domenica 4 luglio 2021

Si può fare. Why not?








L’articolo che viene qui riprodotto è stato pubblicato, 13 anni orsono, sul giornale online Città Futura il 6/04/2008. Di lì a poco (13/14 aprile 2008) si sarebbero tenute le elezioni politiche nelle quali si presentava, per la prima volta, il neonato Partito Democratico. Le elezioni rappresentarono una sconfitta per la coalizione di centro-sinistra, formata dal PD e da Italia dei valori. A parte il Partito socialista, che si presentò da solo, le restanti forze della sinistra si coalizzarono in una diversa formazione denominata La Sinistra l’Arcobaleno. Di essa facevano parte il Partito della Rifondazione Comunista (PRC), il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), la Federazione dei Verdi (FdV) e Sinistra Democratica (SD).

L’articolo appartiene al genere letterario, invero poco pregevole, delle dichiarazioni pubbliche di voto alla vigilia delle elezioni. Dunque avrebbe ben meritato di finire nel dimenticatoio. Tuttavia esso ha una ragione di odierno interesse, poiché vi è sviluppata un’analisi dettagliata della situazione politica dell’epoca, del precedente governo Prodi e, soprattutto, dell’esperimento del Partito Democratico, che muoveva allora i primi passi. Le analisi contenute sono, a nostro modesto avviso, del tutto corrette e ancora sorprendentemente attuali. Può essere utilmente letto, come integrazione e documentazione storica, insieme ai due recenti saggi dell’Autore: “PD. Il partito che non c’è” e “Le primarie tra mito e realtà”, pubblicati sempre su Città Futura. I due saggi sono riportati anche in questo blog. L’articolo non ha subito alcun cambiamento contenutistico. Ha subito solo alcune correzioni nella forma, allo scopo di migliorarne la leggibilità. (04/07/2021)

 

1. Mi capita sempre più frequentemente di discutere con vari amici intorno alla fatidica domanda: “Tu cosa voti?”. Forse sarà per via delle mie frequentazioni, ma non mi capita quasi mai di dovermi confrontare con smaniosi elettori di Storace, di Berlusconi o di Casini. Mi capita invece spesso di confrontarmi con gente che dice “Cosa vado a votare?” per dire che non ha nessuna voglia di andare a votare, oppure con  gente che “si sente costretta” a votare per il PD, oppure che “si sente costretta” a votare per l’Arcobaleno. Purtroppo capita spesso che queste conversazioni, pur ricche e interessanti, non abbiano mai una conclusione certa. Dopo un po’ finisce che si cambia discorso. L’impressione è che nessuno voglia davvero andare al fondo della questione. Mi rimane sempre l’amaro in bocca di un confronto iniziato e non portato a termine. Perché oggi, a sinistra, sembrano tutti zombie: incavolati, volubili, ultrasicuri, pieni di delusioni, pieni di rancori, profeti, nervosi, frustrati, e così via. E le dinamiche emotive finiscono quasi sempre per avere il sopravvento. Così ho pensato di raccogliere una silloge delle mie modeste argomentazioni sulla questione “Tu cosa voti?”, anche per avere l’occasione di esporre i miei pensieri con ordine, in modo chiaro e distinto, in modo da riuscire eventualmente a persuadere qualcuno, oppure in modo da permettere ad altri, magari più scafati, di argomentare meglio contro le mie posizioni.

2. Mi è stato d’aiuto il contributo di Patrizia Nosengo – anche se non lo condivido per diversi aspetti – se non altro per la sincerità delle sue posizioni e per la capacità che mostra di portarle fino al limite estremo (giungendo talvolta a conseguenze forse non del tutto volute). Mi pare che Patrizia (sintetizzo indegnamente) ammetta che Veltroni ha avuto successo, anche se poi lo trova irritante e avvilente. Il successo di Veltroni è spiegato in base a tre fattori: che il partito di Veltroni sia espressione della fine della lotta di classe, della ormai avvenuta massificazione universale e della onnipresenza della piccola borghesia; che sia effetto di una mediazione necessaria tra laici e cattolici in un paese come il nostro nel quale la separazione della Chiesa dallo Stato deve ancora maturare e che, infine, sia un effetto tangibile del generale imbarbarimento culturale, della rifascistizzazione delle classi dirigenti e di una tendenza alla semplificazione di qualsiasi contenuto culturale. In una parola, come ha recentemente argomentato Raffaele Simone, Veltroni esiste perchè il mondo sta andando a destra. Patrizia non dice però chiaramente se Veltroni deve essere votato o no. Personalmente diffido delle filosofie della storia[1] (spero non sia già effetto dell’imbarbarimento testé denunciato) e, siccome frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, mi pare importante, prima di procedere a qualsiasi conclusione su “Tu cosa voti?”, vedere se e fino a qual punto si può elaborare un’analisi condivisa su quel che è accaduto in questi ultimi mesi o, se si preferisce, in questi ultimi due anni.

3. La prima cosa da definire è se il governo Prodi abbia fallito o no. Se ha fallito,[2] occorrerebbe spiegare come questo fallimento sia stato possibile. Veltroni ha il merito di avere fornito una chiara spiegazione in proposito, semplice e inconfutabile. Quell’insieme di forze che avevano costituito la coalizione di Prodi ha mostrato di essere incapace di governare, non tanto per la durezza dell’opposizione, non tanto per catastrofi o eventi straordinari (l’economia non è andata poi così male nel periodo considerato), non tanto per il margine risicato al Senato (che pure ha pesato), quanto per una questione intrinsecamente politica. Prodi ha fallito perché politicamente la sua coalizione non ha voluto  mettere in pratica alcune semplici regole che conoscono tutti, anche i bambini.

4. Il primo imperativo di qualsiasi esecutivo di coalizione (soprattutto se ha una maggioranza risicatissima), anziché  suicidarsi cercando di realizzare un programma impossibile, è quello di realizzare bene quello che è possibile. Cioè quello che è compatibile con tutti i componenti della coalizione, secondo la nota “legge delle doghe”: il livello dell’acqua nel mastello si ferma all’altezza della doga più corta. E poi presentarsi agli elettori con qualche successo all’attivo, in modo da sperare di essere rieletti e di poter così continuare a realizzare quello che eventualmente non fosse stato realizzato. Questa non è la teoria del tirare a campare, è l’unico principio che assicura il funzionamento di una coalizione: se questo principio non andava bene, allora il governo Prodi non si doveva fare.

5. In secondo luogo, quando si fa una coalizione, bisognerebbe essere in grado di distinguere accuratamente tra il governo di coalizione stesso e le posizioni dei singoli partiti della coalizione - che non possono mai coincidere con la coalizione - che sono proprio un’altra cosa. I singoli partiti possono avere le loro opinioni e comunicarle al pubblico quando e come credono, ma quelli che stanno nel governo devono agire come un corpo unico. Devono prima concordare quello che è fattibile, secondo la legge delle doghe citata in precedenza, stando zitti, e poi devono fare. Un governo di coalizione non è un condominio dove ciascuno occupa un pezzo e poi lo usa come palcoscenico per rilanciare, tutte le sere, le proprie rivendicazioni, i propri slogan, rivolgendosi in modo esclusivo al proprio immaginario elettorato. Quella che doveva essere una politica (di coalizione) è risultata una frattaglia di veti, insulti e rivendicazioni. La casa comune della coalizione non è mai nata. Prodi non ha mai “governato” effettivamente nulla. Gli italiani (quelli non avvezzi ai riti della politica) hanno avuto la netta impressione di una nave alla deriva. Due anni di propaganda buona per la Destra.

6. Se siamo d’accordo su questi punti, per cercare di capire com’è stato possibile un simile sfascio, dovremmo esaminare le culture politiche dei vari suddetti partiti. E le culture politiche hanno una storia, non sono epifanie dell’Essere. È abbastanza chiaro che la spinta alla lottizzazione delle poltrone di governo (e all’uso del governo come cassa di risonanza politica) è principalmente dovuto al fatto che i partiti italiani, soprattutto a sinistra, agiscono ancora come i vecchi partiti di massa ideologici e dottrinari. Alla forte identità ideologica di ciascun gruppetto corrisponde immediatamente la pratica lottizzatoria: tutti devono essere rappresentati, tutti devono dire la loro, tutti devono distinguersi sulla base di sottigliezze che solo pochi sono in grado di capire. È indiscutibile poi che questa situazione sia stata materialmente resa possibile – sarà una questione terra terra – dal “porcellum”, dalla legge elettorale in vigore. La miriade di sottosegretari del governo Prodi è stata una conseguenza, oltre che di certe culture politiche, del porcellum.

7. Si può convenire che – con la situazione degenerata che si era determinata - se non provvedeva Mastella a far cadere il governo avrebbe provveduto qualcun altro. Quando Prodi è caduto, molti elettori che lo avevano sostenuto hanno tirato un sospiro di sollievo (non se ne poteva più!). Ma la sconfitta di Prodi ha segnato, nel contempo, la fine politica dei DS e della Margherita (entrambi già avventurosamente pilotati verso il PD), ma anche e soprattutto, il tracollo politico di tutte le piccole formazioni porcellum - dipendenti. Ritengo che non sia stata la Destra a far cadere Prodi. La coalizione è implosa per le sue dinamiche interne, per virtù propria. Mi ha ricordato – fatte le debite proporzioni - l’implosione dell’Unione Sovietica e – sempre fatte le debite proporzioni – l’implosione della precedente Amministrazione comunale di Alessandria. Alla caduta di Prodi si ricorderà che i sondaggi (con tutti i loro limiti) davano uno stacco insuperabile tra il centro destra e il centro sinistra (qui dò sempre per scontato il  presupposto, che forse non tutti sottoscriverebbero, che lo scopo di una formazione politica debba essere quello di vincere le elezioni). Se tutto fosse rimasto immutato, non saremmo qui a discutere. Perdere per perdere, ciascuno avrebbe potuto anche non andare a votare o avrebbe potuto dare il voto alle proprie perverse formazioni preferite.

8. Bisogna dare atto che Veltroni è stato abile (assai più abile della media dei politici cui eravamo abituati). Veltroni aveva dietro di sé il nulla. Un partito in via di scioglimento, litigioso come non mai; un partito “nuovo”, anche se molto vago, anch’esso litigioso, privo di sedi, di soldi, di Statuti, di regolamenti, di linea politica e di quant’altro serve a un partito per dirsi tale. Veltroni non poteva ovviamente costruire un partito nuovo in pochi mesi. Veltroni si è così limitato a costruire l’immagine di un partito, il partito virtuale, che proprio perché virtuale, non ancora sovraccaricato dalla burocrazia e dall’ideologia, ha potuto diventare in pochi giorni il partito dei desideri degli elettori di centro sinistra. Se mi permettete la battuta, si tratta di un partito che non c’è (che però, in poco tempo, è riuscito a far dimenticare Prodi, e questo è stato un successo, magari illusionistico, ma un successo). Il PD ha successo perché, in quanto partito virtuale, non assomiglia a nulla di tangibile e concreto (se andate a veder cosa c’è davvero dietro, troverete tutti i vecchi catafalchi della vecchia politica - non tutti i De Mita sono stati fatti fuori – ma in questa fase sono stati neutralizzati dalla nuova immagine di cui è depositario il leader – vedremo finché potrà durare e vedremo poi gli sviluppi…). Ha successo perché abita nel mondo della comunicazione (nel mondo delle idee, se preferite) e perché viene impersonato immediatamente dalle parole del suo leader (il PD è impensabile senza Veltroni).[3]

9. Questo nuovo tipo di partito pretende di definire, confrontandosi direttamente con i propri elettori attraverso manifestazioni di piazza, nello stesso tempo il candidato alla guida del governo e il programma (che coincide con la linea politica), certo, una linea semplice, chiara, fattibile, capace di durare al più una legislatura.[4] La linea politica vale fino alla prova elettorale. Poi se si vince, si governa, se si perde, si cerca un altro candidato e si cercherà di costruirgli intorno un altro programma, un’altra linea politica. Una conseguenza è che in questo modo si riduce al minimo la burocrazia di partito (congressi, correnti, mozioni, …). Un partito di questo tipo era comunque l’unico partito che si poteva fare in un paio di mesi. O questo, o niente.

10. Tutto ciò fa sì che il PD non possa più essere un “partito di massa” ideologico (tratto sicuramente rimpianto dai vecchi militanti old style che non hanno ancora capito in cosa si sono imbarcati), ma un autentico partito di opinione, certo, secondo il modello americano (qualcuno usa ancora “americano” come fosse un insulto, dimenticando che i primi profeti del partito immagine, quelli che hanno smantellato il vecchio PCI, li abbiamo prodotti in proprio, sono nostri DOC). L’ipotesi di trapiantare nella sinistra italiana, sul corpo esangue dei due vecchi partiti di massa, un vero partito di opinione (un partito che non c’è) non è un’ipotesi peregrina (non è neppure un effetto della massificazione o dell’“ospite inquietante” che si aggira per la terra del tramonto): è un esperimento, certamente, ma andrebbe guardato con la massima attenzione.

11. È chiaro che questo partito non può avere, non vuole avere, non deve avere nessun riferimento sociale predefinito: non si rivolge particolarmente ai lavoratori, alla classe operaia, ecc… . È un tipico catch all party. È inutile accusarlo di non essere un partito della classe operaia (secondo la massima per cui “nello stesso partito non ci possono stare operai e imprenditori”), oppure di essere un partito della piccola borghesia.[5] Bisognerebbe poi anche ricordare, a tutti quelli che non possono stare senza i riferimenti di classe, che le classi non esistono più. Non esiste più nemmeno la borghesia, non esiste più la classe operaia, non esiste più neanche la piccola borghesia. La stratificazione della nostra società attuale è una cosa diversa, non è inquadrabile nelle vecchie categorie della classe e della coscienza di classe.

12. È un dato di fatto che l’operazione – a grandi linee - ha funzionato, fino a scompigliare pesantemente – questo è stato riconosciuto da tutti – il sistema politico nazionale. Per la prima volta il nuovo PD riusciva a dettare l’agenda politica alla Destra. E riusciva a risalire miracolosamente nei sondaggi, fino a rischiare – vedremo come andrà – il pareggio. Evidentemente l’elettorato aveva bisogno di quell’immagine (solo un sociologismo un po’ retrò tenta sempre di scovare una struttura dietro a una sovrastruttura!). I cittadini (a cui il PD si rivolge) con la loro maturità media (non bisogna avere la laurea per votare) hanno risposto positivamente. Questo basta. È tipico di certi militanti radical chic, o di certi desperate movements, sentirsi sempre più furbi delle masse, osannare le masse solo quando seguono le loro idee, disprezzare le masse quando “le masse” fanno di testa loro. In politica, un voto vale l’altro. Questo lo ha capito anche la  Destra. Altrimenti possiamo iscriverci tutti al partito di De Maistre.

13. Se il nuovo PD è riuscito a imparare qualcosa dall’esperienza del governo Prodi (o dall’esperienza di questi ultimi 15 anni, come suggerisce lo stesso Veltroni), e ha per lo meno fatto una ipotesi di cambiamento e l’ha messa in pratica, nell’area dell’altra sinistra non è successo nulla (la loro diagnosi del fallimento di Prodi è stata sconfortante: il governo andava bene, noi siamo stati fedeli, è tutta colpa di Mastella). L’unico cambiamento effettivo (l’Arcobaleno) è stato un chiaro effetto del porcellum: hanno dovuto mettersi sotto uno stesso simbolo elettorale per non rischiare di sparire del tutto. Non riesco a intravedere in queste formazioni sparse nessuna reale volontà di cambiamento, di costruzione di una nuova cultura politica che sia capace di diventare maggioranza di governo e di essere alternativa al progetto di Veltroni. La causa di ciò è che queste formazioni “vengono da lontano” e ritengono che davvero non serva una nuova cultura politica, perché ciascuno la sua piccola verità la possiede già e la custodisce con ossessione maniacale. Va anche detto che, se le culture politiche di queste schegge sono culture forti ma cristallizzate, è anche vero che le rendite individuali di posizione che derivano dalla frammentazione sono assai più potenti (quante poltrone garantite nei consigli comunali, negli enti, nei sindacati,…) e contrastano decisamente con la loro supponenza etica.

14. Tuttavia queste forze, questi partiti che si dicono orgogliosamente “di parte”, rappresentano una possibile opzione elettorale, del tutto legittima. Sarebbe allora interessante tentare di capire cosa hanno da offrire. Alcuni partitini sono i tipici single issue (i Verdi, ad esempio), altri sono caricature dei vecchi partiti di massa stalinisti (Diliberto), oppure movimentisti (RC, Caruso). Non dimentichiamo poi, al di fuori dell’Arcobaleno gli ultimi infelici discendenti di blasoni sbiaditi (Boselli), cui si sarebbe dovuto aggiungere i Radicali e Di Pietro, se non fosse intervenuto il patto con il PD (questa è l’unica mossa che mi è piaciuta poco, ma evidentemente anche nel partito immagine, un po’ di realismo non guasta).

È chiaro le forze dell’Arcobaleno non hanno alcuna compattezza sia nei termini del modello di partito, sia nei termini della loro ideologia. Perciò litigano su quasi tutto. Neanche loro hanno riferimento sociale preciso, un riferimento di classe (s’invocano di volta in volta, i precari, i no global, gli operai della Tyssen, gli immigrati, ma si tratta spesso di forze anche in conflitto d’interessi tra di loro, si tratta di forze che neanche sul vecchio movimento operaio sono d’accordo). Alcuni movimenti poi (ad esempio quello contro la base di Vicenza e quello contro l’alta velocità) sono fondamentalmente di tipo reattivo, difendono interessi circoscritti, spesso di tipo locale, per quanto talvolta legittimi (quando avremo il coraggio di chiamarli lobby?). Se questi riferimenti sociali dovessero essere la “classe generale”, se da questi riferimenti dovesse derivare una indicazione per il governo del paese, staremmo freschi. A partire da questo “essere di parte” comunque non sarà mai possibile costruire un programma di governo, perché per governare bisogna avere la maggioranza (chi vorrebbe governare senza avere la maggioranza lo dovrebbe dire chiaro, prima, così sapremmo regolarci).

15. All’inconsistenza sociale dei riferimenti dell’Arcobaleno va aggiunta una considerazione riguardante la domanda politica cui l’Arcobaleno pretenderebbe di dare una risposta. Non credo che il mondo stia andando a Destra. Ma ormai anche la gente vocazionalmente “di sinistra” è stanca dei valori, delle testimonianze, stanca delle promesse del radioso futuro che non arriva mai. Si ricordi la marcia dei quarantamila dei primi anni Ottanta.  Si ricordi che la recente riforma delle pensioni (buona o cattiva che sia) è stata votata da milioni di lavoratori. Sono tutti dei coglioni?[6] O è tutta colpa dei brogli nella consultazione (che pure, ammetto, ci sono anche stati)? Insegnava Max Weber che non si può vivere continuamente allo statu nascenti, che l’effervescenza della creazione del valore e dei movimenti è destinata prima o poi a lasciare il posto al principio di realtà. I leader che testardamente non si adeguano al principio di  realtà possono continuare nel loro sogno intransigente, ma diventano ben presto ritualisti, dogmatici, schematici, poco intelligenti, e progressivamente vengono abbandonati. Talvolta, prima di uscire dalla scena, fanno moltissimi danni a se stessi e agli altri perché rifiutano di entrare nell’orizzonte della responsabilità.

16. È chiaro che la scelta di Veltroni ha confinato l’Arcobaleno nell’isolamento e l’ha messo di fronte alle proprie responsabilità politiche. A questo punto, l’unica cosa furba che avrebbero potuto fare gli Arcobaleni (per un attimo ho sperato, ho creduto che l’avrebbero fatta - e confesso che personalmente avrei anche potuto aderire con un certo entusiasmo a un progetto del genere) sarebbe stato di costituire un “partito socialista” di tipo nuovo (zapaterista, se si vuole) ispirato al partito socialista europeo, con un programma autenticamente riformista in senso socialdemocratico.[7] In questo modo avrebbero dato la prova di aver capito la condotta demenziale da loro tenuta nel governo Prodi, di aver capito i limiti profondi delle vecchie culture politiche e dei vecchi schemi organizzativi; avrebbero oltre tutto aperto la possibilità di una alleanza di governo, su basi programmatiche da socialismo europeo, con il PD. Certo, ciò avrebbe comportato fare i conti con Boselli e la perdita di qualche Caruso, di qualche trotzkista… .  Purtroppo per i Diliberti e i Bertinotti la parola “socialdemocrazia” è una bestemmia. Ironia della sorte, ora per difendere le loro vecchie culture politiche sono ridotti a sperare nel “porcellum” per continuare ad avere qualche seggio.

17. Veniamo ora a una riflessione conclusiva sul “Tu cosa voti?” di ordine sia metodologico sia contenutistico. Quando votiamo come cittadini qualunque, possiamo adottare diverse logiche, diversi principi etici. Le strade sono principalmente due. Possiamo adottare un’etica dei valori, e allora pretenderemo che il partito per cui votiamo ci assomigli in tutto e per tutto. Questo è il voto identitario, il voto grazie al quale produciamo un effetto di tipo simbolico su noi stessi e sul nostro entourage. Anche scegliere un comportamento espressivo, fare un gesto, magari anche nichilistico, lasciare un segno (annullare, scrivere slogan, andare al mare …), ricade sotto l’etichetta dell’etica dei valori, della ricerca identitaria, dove il valore diventa appunto quello di fare un segno, mandare un messaggio, magari anche un messaggio di autodistruzione. Questo tipo di comportamento si espone – com’è stato ampiamente dimostrato – alla delusione perpetua, perché l’ansia della realizzazione del valore porterà al perfezionismo, al profetismo, al conflitto permanente, alla continua suddivisione dei puri dagli impuri, alla frammentazione politica, alle condanne dei traditori. E si espone così anche alla più totale inefficacia di ordine pratico, all’impossibilità di concretizzare un qualsiasi programma politico che funzioni, che possa cioè sperare di fare coalizione e di diventare maggioranza (del resto chi ragiona così, rifiuta la ratio calcolatrice, la ratio dell’utilità, la ratio della tecnica – anche se spesso l’etica dei valori si presta poi a coprire rendite di posizione assai poco nobili).

18. Oppure possiamo adottare un’etica della responsabilità. Possiamo cercare di depotenziare il valore identitario del nostro gesto elettorale, possiamo mettere da parte le velleità espressive e possiamo calcolare ragionevolmente quali potranno essere le conseguenze della nostra azione e quindi preferire quell’azione che potrà portare, a quelli come noi, una maggiore utilità. Certo, dovremmo ancora metterci d’accordo su cosa sia utile o inutile.[8] Una regola buona potrebbe essere quella di tenere lontani dalla valutazione di utilità i grandi valori (altrimenti siamo da capo) e concentrarsi sulle conseguenze pratiche del nostro voto. È meglio un governo che combatta l’evasione fiscale, o un governo che la tolleri? È meglio un governo che vuole “prendere a calci” gli immigrati o un governo che bene o male sarà più sensibile alla loro integrazione? E poi bisogna stare attenti che la valutazione di utilità è complessiva: possiamo anche accettare, tra i candidati, un ex esponente della Federmeccanica pur di non avere un Presidente del consiglio dentro fino al collo nell’economia illegale, oppure possiamo anche accettare dei candidati che portano il cilicio pur di non avere un Presidente che sia un ateo devoto, ecc… . Occorre dunque guardarsi dall’atteggiamento pericoloso di mettere – a piacimento, a seconda delle proprie personali perversioni etiche - la fatidica soglia: “Ah, questo per me è troppo, è intollerabile!”. Non ci sono mai singole cose che siano tollerabili o intollerabili in sé. È sempre il caso di vedere con che cosa le si raffronta. Questo orientamento significa che dobbiamo imparare ad accontentarci del meno peggio, non perché ormai sia compiuto il destino dell’Occidente, o perché nichilisticamente vogliamo abbracciare il mostro della razionalità strumentale, ma perché la perfezione non è mai stata di questo mondo e perché la Repubblica perfetta sta giustamente solo nel mondo delle idee (e così pure la giustizia perfetta, l’uguaglianza perfetta, la pace perfetta, la felicità perfetta, come pure la classe generale che dovrebbe emanciparci dalle deiezioni della particolarità).

19. Ammetto che essere responsabili, a sinistra, non è mai stato tanto di moda. La “fine delle grandi narrazioni” (diamo per scontato per un attimo che i postmoderni abbiano ragione – in realtà continuo a vedere in giro un sacco di gente impegnatissima nel fare un mucchio di grandi narrazioni, postmoderni compresi) non ci deve coprire di mestizia, è l’occasione per liberarci di alcune delle nostre malattie infantili e per provare a diventare un po’ più responsabili. È chiaro che se scegliamo il voto identitario possiamo ignorare ogni appello alla responsabilità, non curarci delle conseguenze e seguire la nostra “coscienza”: dummodo fiat iustitia, pereat mundus! Alimenteremo uno dei tanti partitini, oppure non andremo a votare, o scriveremo qualche insulto sulla scheda. Se faremo invece una scelta di responsabilità, mi pare che la scelta non possa essere altra oggi che quella di votare per il PD. Ma si ribadisce: “Veltroni ormai è di centro. Non posso tradire me stesso, voglio un partito più a sinistra”. Il problema è che un partito più a sinistra che possa vincere queste elezioni (e salvarci da cinque anni di Berlusconi), ora come ora, non c’è. In questo paese non possiamo più permetterci certi lussi. Abbiamo bisogno di un paese che non sperperi soldi, che paghi i debiti, che non perda sistematicamente tutte le occasioni di sviluppo economico, che tolga la spazzatura dalle strade, che sbatta in galera i criminali e renda più sicure le nostre strade. Che faccia pagare le tasse agli evasori. Che faccia una legge elettorale decente. Tutto questo non è, per definizione, di destra, di centro o di sinistra. Non interessa sapere se il PD è di centro o di centro sinistra, se il PDL è di destra o di centro. Se nel programma ci sono obiettivi che vanno bene ai borghesi, a quelli grandi o a quelli piccoli. Si tratta solo di chiedersi se tutte le cose che ci interessano le farà meglio Veltroni o le farà meglio Berlusconi.[9] Su questo punto non ho dubbi. E perciò non sono da disprezzare quelle persone comuni (tra cui mi colloco) che potrebbero scegliere Veltroni per i bassi motivi di cui sopra. Certo, qui scatta l’orgoglio degli aristocratici di sinistra, di quelli che devono sempre sentirsi più avanti delle amate, e nel contempo disprezzate, masse. Nei loro confronti questa volta mi sento davvero di dire che “con questi non vinceremo mai”.

Giuseppe Rinaldi (6/04/2008 – 03/07/2021 rev.)


NOTE

[1] Tipico delle filosofie della storia è che alcuni fatti sono invocati per sostenere una certa tesi (ad es.: “Tutto il mondo sta andando a destra”); a sua volta la tesi, una volta data per comprovata, è invocata per spiegare quegli stessi fatti. Si tratta di ragionamenti, ahimè, tipicamente circolari.

[2] Tralascio quelli che sono rimasti contenti del governo Prodi. So che qualcuno c’è. Confesso però che ho difficoltà a capire questo tipo di valutazione. Ho sentito anche dei difensori del governo Prodi che sono però fortemente anti veltroniani. Non ci arrivo.

[3] Anche se ho usato lo slogan di Veltroni come titolo di questo articolo, mi permetto di sottolinearne la pessima traduzione dall’americano “yes, we can”. Com’è noto, can esprime, certo, la possibilità, ma esprime anche abilità, conoscenza, capacità. Tradurre “yes, we can” con “si può fare” è una burinata romanesca, un po’ furbesca, un’espressione prudenziale da parte di chi non sa ancora bene come andrà a finire, da chi sembra pieno di dubbi ed esitazioni. Bisognava inventarsi qualcosa come “noi siamo in grado” di vincere, “noi abbiamo il potere di” vincere, ovvero “abbiamo tutto quel che ci serve” per vincere. Questo sicuramente è il senso con cui viene usato da Obama. Ma la sottolineatura di questo senso, dopo il governo Prodi, deve essere sembrata un po’ esagerata.

[4] È ora di finirla con partiti le cui linee politiche sono durate per generazioni e generazioni, promettendo sempre senza realizzare nulla.

[5] Non condivido assolutamente la teoria della massificazione, della “piccola borghesia che avanza”, del fatto che “il mondo sta andando a destra” di Raffaele Simone (e, forse, di Patrizia Nosengo). Mi spiace. È una vecchia storia. Prima decidiamo che ci va bene il principio “una testa un voto”, poi però cominciamo a sostenere che c’è qualcuno che è più scemo di qualcun altro, qualcuno che si fa condizionare dalla TV, qualcuno che vede troppa pubblicità, qualcuno che non capisce quali siano davvero i suoi veri interessi, ecc… . Dovremmo allora esser conseguenti: proponiamo di dare il diritto di voto in base al titolo di studio, al QI, oppure a un qualsiasi altro criterio che selezioni i veri cittadini dagli altri. Altrimenti dobbiamo rispettare tutti i cittadini elettori come dei soggetti che - in base alla loro razionalità limitata - cercano di fare la scelta meno peggiore (io mi colloco tra questi).

[6] Il linguaggio è dell’On. Berlusconi.

[7] Qui uso “socialdemocratico” in senso buono, nel senso della grande tradizione della socialdemocrazia europea.

[8] Non sto discutendo, come si sta facendo, del “voto utile”, bensì del voto responsabile.

[9] La popolare interpretazione secondo cui i programmi dei due sarebbero uguali mi pare solo demenziale. Come pure la tesi che ormai sull’attività di governo ci siano vincoli tali che, comunque, chiunque sia al governo farà, per necessità, esattamente le stesse cose di qualsiasi altro.



giovedì 1 luglio 2021

Le primarie tra mito e realtà










1. La telenovela della candidatura della sinistra alla carica di sindaco di Torino è giunta finalmente a un faticoso approdo. Dopo molte tergiversazioni, il 12 e 13 giugno 2021 si sono tenute le elezioni primarie, limitate a una coalizione sorta attorno al PD, data la esplicita rottura tra il PD e il M5S a livello locale. Quello che ci interessa qui rilevare è lo scarso afflusso di pubblico: i votanti torinesi alla fine sono stati 11.631 e il candidato Lo Russo ha vinto con appena 4229 voti.[1] In una città come Torino ci si poteva attendere qualcosa in più. La delusione tra i dirigenti del PD è stata infatti piuttosto marcata. La domenica successiva, il 20 giugno 2021, si sono tenute le primarie a Bologna e Roma con risultati di affluenza lievemente superiori. A Bologna si sono avuti 26.396 votanti e a Roma 48.624. A questo punto i commentatori e i dirigenti del PD, tra cui Letta, hanno subito tirato un sospiro di sollievo e si sono sperticati a dichiarare che le primarie, a parte l’incidente di Torino, hanno rappresentato una “grande prova di democrazia”.

2. È proprio così? Per fare un raffronto sensato tra le tre recenti elezioni primarie, la cifra assoluta dei votanti non basta proprio. Occorre per lo meno mettere in relazione il numero dei votanti con la popolazione degli aventi diritto. Noi qui ci accontenteremo, per brevità, di proporre all’attenzione del lettore un tasso di partecipazione grezzo calcolato sulla popolazione tout court, ipotizzando un’omogeneità anagrafica di fondo tra le tre città. Ebbene, a Torino il tasso di partecipazione vale l’1,4%, a Bologna vale il 6,7% mentre a Roma vale l’1,7%.[2] Insomma, Roma ha avuto più o meno un tasso di partecipazione uguale a quello di Torino. Se Torino è stato un flop, di Roma non si può proprio dire di meno. Su tre primarie, due flop, dunque. C’è poco da stare allegri. Bologna ha avuto un tasso un po’ maggiore di affluenza ma Bologna è un po’ un caso a parte, essendo una città storica della sinistra. Roma e Torino poi sono le due grandi città con sindaco M5S uscente in cui si è consumata la rottura a livello locale tra M5S e PD. Caso diverso a Bologna, dove l’opzione di una alleanza con il M5S era per lo meno rimasta aperta, almeno nel programma del candidato Matteo Lepore, quello che poi ha vinto. Forse lì qualche elettore del M5S ha dato una mano. Possiamo comunque ben dire, in base a questi risultati, che lo stato di salute delle primarie è alquanto preoccupante.

Nel mio recente saggio intitolato PD. Il partito che non c’è, pubblicato su Città Futura,[3] avevo cercato, tra le altre cose, di sviluppare un’analisi del rapporto tormentato e perverso che, nel corso del tempo, si è instaurato tra il PD e le elezioni primarie. Si tratta di un rapporto che perdura fin dalla fondazione di questo partito e che, forse, è opportuno analizzare e riconsiderare organicamente. Nel seguito di questo articolo, riprenderò alcuni aspetti del saggio citato, utilizzandoli tuttavia per compiere una riflessione organica sulle primarie del PD e sul loro destino.

3. Il PD, al termine di un processo costituente assai lungo e travagliato, nacque nel 2007 con la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, cioè con l’intento di realizzare un sistema di alternanza capace di evitare le frammentazioni e le alleanze pasticciate tipiche del proporzionale. Per questo doveva essere un partito altamente inclusivo, tale da raccogliere potenzialmente la maggioranza degli elettori, e nello stesso tempo profondamente democratico anche nelle sue pratiche interne. Il modello organizzativo di democrazia interna che fu scelto in quel frangente fu tuttavia un modello alquanto inconsueto, un modello d’importazione, ben diverso da quello della tradizione europea.

Il PD intendeva con ciò esplicitamente rompere con il modello organizzativo tipico del partito/ apparato, dotato di una cultura politica di tipo ideologico e di una struttura di tipo burocratico. Il modello da superare era il partito di massa di fine Ottocento, il modello che pur con variazioni era stato adottato dal PSI, dal PC e dalla DC. Col senno di poi possiamo tranquillamente riconoscere che quella fu una scelta piuttosto avventata: poiché in Italia si erano effettivamente sfasciati due o tre partiti appartenenti a quella tradizione, si pensò bene di gettare al vento anche la stessa tradizione organizzativa.[4] E ciò senza avere compiuto un’approfondita analisi delle cause effettive del loro insuccesso.

Come modello organizzativo alternativo fu proposto quello dei partiti americani. Il PD nacque come il partito delle primarie, il partito cioè che demandava agli elettori la facoltà di scegliere gli organismi dirigenti e i candidati. Ciò comportava, ovviamente, il ridimensionamento stesso del ruolo degli iscritti, anch’essi colpiti dalla critica ai partiti/ apparato. Questo nuovo modello di democrazia organizzativa nelle intenzioni doveva accompagnarsi, dal punto di vista istituzionale, al sistema elettorale maggioritario e al presidenzialismo. L’ipotesi di fondo era che, sia nello Stato sia nei partiti, il tradizionale modello di democrazia interna fosse ormai inefficace e che dovesse pertanto essere profondamente innovato.

4. Si trattava di costruire un partito leggero, con un apparato minimale, un partito di movimento, di fatto messo nelle mani degli elettori, i quali avrebbero scelto, di volta in volta, attraverso le primarie, un leader e un programma. Lo scopo principale dell’attività politica, secondo questo modello, era quello di andare alle elezioni e conquistare il governo nazionale. Perciò il segretario nazionale, più che svolgere il ruolo di capo di un’organizzazione politica strutturata e permanente (cioè il capo di una burocrazia politica), non poteva che aspirare a diventare capo del governo in caso di vittoria elettorale. Il partito veniva così a confondersi con la compagine di governo e, in caso di vittoria elettorale, lo stato maggiore del partito si trasferiva ipso facto al governo. Il segretario si chiamava ancora “segretario”, ma in realtà era inteso come il candidato a premier. Detto in altri termini, il partito altro non doveva essere se non il comitato elettorale del candidato a premier. Questo modello del partito delle primarie era ovviamente destinato a essere utilizzato a livello nazionale ma esso doveva anche essere riprodotto ai livelli locali. Era dunque utilizzabile in particolare per scegliere i candidati alle cariche di sindaco e di presidente della regione.

5. Il progetto organizzativo del PD era perfettamente in linea con la legge sull’elezione diretta dei sindaci e forse ne era addirittura la prosecuzione. La legge era stata promulgata una decina d’anni prima, nel marzo del 1993 (legge 25 marzo 1993, n. 81). Questa legge aveva ampiamente recepito l’orientamento anti apparato e filo presidenziale che già a quei tempi stava diventando dominante tra le forze politiche, dopo la fine della Guerra fredda e dopo Tangentopoli. Anche in quel frangente, invece di compiere un esame critico dello scarso rendimento politico del sistema vigente, s’era scelto di sminuire il modello organizzativo del partito/ apparato per conferire il potere locale agli eletti direttamente dal popolo (sindaci e presidenti regionali). È appena il caso di ricordare che la legge 81/’93 aveva diverse assonanze con le proposte di riforma costituzionale che si andavano discutendo nella bicamerale De Mita-Iotti del 1993-1994. Lo stesso vale poi per la successiva bicamerale D’Alema del 1997.

Nelle intenzioni dei fondatori del PD, nel 2007, era ancora ben presente l’idea che il partito delle primarie dovesse preludere a una più generale riforma istituzionale che avrebbe dovuto introdurre nel Paese un qualche ordinamento presidenziale basato sul maggioritario. Ciò avrebbe consentito una riforma dei partiti e dei meccanismi elettorali che avrebbe finalmente introdotto le primarie anche nel nostro stesso ordinamento istituzionale, come in USA. Ci si può rendere conto solo ora, a distanza di tempo, che quello del PD era un modello di partito giunto davvero ormai troppo tardi, un modello che, per essere credibile, implicava una generale riforma dello Stato, della legge elettorale e dei partiti stessi. Si trattava di obiettivi di cui si parlava ormai da più di un decennio, con scarsi risultati. Quelle riforme non sarebbero mai venute.

6. Purtroppo, alla prova dei fatti, il partito delle primarie ha fallito i suoi scopi fin dalle elezioni del 2008, ove si proponeva il segretario Veltroni come capo del governo. In seguito a questo fallimento, quasi come per una deriva irresistibile, esso si trasformò assai rapidamente nel partito delle correnti, un’oligarchia frammentata e litigiosa. Le primarie continuarono tuttavia a essere usate per l’elezione di diversi segretari e permisero in particolare la clamorosa scalata di Matteo Renzi, che fu eletto per ben due volte alla segreteria del partito. Le primarie furono usate a intermittenza in varie altre occasioni. Non ho spazio qui per approfondire questi aspetti storici, per i quali rinvio al mio recente saggio già citato.[5]

La doppia natura del PD, di partito delle primarie e di partito delle correnti, ha introdotto, al suo interno, un conflitto di legittimazione che percorrerà l’intera sua storia e che perdura a tutt’oggi. Si tratta di un conflitto strutturale di cui forse non sono del tutto consapevoli neppure i dirigenti del PD stesso. Da un lato, la legittimazione dal basso delle primarie, con cui si chiede agli elettori di esercitare liberamente il potere di scegliere i leader, i candidati e la linea politica; dall’altro lato una legittimazione dall’alto con cui le correnti e le oligarchie dominanti cercano di aggirare il processo delle primarie oppure di usare le primarie per imporre o per “far passare” i loro leader, i loro candidati e la loro linea politica. I dibattiti e gli scontri costanti circa l’opportunità o meno di fare le primarie (si veda il recente caso esemplare di Torino) sono un indicatore esplicito di questa situazione.

In questo perdurante conflitto di legittimazione, gli elettori sono quelli che normalmente hanno avuto la peggio, poiché essi hanno potuto esercitare il loro potere solo se convocati e se messi di fronte a scelte autentiche. In realtà, storicamente, soprattutto a livello locale, raramente sono stati convocati e ancor più raramente sono stati messi di fronte a scelte autentiche. I candidati imposti dall’alto sono stati in numero ben maggiore di quelli affermatisi per impulso dal basso.

Questa situazione strutturale di doppia legittimazione ha contribuito oltremodo al progressivo indebolimento dell’organizzazione del PD e della sua politica e alla perdita progressiva del consenso degli elettori.[6] Oggi il PD è un partito debole, dominato da un’oligarchia correntizia (le correnti restano tali, nonostante l’onesto ma palesemente impotente segretario Letta) ove gli elettori non hanno alcuna facoltà di determinare un effettivo ricambio della classe dirigente. Il PD, oltretutto, ha rinunciato al maggioritario, essenziale per le primarie, e ha imboccato decisamente la strada del proporzionale, del resto assai più confacente alla sua natura correntizia.[7] L’unico straccio di maggioritario rimasto si ha ancora, appunto, nell’elezione dei sindaci e in quella dei presidenti regionali. Non per nulla è qui che puntualmente si scatena la guerra delle primarie.

7. Retrospettivamente, col senno di poi, è difficile comprendere cosa sia passato per la mente dei fondatori del PD quando essi hanno scelto il modello americano. Forse la scelta fu dovuta al personale filo americanismo di Veltroni o all’idea movimentista della democrazia di un Parisi. Per saperlo in dettaglio occorrerebbe una ricerca sulle fonti che esula dalle nostre forze. Forse, ancora, può aver pesato l’idea dell’ormai compiuto tramonto della militanza, l’idea cioè che l’elettorato “di classe” fosse ormai definitivamente esaurito, per cui si trattava ora di rivolgersi all’elettore indistinto, cioè l’elettore tipico dei partiti pigliatutto. E, forse, c’era anche la segreta ambizione di rincorrere il modello del partito leggero berlusconiano che si stava muovendo con successo utilizzando le parole d’ordine della prima antipolitica.

Forse ancora – ed è questa l’ipotesi per la quale in definitiva ci sentiamo di propendere - tutti i numerosi cespugli che stavano dentro l’Ulivo, nella loro lunga diaspora di scissioni e ricomposizioni precarie, si erano ormai abituati a stare senza gli apparati, avevano già inaugurato la stagione della auto promozione dei capi e dei capetti – un andazzo cui ci si abitua facilmente – e, dunque, non avevano più nessuna voglia di sottomettersi a un nuovo apparato. Il partito leggero sul modello americano andava dunque bene per tutti. A questa motivazione di ordine particulare si può aggiungere una psicologica diffidenza reciproca tra le varie componenti che temevano di dover sottostare a dettami ideologici estranei decisi a maggioranza. Questa diffidenza di fondo era a sua volta legata al metodo della fusione fredda che era stato di fatto adottato per la costituzione del nuovo partito: un processo costituente realizzato senza alcuna costruzione di una base di cultura politica comune.

8. Possiamo a questo punto domandarci quali fossero le implicazioni del modello americano e se la sua scelta avesse un qualche fondamento. Intanto va osservato, col senno di poi, che il modello dei partiti americani in realtà non era poi quella gran novità. Il sistema partitico ed elettorale americano era, ed è tuttora, un curioso residuo del passato, un vero e proprio relitto storico. Un po’ come la monarchia in Gran Bretagna che, se funziona, funziona bene solo lì e resta difficilmente esportabile. La radice profonda del modello americano è quella sette - ottocentesca del partito dei notabili. Un partito non partito, nato in una situazione di suffragio elettorale piuttosto ristretto, dove i notabili non fanno che scegliere e appoggiare uno di loro. Un partito che si mobilita quasi esclusivamente per le campagne elettorali, per la definizione delle candidature e dei programmi e, soprattutto, per la raccolta dei fondi senza i quali non si vince. Un partito quindi che non ha mai interrotto la tradizione di una forte personalizzazione, sia da parte di coloro che scelgono sia da parte di chi viene scelto. Tanto valeva rifarsi ai modelli della Destra o della Sinistra storiche, o a quello del partito liberale di Giolitti.

Sul piano storico, non tutti sanno che negli USA le primarie furono inventate tra gli Stati del Sud, durante la Guerra di secessione. La guerra civile era allora combattuta tra Repubblicani (Nord) e Democratici (Sud) per cui i due principali partiti erano divisi dalla guerra e, soprattutto negli Stati del Sud, si prospettava in pratica una situazione di monopartitismo. Allora, allo scopo di assicurare la possibilità della scelta tra una pluralità di candidature (si rammenti che il suffragio era comunque assai ristretto), si cominciò a praticare episodicamente il sistema delle primarie. Esso, dopo quelle prime esperienze, in seguito si estese e si consolidò, grazie all’ampliamento del gruppo notabilare che aveva il potere di scegliere i candidati. In sostanza, le primarie americane rappresentarono una sorta di riforma in senso democratico del tradizionale sistema ottocentesco del partito dei notabili, del quale tuttavia furono mantenuti molti aspetti. Con il suffragio universale, tutti i cittadini in un certo senso sono divenuti notabili e si sono così visti riconoscere il potere di scegliere i loro candidati e di essere a loro volta candidati. È forse il caso però di ricordare che, negli USA, il compimento di questo processo è avvenuto solo nel 1965.

9. Vediamo meglio le implicazioni del modello americano. I partiti americani, in virtù della loro origine notabilare, sono poco più di comitati elettorali che si mobilitano e funzionano davvero solo in occasione delle elezioni. Al di fuori delle elezioni, i partiti coincidono essenzialmente con i gruppi parlamentari, cui va aggiunta la schiera di coloro che ricoprono le cariche pubbliche di nomina politica. Nella società civile sono presenti soprattutto come orientamenti di cultura politica, come complesso di tradizioni e di valori, ma anche come insiemi di relazioni interpersonali e, soprattutto, di intrecci di interessi, alimentati questi ultimi dalla pratica del lobbismo, che è attentamente regolamentata.

Da questo complesso quadro storico deriva un fatto di assoluto rilievo, e cioè che, nella tradizione elettorale americana, ironia della sorte, conta soprattutto la legittimazione dal basso: gli elettori, notabili venuti alla fine a coincidere con tutti i cittadini, convocati per disposizione di legge, nel momento in cui scelgono con le primarie il loro candidato, scelgono anche il programma politico, contribuendo così a definire la linea del loro partito. Questo è il motivo per cui lo scontro che avviene durante le primarie americane è uno scontro autentico, sostanziale per la vita del partito, uno scontro che serve certamente a selezionare i candidati ritenuti migliori, ma soprattutto è uno scontro che serve a mettere a punto il programma elettorale. Insomma, durante le primarie, gli elettori, selezionando nello stesso tempo il candidato e il programma, svolgono in un certo senso l’equivalente di quel che è un congresso di partito secondo la tradizione europea. Per questo stesso motivo, i candidati e i programmi che sono sconfitti alle primarie sono abbandonati al loro destino, senza tanti complimenti, evitando così la formazione di una burocrazia partitica di carattere oligarchico. Negli States non si finanziano i partiti, si finanziano le campagne elettorali di questo o quel candidato. Non si milita principalmente per un partito, ma si milita per un candidato e per il suo programma.

10. Un tipico residuo notabilare è costituito poi dall’idea, del tutto implicita nel sistema americano, secondo cui i sostenitori più forti del candidato vincente (per lo più quelli che hanno portato tanti voti) meritano di essere ricompensati. Si tratta dello spoils system. Chi vince prende tutto. Chi vince prende cioè in mano le redini del partito, prende il governo e le relative “spoglie”, costituite da numerosissimi incarichi politico amministrativi di fascia alta. Chi perde aspetta il turno successivo. Anche per questo i partiti americani non hanno una marcata vita propria, al di là delle campagne elettorali. Come si vede, si tratta di un sistema che ha davvero poco a che fare con la tradizione europea dei partiti/ apparato, una tradizione invece che ha quasi sempre visto confrontarsi tra loro maggioranze e minoranze all’interno di una istituzione partitica permanente, governata da regole democratiche, con fitta distribuzione territoriale, relativi congressi e cariche interne.

11. Il modello delle primarie è dunque strettamente legato alla tradizione americana. Ci sarà un motivo se il modello partitico/ elettorale americano, che è stato uno dei primi a comparire, non ha mai avuto facili esportazioni in altri Paesi. Le primarie sul modello americano sono utilizzate stabilmente solo in Canada e in Israele. Perché allora la diffusione al di fuori degli USA della moda delle primarie negli ultimi decenni? In concomitanza con la crisi del modello europeo dei partiti/ apparato,[8] le primarie americane sono apparse talvolta come una facile ricetta pragmatica in grado di permettere di riallacciare un legame con gli elettori e in grado di consentire una migliore selezione del personale politico. Insomma, una ricetta per tacitare l’anti politica. A tutt’oggi ci sono diverse sperimentazioni in giro per il mondo, ma i risultati non sono così chiari. Le primarie d’importazione non sembrano avere avuto alcun ruolo nella migliore democratizzazione dei vecchi partiti/ apparato. Non sembrano avere avuto alcun ruolo significativo nella selezione di una migliore classe dirigente. In più, esse hanno contribuito in modo equivoco alla personalizzazione della politica, fatto non negativo di per sé, ma ormai storicamente legato alla recente insorgenza populista. Le primarie, inoltre, in particolare nel caso Trump, hanno mostrato tutta la loro debolezza intrinseca sul piano della capacità di resistere alle tendenze anti democratiche.

Da tutto ciò emerge con chiarezza che la scelta del “partito delle primarie” fu una scelta piuttosto superficiale, alquanto sprovveduta, assai poco consapevole delle implicazioni che ne sarebbero derivate. Implicazioni che hanno prodotto diversi effetti boomerang. Il problema è che, dopo le prime gravi disillusioni, la deriva correntistica ha completamente bloccato la situazione interna del PD e ha impedito di mettere in opera qualsiasi tipo di correttivo. Per cui il PD ha continuato a essere stretto nella morsa della doppia legittimazione.

12. Vale la pena a questo punto, di fare una riflessione aggiuntiva su quello che è il problema effettivo che sta dietro all’avventurosa scelta del modello del partito delle primarie da parte del PD. Si tratta di un problema ricorrente e mai risolto: la questione della democrazia interna delle organizzazioni partitiche o dei cosiddetti movimenti politici. A partire almeno dal 1993, in seguito soprattutto ai fatti di Tangentopoli, nel nostro paese il problema è stato alquanto avvertito dall’opinione pubblica. Nel corso del tempo sono state proposte diverse soluzioni che costituiscono dei tentativi di risposta al sempre più grande vuoto di legittimazione che regna all’interno dei partiti e dei sedicenti movimenti. Il caso delle primarie del PD è solo una di queste.

Una seconda celebre soluzione è stata quella sperimentata all’interno del M5S. Questo partito/ movimento, schierandosi contro tutti i partiti tradizionali, ha preteso di dar vita a un modello di democrazia diretta radicale, da realizzarsi attraverso la rete e concretizzatosi poi con la piattaforma “Rousseau”. In alcuni casi di rilievo, gli iscritti al M5S (si badi bene, gli iscritti, non gli elettori!) sono stati chiamati a scegliere via web i candidati, oppure a rispondere a brevi quesiti circa i programmi o ad altre questioni di vita interna. Non posso qui entrare nel merito, per brevità, ma è un dato di fatto che questo modello non pare proprio abbia risolto il problema della legittimazione. Il M5S sta vivendo proprio in questi giorni una crisi drammatica.[9]

Quel che più interessa per la nostra analisi è per l’appunto quel che sta accadendo negli ultimi tempi. Com’è noto il M5S, in seguito alle dimissioni del governo Conte, è entrato in una sorta di fase costituente, per la fondazione di una nuova formazione politica. Ebbene, in questa occasione è divenuto palese come il M5S e la piattaforma Rousseau con tutti i suoi contenuti, fossero praticamente proprietà di un soggetto privato. Il soggetto detentore degli elenchi degli iscritti si rifiutava di renderli disponibili per la costituente e, del pari, rifiutava di attivare la consultazione costituente stessa. Ciò significa che il partito più numeroso dell’attuale Parlamento è stato praticamente sequestrato, nella sua attività interna, da un soggetto privato che legalmente possedeva l’elenco degli iscritti e le password per le consultazioni.

Ma la cosa ancor più grave è che, nel nostro Paese, nessuno si sia stupito per un fatto come questo. Non abbiamo sentito nessuno parlare di attentato alla democrazia. Nessuna inchiesta. Nessuna richiesta di interventi legislativi per ovviare all’obbrobrio. Insomma, la partecipazione politica viene palesemente ridotta a una bega di diritto privato e nessuno se ne accorge. Forse perché in Italia le cose stanno proprio così: la partecipazione politica è già divenuta essenzialmente una questione privata. Se il M5S, invece che a Rousseau, si fosse rivolto a Google o a Facebook, forse avrebbe ottenuto migliori risultati e ci sarebbe stata maggior trasparenza.

13. Alla scelta della doppia legittimazione del PD e alla scelta della legittimazione per via tecnologica del M5S, possiamo aggiungere, senza dilungarci più di tanto,[10] anche una terza via ben nota. Si tratta della legittimazione ottenuta nel rapporto diretto tra il leader e il popolo. Essa ha avuto nel nostro Paese numerose sperimentazioni, alcune delle quali hanno avuto notevoli seppur fuggevoli successi elettorali. È chiaro che in questo caso la legittimazione delle cariche e dei candidati è una legittimazione dall’alto ed è legata alla prossimità con il leader o con il padrone del partito. Niente di nuovo sul piano organizzativo. Qui l’oligarchia è costituita dal leader ed eventualmente da suo stretto entourage. Non possiamo entrare nel merito, ma questa via sul piano della democrazia interna ha dato luogo a formazioni politiche fondate spesso sulla retorica e sul carisma personale, assai instabili, dalle rapide fortune e dalle altrettanto rapide cadute. Questo non significa che questi modelli di partito non possano avere anche grandi successi elettorali, nel momento in cui la comunicazione del leader abbia successo. Alla prova dei fatti comunque questi modelli, in quanto personali e poco istituzionali, sono risultati altamente volatili, quando non pericolosi per la stessa democrazia. Il caso Trump negli USA è davvero esemplare. In ogni caso anche questo modello non risolve in maniera soddisfacente il problema della legittimazione.

Insomma, le tre più recenti proposte di soluzione al problema della legittimazione all’interno dei partiti e dei movimenti, negli ultimi decenni, sono state ampiamente sperimentate e consumate, hanno conseguito più danni che vantaggi e si stanno risolvendo in un nulla di fatto.

14. Non ignoriamo il fatto che il problema della legittimazione c’era anche nei partiti/ apparato e siamo ben lungi dal tesserne le lodi incondizionate. Conosciamo piuttosto bene le tesi della scuola di Michels.[11] Secondo la legge ferrea dell’oligarchia di Michels, le organizzazioni formalmente democratiche evolvono inevitabilmente verso strutture oligarchiche. Per riassumere, secondo Michels[12] la democrazia non è concepibile senza una qualche organizzazione. L’organizzazione genera una solida struttura di potere che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato in una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla prima. Lo sviluppo di un’organizzazione nel tempo produce burocratizzazione e centralizzazione, le quali creano una leadership stabile, che col tempo si trasforma in una casta chiusa e inamovibile. L’insorgenza dell’oligarchia deriva anche da fattori psicologici, in particolare dalla “naturale sete di potere” di chi fa politica e dal “bisogno” delle persone di essere comandate.

Quella di Michels è indubbiamente un’obiezione formidabile. Tuttavia se stiamo alla lettera di Michels, allora non possiamo fare altro che rinunciare alla democrazia, poiché il problema della legittimazione diventa irrisolvibile. E se queste fossero le conclusioni, dovremmo anche rinunciare alla politica nel suo senso più proprio e autentico. Infatti, con una certa coerenza, dopo la Prima guerra mondiale, com’è noto, l’ex socialdemocratico Michels aderì al fascismo. Ma quello che gli interessava del fascismo non era tanto il partito/ apparato che pure c’era anche lì; egli riteneva che Mussolini, grazie alle sue origini proletarie e al suo carisma, potesse rappresentare direttamente il proletariato, senza la mediazione burocratica delle rappresentanze sindacali e dei partiti politici. Seguendo questa luminosa strada, tra gli intellettuali della sinistra italiana è andato di moda, per un bel po’ di tempo, il politologo nazista Carl Schmitt, il teorico dello stato d’eccezione e del decisionismo. Come si vede bene, il sogno che ritorna, da Michels a Schmitt, è sempre lo stesso e cioè che si possa dare rappresentanza politica senza organizzazione.

15. Indubbiamente, le tendenze oligarchiche sono un dato di fatto e su ciò Michels ha perfettamente ragione. Proprio per questo però, in tutte le organizzazioni votate alla democrazia, esistono contromisure che hanno lo scopo di mettere un freno alle tendenze oligarchiche. Certo, si tratta di misure che possono risultare più o meno efficaci. Le buone organizzazioni riescono a governare con successo i loro processi decisionali interni, le cattive non ci riescono e sono destinate, prima o poi, a comparire davanti al giudizio della distruzione creatrice.[13] Quello che sta sotto i nostri occhi, nel caso dei partiti politici, è il fatto che le tendenze oligarchiche, rese autonome, lasciate in libertà, magari giustificate con acrobazie teoriche, magari associate a forme di libertarismo o di democrazia radicale, hanno in ultima analisi gravi costi per la democrazia. I quali si pagano sia individualmente sia, soprattutto, collettivamente.

C’è una sola soluzione al problema della legittimazione democratica: i partiti vanno regolati. Del resto le primarie USA sono rigorosamente regolate per legge. I partiti non regolati, come quelli del nostro Paese, sono costantemente esposti al destino di diventare partiti estrattivi,[14] cioè istituzioni autoreferenziali che, anziché fornire i servizi che dovrebbero fornire, accumulano, consumano e sprecano risorse a spese dei loro clienti o utenti. Poiché i partiti estrattivi si trovano proprio nel ganglio istituzionale che avrebbe il compito di produrre le riforme, è chiaro che essi potranno fare di tutto, tranne che produrre una riforma efficace dei partiti stessi. I partiti estrattivi non saranno mai in grado di sostenere una riforma istituzionale che tolga potere alle loro stesse oligarchie e che ridistribuisca effettivamente il potere agli utenti. L’antipolitica, nelle sue varie forme che si sono manifestate a partire dal 1993, ha sviluppato una consapevolezza profonda del fatto che i partiti non possono auto emendarsi. Purtroppo anche le soluzioni più o meno esplicite avanzate dagli anti politici stessi sono risultate ben lontane dall’essere efficaci.

16. Di fronte alle organizzazioni e al conseguente probabile malfunzionamento organizzativo, secondo un celebre saggio di Hirschman, l’utente leale ha sostanzialmente due opzioni: voice e exit.[15] Cioè, l’utente, proprio per la sua fedeltà, può essere indotto in un primo tempo a segnalare i malfunzionamenti, a protestare e a richiedere il ripristino della qualità del servizio. Qualora l’azione di voice non abbia alcuna conseguenza, all’utente non resta altro che l’opzione exit, cioè passare a un altro fornitore o rinunciare al servizio. Pare proprio che ciò sia quanto sta avvenendo con le primarie. Torino e Roma che abbiamo citato in apertura sono casi esemplari di exit. Purtroppo, nel caso della politica, l’opzione exit degli utenti, che sono cittadini elettori, ha un risvolto paradossale poiché implica la consegna, permanente e definitiva, di quello che è il bene comune a una combriccola di oligarchie autoreferenziali.

Le buone organizzazioni dovrebbero dunque temere anzitutto l’opzione exit e apprezzare ogniqualvolta gli utenti mettono in atto le varie forme di voice, le azioni di protesta, che oltretutto possono essere piuttosto onerose per gli utenti stessi. Una grande attenzione alla voice degli utenti può guidare le organizzazioni a correggere il proprio funzionamento, a non perdere gli utenti, a crescere e a svilupparsi. Amazon, dopo la consegna di un pacco, chiede al cliente di valutare l’esito della transazione e di valutare l’acquisto effettuato. Se qualcosa è andato storto, Amazon cerca di rimediare, senza fare tante storie. I nostri partiti non sono neanche in grado di comportarsi, con i loro elettori, nello stesso modo in cui si comporta Amazon con pacchi e pacchettini.

17. A questo punto, dopo questa panoramica alquanto teorica, possiamo tornare al nostro argomento specifico, forse con qualche consapevolezza in più. Qual è dunque lo stato di salute delle primarie nostrane rispetto al quadro interpretativo che abbiamo tracciato?

Le primarie nel nostro Paese, intanto, continuano a essere svolte come eventi del tutto interni ai partiti della sinistra e continuano a non avere alcuna veste istituzionale legale. L’unica minima eccezione è quella della Regione Toscana che ha approvato una legge in merito.[16] L’iniziativa, che non rende obbligatorie le primarie ma ne permette lo svolgimento eventuale da parte delle istituzioni regionali e comunali, non è stata seguita da alcun’altra Regione. Anche in Toscana l’opportunità prevista dalla legge è stata pochissimo adoperata.

Grazie al loro carattere non istituzionalizzato, la tipologia funzionale delle primarie italiane è andata ampliandosi e complicandosi in maniera piuttosto incontrollata. Originariamente, le primarie avrebbero dovuto servire per scegliere i candidati del PD alle cariche pubbliche. Sono state utilizzate, contemporaneamente, anche per la scelta del segretario del PD.[17] Le primarie sono poi state utilizzate anche a livello di coalizione, per la scelta del candidato a una carica pubblica da parte di una coalizione di partiti.

L’aspetto davvero comune a questa variegata casistica è tuttavia il fatto che nel nostro Paese le primarie nessuno è davvero tenuto a farle. Di fatto sono uno strumento opzionale di mobilitazione degli elettori che viene deciso di volta in volta. Gli elettori, in pratica, e questo è l’aspetto essenziale, non hanno alcun diritto di essere convocati. Le primarie in Italia di fatto sono octroyée, come dicono i costituzionalisti; in parole povere, sono concesse dall’alto. Più o meno come lo era lo Statuto albertino.

18. Poiché non sta scritto da nessuna parte che siano un diritto degli elettori e che si debbano dunque sempre fare, ad ogni occasione elettorale si scatena puntualmente la querelle se sia il caso o meno di farle. La decisione in merito ovviamente spetta di fatto alle oligarchie nazionali o a quelle locali del partito o dei partiti coinvolti. In questa situazione, priva di ogni prevedibilità, è lecito pensare che, nel decidere se fare o non fare le primarie, la preoccupazione principale delle oligarchie non sarà mai quella di assicurare all’elettore il suo diritto di decidere. Ancora una volta vediamo all’opera la doppia legittimazione, con la netta prevalenza della legittimazione dall’alto.

 Va ricordato in proposito che anche l’attuale segretario del PD è stato eletto senza primarie. In molti dei cespugli della sinistra le primarie poi non sono neppure previste. Non è chiaro come si regolerà, sulla questione delle candidature, il nuovo M5S di Conte (se giungerà sano e salvo alla meta - mentre scriviamo giungono notizie poco confortanti). Qualora, com’è auspicato da molte parti, si realizzi una coalizione tra PD e M5S, non si capisce proprio quale tipo di procedura si possa utilizzare per la scelta dei candidati e dei programmi, visto che il PD predilige le primarie mentre il M5S predilige la legittimazione via web da parte dei propri iscritti.

19. Uno dei punti più deboli in assoluto delle attuali primarie made in Italy è quello della formazione delle liste. In teoria, dopo avere concesso agli elettori il diritto di effettuare le primarie, stabilite le procedure e una quota minima di firme per la presentazione delle candidature, chiunque dovrebbe avere il diritto di candidarsi. Accade tuttavia spesso che le candidature siano prima decise dalle oligarchie e poi fatte passare attraverso le primarie. Le primarie vengono così a essere sostanzialmente delle meschine operazioni di ratifica di quanto già deciso altrove. Insomma, agli elettori spesso è data l’illusione di scegliere. Si tratta dunque spesso di pure operazioni di facciata, proprio come aveva segnalato Michels nella sua legge ferrea dell’oligarchia. Un simile costume può essere assimilato alla democrazia plebiscitaria, che è una palese contraddizione in termini. Il caso delle attuali primarie romane è lampante.

In contrasto con questa pratica, occorre riconoscere che, in un certo senso, in USA le primarie possono effettivamente funzionare come espediente anti oligarchico, nel senso che esse, col voto, danno consapevolmente il potere a un’oligarchia, ma poi sono in grado di farne piazza pulita nelle elezioni successive. L’oligarchia c’è ma è a scadenza. Questo significa che la legittimazione ultimativa viene dal basso e funziona perfettamente per lo meno in senso fallibilista.[18] Mentre in USA il partito ri-nasce e si organizza in occasione delle elezioni proprio intorno a delle candidature, nel nostro caso il partito organizzato esiste già come oligarchia correntizia permanente, che ha già fatto un congresso più o meno autentico, che dispone di cariche, che ha degli interessi da difendere, che già ha uno straccio di ortodossia programmatica e che ha dei personaggi da mandare avanti. Questo gruppo oligarchico, inevitabilmente, finisce per avere un peso fondamentale anzitutto nella decisione se fare o meno le primarie e, poi, nella definizione delle candidature stesse. Raramente accade che un candidato estraneo possa imporsi e vincere le primarie. Quando ci sono simili individui in circolazione, le primarie piuttosto non si fanno.

20. I problemi delle primarie nostrane si presentano in forma allargata nel caso delle primarie di coalizione. Data la grande frantumazione della sinistra nostrana, la scelta dei candidati alle cariche istituzionali difficilmente può essere ricondotta a un unico partito. Ci si trova spesso di fronte all’opportunità di scegliere il candidato per una coalizione di liste.

In tal caso occorre prima determinare i confini della coalizione, operazione politica che è pressoché sempre demandata alle oligarchie. Questo è il caso in cui le oligarchie possono porre dei veti[19] oppure tentare di raccattare tutti quelli che ci stanno. La tendenza di solito è quella di riunire il maggior numero possibile di gruppi politici e parapolitici. Spesso s’inventano, per l’occasione, anche gruppi ex novo che di politico non hanno mai fatto nulla. Questi ultimi costituiranno le liste di appoggio al candidato e, dopo le elezioni, il più delle volte spariranno dalla circolazione. Tutto questo serve, magari anche giustamente ma anche assai equivocamente, per allargare la base elettorale.

Poiché ogni lista è portatrice di voti, nel momento della definizione dei confini della coalizione si prospetta naturalmente anche il criterio della distribuzione delle “spoglie” in caso di vittoria. Qualora non si faccia accuratamente quest’operazione, a elezione avvenuta e a eventuale vittoria raggiunta, si possono registrare pesanti scosse di assestamento. Bisogna poi che tutti i convenuti discutano di programmi e candidati e, finalmente, decidano anche se coinvolgere o meno gli elettori, facendo finalmente le primarie octroyée. È chiaro che la primaria di coalizione, quando si decida di concederla, non può che avere gli esiti in gran parte scontati. Nella preparazione delle liste ci sono poi gli stessi problemi che abbiamo già rilevato nel caso delle primarie monopartitiche, aggravati dal fatto che ciascun gruppo aderente vorrà avere qualcuno dei propri in lista.

21. Come ognun vede, le primarie, come sono per lo più fatte oggi, dal PD e dalle coalizioni di sinistra, nei rari casi in cui si decide di farle, rientrano perfettamente nella michelsiana legge ferrea dell’oligarchia. Se le cose stanno così, ci si può domandare perché recentemente si è tornati a parlare di primarie. Da un certo punto di vista, dati anche i risultati della nostra analisi, converrebbe lasciarle perdere. Abbiamo osservato che nel nostro sistema le primarie di fatto sono octroyee, sono concesse dall’alto. Possono in teoria essere richieste dal basso, ma gli elettori non hanno alcun diritto in merito. E comunque non lo fanno. Chi chiede le primarie fa per lo più la parte dello scocciatore, di quello che disturba i manovratori. O, peggio, dell’illuso che non sa rassegnarsi alla dura realtà machiavellica della lotta politica.

Nell’attuale fase politica ci sono – a nostro parere – almeno quattro elementi che hanno pesato a favore di un ritorno di attenzione alle primarie nella sinistra in senso lato: a) per il PD di Letta le primarie costituiscono uno strumento tattico che può permettere al segretario di cercare di porre un freno alla costante rissa correntizia (lo si è visto nei recenti casi di Torino e di Roma); b) nella sempre maggiore frammentazione della sinistra, le primarie consentono (talvolta) di formare delle coalizioni e di raggiungere un minimo di unità d’azione, in una situazione nella quale nessun partito da solo potrebbe vincere alcunché; c) le primarie permettono di tentare un riavvicinamento all’elettorato ormai disilluso, rispolverando la retorica e talvolta anche la pratica della partecipazione; d) nella attuale fase della storia del PD, con la nuova segreteria Letta, le primarie, ideologicamente, possono costituire una sorta di ritorno alla narrazione originaria, in cerca di qualche brandello di identità che il PD sembra avere perduto (e che forse non ha mai avuto). Nei tre casi di Torino, Bologna e Roma questi quattro elementi si sono visti tutti all’opera. La questione preliminare è che, volendo recuperare le primarie, si tratterebbe per lo meno di non darle per scontate, di farne una considerazione critica, per vedere se siano adatte alla bisogna, oppure per vedere se non ci sia qualcosa da cambiare. Più o meno quel che abbiamo cercato di fare noi, nel nostro piccolo, con questo articolo.

22. Da quel che abbiamo fin qui argomentato, è davvero difficile che questi novelli usi delle primarie possano contribuire a modificare la loro natura ormai alquanto degradata. A nostro parere, ci sarebbe tuttavia un uso virtuoso delle primarie - del tutto possibile ma ahimè alquanto improbabile - che possiamo immediatamente ricavare dalla nostra precedente analisi. In relazione a quanto abbiamo affermato circa la legittimazione dal basso, una svolta sostanziale delle primarie nostrane si potrebbe realizzare attraverso una mobilitazione degli elettori (qui mi riferisco allo spazio politico largo della sinistra) che imponga ai partiti la trasformazione delle primarie octroyée in primarie di diritto, nelle quali gli elettori siano sempre chiamati a scegliere le cariche o le candidature e a discutere e valutare i relativi programmi. Si tratterebbe cioè di dare un colpo decisivo alle oligarchie interne, sottoponendole periodicamente al giudizio degli elettori. Questo era l’autentico spirito originario delle primarie del PD.

La mobilitazione degli elettori potrebbe avvenire attraverso la stesura di carte rivendicative, sostenute da raccolte pubbliche di firme e attraverso la mobilitazione sul web. Le carte e le firme potrebbero essere consegnate alle organizzazioni dei partiti e/o delle coalizioni, le quali sarebbero così costrette a scegliere e a dichiarare pubblicamente quale sia, secondo loro, la forma corretta di legittimazione. Attorno alla rivendicazione di un diritto alle primarie possiamo immaginare un tipo di mobilitazione analogo a quello delle cosiddette Sardine, di qualche tempo fa. Gli strumenti per una simile iniziativa ci sono e oggi hanno un costo minimo. Per una compiuta realizzazione dell’iniziativa dal basso si potrebbero costituire dei comitati di elettori (già si fanno i vertici per le primarie di coalizione) che fungano da garanti del processo democratico, che garantiscano cioè dalle ingerenze oligarchiche, che organizzino il dibattito a livello territoriale e che si occupino anche poi delle votazioni. Più o meno come fanno, da più di un secolo, gli americani nei loro caucus. Naturalmente tutto ciò avrebbe come sbocco qualcosa di eminentemente concreto come la modifica dello statuto del PD (e magari degli altri partiti) per renderlo davvero il partito delle primarie. Fantapolitica? No, solo se il PD e gli altri partiti avessero il coraggio di guardare in faccia lo spettro di Michels che aleggia sul proprio attuale modello organizzativo. Si tratta naturalmente di pura teoria, di una riforma ahimè del tutto possibile ma alquanto improbabile.

23. In prospettiva futura ci sarà un’occasione capitale in cui la questione delle primarie si riproporrà. Si tratta delle elezioni politiche prossime venture. Com’è noto le prossime elezioni politiche prevedono la riduzione del numero dei parlamentari. Non si sa ancora con quale legge elettorale saranno svolte. Quasi certamente non saranno svolte con un sistema maggioritario, oppure con un doppio turno, sistemi cioè che siano in grado di dare comunque l’ultima parola agli elettori nella scelta del candidato. Il rischio è addirittura che ci siano le liste bloccate. In questo scenario sarebbe logico, per il PD e per la sinistra, sottoporre a primarie le candidature, in modo da ottenere comunque una solida legittimazione dal basso. Vedremo invece, assai probabilmente, anche in quell’occasione, il solito conflitto tra le due fonti di legittimazione, con prevalenza finale della legittimazione dall’alto. Michels non ha affatto ragione sulla democrazia ma, quando descrive i meccanismi effettuali della nostra politica, ci azzecca quasi sempre.

24. Il dato elettorale con cui abbiamo aperto questo articolo dice con chiarezza che, nell’attuale frangente della nostra vita politica, gli elettori anche quando viene loro concessa l’opportunità di fare le primarie, tendono ormai a disertare. Come testimoniano i casi di Torino e Roma. Anche l’affluenza di Bologna non è stata poi così esaltante, considerata la radice di sinistra della cultura cittadina. Le primarie, già deboli e velleitarie nella loro configurazione originaria, evidentemente sono diventate ancor più logore dato l’uso sconsiderato che ne è stato fatto. La colpa ricade soprattutto su chi ne ha avuto la disponibilità e le ha male amministrate. Ma ricade anche sugli elettori, i quali in molteplici occasioni hanno rinunciato a farsi sentire. Hanno preferito usare l’opzione exit, senza intraprendere alcuna azione di voice atta a pretendere come un preciso diritto quella legittimazione dal basso che era stata sbandierata. Regalando così lo spazio politico alle oligarchie. Come spesso accade, la responsabilità del degrado non sta mai da una sola parte.

Giuseppe Rinaldi (30/06/2021)

 

NOTE

[1] I dati sono stati ricavati dalla stampa quotidiana.

[2] Riporto la popolazione delle tre città: Torino 848.196; Bologna 394.533; Roma 2.781.807. I dati sono tratti da Wikipedia.

[3] Cfr. il saggio pubblicato su Città Futura: PD. Il partito che non c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)

[4] La scomparsa repentina di PSI, PC, DC non è stata senz’altro dovuta al loro modello organizzativo, quanto piuttosto alla fine della Guerra fredda, che ha modificato in maniera sostanziale gli assetti politici del Paese. I tre partiti in questione avevano a lungo tratto giovamento dagli assetti politici bloccati dovuti alla Guerra fredda.

[5] Cfr. il già citato: PD. Il partito che non c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)

[6] Si vedano i dati riportati in appendice del già citato saggio PD. Il partito che non c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)

[7] Nonostante il proporzionalismo imperante della legge elettorale nazionale (proposta da Ettore Rosato, un ex PD), il PD avrebbe potuto per lo meno sottoporre a primarie le candidature dei Parlamentari. Nel 2018 il segretario eletto con primarie Renzi si guardò bene dal farlo.

[8] Crisi dovuta non tanto a questioni meramente organizzative, come abbiamo già sottolineato.

[9] Ciò non significa che la democrazia dei partiti non possa servirsi delle opportunità della rete.

[10] Senza dilungarci, poiché su questa tematica abbiamo già sviluppato in passato numerosi interventi.

[11] Cfr. Michels, Robert, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Democratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Dr. Werner Klinkhardt, Leipzig, 1911. Tr. it.: La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna, 1966.

[12] Qui sintetizzo per brevità riprendendo da Wikipedia.

[13] Il concetto è di Schumpeter.

[14] Il concetto di istituzione estrattiva proviene dall’economista Daron Acemoglu.

[15] Cfr. Hirschman, Albert O., Exit, Voice and Loyalty, Harvard University Press, Cambridge, 1970. Tr. it.: Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato, Bompiani, Milano, 1982.

[16] Il 17 dicembre 2004, la Regione Toscana ha approvato una legge (nota come legge 70) che formalmente consente ai partiti di tenere elezioni primarie per stabilire i loro candidati, proponendo anche una comune regolamentazione dello svolgimento, e delegandone l’organizzazione e la gestione alla Regione e ai comuni, in modo simile alle elezioni regionali. Questa opportunità è stata finora poco sfruttata. Una simile legge non è stata ripresa da alcuna altra regione, vuoi di destra vuoi di sinistra.

[17] Che non è una carica pubblica, anche se il segretario del PD può aspirare alla presidenza del consiglio, in caso di netta vittoria elettorale

[18] Si veda la concezione popperiana della democrazia. Popper diceva, in estrema sintesi, che la democrazia non è il sistema che permette al popolo di governare direttamente, bensì il sistema che permette periodicamente al popolo di licenziare, senza spargimento si sangue, chi abbia malgovernato. Il meccanismo della falsificazione epistemologica viene così trasferito nel campo della politica.

[19] Caso tipico: se inserire o meno il M5S nella coalizione.