un Congresso (tenuto, con gravissimo ritardo, ben un anno dopo, nel marzo del 2019). Si è trattato di un Congresso che, col senno di poi, è stato del tutto inutile. Un congresso dove le correnti interne si sono contate e dove non si è discusso della linea politica, degli obiettivi politici e delle alleanze. In concomitanza all’inutile Congresso, attraverso le primarie del 3 marzo 2019 è stato eletto un segretario che avrebbe dovuto avere i pieni poteri di direzione politica (lo Zingaretti, appunto).

La politica prevalente, tra Renzi, Martina e Zingaretti è stata quella del pop-corn, quella di stare a guardare, aspettando che il governo gialloverde si imballasse con le proprie mani. Ma la politica del pop-corn non aveva fatto i conti con Salvini. Poco tempo dopo, alle elezioni europee del 26 maggio 2019, cioè dopo un anno suonato di governo gialloverde, abbiamo potuto registrare un declino clamoroso di consenso per il M5S e l’avanzata della Lega al 34%. Il PD all’opposizione con il 22%, con una modestissima rimonta rispetto al marzo 2018. Va osservato che le elezioni europee erano state condotte dalla compagine di sinistra con un dilettantismo davvero straordinario. In quella occasione perdemmo anche la Regione Piemonte.

In questo quadro, l’unica recente iniziativa politica di Zingaretti – prova tangibile che quello del marzo 2019 era stato congresso del tutto inutile - è stato l’annuncio del lancio, per l’autunno, di un grande dibattito nel Paese (una “Costituente delle idee”) per fissare (finalmente!) gli obiettivi dell’azione politica del PD. Per altro, il PD ha continuato a trovarsi in difficoltà (con le solite risse interne) ogni qual volta ha dovuto esprimersi su qualche questione specifica. Una delle ultimissime è stata la doppia raccolta di firme per le dimissioni di Salvini. Meno male che Zingaretti, in TV, un giorno sì e uno no, è andato avanti a proclamare che quelli del governo «Sono divisi su tutto»!


3. Va ricordato che, dopo la sua elezione a Segretario, il simpatico Zingaretti ha continuato a fare il Governatore del Lazio, quasi che fare il Segretario del PD sia una sinecura a mezzo tempo (del resto a cose simili ci aveva già abituato Renzi). Governare il PD non richiede evidentemente molto tempo, visto che di grandi svolte non se ne sono proprio viste. Se il problema più grosso è quello di mantenere l’equilibrio tra le correnti, in simili casi, meno si fa meglio è. Zingaretti si è esibito in qualche viaggetto in giro a stringere un po’ di mani, a incontrare “la parte sana del Paese” e poi non ha fatto altro che cantare la costante cantilena dell’invito al governo a dimettersi e ad andare a nuove elezioni. In più Zingaretti non ha mancato di enunciare pubblicamente – contro chi avanzava qualche opposta possibilità – che mai il PD sarebbe andato al governo con il M5S. Va bene. È del tutto legittimo andare a nuove elezioni e non allearsi con il M5S. Ma dove sta, allora, l’asso nella manica per vincerle, le nuove elezioni?

Ci piacerebbe sapere su quali basi pensa Zingaretti (dico lui per tutti gli altri della sua corrente) di fare un risultato migliore del 4 marzo 2018. Su quali basi pensa di poter fare un risultato tale che gli consenta di mettere fuori gioco i suoi competitori e di riuscire a governare. Per governare bisogna avere la metà dei voti più qualcosa. E se uno non li ha di proprio, deve pensare a trovare degli alleati. La politica delle alleanze passa o per Berlusconi, oppure per il M5S. Berlusconi non ha i voti sufficienti e il M5S è stato dichiarato off limits per definizione. In questa situazione, Zingaretti si condanna, andando a nuove elezioni, o a fare il pieno di voti e governare da solo, o a stare a guardare quel che faranno gli altri.

Purtroppo il PD non ha mai capito (non ci ha neanche provato, a capire) perché il M5S ha stravinto nel 2018. Il PD non ha mai capito quell’ampia fascia di elettori italiani, soprattutto giovani e soprattutto centro meridionali, che si sono “rotti i coglioni” e hanno votato in massa per il M5S. E quindi non riesce neanche a formulare alcuna politica di alleanze nei confronti del M5S. Si vorrebbe riportare a casa gli elettori che dalla sinistra sono andati a votare M5S. Si, ma come, con quali obiettivi? Con la “Costituente delle idee”? In realtà il PD considera il M5S semplicemente come un corpo estraneo. Un branco di neofiti sprovveduti da guardare con senso di superiorità. Il vero problema è che cercare di capire le ragioni del successo del M5S significherebbe, per il PD stesso, interrogarsi a fondo sulla propria storia degli ultimi due decenni. Sui propri limiti. E questo il PD non è proprio in grado di farlo.


4. Per essere così contenti di andare a nuove elezioni dicevamo che bisognerebbe avere, almeno, un piccolo asso nella manica. Delle due l’una: o il PD è davvero cambiato, oppure gli elettori sono cambiati. Da quel che s’è detto, non si può proprio sostenere che il PD sia cambiato. Se il PD “sta in piedi per una scommessa”, come si dice dalle nostre parti, allora si potrebbe presumere che gli elettori siano cambiati. Si presume che una parte consistente di elettori abbia costatato la negatività del governo gialloverde e che ora possa “tornare a casa”, rivolgersi con nuovo entusiasmo al vecchio usato sicuro che prima aveva rifiutato. È chiaro che questa è una narrazione del tutto insensata. Non ci sono frotte di elettori gialloverdi che smaniano nuove elezioni per poter tornare nell’alveo della sinistra, per votare il PD di Zingaretti. I sondaggi parlano chiaro: gli elettori delusi vanno a destra, a rafforzare Salvini e non a sinistra. Certo, con nuove elezioni qualche punto si potrà anche rosicare, ma non abbastanza per governare.


5. Se si invocano le elezioni un giorno sì e uno no, bisognerebbe poi sapere che si dovrebbe anche discutere di legge elettorale. L’attuale legge elettorale è firmata PD (a proposito, Rosati che fine ha fatto?). Non abbiamo mai sentito Zingaretti parlare della legge elettorale. Se s’invocano le elezioni e non si parla di legge elettorale, vuol dire che questa va bene. Una simile legge elettorale potrebbe anche andar bene in forma difensiva, visto che è un quasi proporzionale, ma non va certo bene in forma offensiva, per vincere, perché non si parla di premi e di coalizioni, se non in parte minima. Il rosatellum, favorendo la frammentazione, impone di fare coalizioni per governare, proprio quelle che Zingaretti non è disposto a fare. Ci dica allora Zingaretti con chi pensa di farla questa benedetta coalizione di governo. O pensa davvero di vincere da solo, superando il 45-50%? Sembra dire Zingaretti: andiamo alle elezioni, contiamoci e poi vediamo quel che succede. Irresponsabile!


6. Per andare alle elezioni con baldanza, bisognerebbe avere migliorato la propria capacità attrattiva nei confronti degli elettori. Bisognerebbe aver mandato un chiaro messaggio di cambiamento, di rinnovamento. Domandiamoci allora se è cambiato qualcosa nel PD. Il passaggio da Renzi/ Gentiloni a Zingaretti è stato sufficiente a costruire una nuova immagine, tale da attrarre le ipotetiche folle di elettori delusi dai gialloverdi? Dalla sconfitta del 4 marzo, nel PD, prima sotto Martina e poi sotto Zingaretti, non si è neppure cominciato a fare quello che – sotto gli occhi di tutti – sarebbe stato immediatamente necessario: una ristrutturazione radicale dell’organizzazione stessa del partito. Tanto visibile da poter dire che finalmente “il PD è cambiato”. Già dalla sconfitta referendaria subita da Renzi s’era capito che il Pd oramai non aveva più alcun radicamento territoriale, la militanza era sparita, venuti meno i giornali e gli altri strumenti di comunicazione, le feste popolari, la vita delle sezioni e così via. Le primarie zoppicanti.  La “Leopolda” - e altri simili riti di corrente - non può sostituire il radicamento territoriale di un partito che voglia essere di sinistra. Questo non l’ha capito Renzi e non l’anno capito neanche i suoi avversari interni. Tutto quel che è stato fatto è stato di dare l’incarico all’ineffabile Martina di elaborare una proposta di riorganizzazione dello Statuto del PD. Nessuno ne ha più sentito parlare. Intanto sono emersi – proprio a livello locale – un certo numeri di scandali, alcuni dei quali molto gravi. In primis il caso della regione Umbria e della presidente Catiuscia Marini. Anche in Calabria sembra ci sia qualche problema. Parecchio personale politico minore del PD è stato poi coinvolto in scandali e inchieste di vario genere. È questo un malessere diffuso che è conseguenza proprio della perdita della militanza e del radicamento territoriale. Quelli che restano nel partito spesso lo fanno per interesse personale e non sempre gli interessi personali sono limpidi. Anche le consultazioni interne (primarie) spesso sono risultate inficiate da contestazioni. Il caso della regione Sicilia, con la revoca dell’elezione di Faraone fa testo. Il PD è nato con la parola d’ordine delle primarie, per dare la parola agli elettori, ma ora a quanto pare non sa più cosa farsene delle primarie. Insomma, siamo in presenza di un “PD nuovo” che, ovunque ti giri, mostra soltanto il lato vecchio e peggiore.


7. La mancata riforma dell’organizzazione del partito fa a tutt’oggi del PD un partito dove a competere non sono le idee ma i gruppi di potere e una serie di leader che ormai appaiono consunti, vere e proprie minestre riscaldate. Non è un mistero che i renziani abbiano il controllo del gruppo parlamentare, mentre gli zingarettiani pare non controllino gran ché, se non i fumosi organi dirigenti che, a quel che si vede, pare dirigano ben poco. Sinceramente non riusciamo ad appassionarci al dibattito interno tra renziani e zingarettiani, anche perché non si tratta di un dibattito di contenuti politici bensì di conta delle poltrone.

Un partito siffatto - diciamo pure in via di sintesi - allo sbaraglio, nella prospettiva elettorale aperta da Salvini e plaudita da Zingaretti, si troverà a dover designare in breve tempo il nome di un leader per il confronto elettorale con Salvini. Si è già sentito parlare di Gentiloni, tipica, ahimè, minestra riscaldata. È appena il caso di ricordare che Gentiloni era il Primo ministro quando il PD ha avuto il tracollo elettorale più spaventoso della sua storia. In caso di nuove elezioni, il PD si troverà dunque a doversi presentare agli elettori con un personale politico rinnovato, con un programma nuovo, con un progetto politico più convincente di quello dei concorrenti. Dovrà cioè fare in sessanta giorni quello che non ha fatto in due anni.


8. I più patetici di tutti – davvero meritevoli di compassione – sono i cespugli con cui il PD si dovrebbe alleare, sia come coalizione elettorale che – forse – come eventuale coalizione di governo, nel caso di grande vittoria. I quali cespugli, dopo avere fatto di tutto per perdere le elezioni europee, continuano a insistere nel fare le mosche cocchiere. Parlo per brevità di Bonino, Fassina, Speranza, Fratoianni e quant’altri. E Grasso, che fine ha fatto?  E Pisapia? Sinceramente, abbiamo perso la conta dei rimescolamenti “a sinistra” del PD. Già, ma per fare anche solo una coalizione elettorale (notare che le coalizioni elettorali con l’attuale rosatellum sono solo sulla carta e non contano nulla agli effetti della formazione del governo) le attuali possibili forze dei cespugli, mettendo anche in conto qualche veto incrociato, non bastano. C’è stato, infatti, chi recentemente ha proposto di promuovere altre nuove formazioni di centro sinistra con cui il PD si possa poi alleare, per catturare più elettori. Renzi è da un po’ che ci pensa. Può darsi che lo faccia, ora che con il probabile scioglimento delle Camere lui e tutti i suoi andranno a casa. Calenda poi l’ha proposto esplicitamente. Una bella scissione del PD da parte di Renzi e dei suoi, a uno o due mesi dalle elezioni, sarebbe proprio un bijou. Un eventuale partito di Calenda poi non si sa quante divisioni potrebbe mettere in campo, anche se Calenda è tra i leader attuali del PD che sa meno di minestra riscaldata. Dunque, non è chiara la coalizione elettorale e non è neanche chiara – cosa assai più importante – la coalizione di governo che si ha in mente. E Zingaretti è tutto contento di andare alle elezioni!


9. Con avversari di questo genere, in caso di nuove elezioni anticipate, la Lega andrà a stravincere. Se non riuscirà ad avere da sola la maggioranza per formare un governo, troverà facilmente quelli disposti a saltar sul carro. Così Salvini avrà i tanto sospirati “pieni poteri” per fare quello che il M5S non gli permetteva di fare fino in fondo. Questo implicherà la compiuta vittoria del sovranismo in Italia, con conseguenti probabili sconquassi di tipo economico, problemi con l’Euro e la prevedibile incrinatura o rottura dei rapporti con la UE. Steve Bannon e Putin saranno proprio contenti. E forse anche Trump. Quel che più conta è che, a questo punto, i sovranisti avranno una netta maggioranza in parlamento e alla scadenza del mandato saranno loro a dire l’ultima parola sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Naturalmente non si fermeranno all’elezione del Presidente. Introdurranno tutte quelle modifiche costituzionali ritenute opportune e consone alla loro visione del mondo. La Costituzione attuale così diventerà uno straccetto. Si spera che i valorosi difensori della Costituzione – che in Italia sembrano viaggiare un poco a singhiozzo – facciano un pensierino serio sulla pericolosità della situazione e si diano da fare per tempo.


10. L’unica strada per evitare la catastrofe sicura sarebbe quella di non fare quello che oggi desiderano ardentemente fare proprio Zingaretti e Salvini. Evitare cioè, a  tutti i costi, di andare a elezioni anticipate. Per evitare il peggio, si tratta dunque di tenere, ahimè, in piedi questa sfortunata Legislatura.  Fare cioè quel che si sarebbe dovuto fare dopo il marzo 2018. Del resto chi ha governato con Berlusconi non dovrebbe guardare troppo per il sottile. Si tratta di cercare di mettere in piedi un governo alternativo a Salvini, basato sulle attuali rappresentanze parlamentari.  Lo ha capito anche Grillo – il che è tutto dire. La possibilità numerica ci sarebbe: una coalizione PD con M5S e altri volenterosi e responsabili cespugli. Magari con un Primo ministro di prestigio, super partes e bene accetto a tutti, particolarmente in Europa. Qualcuno ha provato ad avanzare una simile proposta ma è già stato zittito. Si è subito parlato di inciucio. Si spera che – entro i limiti dei suoi poteri – ci pensi Mattarella a rilanciare l’ipotesi. Ma senza l’appoggio dei partiti più importanti (tra cui il PD e il M5S) anche Mattarella potrà fare ben poco.  

Purtroppo quest’anno vissuto pericolosamente del governo gialloverde ha lacerato gli spiriti oltre che il Paese. Purtroppo quella che è la scelta più logica sarà con ogni probabilità stupidamente scartata. Per fare una simile scelta occorrerebbe un minimo di professionalità politica, di lungimiranza, sapere distinguere bene la tattica dalla strategia. Intanto per fare una qualche tattica un poco spregiudicata, da contrapporre allo spregiudicato Salvini, una strategia bisognerebbe averla e questo purtroppo non è il caso, né del M5S né del PD. Queste due forze politiche oggi non hanno alcuna strategia e non sono dunque neanche in grado di fare una buona tattica. Sono soltanto in grado di fare delle dichiarazioni di propaganda, appelli a identità inesistenti o vani gesti di coraggio (“Noi non abbiamo paura delle elezioni!”). Hanno soltanto un coacervo di slogan appiccicati in testa che continuano a ripetere – “Noi con questi non governeremo mai!” – per cui alla fine resteranno entrambi con un pugno di mosche. E Salvini vincerà su tutta la linea. Dilettanti allo sbaraglio.



Giuseppe Rinaldi

11/08/2019