lunedì 26 maggio 2014

Il grande silenzio

 
 
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In una lunga intervista a Simonetta Fiori, intitolata Il grande silenzio,[1] Asor Rosa ha delineato vivacemente i tratti fondamentali della parabola compiuta degli intellettuali moderni, dalla loro comparsa fino ai giorni nostri. Secondo lo studioso, proprio in questi decenni staremmo assistendo alla conclusione della drammatica vicenda degli intellettuali moderni, un processo iniziato nell’età dei Lumi e che, attraverso alterne vicende, sarebbe giunto fino a oggi. Così egli sintetizza la sua analisi della situazione attuale: «Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista. Mutamenti colossali sono intervenuti in tutto l’Occidente; l’Italia, come spesso è accaduto, rappresenta un laboratorio particolare. È finita una lunga storia intellettuale, ma non la possibilità di un esercizio critico dell’intelligenza, anche se oggi è più difficile vederne le manifestazioni».[2] Sulla tanto discussa questione degli intellettuali anche Asor Rosa ha assunto dunque una posizione marcatamente catastrofista. In un’epoca dove è di moda annunciare le grandi svolte e, in particolare, la fine di tutto ciò che ha da sempre caratterizzato il nostro paesaggio umano, non poteva certo mancare l’annuncio della fine degli intellettuali. [3]
Asor Rosa ha individuato con una certa precisione storica e sociologica l’oggetto delle sue considerazioni. Egli non si occupa del generico operatore della conoscenza (knower o savant) che come tale è presente in tutte le società umane (si pensi allo sciamano, al prete, al filosofo, allo scriba), bensì di uno specifico tipo, l’intellettuale moderno, ben caratterizzato nel tempo e nello spazio, che viene così ad avere una sua precisa data di nascita e, ora, anche una sua data di scadenza. L’intellettuale strictu sensu di cui parla Asor Rosa è una figura che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo della società moderna fino a oggi e che, come tale, si differenzia rispetto a tutte le altre figure consimili precedenti. Infatti egli afferma in proposito che «La definizione più corretta per l’intellettuale premoderno è savant: colui il quale è dotato di specifiche competenze, che in taluni casi è disposto a mettere al servizio della comunità. Il caso di Niccolò Machiavelli è esemplare. Ma il passaggio fondamentale - per la storia intellettuale che stiamo tratteggiando - è segnato dalla rivoluzione capitalistica, che conferisce agli intellettuali una configurazione di ceto che prima non avevano».[4] Ci sarebbero dunque sempre stati dei savant, ma non sempre questi sono diventati un ceto.[5] In altri periodi storici la trasformazione dei savant in ceto era talvolta già avvenuta, basti pensare ai mandarini, di cui spesso la sociologia si è occupata, oppure ai chierici medievali. Gli intellettuali in senso stretto, cui si riferisce Asor Rosa, sono diventati un ceto specifico nel contesto delle grandi rivoluzioni che hanno contrassegnato l’età moderna. Essi hanno contribuito alle grandi rivoluzioni e proprio da queste hanno tratto alcune delle loro più tipiche caratteristiche.
Solo piuttosto tardi questo nuovo ceto ha trovato una denominazione esplicita: «Il termine nasce nella seconda metà dell’Ottocento, ma avendo alle spalle tutta la complessa esperienza intellettuale e politica che parte dall’Illuminismo e attraversa la rivoluzione francese ed esperienze successive. La parola intelligencija, usata per la prima volta dal romanziere russo Boborykin, quasi contemporaneamente viene ripresa e diffusa da Turgenev. In precedenza si usavano altri termini, come écrivains o gens de lettres. Nell’ Encyclopédie, sotto l’articolo Gens de lettres, Voltaire elenca molti degli attributi che noi saremmo disposti a considerare caratterizzanti per la definizione dell’intellettuale moderno. Gli illuministi in sostanza non arrivarono a coniare un nuovo termine, ma hanno già chiara la funzione».[6]
Pur evitando di entrare all’interno di sottili questioni di definizione sociologica che sarebbero necessarie, lo studioso ha cercato di individuare la differenza specifica che contraddistingue questo modello di intellettualità. Per quel che concerne le sue caratteristiche distintive intrinseche: «…l’intellettuale occidentale è stato contraddistinto fondamentalmente dalla presenza più o meno equilibrata di tre componenti: pensiero forte, pensiero critico, valori.  Per pensiero forte intendo un pensiero che si basa su grandi progetti e guarda a obiettivi alti. Per collocarsi dentro il contesto sociale e culturale in cui nasce, esso deve compiere un’operazione preliminare che consiste nella critica dell’esistente, e quindi nell’indicazione di un suo superamento. Pensiero forte e pensiero critico sono le due facce di una stessa medaglia».[7] Insomma, da questo punto di vista, l’intellettuale moderno di Asor Rosa assomiglia per molti aspetti all’intellettuale legislatore individuato da Bauman,[8] anche se Asor Rosa lo interpreta soprattutto come intellettuale critico.
Ma esaminiamo alcune ulteriori caratteristiche specifiche di questo modello di intellettuale, come è concepito da Asor Rosa. Pur essendo per molti aspetti legato alla prospettiva marxista, lo studioso se ne differenzia alquanto nell’analisi degli intellettuali. Se è vero che il ceto intellettuale moderno è nato sotto il condizionamento strutturale della Rivoluzione industriale, è altrettanto vero che in quel contesto gli intellettuali hanno avuto modo di sperimentare forme molteplici di autonomia, indipendenza, trasgressione e ribellione. Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio della loro comparsa, è stato ampiamente dibattuto, in tutte le sue sfaccettature, il problema della dipendenza/ indipendenza degli intellettuali, il problema del rapporto tra gli intellettuali e i loro committenti, a livello etico, economico, politico o sociale. La parabola degli intellettuali moderni, secondo Asor Rosa, dimostra che l’indipendenza dal contesto rappresenta una delle loro fondamentali caratteristiche: «Nel corso degli anni ho molto riflettuto sull’autonomia come condizione imprescindibile della funzione intellettuale, mettendone in discussione dunque qualsiasi forma di organicità. Riesco oggi difficilmente a considerare positiva un’attività del pensiero che decisamente si subordini a un comando, quale che sia. […] nel corso degli anni, e nell’accumulo delle esperienze, mi è sempre stato più chiaro che la funzione intellettuale si è espressa al più alto livello all’interno dei regimi liberaldemocratici, ossia là dove il capitalismo ha trovato un punto di compensazione e compromesso con le forme politico-istituzionali liberaldemocratiche. Mentre essa s’è fortemente impoverita o interrotta o addirittura soffocata là dove sono prevalse soluzioni totalitarie, poco importa se di destra o di sinistra».[9]
Dunque, ammissione piuttosto singolare per uno studioso che comunque non ha mai cessato di riferirsi al marxismo, la figura dell’intellettuale moderno avrebbe trovato il suo miglior terreno di espressione nella società borghese e nell’ambito delle forme politiche - istituzionali liberal democratiche. Tanto che il venir meno di entrambe queste condizioni avrebbe determinato il tramonto stesso di questo modello di intellettuale: «Per motivi non dissimili da quelli che caratterizzano le vicende degli intellettuali, nel secondo dopoguerra la borghesia attenua di molto la sua presenza o addirittura scompare di scena, come accade in Italia, segnata in questo come in molti altri campi da una maggiore fragilità rispetto al resto d’Europa. La scomparsa o la presenza sempre meno significativa della borghesia trascina con sé il tramonto degli intellettuali. Borghesia e intellettualità, secondo me, appaiono legate sul piano storico da un nesso indissolubile».[10]
In genere si ritiene che l’intellettuale moderno sia di tipo generalista e che lo specialismo costituisca una minaccia nei suoi confronti. Asor Rosa è invece contrario all’intellettuale generalista, al tuttologo. Egli riconosce che l’intellettuale deve essere specialista in qualche settore. Ma non è in quanto specialista che è intellettuale. Si rientra nell’intellettuale pubblico quando, a partire dallo specialismo, si affrontano temi di ordine più generale: «L’ho già detto all’inizio, e lo ripeto: i grandi e più autentici maîtres à penser del Novecento erano dei grandi specialisti, spesso scopritori di nuovi territori della conoscenza. Il messaggio che queste scoperte specialistiche veicolavano diventava materia di riflessione collettiva e finiva per improntare altri comportamenti intellettuali. Ora il venir meno di queste figure non solo ha impoverito il dibattito pubblico del contributo che in tal periodo proveniva dai singoli specialismi, ma ha indebolito gli stessi specialismi. La crisi è rifluita all’interno della stessa ricerca, venendole meno il nutrimento rappresentato dalla relazione con il sociale».[11] Si tratta quindi di una specializzazione che non va confusa con la parcellizzazione dell’attività intellettuale, ben nota ai nostri giorni.
La figura dell’intellettuale moderno sarebbe dunque legata indissolubilmente al progetto della modernità. Secondo Asor Rosa la modernità sarebbe stata caratterizzata da tre elementi fondamentali, indissolubilmente intrecciati: l’individualità, la funzione sociale dello sviluppo economico e la politica come governo del bene comune. Il venir meno di questi elementi avrebbe innescato anche il processo di dissoluzione degli intellettuali.
A proposito della modernità: «il moderno compie un gigantesco percorso lineare che va dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiano fino alla seconda metà del Novecento: un tragitto segnato essenzialmente da tre categorie. Intanto, come ho già detto, la creatività individuale. La creatività individuale non ha la medesima rilevanza nell’età che precede questo lungo viaggio, ossia nel Medio Evo, il che non esclude che vi fossero anche allora espressioni di creatività individuale, ma perfino esse si manifestarono in forme che negano la categoria fondativa dell’individualità. […]. Secondo elemento della modernità è la concezione del lavoro economico come produzione di beni utili alla collettività, naturalmente commercializzabili, quindi fonte di profitti, ma in un contesto caratterizzato da una visione etica dell’economia. Il terzo elemento è costituito da una concezione della politica come gestione del bene comune. Dentro questo percorso c’imbattiamo in Machiavelli, ma anche nella rivoluzione egalitaria di Robespierre e nell’ottobre rosso di Lenin. Potrà apparire un po’ azzardato interpretare Lenin o Robespierre come i Machiavelli della rivoluzione, ma forse non lo è del tutto. Accanto a queste concezioni, diciamo così, estremistiche del processo, ci sono Bodin, Montesquieu, Tocqueville, e c’è lo “Stato sociale”, ossia la versione socialdemocratica e liberaldemocratica, moderata e riformistica, della modernità. […] Ecco, io direi che il moderno finisce nel corso del Novecento, quando quelle tre caratteristiche dominanti - da me indicate ovviamente in modo molto schematico - sono messe in discussione, prima dai totalitarismi nazifascista e comunista, successivamente in maniera meno cruenta, assai meno dolorosa, ma molto più efficace, dal sormontare della civiltà democratico-capitalistica di massa.».[12]
Insomma, al di là degli incidenti storici dei totalitarismi, la fine della modernità si toccherebbe con mano soprattutto nell’ambito della compiuta affermazione della cosiddetta  società di massa. In questo ambito, tra i fattori di trasformazione che avrebbero inciso maggiormente sul ceto degli intellettuali vengono indicati: 1) la massificazione dell’università; 2) la televisione e i nuovi media; 3) la nuova industria culturale e il mercato editoriale (che avrebbero fagocitato la società letteraria). Più in generale: «È dichiaratamente finito il periodo dei grandi conflitti ideologici che corrispondevano ai grandi conflitti storici e sociali e cercavano di spiegarli, sistematizzandoli. Oggi non c’è più il conflitto tra le classi, forse (almeno nel senso tradizionale del termine) non ci sono neppure più le classi che hanno reso possibile l’esercizio della funzione intellettuale. Non ci sono più le grandi ideologie che davano un senso a quel conflitto. E forse, come qualcuno ha teorizzato, non c’è più il senso della storia».[13] Sempre a proposito della storia lo studioso aggiunge: «...siamo stati testimoni delle ultime manifestazioni di un’opera intellettuale fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per ridefinirlo. Tutto questo non esiste più».[14]
La nuova situazione derivante dalla società di massa è particolarmente grave per la compagine degli intellettuali critici schierati, per i cosiddetti public intellectuals: «…l’intellettuale di sinistra critico è divenuto nel tempo il relitto di un’età in cui si pensava per grandi sistemi e per grandi contrapposizioni, e si osava aspirare a grandi obiettivi. Poi s’è trattato di governare la mediocrità, e per questo sono occorsi strumenti più circoscritti, neutri, e più parziali. Se serve una collaborazione - ma questo accade sempre più di rado, direi quasi mai - viene richiesto un contributo su singoli segmenti. All’intellettuale critico è subentrato quello flessibile, “usa e getta”. Oggi nel Partito democratico non c’è più nessuna discussione di tipo culturale».[15]
 Per Asor Rosa tuttavia, se è del tutto chiara la fine dell’intellettuale moderno, non altrettanto chiaro è quel che ci aspetta prossimamente. In più passaggi della sua intervista egli ammette di non essere in grado di decifrare le attuali trasformazioni sociali e culturali e, quindi, di non saper individuare quale assetto potrebbe assumere in futuro il settore dei savant. In proposito lo studioso si limita a enunciare un qualche timido ottimismo: «Scompaiono le figure che, se volessimo accoglierne la versione più negativa, presumevano di “avere il diritto” di far lezione alla storia, ma non può scomparire il pensiero forte che è connaturato alla storia occidentale. Esso si manifesterà in forme diverse, in un quadro politico-intellettuale radicalmente mutato. Una delle mie tesi interpretative preferite è che nella secolare storia di questo nostro paese non sempre fortunato, le svolte, i passaggi, le rotture decisive sono stati opera di giovani ingegni. […] Quello che manca ancora è il senso prepotente della distinzione - e quindi il rifiuto aperto - rispetto allo stato esistente delle cose, senza il quale il meccanismo critico non s’innesca. Perché queste energie emergano, anche sul piano pubblico, è necessario cambiare la politica o, meglio, il modo in cui i nostri politici intendono la politica. […] Quando alle giovani generazioni, quando ai nostri giovani davvero “puzzerà questo barbaro dominio”, un nuovo corso della storia italiana, anche della nostra storia intellettuale, potrà cominciare. Nel frattempo bisogna lavorare pazientemente, e anche oscuramente, senza timori né requie, per questo nuovo inizio».[16]
È chiaro che, secondo Asor Rosa, la funzione essenziale dell’intellettuale è una funzione critica e questa non può che essere giocata in contrapposizione all’ordine esistente. Dunque, dopo la fine epocale degli intellettuali della modernità, si tratterebbe di capire come proseguire quella stessa funzione critica in una situazione completamente mutata. In effetti, questa pare costituire la parte più debole dell’intervista. Si tratta di poco più che dell’espressione di buone intenzioni. Asor Rosa evita di confrontarsi con una serie di dati di tendenza relativi alle trasformazioni del lavoro culturale che ormai sembrano inconfutabili. Evita anche di entrare nel merito delle nuove teorie sul ruolo dell’intellettuale che sono state nel frattempo elaborate, soprattutto nell’ambito del pensiero postmoderno. Pur sollecitato dall’intervistatrice, mostra peraltro di non avere alcuna simpatia per le analisi di Bauman e degli altri postmoderni.
Stupisce intanto, nell’analisi complessiva, la scarsa attenzione riservata al pubblico e alle sue trasformazioni. Gli intellettuali moderni hanno svolto la loro funzione in nome di un pubblico, fosse esso quello della Rivoluzione francese, della Russia in via di modernizzazione, delle borghesie nazionali in via di costituzione, delle masse degli Stati nazione oppure delle masse delle classi sociali rivoluzionarie. Quel pubblico, che veniva comunque alimentato dai contesti liberaldemocratici e dalle borghesie, si sta trasformando abbastanza radicalmente e non pare oggi più avvezzo a servirsi delle analisi critiche, delle visioni degli intellettuali e dei loro valori. Come affermano i postmoderni, quel pubblico sembra ora effettivamente rifiutare qualsiasi «grande narrazione». Gli intellettuali «critici» come li abbiamo conosciuti sono indissolubilmente legati alle grandi narrazioni, di un tipo o dell’altro. Senza la disponibilità a una qualche grande narrazione viene meno la funzione dei narratori stessi. Non è chiaro come ci si possa attendere, nell’attuale contesto, una qualche ripresa delle grandi narrazioni.
Anche la frammentazione dell’universo culturale sembra una tendenza assodata, che dovrebbe essere in qualche modo interpretata, cui occorrerebbe porre un qualche rimedio nella prospettiva di una ripresa di un ruolo critico per un ipotetico nuovo ceto di savant. La poltiglia postmoderna che deriva dall’estrema ricchezza e diffusione dell’informazione ma, nello stesso tempo, dal rifiuto di qualsiasi sintesi, dal rifiuto di una nozione di verità o di significato, rende del tutto inutile il sacerdote moderno della conoscenza. Le grandi tradizioni culturali, insegna Collins, nascono nelle interazioni faccia a faccia in gruppi rituali che hanno una certa continuità.[17] Oggi le interazioni faccia a faccia che costituiscono le comunità intellettuali sono sempre meno intense, sempre meno continuative. I brandelli di interazione che sono rimasti e i loro sostituti tecnologici non possono alimentare la costruzione di scuole intellettuali, movimenti, avanguardie. Al più possono dare luogo a delle mode fuggevoli che vengono cancellate da altre mode, altrettanto fuggevoli: nessun requisito di coerenza, mode contradditorie possono ben convivere negli stessi soggetti, nessuna persistenza, nessun progetto, nessun compito o missione duratura. La storia collettiva consapevole è abolita a favore di una fuggevole storia individuale (che qualcuno ama chiamare biografia) fatta di accumuli più o meno casuali di esperienze. Individui sempre più diversi tra loro, incapaci di stare insieme in un progetto qualsivoglia, che possono momentaneamente aggregarsi su questioni molto specifiche, che tuttavia non impegnino più di tanto. Gli intellettuali della modernità avevano cercato di connettere il particolare con l’universale, avevano cercato di costruire le grandi prospettive storiche (in termine di fede, di classe, di nazione,…)  rapportando la dimensione interiore degli individui con il contesto esterno. Il prete forgiava la coscienza individuale in modo che l’individuo potesse stare dentro la sua Chiesa. Il letterato forgiava la coscienza nazionale, in modo che il cittadino potesse stare dentro al suo Stato nazionale, il rivoluzionario forgiava l’uomo nuovo affinché questo potesse diventare il membro della nuova società.
Pur ammettendo in diversi passaggi (alcuni li abbiamo citati) la sostanziale perdita di significato di un qualunque progetto storico, la questione non viene esaminata in dettaglio e non se ne indica un qualche possibile superamento. Di fronte al rifiuto postmoderno di entrare in qualsiasi tipo di progetto storico, non ha più senso alcun progetto formativo, dunque non ha più senso alcun intellettuale. Afferma Asor Rosa in proposito: «La storia è oggi l’onnivoro presente che avanza con la pura oggettività, sia pure solo presunta, delle leggi economiche. La globalizzazione, più che un processo storico, è un gigantesco processo di omogeneizzazione economico sociale. Non avverte alcun bisogno di essere interpretato e necessita soltanto di una regia economica. In questo paesaggio profondamente modificato è sempre più difficile essere ascoltati».[18]  Si sarebbe così entrati nell’era della informazione senza formazione. Staremmo dunque assistendo a un esperimento antropologico dagli esiti catastrofici di destrutturazione di tutte le istituzioni e di assolutizzazione dell’individuo singolo.
È questo il senso del nichilismo, il fare a meno delle sovrastrutture storiche, sociali, culturali. Il problema è che questa suprema forma di rifiuto, che qualcuno considera di liberazione, di anarchismo individualistico, non può che rivelare il vuoto che sta dentro all’individuo stesso. Proprio per colmare questo vuoto strutturale dell’animale umano che per umanizzarsi ha bisogno di una cultura, gli intellettuali moderni hanno per secoli costruito punti di riferimento. Ora i nuovi individui pretendono di essere gli intellettuali di se stessi, gli artisti assoluti della propria autocostruzione. Non più scuole di pensiero, ma semilavorati identitari, modelli da consumare, da imitare e da buttare. In fondo l’intellettuale critico è colui che pretendeva di mettere ordine, di decidere le graduatorie, di stabilire i modelli, i canoni; colui che era il depositario dei valori. Appunto a lui ci si poteva rivolgere per riflettere, per confrontarsi. Ora chiunque abbia un simile ruolo non può che essere accusato di autoritarismo. Qualcuno è arrivato a dire che i classici sono autoritari perché impongono il loro modello di perfezione.
Asor Rosa riconosce dunque, a livello descrittivo, la sussistenza di una serie di trasformazioni che sono state particolarmente oggetto di attenzione da parte dei postmoderni. Tuttavia non condivide la loro visione generale.  Di fronte alla fenomenologia della cultura nella società di massa si tratterebbe di capire se quello che Bauman ha definito come intellettuale interprete abbia una qualche plausibilità. Nella descrizione, peraltro assai insoddisfacente che ne dà Bauman,[19] si tratterebbe di un intellettuale traduttore, una specie di mediatore culturale universale. Il problema è che, se la sua funzione fosse estremizzata, l’interprete sarebbe condannato perpetuamente a non esprimersi. Il suo sarebbe un ruolo del tutto tecnico. L’interprete non avrebbe alcun ruolo costruttivo, si limiterebbe a prendere atto delle ragioni locali, delle richieste di riconoscimento di ciascun singolo o di ciascun gruppo che si formi momentaneamente. L’interprete non potrebbe fare altro che riconoscere che tutti hanno le loro ragioni, che tutti hanno ragione. Non più sacerdote della ragione universale, l’intellettuale diventerebbe l’avvocato di qualsiasi mondo particolare. Ogni mondo particolare avrà la sua cultura, senza tuttavia che ci sia più una cultura.
Non pare questa essere la prospettiva di Asor Rosa. Nell’attesa di una qualche non ben precisa rinascita, sotto nuove altre forme, della componente critica, di un nuovo ceto di savant, quel che è certo, secondo lo studioso, è che l’intellettuale moderno si appresterebbe a scomparire, senza resistere più di tanto, senza lottare, arrendendosi all’evidenza di avere consumato il proprio ruolo storico. In ciò s’intravvede un residuo di economicismo marxista. Quello che succede agli intellettuali è il risultato di processi ineluttabili che avvengono in altre sfere ben più importanti, ben più basilari, come la sfera economica, la sfera sociale o la sfera della tecnica. E comunque il silenzio degli intellettuali implica in un certo senso l’accettazione della fine incombente. Perché non una difesa? Perché non una resistenza? Perché non un contrattacco contro la poltiglia postmoderna?
 
                                                                                        Giuseppe Rinaldi
 
 
26/05/2014
 
 
  
TESTI CITATI
 
 
2009   Asor Rosa, Alberto
Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (a cura di Simonetta Fiori), Laterza, Bari.
 
1987   Bauman, Zygmunt
Legislators and Interpreters. On modernity, post-modernity and intellectuals, Cornell University Press, Ithaca.  Tr. it.: La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
 
1998   Collins, Randall
The Sociology of Philosophies. A Global Theory of Intellectual Change, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts.
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Asor Rosa 2009.
[2] Cfr. Asor Rosa 2009: 8-9.
[3] È curioso che Asor Rosa sia piuttosto critico nei confronti dei postmoderni, ma che, nello stesso tempo, accolga sostanzialmente la loro dottrina circa la fine della modernità.
[4] Cfr. Asor Rosa 2009: 13.
[5] Sulla distinzione tra ceto e classe, si potrebbero condurre molte osservazioni, ma per ora queste non sono essenziali.
[6] Cfr. Asor Rosa 2009: 11.
[7] Cfr. Asor Rosa 2009: 108.
[8] Cfr. Bauman 1987.
[9] Cfr. Asor Rosa 2009: 17-19.
[10] Cfr. Asor Rosa 2009: 22.
[11] Cfr. Asor Rosa 2009: 77.
[12] Cfr. Asor Rosa 2009: 75-76.
[13] Cfr. Asor rosa 2009: 9.
[14] Cfr. Asor Rosa 2009:10.
[15] Cfr. Asor Rosa 2009: 64.
[16] Cfr. Asor Rosa 2009: 111-112.
[17] Cfr. Collins 1998.
[18] Cfr. Asor Rosa 2009: 9.
[19] Cfr. Bauman 1987.
 
 
 

venerdì 9 maggio 2014

L’ontologia sociale di Aristotele

 













 
 
Una lettura[1] fuorviante considera Aristotele come il sostenitore di una prospettiva filosofica incentrata sulla socialità dell’uomo. Si cita spesso il motto secondo cui l’uomo sarebbe un «animale sociale» e si contrappone questa prospettiva a quella cosiddetta «individualistica» della corrente Machiavelli, Hobbes, Locke, Hume. Insomma, le due prospettive sono ricondotte a una specie di contrapposizione in campo morale tra altruismo e individualismo. Secondo uno schema consolidato, mentre orientamenti come il comunitarismo, il socialismo e il comunismo, nonché la concezione sociale cristiana, vengono ricondotti all’altruismo, il pensiero che fa capo al liberismo e al liberalismo viene ricondotto all’individualismo. Per essere ancor più sicuri di avere centrato l’obiettivo, col risultato di confondere ancora di più le idee, l’individualismo viene considerato esattamente come l’equivalente dell’egoismo. Gli egoisti sarebbero cattivi, mentre gli altruisti sarebbero buoni. Aristotele sarebbe il campione dell’altruismo e della socialità, mentre il povero Hobbes sarebbe il campione dell’egoismo, dunque il principe dei filosofi immorali. Le cose non stanno proprio così e in questa querelle alquanto schematica Aristotele viene sovente invocato a sproposito. Una lunga storia di semplificazioni arbitrarie, traduzioni sbagliate, equivoci tramandati per secoli, strumentalizzazioni più o meno consapevoli, non disgiunte da una buone dose di ignoranza, sta al fondamento di questo schemino che viene tutt’ora fedelmente riprodotto come una litania, anche da coloro da cui ci si attenderebbe, per lo meno, un po’ più di rigore filologico.
Per avere un quadro appena attendibile della filosofia politica di Aristotele, occorre primariamente chiarire che tipo di oggetto costituisca, per lui, la polis, ossia la società politica di riferimento. In altri termini, si tratta di individuare i caratteri fondamentali della sua ontologia sociale, la quale ovviamente potrà avere un senso soltanto alla luce di una sua più comprensiva ontologia generale. Questi semplici approfondimenti, davvero alla portata di tutti, potrebbero eliminare d’un colpo un sacco di fraintendimenti e contribuire a far comprendere le effettive linee di sviluppo della filosofia della politica dell’Occidente, appunto da Aristotele fino ai giorni nostri. Ciò poiché molte delle elaborazioni successive si sono caratterizzate, più o meno, come un commento alla Politica di Aristotele. E i commenti sbagliati non possono che dare luogo a interpretazioni sbagliate e a conseguenze indesiderate.
 
Che cosa c’è. Aristotele ha più volte ribadito che «l’ente si dice in molti modi», tuttavia la sua ontologia generale risulta alquanto unitaria ed è palesemente incentrata intorno alla ousia,[2] la quale costituisce la manifestazione più propria dell’ente in quanto ente, ossia l’oggetto fondamentale della filosofia prima o metafisica. Lasciando da parte le entità sovra lunari e Dio, lasciando ugualmente da parte l’ambito caotico delle accidentalità di cui, secondo Aristotele, non si dà conoscenza alcuna, il mondo sotto la Luna risulta dunque principalmente costituito di ousiai che sono dei composti di materia e forma. In ciò consiste il cosiddetto ilemorfismo aristotelico.
Per Aristotele, i composti sublunari non sono tuttavia tutti eguali. Egli ha infatti prodotto un’importante distinzione che viene spesso trascurata e cioè la distinzione tra gli enti naturali e gli enti artificiali. Il criterio fondamentale di cui si è servito lo Stagirita per operare questa distinzione è basato sulla presenza, nell’ente, della phusis, cioè di un principio interno capace di presiedere alla generazione, al cambiamento e alla auto realizzazione. Gli enti naturali hanno dentro di sé una loro propria phusis, mentre gli enti artificiali ne sono del tutto privi. La ousia autentica è dunque quella rappresentata dai viventi (in primo luogo dall’uomo, seguito poi dagli altri animali e dai vegetali). Anche la materia in quanto tale, composta dagli elementi fondamentali (aria, acqua, terra, fuoco), è collocata tra gli enti naturali poiché obbedisce a una phusis molto semplice che è propria di ciascun elemento e che determina i suoi movimenti e le sue possibili combinazioni (come è spiegato con grande chiarezza nella Fisica).
I composti artificiali, pur essendo costituiti anch’essi di materia, non hanno alcuna phusis, non sono vivi, non sono dotati di alcuna anima (neppure della più semplice anima vegetativa). Essi per esistere devono ricevere la loro forma dall’esterno, per opera di un altro ente naturale il quale svolga la funzione di artefice. Va da sé che il solo ente naturale che è in grado di operare in quanto artefice è l’uomo, poiché è dotato di una anima razionale, la quale è in grado di ospitare le forme (equiparabili ai progetti) che possono poi essere praticamente realizzate, componendole con la materia. Perché ci sia un prodotto artificiale occorre dunque che questo sia stato preliminarmente rappresentato come progetto nell’anima razionale di un umano. La forma della casa si trova dapprima nell’anima dell’architetto, il quale provvede poi a unirla alla materia nel processo produttivo per giungere alla realizzazione del sinolo della casa. La casa, tuttavia, non porta dentro di sé alcuna anima, non possiede il principio della propria replicazione. Ciò comporta, tra l’altro, la curiosa conseguenza che, secondo Aristotele, i prodotti elaborati da certi animali privi di anima razionale, come tane, nidi o alveari, non debbano essere considerati come prodotti artificiali.
Le cose artificiali non sono dunque delle vere e proprie ousiai. Secondo la maggior parte degli interpreti di Aristotele, la qualificazione di ousia spetterebbe esclusivamente ai viventi capaci di riprodursi autonomamente. Da ciò risulta quanto mai chiaro che la prospettiva ontologica di Aristotele è costruita intorno alla biologia. Il modello aristotelico dell’ente è dunque un modello biologico, e questo è vero non solo per gli enti che si trovano sotto la Luna, ma anche per gli enti sovra lunari (che sono animati, sono delle menti e dunque viventi). Anche il Dio di Aristotele è vivente (è il vivente per eccellenza, la pura energheia), dunque esso rappresenta il biologico nella sua massima espressione. La massima espressione funzionale del biologico non è tuttavia la riproduzione (la quale è caratteristica soltanto dei livelli inferiori) bensì quella della attività, ossia della facoltà di mantenere la propria forma.
Se questa è l’ontologia fondamentale di Aristotele, dobbiamo domandarci allora molto seriamente che tipo di oggetto sia per lui la polis. È un composto di materia e forma? Si tratta di un’entità artificiale, di un’entità vivente?
 
Aggregati viventi. Secondo una nota definizione aristotelica, l’uomo sarebbe l’«animale razionale», ossia l’animale che, oltre all’anima vegetativa e sensitiva, possiede un’anima razionale, com’è chiaramente spiegato nel trattato sull’Anima. L’uomo tuttavia non si esaurisce nella sua singola individualità. Esso, in quanto animale, appartiene ai cosiddetti animali sociali, vive cioè abitualmente all’interno di vasti aggregati di individui. Questo dato di fatto implica un problema di ontologia sociale di cui Aristotele era ben consapevole. Ancora oggi i biologi si domandano che cosa sia effettivamente un individuo; se, ad esempio, un termitaio vada considerato come un singolo individuo o come un insieme di individui. Queste problematiche, com’è noto, sono state studiate in modo particolare dalla sociobiologia.[3] Con buona probabilità, grazie alle conoscenze odierne, possiamo ipotizzare che in natura non esistano salti, esista piuttosto un’ampia casistica che mostra una continuità tra individui separati e individui che sono più o meno fortemente aggregati, talvolta così aggregati da costituire ulteriormente un individuo di individui, a sua volta separato da altre aggregazioni consimili. È il caso di cellule, tessuti, organismi, colonie, formicai, termitai, alveari, sciami, branchi, stormi, mandrie, e così via. In realtà non è sempre facile individuare che cosa sia effettivamente separato e autonomo (e quindi che cosa costituisca, a pieno titolo, un individuo). Questo tipo di problemi è stato effettivamente affrontato da Aristotele sia nella Politica, sia nei suoi studi sugli animali. Si trattava per lui di una questione piuttosto imbarazzante, poiché uno dei requisiti fondamentali della ousia era proprio quello della separazione e della autonomia.
Alla luce delle precedenti considerazioni, la celeberrima definizione aristotelica dell’uomo come «animale politico» non può essere intesa secondo la concezione comune ai nostri giorni. Aristotele non si riferisce – come si potrebbe ingenuamente pensare - ai singoli uomini, considerati come dotati tutti di una naturale predisposizione a diventare cittadini di una polis, bensì alla specie umana nel suo complesso in quanto necessitata a dare vita ad aggregati sovra individuali. Nella Storia degli animali lo Stagirita ha distinto anzitutto tra animali solitari e animali gregari.[4] Tra gli animali gregari egli menziona piccioni, gru, cigni, api e formiche. All’interno degli animali gregari, alcuni sono detti politici, mentre gli altri sono detti sporadici o indipendenti. Gli animali definiti come politici includono vespe, gru, api e formiche, mentre tra i gregari sparsi o indipendenti vi sono i piccioni e i cigni. Il criterio che separa gli animali gregari sporadici da quelli politici è il fatto che gli animali politici lavorano (ergon) in modo cooperativo verso uno stesso scopo.[5] Dunque, in questo contesto di discorso, gli animali politici sono semplicemente animali che cooperano, senza riferimento alcuno alle modalità della loro cooperazione. Gli animali politici che cooperano sono poi suddivisi tra coloro che si organizzano sottomettendosi a una gerarchia (egemona) e coloro che invece non lo fanno (anarcha). È abbastanza chiaro che Aristotele considera l’uomo come un animale politico egemonico.
La natura politico cooperativa della specie umana è quindi necessariamente caratterizzata da a) una divisione naturale dei compiti, la quale può avvenire anche su basi alquanto ineguali, purché funzionali rispetto all’insieme e 2) da una gerarchia. Si tratta di caratteristiche ontologiche che affondano le loro radici nella biologia naturale: si pensi ad esempio alla suddivisione, che Aristotele considera come naturale, tra uomini e donne, oppure tra liberi e schiavi, tra governanti e governati (più o meno come nelle società delle api). Si ricordi in proposito che per Aristotele le donne non sono ousiai a pieno titolo, in quanto non sono in grado di generare autonomamente e gli schiavi sono ontologicamente poco più che animali (poiché non dotati di anima razionale). La specializzazione degli individui (la divisione del lavoro) è principalmente di tipo biologico. Quella degli umani non è dunque una società di individui generici, uguali tra loro, bensì una società costituita di entità biologiche assai diverse tra loro, come animali domestici, schiavi, donne, uomini liberi (proprio come tra gli insetti politici ci sono operaie, combattenti, regine, fuchi,… ).
Secondo queste considerazioni, la definizione dell’uomo come animale politico va dunque strettamente connessa al comportamento gregario tipico della specie umana e non dei singoli individui, i quali non hanno scelta alcuna e non possono fare altro che corrispondere al loro tipo biologico. Nella Politica Aristotele introduce tuttavia ulteriori argomentazioni, finalizzate a sostenere che l’uomo è l’animale più politico di tutti gli altri, l’animale politico per eccellenza. Ciò è dovuto al fatto che 1) l’uomo è dotato del linguaggio e, di conseguenza, 2) è in grado di porsi consapevolmente il problema più rilevante per un animale gregario e cioè quello della giustizia. È chiaro tuttavia che il linguaggio non rende uguali le entità biologiche di cui è costituita la specie umana: lo schiavo userà il linguaggio solo per prendere ordini. Le donne non potranno usare il linguaggio in pubblico. Solo i liberi, grazie alla parte razionale della loro anima, avranno la facoltà di usare a fondo il linguaggio per deliberare, oppure per filosofare. Oppure ancora, per porsi il problema della giustizia. Ci sono dunque dei veri e propri salti ontologici tra schiavi, donne e uomini liberi, per cui non ci si può assolutamente riferire a loro con il termine generico.
 
Il naturalismo politico sociobiologico. È ampiamente condiviso tra gli studiosi che la teoria politica di Aristotele si basi su tre elementi di fondo, che poi sono quelli che compaiono sinteticamente in Politica I. 2, e cioè: 1) la polis è un ente naturale; 2) l’uomo è per natura l’animale più politico; 3) per natura, la polis ha la preminenza rispetto al singolo individuo. Queste tre asserzioni nel loro insieme costituiscono il cosiddetto naturalismo politico di Aristotele. Prenderemo ora in esame alcune delle implicazioni di queste tre proposizioni in termini di ontologia sociale.
Sostenere che la polis è un ente naturale significa, per lo Stagirita, che essa è da considerare come una vera e propria ousia, cioè un organismo ilomorfo, un composto di materia e di forma, dotato di un’interna phusis che ne determina le trasformazioni e lo scopo ultimo. La materia della polis dovrebbe evidentemente essere costituita dai suoi abitanti (animali e uomini dei diversi tipi biologici) ed eventualmente dal suo territorio, mentre la forma (l’anima, se si vuole) dovrebbe essere costituita dalla sua costituzione politica. Sul piano della sua stessa ontologia questa pretesa di Aristotele solleva tuttavia alcune difficoltà, dovute alla conseguenza di dover ammettere, allo stesso tempo, che 1) le ousiai dei vari tipi biologici siano dotate di anima e corpo (autonome e dotate di una loro propria phusis); 2) che le ousiai biologiche così configurate diventerebbero a loro volta semplice materia di una altra ousia (la polis) di secondo ordine, a sua volta dotata di una sua phusis (la costituzione politica). Insomma, si tratterebbe di una serie di scatole cinesi, capaci soltanto di anticipare di un bel po’ di secoli la dialettica hegeliana. Inoltre, questo modello confligge con il ruolo importante assegnato da Aristotele al legislatore in quanto artefice della costituzione della polis. Per questi e altri motivi, alcuni commentatori hanno sollevato seri dubbi circa la coerenza stessa dell’ontologia politica aristotelica.
Le incongruenze che effettivamente sembrano talvolta comparire possono essere superate soltanto considerando che l’ontologia sociale aristotelica è di tipo compiutamente sociobiologico, il che implica che la polis vada pienamente considerata come un unico organismo vivente, cioè fisico – psichico, che ha come parti costitutive i singoli individui e che è il depositario del fine stesso dei singoli individui aggregati. Per comprendere come ciò sia possibile, occorre considerare che, per Aristotele, una ousia non è compiutamente realizzata finché non ha sviluppato e raggiunto la propria finalità interna. Se è così, apprendiamo da Aristotele che la finalità dell’uomo libero non è quella banalmente legata alla vita biologica del singolo (il che significherebbe, più o meno, diventare adulto e fare dei figli) ma è legata alla piena realizzazione dell’anima razionale e cioè alla vita contemplativa. D’altro canto, secondo lo Stagirita, la vita contemplativa è consentita solo nell’ambito della polis e non a tutti ma soltanto, appunto, agli uomini liberi. Il che equivarrebbe a sostenere, secondo un modello sociobiologico, che lo scopo ultimo dell’alveare sia la realizzazione dell’ape regina e della sua riproduzione. Oppure, che lo scopo ultimo dei viventi sia la replicazione del gene, come ha sostenuto Dawkins. La società umana della polis è quindi una unica ousia bio-psico-sociale che può realizzare compiutamente la propria phusis solo attraverso l’aggregazione di diversi tipi biologici (animali, schiavi, donne, liberi) e che potrà consentire a uno soltanto di questi tipi di sviluppare la vita contemplativa.[6] Quindi è perfettamente coerente con la phusis dell’uomo il fatto di costituire una famiglia che abbia per scopo la riproduzione (si ricordi che per Aristotele la donna non è umana, perché da sola non ha la capacità di riprodursi. Per convincersene basta leggere appena con qualche attenzione le opere biologiche di Aristotele). Altrettanto lo è il successivo percorso dello sviluppo delle comunità umane descritte in Politica I.2, attraverso le aggregazioni delle famiglie in villaggi e dei villaggi in poleis. Si tratta dello sviluppo di un unico organismo vivente che attraversa diverse tappe (quasi fossero l’infanzia, la giovinezza e la maturità di uno stesso organismo) fino a dispiegare compiutamente la propria finalità interna. Il criterio che guida le aggregazioni successive è quello del raggiungimento dell’autosufficienza (si ricordi che, nella Metafisica, l’autosufficienza è una della condizioni definitorie delle ousiai).
Lo Stagirita in proposito afferma: «La comunità più perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine; cioè diciamo che la natura di ciascuna cosa è quello che essa è quando si è conclusa la sua generazione, come avviene per l’uomo, il cavallo, la casa. Ora, lo scopo e il fine sono ciò che vi è di meglio; e l’autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio. Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo…».[7]
Naturalmente la polis può anche essere distrutta da cataclismi o da particolari accidentalità, per cui le poleis nascono e spariscono tentando di raggiungere la loro entelecheia. Qualora ciò non avvenga, il fine naturale della polis è dunque quello di raggiungere la autonomia e ciò implica che, al proprio interno, si abbia compiuta realizzazione dell’anima razionale del gruppo biologico dei cittadini liberi. È nell’ambito della realizzazione degli uomini liberi che la polis può discutere sulla giustizia, darsi gli ordinamenti e darsi una costituzione. La costituzione tuttavia non è considerata come un’espressione creativa delle anime degli uomini liberi, bensì come l’adeguamento a un modello naturale necessario (si ricordino i tre tipi di costituzioni naturali). Non è minimamente considerato come ingiustizia che taluni individui biologici restino schiavi, altri siano donne o altri si dedichino solo al lavoro manuale. Questa divisione funzionale è del tutto giustificata dall’imperativo dell’autonomia ed è esattamente simile a quella che esiste naturalmente in un termitaio, oppure in un alveare. Gli individui non possono fare altro che adeguarsi fino in fondo al proprio statuto ontologico, alla propria collocazione nell’ordine dei tipi biologici che costituiscono l’organismo politico. Solo se si ragiona in questo modo acquista un senso la prevalenza dell’organismo sulle parti che lo compongono, dichiaratamente sostenuta dallo Stagirita. È chiaro che, in un organismo del genere, non ha alcun senso che un tipo biologico sia separato dalla sua totalità: tolto dal contesto organico della polis non può esistere né lo schiavo, né la donna, né il legislatore, né il musico, né il matematico, né il filosofo.
 
Il ruolo secondario dell’artefice. Aristotele, sulla base della propria classificazione degli enti composti, avrebbe potuto facilmente essere indotto a considerare le poleis come degli oggetti artificiali, interamente costruiti dalla ragion pratica dell’artefice legislatore. In effetti ci sono alcuni passi nella Politica da cui si potrebbe anche desumere una simile interpretazione. La scelta, più volte ribadita, di Aristotele è stata tuttavia quella di considerare la polis come un ente naturale, questo a costo di trovarsi di fronte a un conflitto imbarazzante tra la ragion pratica del legislatore e la legge naturale interna (phusis) della società.
Questo conflitto in realtà è più che altro solo apparente e può essere del tutto superato considerando che, secondo Aristotele, le ousiai dotate di anima sensitiva e di anima razionale, per sviluppare adeguatamente la loro stessa natura, il loro tipo biologico, devono perfezionarsi. Un animale domestico deve essere abituato e risiede nella sua stessa natura il fatto di aver bisogno di un addestramento. Lo stesso vale per lo schiavo che è considerato come dotato di un’anima razionale poco sviluppata, per cui ha bisogno di essere comandato. Anche un uomo libero per natura deve perfezionarsi, deve apprendere una specifica lingua (le specifiche lingue per Aristotele non sono naturali) e deve diventare acculturato, deve sviluppare le sue virtù.
Gli umani dunque sono enti naturali ma essi debbono perfezionare la loro natura (a seconda del tipo biologico cui appartengono) e quindi necessitano di un intervento artificiale esterno, attraverso l’abitudine, l’educazione e la legislazione.[8] Ciò può avvenire solo nel contesto politico. In proposito ha osservato Aristotele nella Fisica: «In generale, talvolta l’arte porta a compimento quanto la natura è impossibilitata a fare,…[…] Vi sono degli errori anche nelle cose che sono prodotte dall’arte; così, ad esempio, il grammatico non ha scritto correttamente, e il medico ha somministrato male la medicina. È perciò evidente che la stessa cosa è possibile anche nelle cose che sono secondo natura. Se dunque nelle cose che sono secondo tecnica, ciò che è fatto correttamente, è fatto in vista del fine; e nelle cose che presentano degli errori, anch’esse sono state fatte in vista del fine, ma lo hanno mancato; allora, allo stesso modo avverrà nelle cose naturali, e i mostri sono un errore nel conseguimento del fine».[9]
È importante considerare che gli enti naturali che debbono perfezionare la loro natura attraverso un artefice esterno non sono tuttavia un prodotto dell’artefice, non possono essere considerati come artificiali, dato che le loro forme non sono presenti nella mente dell’artefice. L’addestratore del cavallo non è in grado di riprodurre il cavallo, nello stesso modo in cui il muratore produce la casa. Si limita a perfezionare la natura del cavallo. L’artefice, in questo caso, ha soltanto il ruolo occasionale di attualizzare le potenzialità che sono già presenti per natura.[10] Occorre ricordare, per comprendere bene questo punto, che, nella prospettiva aristotelica, l’artefice non è mai un creatore (nel senso nostro dell’invenzione, di un’espressività individuale originale) bensì è sempre soltanto un imitatore della natura.
La polis costituisce dunque un organismo vivente naturale la cui natura però deve essere perfezionata artificialmente attraverso lo sviluppo di un’anima, di una costituzione, un progetto razionale.[11] Non si tratta di un optional, bensì di una finalità inscritta nella natura (nel fatto stesso che il tipo biologico dei cittadini liberi è dotato di anima razionale). Nello stesso modo in cui è possibile, in campo pratico, distinguere un cavallo selvaggio da un cavallo bene addestrato, e, in campo etico, definire in che senso un individuo di un certo tipo possa dirsi pienamente realizzato, così è possibile, in campo politico, definire quale polis sia compiutamente realizzata e quale invece abbia sviato dal proprio fine naturale. Il fine è già scritto dentro gli organismi naturali, si tratta solo di farlo emergere e sviluppare.[12]
È interessante il fatto che, per Aristotele, nonostante abbia bisogno di perfezionamento, la phusis continua a essere l’elemento fondamentale che definisce la ousia, mentre l’attività di perfezionamento è considerata di carattere accessorio. Insomma, la cultura perfeziona soltanto la natura e non la genera. Vedremo che questo schema, negli sviluppi successivi della filosofia della politica, sarà abbandonato. Nella cultura cristiana la natura costituisce la base immutabile, ma il perfezionamento sarà interamente giocato nell’ambito della cultura. Questa inversione ha il suo massimo sviluppo in Hegel, dove la natura è solo l’eterna ripetizione delle forme morte, mentre la vera vita, il vero sviluppo si avrebbe soltanto nello Spirito.
 
Il tutto e le parti. L’ontologia sociale di Aristotele è dunque nettamente di tipo organicistico e funzionalistico. Se la polis è una ousia a pieno titolo, allora essa deve costituire una totalità unitaria, organica e funzionale. La nozione chiave usata da Aristotele per esprimere queste caratteristiche è quella dell’autosufficienza. Le singole parti non sarebbero autosufficienti, non sarebbero cioè capaci di auto mantenersi, mentre solo la totalità organica può esserlo. Ciascuna parte della polis ha una funzione e possiede la sua potenzialità rispetto al tutto. Sopprimendo il tutto, anche le parti perderanno la loro sostanzialità. Si capisce bene quindi come mai Aristotele abbia proclamato, con piena consapevolezza, il primato della totalità organica rispetto alla parte. «Nell’ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte, perché, tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per omonimia, che si ha, per esempio, quando si parla di una mano di pietra; ma questa in realtà è una mano morta. Infatti tutte le cose sono definite dalla funzione che compiono e dalla loro potenza, sicché non possedendo più né l’una né l’altra, non potranno più essere dette le stesse di prima se non per omonimia. È dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio».[13]
Dovrebbe essere dunque del tutto chiaro che il naturalismo sociobiologico aristotelico implicava in generale la subordinazione dei singoli tipi biologici alla comunità politica. Anche i naturalmente liberi (maschi dotati di anima razionale) potevano realizzare compiutamente la loro anima razionale nel quadro di un ordine necessario prescritto dalla natura. Nessun egoismo dunque da parte dei liberi, a danno degli altri, come saremmo indotti a pensare, bensì l’assolvimento di una funzione all’interno di un organismo ordinato. Tutti i tipi biologici avevano un ruolo indispensabile da svolgere, per quanto questo fosse subordinato. Il mancato sviluppo degli uomini liberi avrebbe comportato l’impossibilità di una sopravvivenza autonoma dell’organismo.
Occorre considerare che Atene aveva più o meno centomila abitanti (meteci compresi), che coloro che avevano i pieni diritti politici non erano più di 10-12 mila e che coloro che li esercitavano effettivamente erano ancor meno. In una simile situazione, il senso della divisione del lavoro doveva essere immediatamente auto evidente. Gli schiavi erano necessari, le donne dovevano assicurare la riproduzione, gli artigiani dovevano assicurare la fabbricazione dei beni necessari, i guerrieri dovevano difendere il territorio. I liberi dovevano occupare i ruoli più elevati e dare un ordine al tutto. Lo stesso individuo poteva anche avere diverse specializzazioni, ma solo pochi potevano permettersi di essere matematici, medici, musici (cioè istruiti), oppure condottieri militari. Ciascun gruppo o tipo biologico poteva effettivamente mantenersi solo se si manteneva l’insieme (la polis era eminentemente precaria, soggetta ad attacchi esterni e a disfunzioni interne). In una simile situazione immaginare la polis come una specie di alveare o di formicaio, seppure assai più complesso, poteva senz’altro avere qualche fondamento. Si ricordi Constant: nella democrazia degli antichi non c’era la nozione dello spazio privato. Chi era nel privato era, nei fatti, appartenente a un gruppo biologico privato, nel senso di essere portatore di una qualche privazione.
 
Deviazioni dalla phusis. Se l’organismo sociale è vivo, questo può anche corrompersi. Aristotele esclude ogni determinismo nello sviluppo dell’organismo politico, poiché nel mondo sotto la Luna, dove la materia può sempre far valere la sua grevità, sono sempre possibili degli incidenti che impediscono alla phusis di realizzarsi compiutamente.
Afferma Keith: «Il concetto di esistenza naturale è importante poiché esso apre la via alla nozione di una condizione non naturale. Solo un’entità naturale può trovarsi in una condizione non naturale: un cavallo può essere cieco e sordo, ma non la statua di un cavallo. [...] che la polis sia in una condizione naturale o non naturale dipende dalla relazione di legalità e di subordinazione tra i settori della sua popolazione che è determinata dalla sua organizzazione politica o costituzione. Alcune costituzioni, afferma Aristotele, sono in accordo con la natura, mentre altre sono contrarie alla natura».[14]
Dunque il fondamento della valutazione aristotelica dei vari tipi di costituzione si basa proprio sulla naturalità. Le poleis che falliscono nel perfezionamento della loro natura munendosi di costituzioni contrarie alla natura evidentemente non saranno in grado di raggiungere la loro finalità naturale. Più o meno come un cavallo nelle mani di un cattivo addestratore. Infatti, secondo Aristotele: «… vi sono in natura il governo di un padrone, quello di un re e quello dei cittadini; e questo è giusto e utile. Ma non sono secondo natura né il governo tirannico né tutti gli altri regimi che costituiscono degenerazione, perché si tratta di forme che sono contro natura».[15] Quindi, dal punto di vista della energheia, le società che hanno un governo contro natura sono società che hanno sviluppato una forma malata (o una non forma),[16] che non sono in grado di realizzare il loro fine naturale (più o meno come il mulo, che sembra un cavallo, ma non è in grado di riprodursi, dunque in lui la forma del cavallo è degenerata, è una non forma, una forma che non funziona).
È interessante il fatto che il criterio per la definizione della naturalità dei vari tipi di costituzione sembra riposi sul loro carattere violento o meno: ciò ha stretta attinenza con la distinzione realizzata, nella fisica, tra i moti naturali e i moti violenti.
 
La mancata distinzione tra etica e politica. In conseguenza del fatto che la polis è considerata come un unico organismo sociobiologico, dove i tipi biologici sono parti del tutto, Aristotele non distingue tra la politica pratica e la scienza della politica, come non distingue tra la politica e l’etica. Osserva in proposito Reeve: «Noi siamo soliti distinguere (non sempre in maniera troppo netta) tra la filosofia della politica e l’etica o filosofia morale. La prima riguarda la natura della società giusta o della buona società; la seconda riguarda i diritti doveri degli individui il bene e male delle persone, i vizi e virtù. Anche questa distinzione è estranea ad Aristotele. Dal suo punto di vista, l’etica è sostanzialmente una questione di governo: l’etica cerca di definire che cosa sia il bene per gli uomini, cosa che è la felicità o eudemonia, così che muniti di una concezione dialetticamente chiara dei nostri scopi della vita possiamo provvedere meglio a cercare di raggiungerli; l’attività di governo ha come scopo quello di raggiungere lo stesso bene non tanto per fini individuali ma nell’interesse dell’intera comunità. Ma poiché noi siamo per natura animali sociali o politici, possiamo raggiungere i nostri scopi come individui solo nel contesto di una comunità politica o di una città stato (polis), solo nel contesto di una vita insieme agli altri. Quindi l’etica e l’attività di governo coincidono, e la saggezza pratica che mette in grado un individuo di raggiungere la felicità è più o meno la stessa cosa della capacità dell’uomo di governo la quale gli permette di realizzare la felicità per la comunità».[17]
È chiaro che nella prospettiva aristotelica non esistono individui nella nostra consueta accezione terminologica. Questa implicita concezione ha condotto, storicamente, inevitabilmente a subordinare il privato al pubblico, l’etica alla politica e l’individuo alla società. L’individuo non possiede alcuna autonomia ontologica. Si tratta di una concezione certamente più raffinata ma non qualitativamente diversa dal cosiddetto «comunismo spartano».
 
Organicismi vecchi e nuovi. Abbiamo sostenuto che l’ontologia sociale di Aristotele è di tipo organicistico, di un organicismo a sfondo sociobiologico. Se questo è vero, dovrebbe risultare del tutto chiaro come la socialità aristotelica non possa assolutamente essere assimilata alla nostra attuale nozione di socialità (per quanto generica e imprecisa quest’ultima possa risultare). Aristotele non considerava la nozione di individualità (o identità personale) come la intendiamo noi (sebbene alcune esperienze filosofiche di alcuni suoi predecessori – come quella di Socrate – l’avessero già alquanto anticipata). Il culmine del perfezionamento umano per lui è quello contemplativo, non quello espressivo. E il senso della contemplazione non è il godimento estetico individuale, ma l’adeguamento di ciò che è particolare alla necessità ineluttabile delle leggi naturali. Aristotele non ha alcun interesse per le dimensioni idiosincrasiche dell’identità personale. Tutte quelle caratteristiche che noi consideriamo come parte fondante delle nostre iper valutate identità personali erano per lui soltanto mere accidentalità.
L’attuale concezione occidentale dell’individualità (o della identità personale) è quasi completamente dovuta al cristianesimo. La nuova concezione ontologico – sociale cristiana, dotata anch’essa di una implicita valenza politica, era incompatibile con la sociobiologia aristotelica ed era di tipo platonico, più che aristotelico. Secondo questa concezione, gli individui sono tutti uguali in quanto figli di Dio, in quanto creature dipendenti da Dio. Sono tutti in una condizione di privazione, dovuta al peccato originale. La loro condizione non è determinata dal punto di vista biologico, bensì dal punto di vista del comportamento morale. Sono le scelte individuali, di cui l’individuo ha piena responsabilità soggettiva, a determinare il destino individuale. Di conseguenza, ciò che ora distingue un individuo dall’altro è la biografia individuale e questa è costituita dalla sommatoria delle esperienze e delle scelte individuali (che Aristotele avrebbe considerato, appunto, come mere accidentalità).[18] In tal modo, solo grazie all’accidentalità delle scelte, ciascun individuo è considerato come unico, dotato di una sua particolare storia personale. Compare così l’interiorità individuale che altro non è se non la ricostruzione narrativa di questa storia (si pensi alle Confessioni di Agostino). Proprio in conformità a quest’unicità ciascun individuo sarà individualmente giudicato. L’individuo sopravvivrà alla morte del corpo con la sua memoria e le sue caratteristiche distintive. Addirittura il corpo sarà reintegrato con l’anima, in seguito alla resurrezione della carne. Si tratta di un individuo a sé stante che, grazie alla rivelazione, sviluppa un rapporto privilegiato con Dio, e non con la polis. L’appartenenza alla città terrena è transeunte e ontologicamente poco rilevante.
La storia successiva dell’Occidente ha visto all’opera proprio questo tipo di individualità personale. Un passaggio storico fondamentale, su cui tuttavia non ci possiamo dilungare, è costituito dalla trasformazione della nozione di privazione. L’ambito delle accidentalità individuali era, per Aristotele, l’ambito della privazione (gli schiavi e le donne stavano nel privato perché erano qualcosa di meno della forma finale umana pienamente sviluppata,…). Nel medioevo, in quanto peccatori, tutti gli uomini erano sottoposti alla condizione della privazione, sottomessi a Dio e all’autorità terrena. Dopo l’XI secolo, com’è noto, proprio nelle nuove poleis, cioè nelle città ricostruite, nei borghi, si è costruito ora, in positivo, uno spazio privato, inteso come spazio di autonomia individuale. Si tratta di uno spazio privato fisico («L’aria delle città rende liberi») ma, parallelamente, anche di uno spazio privato interiore, di libertà e di autonomia. Lo sviluppo dello spazio privato interno ed esterno procedono di pari passo, a partire dall’umanesimo e dal Rinascimento, fino a dare luogo ai grandi processi di trasformazione dell’età moderna.
L’avvento dell’età moderna è stato caratterizzato dal conflitto tra il privato in senso negativo (l’uomo alto medievale) e il privato in senso positivo (l’uomo borghese). Con lo sviluppo del privato in senso positivo ha potuto affermarsi la libertà di coscienza, ed è iniziato quel processo di espansione dei diritti civili, politici, sociali che assicurano – ancor oggi – la possibilità della costruzione delle singole identità personali degli individui contemporanei. Solo grazie all’estensione del privato (di cui fanno parte anche il mercato e la concorrenza) possiamo oggi essere padroni di intraprendere la nostra auto realizzazione, un progetto, che dura tutta la nostra vita, di costruzione di una nostra biografia personale, individuale, unica e irripetibile.
Contro l’affermazione dell’identità personale moderna si sono levate innumerevoli forze tradizionaliste e oscurantiste. Per farla breve, si tratta di tutte le forze, pur diversificate, che si sono riconosciute e si riconoscono tuttora nell’anti illuminismo. Il destino lontano del borgo sarà quello di dare vita agli stati nazionali, i cui membri non saranno più i tipi sociobiologici della polis aristotelica ma saranno proprio quelle nuove identità personali che si erano prodotte nell’Occidente cristiano e che si erano – in qualche misura e con difficoltà, generalizzate. Gli stati nazionali a loro volta permetteranno e determineranno la riproduzione allargata proprio di quel modello di identità personale.[19]
Di fronte al compito imponente della costruzione degli stati nazionali, anche grazie alla migliore conoscenza delle filosofie antiche e dello stesso aristotelismo, si riprenderà a ragionare intorno alla natura ontologica di queste entità. Proprio in questo contesto verranno sciaguratamente recuperate e riproposte, come fossero delle profonde novità rivoluzionarie, le ontologie sociali di tipo organicistico.
La storia è fin troppo nota, anche se val la pena di riprenderla per sommi capi. Gli stati nazionali moderni sono stati ontologicamente concepiti secondo tre diverse caratterizzazioni. Abbiamo anzitutto 1) lo stato per contratto, non necessariamente legato alla nazione. È questo l’unico indirizzo di pensiero che si è rivelato compatibile con la salvaguardia delle individualità personali. Proprio Machiavelli e Hobbes ne hanno rappresentato il primo nucleo, teso alla salvaguardia degli individui e della loro persona. Altro che filosofi dell’egoismo. Da questa tendenza contrattualistica nasceranno le società civili e le democrazie politiche. Abbiamo poi 2) lo stato nazione fondato sulla nazione spirituale o stato etico e 3) lo stato nazione fondato sulla nazione biologica, cioè lo stato razziale. Questi ultimi due indirizzi, pur dovendo forzatamente accettare taluni elementi ormai acquisiti e generalizzati della tradizione dell’individualità occidentale, hanno teorizzato, in nome di un’improbabile nuova socialità organicistica (su basi spirituali, su basi economico-sociali, oppure su basi biologiche), forti limitazioni allo spazio privato, esterno e interno, forti ingerenze dello Stato, fino a giungere alla spersonalizzazione degli individui.[20] Solo nel contesto di queste due ultime concezioni gli elementi sociobiologici dell’aristotelismo verranno confusamente ripescati e fusi con le teorie degli stati nazionali. I casi più clamorosi di riciclaggio della vecchia tradizione dell’ontologia sociale aristotelica sono soprattutto due: Hegel e Marx. In ciò, Karl Popper aveva perfettamente ragione (anche se aveva attribuito la principale responsabilità del totalitarismo a Platone, piuttosto che ad Aristotele). Sul terreno pratico, il progetto nazista di usare come schiavi le popolazioni dell’Est, oppure il progetto di Stalin di usare la manodopera dei Gulag per i piani quinquennali rappresentano un preoccupante ritorno del primato della società sui singoli. I singoli, insomma, tornano a essere pure accidentalità.[21]
Questa rapida rassegna circa i tortuosi percorsi dell’ontologia sociale dell’Occidente suggerisce una serie di importanti conclusioni circa la socialità e l’individualità (o identità personale). Si può essere sociali e altruisti senza alcuna individualità (è la condizione generale della polis sociobiologica di Aristotele, come pure del termitaio di Wilson). Oppure si può essere egoisti senza alcuna individualità e alcuna socialità (è la condizione precontrattuale hobbesiana, che è anche, com’è noto, la condizione della guerra civile). Ma si può anche essere sociali e altruisti benché muniti di individualità. Questa è la nuova individualità sociale occidentale, che Aristotele non conosceva, e che è stata resa possibile solo dalla modernità. È l’individualità dei nominalisti, di Montaigne, dei teorici del diritto naturale, di Locke e di Hume, ma soprattutto di Rousseau e della democrazia, quella dell’interesse bene inteso di Tocqueville (non è invece quella di Hegel, di Marx, o dei pensatori totalitari).[22] Si tratta di un’individualità che non rinuncia alle caratteristiche della identità personale moderna, che anzi le valorizza, ma che, nel contempo, è in grado di sviluppare delle caratteristiche di socialità e altruismo, costruite proprio a partire dalla identità personale moderna (e non dalla sua soppressione). L’Occidente è impegnato da alcuni secoli a costruire e generalizzare questo tipo di individualità. Questo sembra essere il bene particolare che è davvero universale, quello cui, una volta sperimentato, nessuno è disposto più a rinunciare.
 
                                                                                                            Giuseppe Rinaldi
 
09/05/2014
 
 
 
OPERE CITATE
 
1983 Anderson, Benedict
Imagined Comunities, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione
dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
 
2006 Keyt, David
Aristotle’s Political Philosophy, in Gill, Mary Louise & Pellegrin, Pierre (a cura di), A
Companion to Ancient Philosophy, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.
 
1998 Reeve, C. D. C. (a cura di)
Aristotle, Politics, Hackett Publishing Company, Cambridge.
 
2009 Reeve, C. D. C.
The Naturalness of the Polis in Aristotle, in Anagnostopulos, Georgios (a cura di), A
Companion to Aristotle, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.
 
1971 Wilson, Edward O.
The Insect Societies, The Belknap Press of Harward University Press, Cambridge, Mass.. Tr. it.: Le società degli insetti, Einaudi, Torino, 1976.
 
 
 
 
 
NOTE
 
 
[1] Questo studio costituisce un approfondimento specifico di alcuni temi da me affrontati nel mio saggio Contraddizioni del terzo tipo. Questo saggio si può reperire in nell’archivio del giornale online Città Futura.
[2] La traduzione consueta di ousia con sostanza è alquanto problematica e controversa. Mentre a parere di taluni l’attuale nozione di sostanza in italiano sarebbe effettivamente rappresentativa della posizione di Aristotele, secondo altri essa introdurrebbe una serie di distorsioni piuttosto grevi. J. Sachs ad esempio, di fronte allo stesso problema, ha scelto di tradurre il termine aristotelico originario (ousia) con thinghood, che in italiano suonerebbe, più o meno, come entità o, più precisamente, cosità.
[3] Si vedano ad esempio gli studi di E. O. Wilson. Cfr. in particolare Wilson 1971.
[4] Cfr. 487b 33.
[5] Cfr. 488a 7-8.
[6] Questa prospettiva può essere definita considerando in modo unitario – come Aristotele stesso invita esplicitamente a fare – la dimensione etica e quella politica.
[7] Politica, I,2 1252b 30 -1253a 10. Tr. Viano
[8] Secondo Aristotele, solo nella polis può essere elaborata, memorizzata e trasmessa una cultura. La cultura costituisce dunque un prodotto reso possibile dall’organismo collettivo.
[9] Fisica, II 8, 198b 15-20 e 198 b35- 199b 5. Tr. Reale
[10] Cfr. Reeve 2009.
[11] Gli oggetti artificiali sono esplicite conseguenze delle intenzioni che stanno inscritte nell’anima razionale degli oggetti/ enti naturali che li producono. Per questo l’uomo è l’unico animale che è in grado di progettare oggetti artificiali.
[12] Si ricordi quanto ebbe a scrivere Hegel sulla costituzione implicita e sulla costituzione esplicita.
[13] Politica, I,2 1253a 19 - 35. Tr. Viano. È quasi superfluo ribadire che questa concezione è esattamente uguale a quella di Hegel.
[14] Keith 2006: 397.
[15] Politica, III.17, 1287b 37–41.
[16] Si ricordi la vecchia questione platonica, per noi contemporanei difficilmente comprensibile, circa la possibilità o meno dell’esistenza della forma del deforme. Per la nostra attuale mentalità, tutto ha una sua forma, per quanto degradata e spregevole sia (ammettiamo ad esempio un’arte informale). Nella nozione platonica e aristotelica, la forma, essendovi implicata l’energheia, non poteva essere degradata. La forma è qualcosa che funziona. Ciò che non funziona non può dunque avere forma, ha perso la forma, se l’aveva.
[17] Cfr. Reeve 1998: XXV-XXVI. Nostra traduzione.
[18] Per questo gli intellettuali greci consideravano le dottrine cristiane come del tutto rozze e inaccettabili.
[19] Il rapporto tra lo sviluppo della individualità moderna e lo sviluppo degli stati nazionali è stato colto in maniera determinante da Anderson 1983.
[20] L’aspetto per noi più agghiacciante della Shoah, al di là della distruzione dei corpi, è senz’altro la privazione della persona. Anzi, i carnefici, prima di procedere alla distruzione dei corpi dovevano procedere alla cancellazione della persona.
[21] Va riconosciuto, a onor del vero, che anche la tradizione della nazione contrattuale, tuttavia, soprattutto in politica estera, di fronte agli estranei, non ha esitato a sfruttarli e a utilizzarli come entità inferiori. È il caso del colonialismo.
[22] È davvero singolare che l’attuale pensiero cristiano – e soprattutto cattolico – non si renda affatto conto di avere grandemente contribuito a generare l’individualità moderna (che molti cattolici considerano invece come semplicemente egoista). In ciò il protestantesimo ha mostrato di essere senz’altro più consapevole.