mercoledì 28 settembre 2016

Durkheim e i “suicide bombers”

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1. L’opinione pubblica[1] è sempre più colpita dall’intensificarsi degli attacchi suicidi di matrice islamista che vengono portati nel cuore dell’Europa. Tra le altre cose, appare del tutto incomprensibile la disponibilità dei terroristi a darsi volontariamente la morte per raggiungere i loro obiettivi. È forte dunque la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di totalmente estraneo rispetto al nostro senso comune. Del resto, da parte loro, gli islamisti hanno rivendicato, nelle dichiarazioni di propaganda, una diversità e una superiorità morale che sarebbe dovuta proprio al fatto di non temere la morte. Gli occidentali, a loro giudizio, sarebbero moralmente inferiori proprio perché timorosi della morte. Chi non teme la morte sarebbe destinato a vincere, mentre gli occidentali sarebbero destinati a soccombere. Mai come oggi, la cultura della morte volontaria sembra tornata al centro della nostra attenzione e delle nostre paure.
 
2. Gli attacchi suicidi degli islamisti, oltre a tutte le questioni di ordine pratico che pongono, sollevano in effetti anche una serie d’interrogativi intorno alla natura stessa della morte volontaria e intorno alle differenze, in questo campo, tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra le diverse culture. L’argomento non è del tutto nuovo. Nella tradizione sociologica si è ormai accumulata da tempo una mole di studi intorno alla questione del suicidio. Basterà ricordare che Le suicide di Durkheim, un’opera che costituisce una delle pietre miliari della nascita della sociologia, è stata pubblicata nel lontano 1897. Fin da allora si era cercato di studiare scientificamente il fenomeno della morte volontaria cercando così di conferirgli un qualche senso intelligibile.
 
3. Se si cerca però di fare un bilancio dei risultati di questo filone di studi non si può dire che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Oggi le statistiche sono assai più precise e i fenomeni connessi alla morte volontaria sono descritti con esattezza e dovizia di documentazione. Ci sono ormai professioni specializzate che si occupano della questione e sono stati sviluppati protocolli di prevenzione e intervento assai elaborati. Tuttavia, dando appena un’occhiata alle trattazioni specialistiche, si rischia di perdersi in una casistica complessa e variegata, soprattutto di ordine psicopatologico, tanto da rendere impossibile qualsiasi interpretazione unitaria del fenomeno. In sostanza, pare che l’approccio psicopatologico e l’ottica prevalente della prevenzione sociale abbiano finito per relegare in secondo piano qualunque tentativo di spiegazione del suicidio in termini di teoria sociale.
Purtroppo, dopo l’avvio pionieristico di Durkheim, anche i sociologi, pur con alcune notevoli eccezioni, hanno per lo più evitato di occuparsi del suicidio. Se si consulta il Dizionario di sociologia di Gallino,[2] si vedrà che alla voce “suicidio” sono state dedicate poche righe sbrigative. La situazione internazionale attuale, che vede l’intensificazione a livello globale di fenomeni come le missioni suicide, con casistiche che sono anche decisamente transculturali, sta invece rendendo quanto mai indispensabile riprendere una riflessione sulla morte volontaria proprio in termini di teoria sociale e culturale. L’impostazione del problema adottata originariamente da Durkheim, per quanto imperfetta e discutibile, aveva, se non altro, il merito di inquadrare il fenomeno in una teoria di ampio respiro. Il che è esattamente ciò di cui abbiamo ancora bisogno oggi.
 
4. La teoria durkheimiana del suicidio, per quanto incompleta e difettosa - com’è stato riconosciuto da molti studiosi, ha comunque resistito nel tempo e non di rado è tuttora utilizzata come riferimento anche nel campo della ricerca empirica. È significativo che proprio gli odierni studiosi delle missioni suicide abbiano spesso trovato utile riprendere alcuni elementi dell’elaborazione durkheimiana.[3] La teoria di Durkheim manifestava, in effetti, una certa ambizione in termini scientifici. Non si limitava a proporre una descrizione del fenomeno ma intendeva produrre una vera e propria teoria esplicativa. Essa avrebbe dovuto permettere la formulazione di ben precise leggi sociologiche atte a descrivere e a prevedere il fenomeno, se non altro a livello di dati aggregati. È chiaro che l’ambizione scientifica durkheimiana, che risentiva del clima del positivismo, è andata via via ridimensionandosi col passar del tempo. Ci si accontenterebbe ancora, oggi, di descrivere accuratamente il fenomeno in senso lato, in un contesto interpretativo che ne chiarisca le caratteristiche di fondo.
 
5. Non è qui il caso di riprendere per esteso la teoria durkheimiana del suicidio.[4] Per i nostri scopi saranno sufficienti alcuni cenni di carattere generale. Durkheim ha individuato tre tipi fondamentali di suicidio; due causati da disfunzionalità di integrazione individuale, il suicidio egoistico e il suicidio altruistico, e uno derivante da disfunzionalità della società e cioè il suicidio anomico.[5]
5.1. Il suicidio egoistico è quello che si determina con maggiori probabilità quando è carente l’integrazione dell’individuo nella società. Ciò può accadere quando l’individuo è scarsamente integrato nella società religiosa (Durkheim esamina il caso degli alti tassi di suicidio tra i protestanti e dei minori tassi riscontrati invece tra i cattolici[6]). Oppure quando viene meno l’integrazione dell’individuo nella società familiare (come nel caso di chi non riesce a farsi una famiglia). Oppure, ancora, quando l’individuo è scarsamente integrato nella società politica e così perde ogni punto di riferimento generale (come nei casi delle crisi politiche).[7] Durkheim spiegava anche in termini “egoistici” i maggiori tassi di suicidi riscontrati tra le professioni intellettuali, poiché gli intellettuali sarebbero socialmente meno integrati e più individualisti.
5.2. Il suicidio altruistico invece si determina con maggiori probabilità quando l’integrazione individuale nella società è eccessiva. Gli esempi proposti da Durkheim, più che a una teoria organica, sono legati a una casistica abbastanza episodica ricavata da dati storici, antropologici e statistici. I casi presi in considerazione si riducono a tre: suicidio obbligatorio, facoltativo e acuto.
Il suicidio altruistico obbligatorio si ritrova soprattutto nelle società tradizionali, a solidarietà meccanica,[8] dove l’individuo non ha autonomia ed è totalmente assorbito nel gruppo. Durkheim cita i suicidi degli anziani o di coloro che, per qualche motivo, rappresentano un peso per la società; cita il sari, cioè il suicidio delle vedove in India, e i suicidi di clienti e servitori alla morte del padrone. Il suicidio altruistico facoltativo, secondo Durkheim, sarebbe analogo al precedente, anche se, in questo caso, la pressione sociale sarebbe inferiore e lascerebbe maggior spazio alla scelta individuale. Tra gli esempi cita il seppuku. Anche questo caso sarebbe caratteristico delle società a solidarietà meccanica, dove l’individualità non è tenuta in gran conto.
5.3. Abbiamo poi il caso del suicidio altruistico acuto, che sarebbe il più caratteristico del tipo altruistico. Durkheim in proposito fa l’esempio del suicidio per motivi religiosi, dettato spesso dal fanatismo. L’analisi che Durkheim compie in proposito è davvero utile per comprendere il suo punto di vista generale, per cui merita qualche cenno in più.
Il carattere “altruista” di questo tipo di suicidio sarebbe determinato dal fatto che: «[…] l’individuo aspira a spogliarsi del suo essere personale per annientarsi in quell’altra cosa che considera la sua vera essenza […]. L’impersonalità è qui portata al massimo; l’altruismo è allo stato estremo».[9] Il suicida altruistico acuto: «[…] ha uno scopo, ma questo è situato fuori da questa vita, che perciò gli sembra un ostacolo».[10] Durkheim afferma di conseguenza che il suicidio mistico è l’esempio più perfetto del suicidio altruistico acuto.
Il suicidio altruistico acuto sarebbe più diffuso presso le società inferiori, ma s’incontrerebbe anche nelle società più differenziate. Durkheim propone in proposito l’esempio dei martiri cristiani. Si noti che il loro altruismo non consisterebbe tanto in una specie di devozione al gruppo di appartenenza, o di testimonianza a beneficio di coloro che dovrebbero essere salvati, ma nella devozione all’idea in cui essi credono totalmente. È l’idea che prende il posto della stessa individualità. Durkheim osserva che: «Nelle nostre società contemporanee, essendo la personalità individuale sempre più liberata dalla personalità collettiva, simili specie di suicidi non potrebbero essere molto diffusi». Egli cita tuttavia l’esempio attuale dei soldati che preferiscono la morte alla disfatta, o che intendono evitare il disonore, «Perché se gli uni e gli altri rinunciano alla vita, lo fanno in quanto vi è qualche cosa che stimano più di se stessi».[11]
Nonostante il suicidio altruistico acuto sia da lui considerato piuttosto un residuo del passato, Durkheim propone all’attenzione dei suoi lettori il caso empirico, relativo alla società del suo tempo, costituito dal maggior tasso di suicidio dei militari rispetto ai civili. Il suicidio dei militari sarebbe dovuto al fatto che essi, nel loro addestramento, vanno incontro a un fenomeno di svalorizzazione della propria persona, perché: «[…] il soldato ha il principio della propria condotta fuori di sé».[12] Come si vede, i casi proposti sono tutti o quasi di carattere eteronomico e Durkheim trascura (forse anche perché non riportati nelle statistiche che egli utilizzava) un’ampia gamma di casi in cui, almeno dal nostro punto di vista, il suicidio è letteralmente altruistico, cioè è una libera scelta individuale di sacrificarsi a favore di altri.
5.4. Il suicidio anomico si manifesta quando la funzione normativa della società diventa insufficiente. È dunque dovuto a una carenza della società e non dell’individuo. Gli esempi specifici riportati da Durkheim sono costituiti dalle crisi economiche, dall’anomia economica e dall’anomia domestica.
Le crisi economiche sono dei cambiamenti improvvisi che inducono un turbamento generale nell’ordine collettivo. L’ordine economico è stravolto, gli individui perdono le loro certezze e ognuno è abbandonato a se stesso.[13] C’è poi l’anomia economica, che costituisce invece una generale tendenza delle società altamente differenziate. Essa è prodotta, per Durkheim, dall’avvento del libero mercato e dalle forme di deregulation nel commercio e nell’industria che sono tra loro connesse. Vengono meno in altri termini le regole tradizionali che governavano i rapporti nel campo economico. Anche in questo caso pare di poter scorgere la preoccupazione, da parte di Durkheim, per una pronunciata autonomizzazione individuale. L’anomia domestica è invece costituita dalla crisi dell’istituto familiare, che si osserva soprattutto nel caso del divorzio maschile. In tal caso viene meno la famiglia, una delle istituzioni normative fondamentali, e l’individuo sarebbe così più esposto alla tentazione del suicidio.
5.5. Va osservato che, nel dibattito seguito dopo Durkheim, il tipo del suicidio anomico ha sempre suscitato un particolare interesse, anche se la categoria stessa ha finito per subire una notevole distorsione di significato. L’anomia per Durkheim era chiaramente una caratteristica della società e non degli individui. Così ha chiarificato Merton: «Durkheim fu esplicito nel considerare l’anomia una proprietà della struttura sociale e culturale e non una proprietà degli individui nei confronti della struttura stessa. Tuttavia, quando si capì che il concetto poteva essere utilmente impiegato per la comprensione di forme diverse di comportamento deviante, esso venne esteso fino a venir riferito ad una condizione degli individui piuttosto che del loro ambiente».[14] In sostanza, c’è stata una specie di sovrapposizione tra il suicidio egoistico e il suicidio anomico che sono stati considerati sempre più come problemi individuali. In ciò possiamo riconoscere, oltre a una cattiva prestazione della classificazione durkheimiana, una certa tendenza della sociologia a colpevolizzare il singolo individuo e ad aggirare ogni tipo di responsabilità da parte del contesto sociale.
 
6. Esula da questo scritto sviluppare un’analisi dettagliata dei limiti della tipologia del suicidio proposta da Durkheim. Essa risulta comunque davvero poco esauriente, come si vede anche solo intuitivamente. Anzitutto non segue le regole logiche di una corretta classificazione, poiché lo stesso caso, a seconda che sia visto nell’ottica della assenza di integrazione sociale o nell’ottica della assenza di norme, può essere messo in tipi diversi.[15] Il tipo del suicidio “altruistico” comprende poi davvero troppe situazioni diverse che noi saremmo invece interessati a distinguere e trascura invece tipi di suicidio che noi definiremmo propriamente come altruisti. Sono poi del tutto assenti diversi tipi di suicidio – omicidio che sono venuti recentemente alla ribalta (ad esempio lo school shooting oppure i suicide bombers) e che saremmo desiderosi di riuscire a classificare correttamente, distinguendoli da altri tipi che non c’entrano. Stupisce, in effetti, come mai dopo Durkheim non siano stati fatti tentativi sistematici di comporre le carenze più evidenti della sua tipologia e come mai si continuino a usare, invero confusamente, con adattamenti assai forzati, le categorie del suicidio altruistico e del suicidio anomico.
 
7. Recentemente, Marzio Barbagli, ha pubblicato un importante studio di teoria sociale sul suicidio,[16] che ha segnato senz’altro una ripresa d’interesse per l’argomento e ha introdotto diversi concetti innovativi. L’impostazione dello studio è di tipo storico comparativo e lo scopo è soprattutto di tipo interpretativo. Barbagli, tra le altre cose, ha proposto una nuova tipologia del suicidio, lasciando sullo sfondo l’analisi causale che era stata al centro delle preoccupazioni di Durkheim. Questa nuova tipologia, tra l’altro, è più esaustiva di quella di Durkheim e soddisfa effettivamente i criteri logici di una classificazione.
La nuova tipologia di Barbagli si limita a cercare di classificare il fenomeno della morte volontaria in base a due variabili. Il beneficio ottenuto che può essere individuale o anche collettivo e il danno prodotto (anch’esso di tipo individuale o anche collettivo). Il tutto esclusivamente dal punto di vista di chi mette in opera il suicidio. Dall’incrocio tra le due variabili avremo dunque quattro tipi: 1) il suicidio egoistico (per e contro se stessi); 2) il suicidio altruistico (contro se stessi ma anche per gli altri). Fin qui, le denominazioni sono uguali a quelle di Durkheim, anche se il loro significato teorico è ora alquanto diverso.[17] Avremo poi, secondo Barbagli, il suicidio 3) aggressivo (per sé stessi e contro gli altri) e quello 4) di lotta (per gli altri e contro gli altri).
 
 
Contro se stessi
 
Anche contro gli altri
Per se stessi
 
1. Egoistico
 
3. Aggressivo
 
Anche per gli altri
2. Altruistico
 
4. Arma di lotta
Tipi di suicidio (Barbagli 2009).
 
È chiaro che il caso dei suicide bombers rientrerebbe nel tipo del suicidio come arma di lotta. È un suicidio che si compie a beneficio degli altri (cioè il gruppo o l’organizzazione di riferimento) e contro gli altri (il nemico che deve essere combattuto). Questo tipo permette effettivamente di collocare con una certa precisione le missioni suicide e i comportamenti similari. Infatti Barbagli dedica a questi casi l’intero capitolo VII, intitolato Il corpo come bomba. La tipologia di Barbagli risulta alquanto più coerente di quella di Durkheim, anche se è concentrata esclusivamente sul punto di vista soggettivo e taglia fuori completamente ogni eventuale riferimento alle norme sociali di vario genere che possono contribuire a determinare il gesto. Il riferimento va puramente al significato del gesto dal punto di vista individuale.
 
8. Le tipologie non vanno assolutizzate poiché sono meri strumenti di lavoro. Si tratta di strumenti concettuali per circoscrivere e rappresentare i fenomeni nel miglior modo possibile. Pur senza voler diminuire l’importanza della proposta di Barbagli, ci permettiamo qui di proporre una diversa tipologia, leggermente più analitica, che permetta di sistemare in termini descrittivi le più importanti forme conosciute di suicidio, comprese quelle rare e quelle emergenti, cioè quelle che preoccupano in modo particolare l’opinione pubblica, anche in termini transculturali. È chiaro che l’elaborazione di una nuova tipologia non può che essere giustificata in termini di utilità, chiarezza ed esaustività. Noi abbiamo particolarmente in mente l’obiettivo di collocare e differenziare i sucide bombers nell’ambito dell’orizzonte suicidario, evidenziandone però il rapporto con la dimensione sociale e culturale.
 
 
Regolazione sociale bassa
Regolazione sociale elevata
 
Auto distruzione
1. Privato
 
4. Doveroso
4.1 Autonomo
4.2 Eteronomo
Risposta
 
2. Reattivo
 
5. Di protesta
 
Attacco
 
3. Distruttivo
 
6. Arma di lotta
 
Tipologia analitica del suicidio discussa nel presente articolo.
 
Si propone anzitutto di distinguere, tornando in un certo senso sulle orme di Durkheim, se l’atto in questione sia sottoposto o meno a un qualche tipo di regolazione sociale. La regolazione sociale, se c’è, può essere tranquillamente identificata da un osservatore esterno poiché è facilmente separabile dalle intenzioni del soggetto che agisce. Si stabilisce semplicemente quanto la scelta suicidaria sia condizionata da norme sociali o quanto invece sia condizionata da una scelta individuale, relativamente libera e indipendente. Si prescinde dunque totalmente dalla questione se il suicida sia maturo o immaturo, sano o malato; come si prescinde dal fatto che la società in cui vive sia funzionale o disfunzionale.
La seconda variabile è invece relativa al senso attribuito o, se si preferisce, alla finalità dell’azione suicidaria dal punto di vista di chi la compie. Essa permette di distinguere se questa è prettamente ripiegata su se stessa, oppure se intende perseguire anche altri scopi evidenti. Ciò può essere determinato da un osservatore che interpreti dall’esterno le intenzioni del soggetto inferite dal suo comportamento. Potremo così distinguere il suicidio come a) mero intento di soppressione di sé, senza altri sovraccarichi di significato, oppure b) come risposta individuale a una qualche situazione o condizione sopravvenuta, oppure, ancora, c) come soppressione di sé accompagnata dalla distruzione o annientamento di un obiettivo, di un colpevole, di un nemico, veri o presunti che siano questi.
 
9. Incrociando le due variabili (regolazione sociale e finalità del gesto), otterremo quindi i seguenti sei tipi di cui forniremo una succinta descrizione (si veda per comodità la tabella acclusa al testo).
1 - Privato. Comprende tutte quelle forme di suicidio in cui l’obiettivo principale è quello di mettere fine alla propria vita in conseguenza di un moto interiore, senza che ciò costituisca una reazione a specifici fatti esterni. Il moto interiore può essere dovuto a patologia o follia (può essere cioè completamente irrazionale), o dovuto a qualche stato alterato di coscienza, o a motivi futili, oppure può anche essere determinato attraverso un meditato processo di decisione. Sono i suicidi che, nella percezione dell’opinione pubblica, sono di solito considerati come inspiegabili. Si tratta di suicidi derivanti per lo più da una sorta di disaffezione per la vita, dal vuoto esistenziale, da mancanza di senso. Sarebbero compresi in questa categoria anche i “suicidi dei protestanti” o quelli degli intellettuali su cui ha insistito Durkheim. Abbiamo evitato per questa categoria il termine “egoistico” per il pesante sovraccarico valorale che questo termine porta con sé.
2 - Reattivo. Comprende tutti quei casi in cui il suicidio è principalmente una reazione a una specifica situazione o condizione esterna venutasi a determinare. Si tratta di casi in cui l’individuo non si sarebbe mai suicidato per un moto interiore e in cui il gesto costituisce invece una sorta di risposta individuale a un preciso problema sopravvenuto. La casistica può essere davvero molto ampia. Ad esempio, un torto subito, una malattia incurabile, un cattivo trattamento ricevuto dai genitori, situazioni familiari negative, casi di bullismo, situazioni di vergogna per la divulgazione di fatti privati, conseguenze varie della crisi economica, la perdita dei risparmi, la perdita del lavoro, l’abbandono da parte del partner o il divorzio. All’origine dunque ci sono cause esterne ben precise che mettono in moto una risposta suicida, la quale appare così all’osservatore esterno come dotata di un preciso motivo.[18]
3 - Distruttivo. Comprende tutti quei casi di suicidio privato o di suicidio reattivo in cui però il suicidio (talvolta anche di gruppo) è accompagnato da un disegno distruttivo nei confronti di un qualche obiettivo (solitamente un assassinio o una strage). Gli obiettivi sono costituiti da coloro che sono considerati in qualche modo responsabili della situazione (fino all’estremo di colpire a caso). In questa categoria trovano posto gli omicidi - suicidi di coppia, le piuttosto comuni stragi familiari, oppure i casi di rampage shooting o di school shooting che ogni tanto salgono alla ribalta delle cronache. È chiaro che in alcuni di questi casi ci può essere anche una componente culturale (ad esempio, una componente di cultura maschilista nei casi di femminicidio - suicidio) ma si tratta di casi nei quali prevale l’intento distruttivo più che l’ossequio a una norma socialmente diffusa.
4 - Doveroso. Comprende tutti quei tipi di suicidio il cui obiettivo sia circoscritto alla morte del suicida stesso e che però siano prescritti da una regola presente in una certa cultura, facoltativa o obbligatoria che sia. Sono cioè suicidi culturalmente marcati, il cui codice culturale è esplicito e noto a tutti. Poiché si tratta di un gruppo assai variegato, può essere opportuno suddividere questo tipo in due ulteriori sottogruppi: 4.1) suicidio doveroso autonomo, cioè per scelta morale individuale, oppure 4.2) suicidio doveroso eteronomo, cioè per un’imposizione esterna. Si tratta insomma di distinguere tra autonomia ed eteronomia, in altre parole di individuare la prevalente fonte interna o esterna della motivazione.[19] Il suicidio doveroso autonomo, per senso del dovere, è forse il solo tipo che può essere considerato, dal nostro punto di vista occidentale, autenticamente “altruistico”, poiché nasce da un impulso o da una considerazione individuale che porta a un sacrificio di sé a favore degli altri (spesso si tratta di congiunti, amici, commilitoni e simili), secondo un impulso o una regola morale elaborata e fatta propria.[20] La regola morale adottata solitamente risulta evidente all’osservatore, a partire dal contesto.
Il suicidio doveroso eteronomo invece è comandato da una norma esterna che è recepita come un dovere imprescindibile. Il suicida in questo caso è assoggettato alla norma, diremmo che ne è addirittura una vittima. Al più il tipo può esser detto vagamente “altruistico” come intendeva Durkheim nel senso di una sottomissione alla cultura comune, agli usi e costumi. Qui possiamo collocare casi come il sari o il seppuku. In un territorio incerto, a metà strada tra l’imposizione esterna e l’internalizzazione, stanno senz’altro i cult suicides,[21] di cui si sono avuti vari esempi negli scorsi decenni. Insomma tutti quei casi in cui il suicidio è contemplato e messo in pratica entro gruppi che condividono una micro cultura di carattere para religioso. Il suicidio collettivo è ottenuto in questi casi, grazie a meccanismi di imitazione, lavaggio del cervello, suggestione, riti di esaltazione collettiva, uso di sostanze psicotrope e simili.
5 - Di protesta. Comprende tutti quei casi in cui il suicidio ha principalmente il significato di una protesta e costituisce dunque un atto rivolto al pubblico, per reagire contro un fatto specifico, contro una norma o per istituire una nuova norma, oppure per affermare un principio violato. Può avere il significato della testimonianza, della denuncia, della pubblica manifestazione, o della pubblica vendetta. Anche in questi casi, il significato dell’atto non può che apparire evidente all’osservatore. Esempi possono essere costituiti dal martirio passivo cristiano, oppure dall’auto immolazione (come nel caso dei bonzi o di Jan Palack). Può essere compreso anche il caso del suicidio vendicativo (cfr. Barbagli 2009) che è possibile però solo in un contesto altamente normato. Anche il suicidio di Socrate (implicito nel suo rifiuto di fuggire) può essere inserito in questa casistica. Solitamente, i casi compresi in questo tipo rifiutano l’uso della violenza contro obiettivi esterni.
6 - Arma di lotta. Il suicidio è qui inteso come arma di combattimento contro un nemico (di solito soverchiante) per difendere o promuovere una qualche causa. Ci si uccide principalmente per distruggere un nemico. Si tratta quindi di un tipo di suicidio che ammette o addirittura esalta la violenza contro gli altri. Si tratta quasi sempre di suicidi doverosi eteronomi, cioè di suicidi che sono culturalmente marcati e che possono avere anche un senso altruistico verso il proprio specifico gruppo cui viene ad aggiungersi un senso distruttivo nei confronti del nemico. La casistica è assai ampia e in genere riguarda a) i conflitti più ritualizzati, come le guerre, oppure b) i conflitti più informali, come i movimenti di guerriglia, di resistenza o gli attacchi terroristici di gruppi ideologizzati. Gli esempi più tipici nel primo caso sono gli human wave attacks, i kamikaze giapponesi, i basij della rivoluzione khomeinista, oppure, nel secondo caso, le tigri tamil, le varie forme di martirio attivo sviluppatesi sul terreno dell’islamismo radicale come i suicide bombers o, più in generale, le suicide missions.
 
La tipologia analitica presentata, come si vede, è puramente descrittiva e ha principalmente un intento classificatorio. Essa permette, però, di distinguere, con una relativa semplicità e chiarezza, i principali tipi di suicidio conosciuti, compresi quelli venuti più recentemente alla ribalta delle cronache. Permette, insomma, di mettere un minimo ordine in un fenomeno davvero variegato. Casi particolarissimi, trovandosi talvolta nell’intersezione tra due gruppi contigui, possono non trovarvi un’adeguata sistemazione. Nessuna tipologia è perfetta.
 
10. Poiché sono culturalmente marcati, i tipi di suicidio che si trovano nella colonna destra della tabella spesso, nelle rispettive culture, non sono considerati effettivamente come suicidi ma come comportamenti aventi un particolare status positivo. Ciò vale anche per noi. Chi si fa uccidere per salvare un amico non lo riteniamo un suicida bensì l’autore di un sacrificio di sé degno di ammirazione. Questa diversa considerazione pubblica a maggior ragione vale, ad esempio, per il sari, dove la vedova che s’immola è onorata nella cultura di appartenenza come una moglie esemplare. Tipico è anche il caso del mondo islamico, dove il suicidio individuale è rigorosamente proibito per motivi religiosi. In tal caso, gli attacchi suicidi, che sono diventati pratica frequente dell’islamismo radicale, non sono, in effetti, considerati come dei suicidi ma sono considerati come azioni di martirio o morte sacra e, come tali, sono invece approvati dalle rispettive comunità di riferimento, sono avallati dalle autorità politiche e religiose e sono celebrati e onorati, dai parenti, dai militanti e dalla popolazione. Si tratta di casi di martirio attivo, per dirla con Khosrokhavar.[22] I suicidi culturalmene marcati sono quindi interpretati in modo particolare, in relazione alle più diverse culture di riferimento. Lo status positivo che è conferito a tali gesti fa sì che, in alcune situazioni, si formino vere e proprie liste di attesa per gli aspiranti, con relative operazioni di selezione.
 
11. Tutti i tipi di suicidio che implicano un grado di regolazione sociale elevato (quelli sul lato destro dello schema) rappresentano prevalentemente dei mezzi per un fine che va oltre l’individuo stesso. I soggetti che ricadono in questi tipi in condizioni normali si guarderebbero bene dal suicidarsi; accade tuttavia che, in certe condizioni, sia di auto sia di etero direzione, il suicidio possa essere messo in opera in quanto considerato come unico mezzo possibile per raggiungere una finalità che è stimata più della propria vita. Come ha bene specificato Durkheim, costoro in generale pongono totalmente se stessi in qualcosa di altro. Di fronte a questa casistica, occorre dunque spiegare, in termini di teoria sociale e non di semplice patologia individuale, come sia possibile che un individuo si ponga un fine che implichi necessariamente la cancellazione della sua stessa vita. È chiaro che tutto ciò non è riconducibile all’“altruismo” secondo i confusi significati che il termine assume in Durkheim. Si tratta piuttosto di un particolare legame che connette il singolo individuo alla propria cultura, sia quella interiorizzata sia quella che opera come istituzione esterna.
 
12. Va anzitutto notato, per quanto ciò costituisca un’osservazione banale, come questo comportamento non possa che essere specifico dell’animale uomo. Si tratta di un comportamento reso possibile dal fatto che, dentro la mente dell’animale uomo, alberga la cultura (Durkheim avrebbe parlato di rappresentazioni collettive). Solo nell’ambito di un animale culturale unico, qual è l’uomo, può essere prospettato qualcosa come un inquietante sacrificio di sé come mezzo per un fine che è altro da sé. Parafrasando Dawkins, l’autore de Il gene egoista, potremmo ipotizzare che, in questi casi, sia in azione qualcosa come un meme egoista,[23]  cioè una rappresentazione collettiva, interiorizzata nell’ambito delle relazioni sociali, che è in grado di usare per i suoi scopi gli individui che la ospitano, non esitando così a sacrificarli. Per interpretare questi tipi di suicidi, si deve dunque spiegare come sia possibile che rappresentazioni collettive, idee o memi - si dica come si vuole - possano insediarsi e albergare nella mente di un individuo e possano fare sì che il soggetto ponga se stesso in qualcosa di altro da sé, tanto da procurare la propria morte e, talvolta, anche quella di altri.
12.1. L’antropologo Scott Atran – che ha condotto per molti anni ricerche su questi temi e, in particolare, sul terrorismo suicida[24] - ha elaborato alcune categorie concettuali che sono assai utili per chiarire come tutto ciò sia possibile. Atran ha individuato e studiato una particolare categoria di persone che egli ha chiamato devoted actors.[25] Costoro sarebbero caratterizzati e motivati, nelle loro scelte, da due elementi causali strettamente connessi: a) la condivisione di sacred values e b) la condizione di identity fusion con il proprio gruppo. Vediamo meglio di che si tratta.
I sacred values sono valori assoluti, valori quindi che possono richiedere qualsiasi sacrificio, compresa la vita stessa. Sono i valori di base, gli assiomi, indiscutibili e non trattabili, che stanno a fondamento di tutto. La qualificazione della sacralità è decisiva, poiché essa permette di collocare questi valori in un ambito di straordinarietà e d’intangibilità. Il sacro è l’opposto esatto dell’ordinario, del quotidiano, del profano, di ciò che è vano e transeunte. Il sacro è quel qualcosa di “altro” che permane, oltre ogni volatilità, qualcosa in cui, alla lettera, si tratta di mettere se stessi, proprio come ha sostenuto Durkheim.
12.2. I sacred values non sono semplicemente dei contenuti di tipo intellettualistico. Si tratta di contenuti che in quanto sacri sono profondamente sentiti sul piano emotivo. Sono cioè marcati emotivamente.[26] Un valore non marcato si può tranquillamente sottoporre a critica e aggirare come si vuole, lo si può eventualmente rifiutare. Lo si può, insomma, padroneggiare. Nel caso invece di un valore emotivamente marcato e definito in termini sacrali, non è facile sottrarsi ai suoi effetti, perché la marca emotiva (il sentimento associato) lo trasforma in qualcosa di oggettivo, di autonomo e quindi di assoluto. In questo caso è piuttosto il soggetto a essere padroneggiato. Si tratta allora di comprendere come si istituisca la relazione tra la marca emotiva e il valore sacro. Qui interviene l’esperienza collettiva della identity fusion.
12.3. Per comprendere come funzioni la identity fusion, occorre anzitutto considerare che i valori, di cui sono portatori i singoli individui, sono solitamente considerati – almeno in Occidente – come un punto di vista tra i tanti. In una simile situazione è difficile caricare i valori di una forte marca emotiva, di conseguenza il valore non può che essere in qualche misura relativizzato. È come se dicessimo: «Io ci credo, ma so bene che, tra gli altri che stanno intorno a me, molti non ci credono e sono liberi di non crederci».
Possono esserci, invece, altre situazioni in cui il valore può essere marcato emotivamente in modo così forte da essere assolutizzato. Ciò accade quando ci si viene a trovare in una situazione collettiva nella quale il valore è condiviso da tutti gli altri significativi e trova, insieme a essi, una comune espressione, spesso di tipo rituale. Nello stato di identity fusion quella che noi comunemente definiamo come individualità singolare (quella parte di noi disposta a relativizzare) viene confinata e neutralizzata, oppure caricata negativamente. Il suo posto viene preso dalla identità collettiva, cioè dai sacred values e dal forte investimento emotivo che li accompagna. Così – e solo così - il singolo diventa, intellettualmente ed emotivamente, uno con il suo gruppo.
12.4. La netta barriera tra sacro e profano, tra noi e loro, che si crea attraverso questo tipo di procedimenti non ha, e non può avere, alcun resoconto razionale (anche se può essere giustificata a posteriori con argomentazioni e resoconti razionali) e si trova così al riparo da qualunque confutazione. Essa traccia un limite insuperabile. È costituita da una potente marca emotiva che circoscrive un territorio che sarà d’ora in avanti esente da qualsiasi considerazione utilitaristica, da qualsiasi convenienza personale. Il mantenimento della barriera tra il valore e il disvalore diventa così di vitale importanza per il gruppo e può comportare il sacrificio supremo per il devoto che è diventato uno con il suo gruppo. Nei gruppi in cui prevalgono i devoted actors il senso del sacro, la proibizione e il sacrificio di sé si accompagnano costantemente come una esperienza totale.
12.5. La teoria di Atran è chiaramente uno sviluppo delle nozioni di effervescenza collettiva e di rappresentazioni collettive di Durkheim. Non si tratta dunque di concetti nuovi. L’elemento nuovo è costituito dal fatto che ormai dei sacred values e della identity fusion sono state fornite delle precise definizioni operative e sono state condotte delle vere e proprie misurazioni psicometriche. In altri termini, sono stati ormai reperiti ampi riscontri empirici[27] alla teoria (cosa che Durkheim non poteva neppure lontanamente immaginare). Questi due elementi causali uniti insieme, sacred values e identity fusion, sarebbero così in grado di spiegare come il singolo devoted actor riesca ad aggirare l’impulso biologico alla conservazione e quindi possa essere indotto a procurarsi la morte considerata come mezzo per un fine supremo.
 
13. I meccanismi che abbiamo descritto analiticamente possono sembrare complicati ma nella pratica sono in realtà veramente elementari, davvero alla portata di tutti. Possono tranquillamente funzionare senza la piena consapevolezza degli interessati. Su questo punto c’è un ampio accordo tra gli studiosi che anche solo vagamente si sono ispirati a Durkheim. Si tratta di meccanismi che trovano ampio impiego nella vita quotidiana di chiunque, come ha mostrato Collins in modo davvero sorprendente.[28] In un certo senso, in quanto animali culturali, tutti abbiamo la possibilità di comportarci come dei devoted actors e spesso lo facciamo, anche se non sempre con una intensità emotiva tale da impegnare la nostra vita. Talvolta l’impegno totale di taluni devoted actors suscita l’ammirazione da parte di chi invece non si sente di assumere alcun impegno totale a lunga scadenza.
Atran ritiene che questi meccanismi siano delle caratteristiche del comportamento umano che sono state selezionate dall’evoluzione culturale. I processi genetici possono, infatti, arrivare a spiegare al più la solidarietà solo tra gruppi ristretti che condividano lo stesso patrimonio genetico.[29] Ciò non basta tuttavia per spiegare comportamenti che implicano il sacrificio di sé a favore di gruppi molto ampi che siano costituiti per lo più di sconosciuti. Senza questa predisposizione evolutiva di tipo culturale non potrebbe dunque sussistere una solidarietà sociale capace di andare al di là di piccoli gruppi di consanguinei. Specifica dell’uomo dunque non è tanto la socialità, diffusa tra molte specie animali, bensì una socialità culturalizzata.
Senza questa predisposizione non sarebbe neppure possibile quel complesso di fenomeni che chiamiamo religioni che richiedono, da sempre, la partecipazione e il sacrificio di innumerevoli attori devoti. Non solo le religioni tout court, ma anche e soprattutto le religioni laiche, le ideologie, come, ad esempio, la nazione, la classe o la razza. Nel caso di insiemi sociali molto ampi, è indubbiamente necessario passare attraverso un processo di simbolizzazione. Il sacrificio in questi casi non può che avvenire a favore di un oggetto che esiste solo in quanto è simbolizzato e investito di marche emotive. Si veda in proposito, ad esempio, la teoria di Anderson sulla nazione intesa come comunità immaginata.[30]
Attraverso i semplici meccanismi evidenziati da Atran, la cultura può così chiedere il massimo sacrificio ai singoli a favore di gruppi sociali assai ampi ed è perfettamente in grado di produrre individui che, in certe condizioni, accettino di sacrificarsi in nome di entità immaginate. Se l’oggetto ultimativo nel quale l’individuo mette se stesso è un oggetto immaginato, un costrutto culturale, è chiaro che questo può essere un oggetto di qualsiasi tipo, vero o falso, bello o brutto, buono o cattivo, serio o ridicolo. Insomma, la cultura ci mette in grado di sacrificarci per qualcosa; se ci sacrifichiamo per delle stupidaggini, è solo colpa nostra.
 
14. Per diventare un devoted actor disposto al sacrificio è quindi del tutto sufficiente essere persone normali, non occorre essere subnormali o persone eccezionali. Il requisito è semplicemente quello di un’esclusiva identificazione con il sacred value e di una identity fusion con altri significativi che lo condividano. Il meccanismo che sta alla base dei suicidi culturalmente marcati sarebbe dunque lo stesso che più in generale sta alla base della solidarietà sociale, della religione e delle ideologie. Ciò deve valere anche - per quanto possa risultare drammatico – per le missioni suicide. Tutto ciò implica la conseguenza specifica che i suicide bombers non siano prevalentemente dei folli o dei mostri.[31] Tutti gli studi condotti – ormai si contano a decine – testimoniano che si tratta per lo più di individui normali.[32] Quel che c’è di “anormale” in loro o, meglio, di estremamente pericoloso per loro stessi e per gli altri, sono le specifiche rappresentazioni collettive, le idee, i memi che popolano le loro menti, con le relative marche emotive appiccicate. In questione, dunque, non è tanto il fatto di sacrificarsi, quanto il fatto che costoro si sacrificano per uno scopo discutibile.
Se questo è vero, allora ci si può domandare se le famose condizioni materiali non abbiano alcun peso. È ovvio che ci siano anche delle condizioni specifiche, biografiche, storiche, economiche e sociali che possono facilitare l’adozione, da parte di un individuo, della prospettiva del devoted actor, tanto da indurlo al sacrificio. Non si deve affatto pensare che i devoted actors vivano in un mondo irrealistico, privo di agganci con la realtà. Le vedove cecene che hanno avuto la famiglia distrutta dalla guerra civile, chi ha sempre vissuto in un campo profughi, chi ha forti sentimenti di vendetta, chi si sente vittima di ingiustizia, di umiliazione, chi appartiene a una minoranza perseguitata, chi non vede un futuro davanti a sé, chi non ce la fa a costruirsi una propria identità, chi conduce una vita borderline o deviante; tutti costoro possono facilmente mettersi nell’ottica del gesto di lotta estremo, del martirio, del sacrificio; tutti costoro possono cioè essere indotti, a partire dalla loro oggettiva condizione, a decidere di mettere la propria vita in qualcosa di altro da sé. Affinché però le condizioni oggettive – magari terribilmente drammatiche - si trasformino nell’atto del sacrificio suicidario, magari distruttivo, occorre che l’individuo in questione si strutturi internamente come un devoted actor e questo salto non è implicito nelle condizioni materiali.
 
15. A parere di chi scrive - qui mi spingo appena un po’ oltre Atran - possiamo a rigor di logica, considerare il devoted actor come l’estremo opposto di un’altra figura che ci è piuttosto familiare e che potremmo definire come il relativist actor. L’attore relativista è il tipico attore che si è formato nella tradizione individualistica e pluralistica occidentale.[33] Si noti che, come tale, questo “relativismo” non ha niente a che vedere con il relativismo inteso come orientamento metodologico o filosofico. Ha piuttosto a che fare con la privatizzazione della sfera dei valori,[34] un reale processo storico, sociale e culturale cui abbiamo ampiamente assistito in Occidente negli ultimi quattro secoli. È, questo, l’individuo che è in grado di costruire la propria identità personale con la consapevolezza che questa è una tra le tante. L’investimento emotivo che egli necessariamente riserva ai propri valori, alle proprie rappresentazioni, non gli impedisce di convivere accanto ad altri che pensano e operano in maniera completamente diversa. L’attore relativista è in grado di orientare e controllare la propria emotività e di evitare di rivolgerla dove non sia appropriato (cioè contro un altro soggetto a lui prossimo che abbia una diversa scala di valori).
Il devoted actor ha, invece, come riferimento, un’unica comunità di individui del tutto simili a lui, dove tutti si assomigliano, dove si ha un investimento collettivo monolitico nei confronti degli stessi sacred values. Dove ci si sente sempre uno con il gruppo e dove, quindi, non si ammettono diversità. Dove l’eventuale violazione può essere percepita come una minaccia e magari condannata con la morte. Il devoted actor, dato il suo orientamento monolitico, non capisce come altri possano fondare il loro specifico orizzonte in maniera diversa, in modo pluralistico. Non capisce come si possa convivere con altri che pensano e agiscono diversamente. La diversità di valori è percepita come una forma di blasfemia, un insulto a quanto vi è di più sacro. L’eventuale prevalenza storica, nella società, di un pluralismo di valori è considerata come un pericolo, una catastrofe, una perdita del proprio mondo di riferimento.
 
16. A questo punto siamo in grado di elaborare, sempre sulla falsariga di Durkheim, un ulteriore spezzone di teoria che ci permetta anche di comprendere il senso generale dei suicidi non doverosi (quelli cioè collocati sul lato sinistro della tipologia analitica che abbiamo proposto). Viene spontaneo ritenere che, come ci sono i suicidi dei devoted actors, così possano anche esserci i suicidi dei relativist actors. Come possono essere interpretati? Sono evidentemente i suicidi di coloro che – in un contesto di pluralismo di valori, dove la regolazione sociale sia piuttosto bassa come nella società occidentale - non riescono a reggere il compito di elaborare una loro costruzione individuale personale, cioè una costruzione che stia in piedi autonomamente, senza il puntello costante delle rappresentazioni collettive. Una costruzione che abbia un minimo di coerenza, che goda di un sano investimento emotivo, che sia in grado di mantenere una relativa indipendenza dagli altri e, nello stesso tempo, di convivere serenamente con gli altri. Forse è proprio questo il senso effettivo del grado ottimale d’integrazione cui si riferiva Durkheim. Il suicidio eventuale del relativist actor deriva allora da un’incapacità di autocostruzione individuale o, più facilmente, dal suo fallimento.[35]
Per contrasto, il suicidio del devoted actor deriva invece, come s’è visto, da una costruzione troppo riuscita,[36] cioè da una resa incondizionata alla formazione ricevuta dal proprio ambiente, dal proprio gruppo o, se si preferisce, dall’adesione profonda e incondizionata a un modello monolitico e precostituito.[37] Sul piano preventivo o, diciamo così, terapeutico, nei termini di un’ipotetica terapia dell’identità personale, mentre il devoted actor dovrebbe imparare a relativizzare le proprie posizioni, il relativist actor andrebbe un po’ socializzato o, se si vuole, “sacralizzato” (cioè, in termini spicci, bisognerebbe dargli uno scopo nella vita) – ma non troppo, onde salvarlo dalle derive del fondamentalismo.
 
17. C’è ancora un altro spunto teorico che può essere interessante - e con ciò arriviamo anche ai terroristi suicidi nostrani, cioè ai giovani cittadini europei responsabili dei recenti attacchi in Europa. Le due condizioni estreme che abbiamo individuato (devoted actor e relativist actor), che caratterizzano in modo basilare il rapporto che il singolo intrattiene con la propria cultura, sono indubbiamente legate seppure in modo probabilistico, alle caratteristiche di fondo della società stessa. Il devoted actor è più facile incontrarlo nelle società ristrette, fortemente gerarchizzate, costituite di piccoli gruppi, con forte pressione sociale, cultura tradizionale e scarsa mobilità. Il relativist actor è più frequente nelle grandi società complesse, orizzontali e molto mobili, tipiche dell’Occidente. Attore relativista, dunque, non si nasce, si diventa. Lo si può diventare, in modo particolare, se si cresce in Occidente. Lo si diventa senza neanche accorgersene. S’impara a relativizzare nel corso della socializzazione primaria, nella vasta gamma di interazioni personali che sono permesse (e che sono necessarie) nelle società complesse. Lo si diventa anche grazie ai viaggi oppure all’istruzione. La letteratura, il cinema, la televisione, la rete ci mettono ogni giorno in presenza di orizzonti valoriali diversi dai nostri, tra i quali, volenti o nolenti, impariamo a destreggiarci. Insomma, l’attore relativista occidentalo-centrico non può fare a meno, nella stessa pratica quotidiana, di esercitare una certa dose di tolleranza e di mettere sotto un qualche controllo i propri investimenti emotivi.
Tuttavia questo rapporto che il singolo intrattiene con la propria cultura non è stabilito una volta per tutte, non è affatto definitivo. Non è una predisposizione genetica ma un prodotto culturale. Come tale, può cambiare secondo le circostanze. Non si esclude – ad esempio - che un genuino relativist actor, di buone condizioni economiche, educato nelle migliori scuole occidentali, abitante in qualche grande metropoli, per qualche motivo accidentale, imperscrutabile, venga a trovarsi in una qualche grave difficoltà esistenziale, trovi di fronte a sé qualche ostacolo insormontabile, abbia la percezione di avere fallito, di non riuscire a sviluppare una propria identità personale, com’è implicitamente richiesto a ogni individuo occidentale.[38] Oppure non si esclude che possa essere fascinato da qualche personalità a tutto tondo di devoted actor, conosciuta direttamente o incontrata nei meandri della rete. Chi si arrabatta per tenere insieme i propri pezzi, chi è insicuro circa la propria costruzione, può anche arrivare a considerare come un modello da imitare chi esibisce un modello di perfezione personale, magari inserito in un modello di società perfetta.
In tal caso, costui potrebbe anche essere spinto, coscientemente o no, a trasformarsi, di punto in bianco, in un devoted actor. È sufficiente spostare la propria concentrazione, logica ed emotiva, su un nuovo insieme di core values (acquisiti o scoperti non importa come o dove[39]) che verranno così sacralizzati. È sufficiente poi trovarsi in uno stato di fusion emotiva con un gruppo di condivisione che diventi, così, il gruppo di riferimento. Si noti che, oggi, dato il potere della rete, può trattarsi anche di un gruppo collocato a distanza, magari all’altro capo del mondo, un gruppo cioè del tutto virtuale, mai incontrato di persona. La nascita (o più propriamente la rinascita) del devoted actor può accadere anche del tutto inaspettatamente, grazie alla capacità che abbiamo di modificare la dislocazione delle nostre marche emotive e di ristrutturare conseguentemente la nostra identità personale. Può aver così luogo un cambiamento complessivo, una vera e propria mutazione, in grado di trasformare completamente una persona in un’altra persona. Tutto ciò si chiama conversione o, se si preferisce, riferendoci all’ambito da cui siamo partiti, radicalizzazione.
 
Giuseppe Rinaldi
28/09/2016
 
 
OPERE CITATE
 
1983 Anderson, Benedict
Imagined Comunities, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
 
2010 Atran, Scott
Talking to the Enemy. Violent Extremism, Sacred Values, and What it Means to be Human, Penguin Books, London.
 
2014 Atran, Scott & Sheikh, Hammad & Gómez, Ángel
For Cause and Comrade: Devoted Actors and Willingness to Fight, in Cliodynamics, 5: 41-57.
 
2009 Barbagli, Marzio
Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, Il Mulino, Bologna.
 
2004 Collins, Randall
Interaction Ritual Chains, Princeton University Press, Princeton.
 
1897 Durkheim, Émile
Le Suicidie. Étude de Sociologie, Alcan, Paris. Tr. it.: Sociologia del suicidio, Newton Compton, Roma, 1974.
 
2004 Gallino, Luciano
Dizionario di sociologia (2a ediz.), UTET, Torino. [1978]
 
2005 Gambetta, Diego (a cura di)
Making Sense of Suicide Missions, Oxford University Press.
 
2006 Lukes, Steven
Individualism, ECPR Press. [1973]
 
1968 Merton, Robert K.
Social Theory and Social Structure, The Free Press, Glencoe. Tr. it.: Teoria e struttura sociale (3 voll.), Il Mulino, Bologna, 1974.
 
2002 Khosrokhavar, Farhad
Les nouveaux martyrs d’Allah, Flammarion, Paris. Tr. it.: I nuovi martiri di Allah, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
 
1973 Lukes, Steven
Émile Durkheim. His Life and Work: a Historical and Critical Study, Penguin Books, London.
 
2007 Sadri, Mahmoud
Terrorism as Suicidal Homicide. A Durkheimian Approach, in Ozeren, Suleyman & Gunes, Ismail Dincer & Al-Badayneh, Diab M. (a cura di), Understanding Terrorism: Analysis of Sociological and Psychological Aspects, IOS Press, Amsterdam.
 
1982 Thompson, Kenneth
Emile Durkheim, Ellis Horwood Ltd., London. Tr. it.: Emile Durkheim, Il Mulino, Bologna, 1987.
 
 
NOTE
 
[1] La ricerca che ha dato origine a questo articolo è stata, in origine, motivata dall’ennesimo tragico fatto di cronaca dell’attacco suicida di matrice islamista accaduto a Nizza il 14 luglio 2016.
[2] Cfr. Gallino 2004.
[3] Un’impostazione durkheimiana di fondo è palese in studiosi come Atran, Pape e Pedahzur. Si veda un concreto esempio di applicazione delle categorie di Durkheim allo studio del terrorismo suicida in Sadri 2007.
[4] Chi desideri una concisa sintesi può consultare Lukes 1973 o Thompson  1982.
[5] Durkheim, in una famosa nota de Il suicidio, aveva anche contemplato la possibilità del suicidio fatalistico, che tuttavia non ha ritenuto degna d’interesse.
[6] I protestanti erano considerati da Durkheim meno integrati nella comunità religiosa a causa del libero esame.
[7] È interessante il fatto che Durkheim ritiene invece che le guerre abbiano una funzione di integrazione, poiché suscitano passione e partecipazione). Lo stesso dicasi per le rivoluzioni. Ciò è sostenuto non tanto per ragioni teoriche quanto in base alle statistiche disponibili.
[8] La distinzione tra solidarietà meccanica e solidarietà organica era stata elaborata da Durkheim nella sua opera sulla Divisione del lavoro sociale.
[9] Cfr. Durkheim  : 277.
[10] Cfr. Durkheim : 277-278.
[11] Cfr. Durkheim : 280.
[12] Cfr. Durkheim : 287.
[13] Si noti che Durkheim distingue accuratamente tra i momenti di crisi economica e altri momenti, come le guerre e le rivoluzioni, che avrebbero invece l’effetto di diminuire i suicidi in conseguenza del forte senso di unità, dovuto alla effervescenza collettiva, che si crea in simili occasioni.
[14] Merton 1968: 348.
[15] Il suicida che non ha famiglia (cioè non integrato) cade nel tipo egoistico, il divorziato che ha perso la famiglia (cioè l’ordine normativo istituzionale) finirà nel tipo anomico. Il confine è davvero labile.
[16] Cfr. Barbagli 2009.
[17] In Durkheim il suicidio egoistico è quello che è legato a una progressiva autonomizzazione degli individui (come nel caso della riforma protestante o delle professioni intellettuali). Il suicidio altruistico è invece quello condotto per obbedire ciecamente a norme sociali. È chiaro che la dimensione causale qui è esplicita. La tipologia di Barbagli è limitata alle intenzioni degli individui.
[18] Ci possono essere certamente dei casi che possono stare a cavallo tra il tipo 1 e il tipo 2. Sono quei casi dove ci può essere nell’individuo una predisposizione generica al suicidio e dove un evento specifico, una causa scatenante, può determinare il passaggio all’atto.
[19] La distinzione indubbiamente è problematica e dunque di tipo filosofico. Dipende dall’assunzione della possibilità di un libero arbitrio, cioè dalla possibilità che il soggetto possa affrancarsi dai condizionamenti e decidere autonomamente. Se è vero che sulle decisioni del soggetto possono pesare i condizionamenti più diversi è altrettanto vero che il soggetto ha sempre a disposizione uno spazio di alternative tra le quali scegliere.
[20] Ad esempio, la madre che accetta di morire per salvare il bambino che ha in grembo lo fa certamente di sua spontanea volontà. Lo stesso vale per colui che, facendo scudo all’amico col proprio corpo, si fa colpire al suo posto. Il prete che si offre in cambio del rilascio degli ostaggi civili è un altro caso. Oppure il tecnico che in un disastro nucleare si avvicina all’area contaminata per intervenire, ben sapendo di causare così la propria morte. È chiaro che questi esempi hanno certamente a che fare con l’adesione a una norma, ma qui le norme sono fortemente internalizzate e, talvolta, sono anche norme che contrastano con i comportamenti statisticamente più diffusi.
[21] Durkheim li aveva del resto catalogati come suicidi mistici nell’ambito del tipo del suicidio altruistico acuto.
[22] Cfr. Khosrokhavar 2002.
[23] Il meme è l’equivalente culturale del gene nella teoria dell’evoluzione culturale.
[24] Cfr. Atran 2010.
[25] Lascio in inglese, perché reso in italiano suona un po’ ridicolo. Cfr. Atran 2014.
[26] Per una definizione scientifica della nozione di marca emotiva si può vedere Damasio.
[27] Cfr. ad es. Atran 2014.
[28] Cfr. Collins 2004.
[29] Si veda la teoria di Dawkins e, più in generale, la sociobiologia.
[30] Cfr. Anderson 1983.
[31] Val la pena qui di ricordare la nozione della banalità del male.
[32] Cfr. Gambetta 2005.
[33] Cfr. Lukes 2006.
[34] Il fatto che ci siamo abituati a conservare nel privato i nostri valori non sminuisce minimamente l’investimento emotivo che possiamo fare nei loro confronti. Ciò non ha assolutamente nulla a che fare con il relativismo filosofico o con il nichilismo i quali professano la nullità di tutti i valori.
[35] Non stiamo qui a occuparci della questione se la causa del fallimento sia prevalentemente individuale o sociale, anche se il problema è senz’altro serio e degno di approfondimento. Non stiamo neanche parlando di stupidaggini para filosofiche come ad es. il naufragio del soggetto bensì di un effettivo concreto fallimento nella costruzione dell’identità personale, obiettivo verso cui ogni individualità occidentale è implicitamente o esplicitamente spinta.
[36] Forse è proprio ciò che intendeva Durkheim quando parlava di eccesso di integrazione.
[37] Ovviamente, nel mondo c’è una miriade di devoted actors che non si faranno mai saltare in aria. Ciò non toglie che la loro struttura interna è proprio quella e funzionano proprio in quel modo. Viene in mente l’opposizione di Rokeach tra open e closed mind. 
[38] Si noti che lo sviluppo di questa disposizione è un requisito fondamentale della democrazia. Qui si aprirebbe tuttavia la questione – sollevata tempo fa da Merton, del rapporto talvolta perverso tra fini e mezzi che può instaurarsi nella società individualistica occidentale.
[39] Spesso ciò può essere vissuto come riscoperta delle proprie origini, della propria etnia o della religione dei padri.