mercoledì 24 settembre 2014

L’estinzione del sindacato (1.1)

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Si poteva presumere da anni che si sarebbe arrivati a questo punto. Eppure nulla è stato fatto. In Italia continuiamo ad avere una situazione anomala che dura dal dopoguerra e che risale al periodo della Guerra fredda. Abbiamo non uno ma tre sindacati (più una ridda di altri sindacati di vario genere). Si chiamano confederali, ma questa è una pia etichetta, poiché la Confederazione è una pura facciata e non agisce quasi mai in modo unitario. Si tratta di una divisione che corrisponde a un’altra epoca, a concezioni del sindacato che sono ormai sparite, come quella del «sindacato di classe», oppur come la famosa teoria della «cinghia di trasmissione». Dal punto di vista storiografico, si potrebbe sintetizzare la questione con il fatto che, nell’ambito della Repubblica dei partiti,[1] i partiti si sono spartiti anche il sindacato.  Se la Repubblica dei partiti sta finendo rovinosamente, non è chiaro come questi sindacati, di antica e verace emanazione partitica, possano sperare di farla franca.

Peraltro, di fronte a questa vergognosa spaccatura, sono cinquant’anni che si sente parlare, invano, di unità sindacale. L’unica novità è che ora non se ne parla neppure più. Almeno fino a qualche decennio fa sussisteva ancora una certa vergogna per questa situazione di divisione, cosa per cui tutti remavano di fatto contro l’unità sindacale, ma si sgolavano ad assicurare che si stavano impegnando per l’unità sindacale. Neanche nel periodo degli anni Settanta, in cui il movimento operaio ha effettivamente fatto sentire dal basso la sua voce, si è proceduto a realizzare l’unità sindacale. La sola esperienza unitaria è stata quella della FLM, che è stata poi ben presto liquidata (era durata dal 1973 al 1984), non dal nemico di classe, ma dall’interno del sindacato stesso. I delegati eletti su scheda bianca – requisito fondamentale per andare oltre le sigle - hanno lasciato il posto a rappresentanze sindacali che sono costituite di nominati di fatto (e ciò – si badi bene - è accaduto ben prima dei nominati nelle liste elettorali). Il fatto che ora non si parli neppure più di unità sindacale e si dia per scontato il fatto di avere tre sindacati «confederali» continuamente divisi indica la ormai raggiunta totale autoreferenzialità delle tre sigle. Tale è la pervasività delle narrazioni ideologiche dei tre sindacati che a chi scrive non è mai capitato di sentire nessuno degli ambienti sindacali sostenere qualcosa del tipo «Se siamo arrivati a questo punto è perché eravamo divisi».

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Il sindacato lottizzato, tipico della Repubblica dei partiti, ha intanto lentamente mutato la sua natura, da sindacato di classe a sindacato di servizi.[2] La tessera non è più espressione di militanza (i militanti spesso danno addirittura fastidio) ma rappresenta, di fatto, il corrispettivo pagato per l’acquisto di protezione e di un certo numero di privilegi (principalmente per coloro che il posto ce l’hanno già) e di servizi.[3] Ben vengano i servizi.

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Intanto i sindacati continuano, in Italia, a non avere alcuna regolamentazione. I tre sindacati sono riusciti a percorrere questa lunga fase della storia repubblicana riuscendo a impedire qualunque applicazione del dettato costituzionale che imporrebbe una legge di regolamentazione dell’attività sindacale.[4] Attualmente i sindacati non hanno personalità giuridica definita, ma si comportano come se l’avessero. È una tipica situazione italica. Così abbiamo anche visto sindacati fasulli, con un numero finto di iscritti, ascendere rapidamente e altrettanto rapidamente decadere. Abbiamo visto anche l’ascesa e il declino del «sindacato padano» anche dopo la crisi della Repubblica dei partiti. È probabile che un dopolavoro o una società sportiva abbiano una personalità giuridica più definita e più controlli di un comune sindacato. Il fatto è che questo costume ormai è così consolidato che oggi nessun parlamento sarebbe più in grado di regolamentare le organizzazioni sindacali, le quali possono così continuare a sfuggire a ogni limite e a ogni controllo. Soltanto da poco alcune organizzazioni (come la FIOM) chiedono una legge sulla rappresentanza sindacale, che esse tuttavia intendono soprattutto in termini di specificazione di diritti. Una simile legge dovrebbe invece anche regolamentare l’attività stessa dei sindacati, secondo quanto previsto dall’art. 39 della Costituzione. Recentemente,[5] nell’ambito del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, Renzi ha rilanciato l’idea di una legge sulla rappresentanza sindacale, di cui però non sono noti gli indirizzi.

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Se la rappresentanza dei lavoratori è oggi di fatto resa monca dal fatto che i rappresentanti sindacali oggi non sono espressione diretta dei lavoratori, ma sono più che altro espressione delle diverse sigle, anche la democrazia interna alle organizzazioni sindacali (che non ha alcun controllo formale esterno) è una finzione sempre più palese. Oggi un sindacato, in Italia, potrebbe scrivere nel suo statuto che le cariche si trasmettono per diritto ereditario e non avremmo nessuno strumento giuridico per invalidare quello statuto (se non una riga dell’art. 39 della Costituzione che non ha mai avuto traduzione giuridica). Del resto, al di là di quel che sta scritto negli statuti, nei sindacati le carriere interne si fanno principalmente per cooptazione, cioè per fedeltà e non per merito. Questo ha portato, anche nel sindacato, all’affermazione della ben nota selezione dei peggiori, quello stesso meccanismo che ha progressivamente rovinato il personale politico dell’intera sinistra. E i risultati si vedono, a livello nazionale come a quello locale. Per giunta i pezzi grossi del sindacato, dopo avere scalato tutti i gradini della carriera interna, spesso si danno alla politica o ricevono importanti e lucrosi incarichi nella Pubblica Amministrazione. I sindacalisti prestati alla politica non fanno poi che difendere le prerogative dei sindacati, così come sono. Ci si lamenta spesso del fatto che i magistrati ogni tanto si danno alla carriera politica. Sembra invece che per i sindacalisti sia una cosa che appare del tutto normale all’opinione pubblica (la vecchia cinghia di trasmissione funziona sempre!).

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I nostri tre sindacati sono eminentemente italici e portano con sé naturalmente tutti i difetti dell’Italia. Sarà per questo che non si sono ancora accorti che esiste l’Europa. Essi, infatti, si guardano bene da operare una cessione di potere nei confronti di un’organizzazione sindacale europea. Quest’assurdo confinamento nazionale dei sindacati, di fronte allo sviluppo della UE, avviene soltanto per difendere le poltrone nazionali, che nel nostro caso, come si è visto, sono moltiplicate per tre. Non prospettandosi un sindacato europeo non si prospetta neppure una politica sindacale europea. Ciò espone il sindacato a una situazione di grande disomogeneità da un paese all’altro e quindi in una situazione di grande debolezza. Molte politiche europee passano completamente sulla testa dei sindacati. Con la pretesa della specificità di ogni paese, i sindacati continuano a stare chiusi nei confini nazionali per gestire il loro spazio che tuttavia si sta facendo sempre più esiguo.

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I sindacati italiani così sono diventati degli organismi conservatori. Sul conservatorismo dei sindacati italiani è già stato scritto molto e c’è sempre il rischio di ripetersi. Il massimo di resistenza conservatrice dei sindacati si esercita nel rifiuto di qualunque forma di partecipazione alla gestione dell’impresa, nel rifiuto di forme universali di tutela, come ad esempio il reddito minimo garantito[6] e nella difesa strenua del meccanismo della CIG, che difende solo gli occupati. Queste posizioni miopi si giustificano soltanto con la difesa strenua del ruolo tradizionale stesso del sindacato. Ormai il sindacato contratta solo più i licenziamenti e gli istituti di cassa integrazione sono fondamentali per garantire questo ruolo del sindacato. L’istituzione di un reddito minimo garantito o di qualche forma di partecipazione alla gestione delle aziende diminuirebbe immediatamente il potere delle attuali burocrazie sindacali.

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La difesa strenua da parte dei sindacati di coloro che hanno già il posto di lavoro - anche questa analisi è arcinota - ha prodotto un mercato del lavoro duale, che vede una netta contrapposizione tra garantiti e non garantiti. Tra i non garantiti poniamo anche l’enorme massa degli stranieri (dai lavoranti stagionali alle badanti) e l’enorme massa dei giovani. Ciò ha fatto sì che nessuno abbia preso in seria considerazione tutti quegli istituti – presenti in molti Paesi – che governano attivamente il mercato del lavoro, che assistono autenticamente chi deve fare il primo ingresso, oppure chi perde il lavoro, o chi deve essere riqualificato e reinserito. Così accade che nel nostro paese il canale che funziona ancora di più per trovare un posto di lavoro sia quello della conoscenza personale e della raccomandazione. E questo aggiunge ancor più ingiustizia alla situazione. Alle imprese questa situazione va benissimo.  Se vogliamo aggiungere ancora qualcosa per completare il quadro, possiamo chiamare in causa la situazione disastrosa della formazione professionale, che è estremamente disomogenea da zona a zona del paese, che spesso è in mano a clientele che consumano solo soldi pubblici (cui talvolta non sono estranei gli stessi sindacati o la stessa sinistra) che abbisognerebbe di una seria riforma che, tuttavia, chissà perché, tra politici e sindacati, è sempre stata impedita, rinviata o trascurata. Anche nelle recenti proposte di riforma della scuola del governo Renzi, non si parla di una seria riforma dell’istruzione professionale: si vede che si da già per scontato che quelli che studiano poi non avranno mai un lavoro.

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La situazione di cul de sac in cui il sindacato si è cacciato, con le sue stesse mani, fa sì dunque che esso si dimostri completamente incapace di affrontare la questione di una riforma del mercato del lavoro. È la questione scottante all’ordine del giorno. I nostri tassi di disoccupazione sono tra i più alti. Il nostro costo del lavoro tra i più alti, la nostra produttività tra le più basse. Capirebbe anche un bambino che così non si può andare avanti. Per fortuna c’è l’Europa, quella del perfido capitalismo finanziario, che ci martella e che ci sta praticamente imponendo di fare una seria riforma del mercato del lavoro. Siamo ormai l’unico paese – a quanto pare stando alle recenti statistiche – che proprio non cresce, neanche di qualche decimale. Dunque non possiamo dare la colpa agli altri. I problemi sono nostri, ce li portiamo dietro da decenni e, soprattutto, non li vogliamo risolvere, perché questo metterebbe fuori gioco questo meccanismo parassitario in cui i sindacati svolgono un ruolo non da poco.

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Il sospetto è che tra questo sindacato immobile e parassitario e la nostra struttura industriale arretrata ci sia una corrispondenza precisa, una funzionalità reciproca: si tratta di due nullità che si sostengono a vicenda, tirano a campare e che, insieme, affossano qualsiasi sviluppo. Il vero denominatore comune di questa Santa Alleanza è costituita dal fatto che, in entrambi i casi, il merito non conta nulla: sindacalisti cooptati senza merito che si intrattengono in una sequenza di infiniti «tavoli» inconcludenti con imprenditori senza merito che fanno affari solo grazie agli aiuti di Stato, alle connivenze politiche, finanziarie e talvolta anche mafiose. Sono solo due facce della stessa medaglia. Si tratta sempre di gente che sopravvive grazie ai traffici con la politica e il sottogoverno. Se si vuole un bell’esempio, da cui ci sarebbe davvero molto da imparare, si veda il pastrocchio assassino di politica, sindacato e impresa che si è realizzato all’Ilva di Taranto. La massima aspirazione di questi sindacati è quella di «fare un tavolo». Purtroppo per loro è davvero finita l’epoca dei tavoli. Perché questo Paese non ce la fa più a mantenere quelli che «fanno i tavoli».

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Il sindacato è sempre più destinato a vendere protezione individuale a coloro che – sono sempre meno – un lavoro ce l’hanno già, in cambio della tessera e della fedeltà. È sempre più destinato a proteggere tutti i piccoli corporativismi e le rendite di posizione, cioè tutto quel che dovrebbe essere eliminato da una seria politica di riforme. Hanno fatto lo sciopero alla RAI contro i tagli delle spese decisi dal governo, hanno rischiato di mandare a monte la trattativa Alitalia –Etihad, ultima chance dopo una serie di errori incredibili, si oppongono a qualsiasi riforma della scuola che smuova quell’apparato elefantiaco e inefficiente che si è accumulato per anni, proprio grazie all’immobilismo di governi e sindacati. La stessa battaglia sulla «bandiera», ormai del tutto simbolica, dell’articolo 18 (su cui peraltro i tre sindacati sono divisi) mostra ormai quello che tutti sanno, che «il re è nudo».[7] Il sindacato si oppone a tutto, ma non riesce a impedire nulla.

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Il fatto è che il sindacato in Italia è ormai un sindacato senza cultura, privo di qualunque visione che non sia il mero tirare a campare. L’avvento di dirigenti e funzionari selezionati col metodo della promozione dei peggiori ha aperto la strada alla totale mancanza di cultura, a tutti i livelli dell’organizzazione. Sono stati eliminati accuratamente tutti i rapporti di collaborazione che si erano instaurati, negli anni settanta, con gli intellettuali di punta, con il mondo della ricerca, con giuristi del lavoro, psicologi del lavoro, sociologi ed economisti. Oggi i Centri Studi dei sindacati pubblicano ogni tanto dei grafici e commentano le percentuali, tanto per avere qualche citazione nei TG. La conoscenza approfondita dei trend economici, dei processi produttivi, delle innovazioni, dell’organizzazione del lavoro, del mercato del lavoro è venuta completamente meno. Non si conoscono neppure le esperienze degli altri sindacati europei. Non c’è più nessuna produzione e organizzazione consapevole di conoscenza e ci si limita a correre dietro all’emergenza. Le pratiche quotidiane non corrispondono più ad alcuna strategia. Non è stata neanche mantenuta la sensibilità di archiviare i documenti interni, per poter permettere la ricostruzione di una storia del sindacato e dei lavoratori. Siamo di fronte a un sindacato che vive di pratiche burocratiche quotidiane, delle quali si dà già per scontato che non debbano avere storia. Del resto basta guardare i siti web delle organizzazioni sindacali per rendersi conto del dilettantismo e del pressapochismo in cui il sindacato è caduto.

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Il sindacato italiano – ormai è del tutto chiaro, basta ascoltare le dichiarazioni che la Camusso fa in TV - non ha più al proprio interno le energie, la capacità, la visione per rinnovarsi. All’interno, coloro che sono più consapevoli e che ci provano (certo, per fortuna qualcuno c’è ancora) sono emarginati oppure ridotti a minoranza. Questo declino di una specie ormai incapace di adattarsi ai mutamenti ambientali (quindi profondamente stupida – in senso tecnico) fa veramente pena. I lavoratori italiani, i giovani, i disoccupati non si meritavano certo tutto ciò. Non se lo meritavano neanche i militanti sindacali, spesso decisamente migliori dei loro dirigenti. E tutto ciò purtroppo, ancora una volta, essi lo pagheranno caro, lo pagheranno interamente. In questa situazione di avvitamento non potrà che affermarsi il principio schumpeteriano della «distruzione creatrice». Si tratta purtroppo del metodo più meccanico e più feroce per procedere all’innovazione, poiché comporta la distruzione di quel che non funziona più e la sua sostituzione con qualcosa di completamente diverso. Sembra proprio che non ci sia altra strada. Prima accadrà, meglio sarà per tutti. Gli ultimi baluardi su cui si regge questo sindacato sono ormai soltanto le stesse sacche d’inefficienza e d’immobilismo che rischiano di distruggere il Paese. Se vorremo rimettere in moto il Paese, quelle sacche d’inefficienza e d’immobilismo dovranno essere travolte e con esse il sindacato attuale che rifiuta testardamente il cambiamento. La prossima riforma da fare – se la politica fosse davvero lungimirante – sarebbe quella di dar seguito all’articolo 39 della Costituzione e di produrre una coraggiosa legge sui sindacati che ci dia finalmente un sindacato moderno, possibilmente uno solo, unitario, democratico al proprio interno, radicato nei luoghi di lavoro, centrato sui delegati, europeo, non ideologico, capace di stare all’altezza delle sfide del futuro e di difendere autenticamente il lavoro, di sviluppare una cultura del lavoro e non soltanto di difendere la propria comoda e futile autoreferenzialità. Staremo a vedere.

 

24/09/2014

03/10/2014 (rev.)

Giuseppe Rinaldi

 

 

 

NOTE

 

[1] Il riferimento va alla nota analisi di Scoppola.

[2] Con ciò non voglio intendere che il sindacato debba ritornare a essere un sindacato di classe. Nella società democratica i sindacati rappresentano gli interessi delle categorie economiche.

[3] Recentemente il governo Renzi ha dimezzato i distacchi sindacali. Perché non eliminarli del tutto? Qualcuno l’ha spiegato? Evidentemente anche il governo Renzi deve pagare il suo tributo. Si vada a vedere chi sono coloro che normalmente vengono distaccati. Sono coloro che rappresentano effettivamente i lavoratori, oppure sono i più fedeli al sindacato?

[4] L’art. 39 recita: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

[5] Settembre 2014

[6] Il reddito minimo garantito è una forma di reddito minimo che viene dato a tutti coloro che sono in età lavorativa e il cui reddito sia inferiore a una determinata soglia di povertà. Può variare in funzione dell’età. L’obiettivo è di combattere la povertà (di abolirla, almeno statisticamente). Può essere definito anche reddito di garanzia. Può essere compatibile anche con un reddito da lavoro se questo non raggiunge la soglia minima. Nell’individuazione dei beneficiari può essere tenuto conto dei redditi dell’intero gruppo familiare. Di solito si chiedono al beneficiario delle contropartite, come l’accertamento dell’effettiva situazione economica e la ricerca attiva di un lavoro. È un istituto assai diffuso nei paesi della UE, tipico del modello sociale europeo. Non va confuso con il salario minimo garantito che è per legge la paga oraria minima che il datore di lavoro deve corrispondere. Non va neanche confuso con il reddito di base (anche reddito di cittadinanza o reddito universale) che è, invece, nella sua forma più pura, un reddito concesso a tutti i cittadini in quanto cittadini, indipendentemente dal reddito o dalla condizione lavorativa. In tal caso il reddito di base va ad aggiungersi agli altri eventuali redditi. Questa è una forma assai meno frequente del reddito minimo garantito. La grande confusione terminologica che circola in Italia deriva anche dal fatto che il M5S ha elaborato una sua proposta di legge che porta come titolo «Reddito di cittadinanza» ma che è in realtà una proposta di reddito minimo garantito, unita a un salario minimo garantito.

[7] In questa battaglia di retroguardia, i sindacati sono spalleggiati da alcune correnti di minoranza del PD, le quali continuano a fare una opposizione ostruzionistica in parlamento – contro la stessa maggioranza del PD. Tutto ciò se non altro mostra che il recente Congresso del PD non ha deciso assolutamente nulla, che il PD è un partito allo sbando che deve decidere la linea di volta in volta, sulla base di una conflittualità interna infinita. Un Congresso continuo, infinito, a suon di risse, insulti, dichiarazioni. È di questo che hanno bisogno i lavoratori e i disoccupati?