mercoledì 19 settembre 2018

I sacchi di sabbia vicino alla finestra

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1. In un recente articolo su Repubblica,[1] Massimo Recalcati si domandava che cosa abbia determinato il successo oggettivo di consensi alla politica di Salvini. La sua risposta è che Salvini avrebbe saputo abilmente sfruttare la pulsione sicuritaria,[2] pulsione che invece sarebbe stata del tutto ignorata dalla sinistra. Infatti, secondo Recalcati: «La difesa della propria identità, il rifiuto dell’estraneo, l’arroccamento di fronte alla minaccia dello straniero prima di essere xenofobia, razzismo o altro, che piaccia o meno, è una inclinazione fondamentale dell’essere umano. Ogni filosofia politica che trascura questo dato di fondo rischia l’idealismo impotente».[3] Una qualunque condizione d’insicurezza genera una domanda urgente: «Non pensieri lunghi, visioni del nostro futuro, piani di riforme ad ampio respiro, ma provvedimenti, […], tutti schiacciati sul presente immediato, ovvero sulla promessa di garantire alla pulsione il suo soddisfacimento».[4] La miopia della sinistra è stata quella di: «Considerare la pulsione securitaria solo come un elemento regressivo, barbaro, analfabeta, senza invece cogliere che essa riguarda un fondamento imprescindibile della nostra vita psichica. Per questo l’azione meritoria di un ministro coraggioso e lucido come Minniti, per fare un esempio, è stata descritta da una certa sinistra come poliziesca o, peggio, neo-nazista. La politica ha invece il dovere di misurarsi con queste cristallizzazioni pulsionali senza ignorarne il peso specifico per dare a esse uno sbocco diverso da quello del populismo o della pura strumentalizzazione reazionaria».[5]

 

2. Nonostante il suo impianto strettamente psicoanalitico, che può suscitare qualche perplessità da parte di chi non ne condivida i fondamenti, la tesi di Recalcati è ampiamente condivisibile, se non altro perché riesce ad andare oltre la cantilena consunta dell’accusa a Salvini di fare della propaganda. Oggi il consenso alla Lega nei sondaggi ammonta al 30%.[6] Ancor più significativo è il fatto che il 61% degli intervistati abbia approvato l’operato di Salvini a proposito della nave Diciotti. Lo stesso operato è stato approvato dal 57% di coloro che si dichiarano cattolici.[7] È difficile raggiungere simili cifre con la propaganda. La tesi di Recalcati potrebbe risultare assai utile – se dall’altra parte, a sinistra, ci fosse qualcuno in ascolto - per intraprendere quella famosa riflessione sui motivi della clamorosa sconfitta del 4 marzo scorso. Riflessione che non è neppure ancora cominciata. Non si può sostenere – come stanno facendo taluni - che i partiti della sinistra avessero ragione e che gli elettori si siano sbagliati. Gli elettori evidentemente hanno seguito una loro logica che deve essere compresa attentamente, ancor prima di essere esecrata e demonizzata. Anche perché, se la sinistra non vuol chiudere bottega, avrà bisogno di rivolgersi proprio a quegli elettori che, inopinatamente, si sarebbero “sbagliati”.

 

3. Per ora, nella sinistra (intesa qui in senso ampio), in mancanza di prese di posizione ufficiali, l’interpretazione che va per la maggiore è sempre quella a sfondo economicistico. L’ampio consenso per la Lega e per il M5S sarebbe dovuto agli effetti della crisi economica, ai quali - qui si spingono solo i più coraggiosi - la sinistra non avrebbe saputo dare adeguata risposta. Oppure – qui davvero in uno slancio autocritico - sarebbe una reazione delle periferie colpite dalla globalizzazione e “abbandonate”. Secondo un’altra ipotesi ancora, la sinistra (nella fattispecie il PD) avrebbe abbandonato la politica di sinistra, avrebbe tradito il popolo e il popolo avrebbe conseguentemente abbandonato la sinistra. Peccato che poi non si sappia mai chiarire quale fosse quella magica politica di sinistra che avrebbe incontrato il consenso del popolo. A tutte queste spiegazioni si suole aggiungere, talvolta, il successo della propaganda da parte delle destre, pur dimenticando sempre di spiegare perché quel tipo di propaganda abbia così successo. Spesso tutte queste spiegazioni sono combinate tra loro, generando una moltitudine di curiose varianti. In queste spiegazioni c’è senz’altro qualche fondo di verità, ma sono tutte spiegazioni che non convincono.

 

4. Per intanto, come premessa a ogni tentativo di analisi, non mi stancherò mai di ripetere che la “crisi della sinistra” va suddivisa tra varie componenti, tenendo conto che esiste una componente internazionale (le sinistre sono in crisi un po’ ovunque nel mondo), una componente europea (le sinistre sono in crisi ovunque in Europa) e – in più – una componente specifica dovuta alla situazione italiana, dove un centro sinistra che ha governato praticamente per una legislatura ha subìto inaspettatamente una enorme batosta. Se le diverse componenti vengono costantemente confuse o misconosciute, si rischia di non comprendere gran che.

Inoltre, occorre anche considerare l’orizzonte temporale. La crisi della sinistra in generale ha delle componenti striscianti che operano da lungo tempo accanto ad altre componenti legate a fatti assai più specifici, come, ad esempio, l’operato dei governi Renzi e Gentiloni. Anche in questo caso, occorre cogliere gli elementi più immediati di crisi sullo sfondo di una crisi di più lunga durata. Sono, questi, però esercizi analitici che ormai nessuno ha più voglia di fare. Con il risultato di accontentarsi di analisi superficiali che sono del tutto inutili e contribuiscono solo ad aumentare la litigiosità interna delle varie fazioni.

In ultimo, è risaputo da un pezzo che le spiegazioni economicistiche sono sempre meno in grado di spiegare il comportamento elettorale. Individui che si trovano nella stessa condizione socio economica possono esprimere scelte elettorali completamente diverse, quando non contrapposte. I partiti sono sempre più dei catch-all party e per comprendere le scelte elettorali occorre sempre più considerare elementi di carattere non strettamente economico. I nemici della sinistra si sono liberati da un pezzo dell’economicismo e, in effetti, si dimostrano assai pronti a cogliere gli orientamenti del pubblico e poi sono loro che vincono le elezioni.

 

5. Seguendo la provocazione di Recalcati, per comprendere il voltafaccia degli elettori italiani nei confronti della sinistra si tratta anzitutto di seguire le tracce della pulsione sicuritaria, la quale di per sé va ben oltre le questioni di tipo economico. Questo vorrebbe dire, come minimo, il riconoscimento che la sinistra – mentre litigava sull’articolo 18 - non si è accorta del fatto che l’insicurezza generalizzata – vedremo poi se soltanto percepita o anche reale - era aumentata a dismisura, fino a un punto tale da indurre una parte consistente degli elettori a metter da parte tradizioni, regole, valori, principi, fedeltà (e magari anche un po’ di logica) per cercare di costruire una barriera protettiva, magari grezza ma capace di funzionare alla bella meglio. Già, ma cosa intendiamo per condizione di insicurezza generalizzata? Se l’insicurezza ha certamente una dimensione economica, essa ha anche una marcata dimensione psicologica, oltre che ideologica. E ha anche una dimensione storica, nel senso che essa viene prodotta nell’ambito dell’esperienza quotidiana degli individui come viene prodotta storicamente. La domanda di sicurezza è dunque un fenomeno assai complesso, cui non è stata evidentemente prestata la dovuta attenzione.

 

6. Per andare un po’ oltre all’economicismo corrente, mi rifarò per intanto ad alcune analisi contenute nell’ultimo libro di Ricolfi, dal titolo emblematico di Sinistra e popolo.[8] Nel preciso tentativo di fornire una spiegazione alla crescita del populismo in Europa, Ricolfi ha riservato il dovuto spazio esplicativo alle variabili di tipo economico, ma non ha potuto fare a meno di introdurre anche variabili di tipo diverso.

È il caso però di segnalare anzitutto che Ricolfi si è subito trovato a dover escludere, tra le cause della crescita del populismo, l’avversione nei confronti della UE. A partire dai dati, la critica alla UE non è in grado di spiegare (statisticamente) lo sviluppo del populismo nei vari paesi: «L’analisi statistica ha […] rivelato che fra la forza dei movimenti populisti e il livello di fiducia nelle istituzioni europee un nesso esiste, ma è di segno opposto a quello atteso: i partiti populisti sono più forti nei paesi in cui più positiva è l’immagine dell’Unione Europea. Se poi dai livelli di fiducia e di populismo passiamo alle loro variazioni, la relazione assume il segno atteso (diventa positiva) ma è così debole da non raggiungere la significatività statistica».[9] Dunque, la colpa non sembra essere dell’Europa. Detto nei termini di Recalcati, l’Europa in sé non è percepita come una minaccia alla nostra immediata sicurezza, non è tra le fonti principali delle paure diffuse. Il populismo crescente non è diretto in primis contro l’Europa.

Ricolfi ha invece trovato, nei suoi dati, ampi supporti alla tesi per cui l’incremento di consenso al populismo è spiegato (sempre in senso statistico) dagli effetti combinati dell’intensità della crisi economica e della paura dell’immigrazione. L’immigrazione dunque, fattore esogeno per eccellenza, pare abbia avuto la forza di condizionare pesantemente l’orientamento politico interno dei cittadini dei Paesi della UE, riuscendo a devastarne di fatto i tradizionali sistemi politici. La gente non ha paura dell’Europa, ha paura dell’immigrazione. Ma non è tutto, perché a questa prima paura ne possiamo subito aggiungere un’altra, anch’essa di matrice esogena. Afferma Ricolfi che: «[…] la paura per gli immigrati non risulta la preoccupazione più capace di portare voti sotto la bandiera dei partiti populisti. […] la sostituzione […] della paura per gli immigrati […] con altre preoccupazioni o paure rivela che almeno una di queste ultime ha effetti molto più incisivi. Questa paura è la paura del terrorismo. Se al posto della paura per l’immigrazione mettiamo quella per il terrorismo, la capacità esplicativa del modello risulta quasi raddoppiata».[10] Evidentemente, i fattori decisamente esogeni dell’immigrazione e del terrorismo non hanno a che fare immediatamente con le questioni economiche ma, in una condizione di crisi economica, non possono che amplificare l’insicurezza già preesistente. Mentre la crisi economica è qualcosa d’impalpabile, contro cui non è facile costruire una chiara strategia d’azione, l’immigrazione e il terrorismo sono invece elementi tangibili, contro i quali si presume di poter intervenire con qualche tipo di provvedimento immediato.

 

7. Ricolfi poi ha provato a controllare, con un altro modello statistico, quali siano a loro volta le determinanti della paura del terrorismo. Ebbene, dai dati è emerso che non si tratta principalmente di paure irrazionali, di effetti mediatici o propagandistici. Si tratta di reazioni connesse a effettive situazioni di rischio che caratterizzano in maniera differenziata i diversi paesi della UE. Si tratta di rischi misurabili, come il numero di attacchi terroristici subiti da ciascun paese, la frequenza di reati ad alto allarme sociale, oppure il tasso di criminalità relativo degli stranieri. Insomma, le condizioni di paura e insicurezza che – oltre alla crisi economica - conducono all’incremento dei consensi per i partiti populisti si fondano non tanto (o non soltanto) su fantasie irrazionali quanto su dati reali, almeno a livello dei grandi numeri.

Questo è un punto che la sinistra ha continuato pervicacemente a ignorare. Si è continuato a sostenere che il problema non c’è. Che si trattava di una deformazione propagandistica delle destre. In Europa invece, a quanto pare, comparativamente, c’è mediamente più paura dove oggettivamente ci sono più rischi. Gli elettori magari tendono ad amplificare, ma non sono del tutto avulsi dalla realtà. Ridurre il populismo a un fenomeno mediatico, a un fenomeno di propaganda, non potrebbe dunque essere più sbagliato. Ahimè, purtroppo il ritornello della propaganda è quello che ripete Martina, tutte le sere, quando ha lo spazio per fare la sua battuta in TV. Per il pubblico populista le paure evocate da leader come Salvini rappresentano comunque rischi reali. Rischi reali che, nel magari rozzo linguaggio salviniano, trovano comunque una loro via di espressione. A chi vede un rischio reale, a chi ha oggettivamente paura, non gli si può dire semplicemente che si sbaglia e che il rischio non c’è. Un’obiezione che si fa spesso a questi tipi di analisi è che la paura degli immigrati è più alta dove ci sono meno immigrati. Può essere senz’altro vero (ad esempio nel caso di certi paesi dell’Europa ex comunista), anche se il ragionamento andrebbe fatto non sulle cifre assolute ma sugli incrementi. Ma – vedremo tra breve – nei processi che alimentano il populismo non dobbiamo mettere in conto paure di un solo tipo per volta ma mettere in conto la condizione della paura generalizzata.

 

8. Nel libro di Ricolfi c’è un ulteriore importante elemento che è in grado di gettare un ponte tra la questione della crisi economica e la questione della insicurezza e della paura. Ricolfi ha affermato con chiarezza un punto che nessuno ammette volentieri (soprattutto in campo politico) e cioè che non possiamo più aspettarci in futuro tassi di crescita elevati come quelli del passato o come quelli delle economie in via di sviluppo.[11] Questo perché gli attuali meccanismi dello sviluppo economico sono caratterizzati da una ormai costante bassa crescita e ci stanno portando verso una società a somma zero (il termine deriva da un vecchio titolo di Thurow). Dice Ricolfi in proposito che: «Una società a somma zero è una società competitiva nella quale – come nei giochi a somma zero – a fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, poiché la posta, la torta da spartirsi, è limitata e non aumenta nel tempo. Il nostro problema è proprio questo. Stiamo diventando società senza crescita […] ma non abbiamo in alcun modo eliminato né la competizione fra individui, né la concorrenza fra economie. […] La società a somma zero è proprio questo: una società in cui le risorse da distribuire non aumentano, ma i modi di appropriazione e di distribuzione restano quelli dell’era delle risorse crescenti».[12] E questa non è solo la condizione dell’Italia, è piuttosto una condizione che colpisce tutte le “vecchie” economie occidentali, USA compresi. Ma è una condizione che colpisce particolarmente l’Italia, data la sua lentissima ripresa e i bassissimi tassi di crescita. Questo è uno dei motivi per cui in Italia il conflitto distributivo è così accentuato.

La conseguenza di questa condizione – che sta diventando strutturale - ci riporta alla diffusione della paura e dell’insicurezza a livello individuale e, quindi, alla domanda di protezione. Osserva conseguentemente Ricolfi che: «[…] la fine della crescita ci getta in un mondo strutturalmente costruito per generare perdenti, con tutto il carico di frustrazione e insicurezza che le sconfitte inevitabilmente portano con sé. Un carico che è reso socialmente esplosivo dal fatto che, in molte circostanze, gli sconfitti, gli esclusi, i lasciati indietro non sono individui singoli, che come tali potrebbero essere propensi ad accusare delle proprie disgrazie se stessi o la mala sorte, ma intere categorie e settori, gruppi professionali, porzioni di territorio tagliati fuori dal “progresso”».[13]

La condizione della somma zero genera dunque una più ampia situazione di insicurezza generalizzata che diviene per i singoli individui una sorta di condizione esistenziale. Se è vero che la bassa crescita è ormai una condizione strutturale di tutto l’Occidente, la politica dovrebbe essere in grado di affrontare il problema e proporre soluzioni congruenti – a meno che non si pensi che la soluzione sia il sovranismo di Trump. La politica – soprattutto a sinistra - pare tuttavia non essere in grado di affrontare queste questioni e continua a ragionare come se ci trovassimo ancora nell’Epoca d’oro dello sviluppo. La politica distributiva del PD – tanto per fare un esempio - è stata pesantemente condannata dagli elettori.

 

9. La domanda che ci possiamo porre a questo punto è se stiamo discutendo di singole paure circoscritte, come la paura per gli immigrati o la paura del terrorismo, paure che possano in linea di principio essere amministrate e risolte una per una, o se non ci troviamo piuttosto in una situazione di insicurezza generalizzata, dovuta a una condizione di degrado generale delle relazioni sociali e a un aumento della concorrenza o della conflittualità interna tra gli individui. La teoria della società a somma zero propende in effetti per questa ultima eventualità. L’idea in fondo è abbastanza banale: quando ci si ritrova in un ambiente concorrenziale dove si rischia di essere esclusi per sempre, quando è in gioco la sopravvivenza, scatta il meccanismo hobbesiano della guerra di tutti contro tutti. Si badi bene che questa situazione è diametralmente opposta a quella delle lotte di classe del Novecento, dove il conflitto distributivo ruotava intorno ai due soggetti che erano il capitale e il lavoro. Giovani, pensionati, disoccupati, lavoratori, periferici, emarginati, immigrati, qualunque miglioramento a favore di un gruppo toglie qualcosa agli altri. E questa è una delle ragioni per cui l’azione collettiva non offre più alcuna remunerazione effettiva. Qui, indubbiamente, comincia a prender seriamente corpo la pulsione sicuritaria di cui parla Recalcati. Possiamo cioè ritenere che la pulsione sicuritaria possa essere attivata anzitutto da un complesso variegato e diffuso di stress che pesano sempre più singolarmente sugli individui. Possa poi essere accresciuta da nuove palesi minacce esogene e possa, soltanto in ultimo, essere catalizzata da un qualche capopopolo populista. Paliamo di Salvini, ma anche Grillo non scherzava nell’epoca delle sue adunate nelle piazze.

 

10. L’istanza sicuritaria costituisce in effetti ilcarattere di fondo dell’azione dell’attuale governo a egemonia salviniana. Di carattere sicuritario sono senz’altro le molteplici parole d’ordine e i molteplici provvedimenti che hanno dato a Salvini una popolarità del 60% nei sondaggi. Il crollo del Ponte Morandi ha suscitato una forte avversione contro le minacce derivanti dal capitale finanziario privato e dalle privatizzazioni.[14] Appena qualche tempo fa, una polemica analoga aveva colpito le banche, incolpate di truffare e rovinare i loro clienti. «Devono pagare!» è stato gridato fino all’esasperazione. Lo stesso vale per gli industriali inquinatori, come nel caso dell’Ilva, dove è stata promessa la chiusura dello stabilimento al fine di salvaguardare la salute pubblica. Recentemente ha ottenuto ampio consenso il DASPO contro i corrotti, al grido di «Chi sgarra non può più fare affari con lo Stato». Non dissimile è la proposta di usare le impronte digitali contro i furbetti del cartellino. Ulteriormente, la proposta di facilitare la compra vendita delle armi e l’autorizzazione a sparare contro gli aggressori in casa propria va nella direzione di dare una risposta all’insicurezza domestica. Sempre sulla stessa linea, è assai interessante – anche se di tono minore - l’incarico conferito a una ex Iena di controllare la correttezza dei concorsi universitari. Sulla stessa linea stanno poi i provvedimenti di sgombero degli edifici occupati, intesi come garanzia del diritto di proprietà. Nello stesso quadro ancora possiamo anche mettere la proposta di istituire nuovamente il servizio di leva obbligatorio per insegnare ai giovinastri (ora percepiti anch’essi come un rischio) come si sta al mondo. Sempre di tipo protettivo è poi l’appoggio indiretto dato dal M5S ai no-vax: anche in questo caso si avanza il sospetto che le multinazionali del farmaco, per i loro loschi profitti, paghino i governi per vaccinare a sproposito, provocando magari l’autismo. Inutile poi ribadire che i provvedimenti economici di cui si sta discutendo maggiormente sono tutti, in un modo o nell’altro di carattere protettivo: la abolizione della legge Fornero, la pace fiscale, la flat-tax e il reddito di cittadinanza. Ovviamente, anche il blocco delle navi con gli immigrati ha la stessa caratterizzazione. Del resto, la parola d’ordine «Prima gli italiani» con cui viene qualificato il nostro rapporto con l’Europa esprime in pieno il tentativo di dare una risposta a una domanda di protezione.

 

11. Insomma, il governo egemonizzato da Salvini pare mobilitato in una gigantesca campagna di rigore e di ordine, di difesa popolare contro le più svariate minacce che provengono dai provvedimenti dei precedenti governi, dalle istituzioni economiche, dalla corruzione e dal malaffare, dalla criminalità comune, dal degrado educativo, oppure anche dai confini esterni, come nel caso dei migranti. Tutto ciò vede la politica e soprattutto lo Stato italiano nella nuova veste di fornitori di sicurezza. Ciò naturalmente costituisce una netta svolta rispetto agli ultimi decenni, poiché comporta la ripresa della tradizione dello stato interventista. Siamo decisamente agli antipodi dello stato minimo della tradizione liberale. Vale anche la pena di notare che lo Stato interventista ha sempre avuto una lunga tradizione presso gli elettori di sinistra, per cui il travaso di voti avvenuto alle ultime elezioni diventa ampiamente comprensibile. Insomma, l’insicurezza crescente genera una domanda di intervento da parte dello Stato e questa domanda per ora pare sia gestita completamente dalle destre.

 

12. In effetti, non si può negare che i temi sollevati da Salvini – Di Maio non abbiano a che fare con altrettante fonti di disagio e insicurezza diffuse. Le notizie che sono recapitate ogni giorno nelle nostre case dalla TV (che nonostante tutto è rimasto comunque il più diffuso mezzo di informazione) sono in gran parte ossessivi cataloghi di condizioni rischiose in cui ciascuno di noi può incorrere. Sono ricorrenti le interviste di abitanti di zone degradate che lamentano spaccio, sporcizia, rumore, vandalismi, minacce, pericolo di aggressioni. I territori dove si svolge la vita quotidiana appaiono sempre più disastrati e pericolosi. Le probabilità di fare incontri pericolosi nei più vari ambienti dove si svolge la vita sociale sono in aumento. I solleciti per gli interventi più svariati di restauro, di cura, di tutela, di repressione sono sempre più numerosi. In tutto ciò, è chiaro che i grandi rischi si mescolano tranquillamente con quelli piccoli. E poi i rischi piccoli ma ad alta probabilità finiscono per dare più fastidio dei rischi grandi ma a più piccola probabilità. Ricordo personalmente – per portare un aneddoto locale divertente - che in un’affollata assemblea pubblica in cui venivano presentati i candidati alla poltrona di sindaco e i loro programmi, l’applauso più scrosciante è stato guadagnato dalla proposta di feroci multe nei confronti dei proprietari di cani che abbandonano le cacche sui marciapiedi. C’è una logica comune tra tutte queste cose, dalla minaccia del terrorismo, agli immigrati, ai ponti che crollano, ai furti in casa, fino alle cacche dei cani? Ebbene sì, sono invero tutti disagi che si alimentano a vicenda come in un circolo vizioso e che finiscono per creare un senso di insicurezza generalizzato, il quale a sua volta è in grado di generare proprio quella pulsione securitaria di cui parlava Recalcati. La gente è arrabbiata e prevenuta. E non c’è una singola causa della rabbia. Tutto ciò in generale significa però una sola cosa: la vita quotidiana del singolo è diventata sempre più difficile. I rischi quotidiani che ci si trova a doversi accollare – grandi o piccoli – sono decisamente in aumento e non se ne può più. Non a caso, sui media, si recita sempre più spesso che «Siamo stati lasciati soli».

 

13. Gli studiosi delle norme sociali e delle istituzioni – qui devo introdurre qualche concetto teorico – affrontano le questioni di cui ci stiamo occupando attraverso le nozioni di fiducia, di capitale sociale e di free riding. Darò qui soltanto gli elementi indispensabili per condurre il mio ragionamento.

Le società, grandi o piccole, funzionano decentemente fintantoché l’ambiente (delle cose e delle persone) è prevedibile. Ci aspettiamo che i ponti non crollino, che i concorsi universitari siano svolti con obiettività, che sul marciapiede non ci siano ciclisti che ci investono 0 cacche dei cani. Quando attraversiamo sulle strisce pedonali, se solo ci venisse in mente che l’automobilista in arrivo, invece di frenare, potrebbe accelerare - perché ha litigato con sua moglie, oppure perché è ubriaco o perché si e fatto di cocaina o, ancora, perché vuole il paradiso di Allah - la nostra vita quotidiana diventerebbe subito un piccolo inferno. Lo stesso se andando per strada dovessimo mettere in conto di prenderci un uovo in faccia da una banda di giovinastri. Insomma, anche se siamo filosoficamente del tutto anarchici, ci aspettiamo un livello minimo di funzionamento del mondo sociale e delle istituzioni. Abbiamo bisogno di un ambiente relazionale e istituzionale in cui poter riporre un minimo di fiducia nel comportamento altrui. Perché oggettivamente le società umane implicano che, in certa misura, ciascuno dipende dagli altri. L’ha spiegato bene Platone e poi, ancor meglio, Aristotele.

 

14. Le società dove ci si può realisticamente fidare nella maggior parte degli incontri e delle transazioni che vi avvengono sono le società dove si vive meglio. Dicono gli studiosi che le società, dove la fiducia reciproca è diffusa e dove questa tende a crescere, sono società a elevato capitale sociale.[15] Possiamo immaginare il capitale sociale come un flusso di scambi relazionali positivi che è un grado di generare un patrimonio potenziale di risorse cui ciascuno può accedere all’occorrenza. Si badi bene che non si tratta di una questione di percezione. Dove c’è un elevato capitale sociale, un’elevata fiducia, oggettivamente i rischi che corriamo sono mediamente molto bassi, perché le cose di solito funzionano, perché possiamo stare tranquilli che eventuali imprevisti saranno prontamente affrontati e risolti. Un elevato capitale sociale rappresenta una specie di prevenzione nei confronti dei rischi. Il capitale sociale è una qualità impalpabile delle relazioni sociali di cui non ci accorgiamo quando tutto funziona per il meglio, ma di cui avvertiamo immediatamente la mancanza quando qualcosa va storto. E se ci si accorge che le cose vanno storte con sempre maggior frequenza, allora il tutto si traduce in una condizione di insicurezza e paura. In tutto ciò dovrebbe esser chiaro che gli aspetti economici sono importanti ma non esauriscono la questione. Anzi, se ci concentriamo solo sulle questioni economiche finiamo per ignorare del tutto la parte che ha il capitale sociale nella regolazione della nostra vita e nel buon funzionamento della società.

 

15. In tutte le società ci sono tuttavia dei violatori, sistematici od occasionali, di questo ordine impalpabile che governa le relazioni sociali. Questi sono conosciuti come free rider.[16] Sono i battitori liberi, gli scrocconi, i profittatori, i devianti. Sono quelli che si comportano come se fossero loro il centro del mondo. Quelli che sfruttano sistematicamente gli altri e l’ambiente sociale, per i loro scopi particolari. Quelli che accaparrano per sé i beni che dovrebbero essere invece distribuiti a tutti. O quelli che li distruggono. A volte sono soltanto dei furbetti, dei prepotenti, dei “mariuoli”, come diceva Craxi, altre volte sono dei veri e propri criminali efferati. Quelli che con il fare o con l’omettere di fare procurano un danno al prossimo e – cosa più importante – ai beni comuni cui tutti dovrebbero avere accesso. Può trattarsi di individui singoli, anche se più spesso tendono a formare dei gruppi organizzati, dal “branco” occasionale fino al crimine organizzato, fino alla mafia. Come si vede il concetto del free rider copre uno spettro piuttosto ampio.

L’attività instancabile dei free rider – si tratti, fatte le debite proporzioni, di cacche di cani, del crollo dei ponti o del fallimento di banche, o del traffico di esseri umani – distrugge la fiducia collettiva, distrugge il capitale sociale e genera alla fin fine una sorta di insicurezza generalizzata. Sotto la minaccia del free rider, qualunque incontro o transazione – anche la più semplice - diventa allora problematica, carica d’incertezza, poiché non si sa mai come potrebbe andare a finire. Nulla è più come sembra, il rischio è sempre in agguato. La fiducia fisiologica, essenziale per il buon funzionamento della società, così si riduce fino a pregiudicare la serenità della vita quotidiana della maggioranza delle persone, fino a creare uno stato di ansia permanente. Ecco che allora – come diceva Lucio Dalla in una famosa canzone – senza alcuna avvisaglia, senza alcuna decisione comune, si cominciano a mettere «i sacchi di sabbia vicino alla finestra».[17] L’imperativo diventa quello di stare sempre in guardia, di aspettarsi minacce grandi o piccole da ogni dove.

 

16. In condizioni di normale funzionamento del mondo sociale i free-rider possono essere facilmente individuati, scoraggiati, oppure bloccati e neutralizzati. Magari anche puniti severamente. Quando però i sistemi normativi e sanzionatori non funzionano adeguatamente – e questo è il caso tipico proprio del nostro Bel Paese - i free rider sono destinati a restare impuniti. In questo modo il loro comportamento è indirettamente incentivato e premiato, mentre d’altro canto le loro vittime cominciano a essere considerate come degli ingenui imbecilli che «si sono fatti fregare». Così accade inevitabilmente che il numero di coloro che sono tentati – nelle più varie occasioni – di agire come free rider tende ad aumentare. Poiché le occasioni della vita sono tante, chiunque può essere esposto alla tentazione di approfittarne, soprattutto se ha buone probabilità di ottenere tutti i vantaggi del caso e di farla franca. «Fatti furbo/a!» è diventato uno dei motivi correnti dell’insegnamento genitoriale.

In una situazione in cui i free rider sono in rapida crescita, il risultato è che tutti, prima o poi, vengono fregati (o comunque possono diventare testimoni diretti o indiretti del fatto che qualcuno è stato fregato – e che i responsabili l’hanno fatta franca). C’è quello che pesta la cacca del cane, quello che muore di cancro per l’inquinamento, quello che passa sul ponte nel momento sbagliato, quello che viene investito sulle strisce pedonali, quello che si prende un uovo in faccia, quello che al concorso universitario viene sorpassato da un emerito imbecille, quello che vien truffato dalla sua compagnia telefonica.

Si badi bene che non stiamo qui facendo un discorso morale. I free rider non sono in sé ne buoni ne cattivi. Non sono dei mostri contrapposti a un’umanità di pecorelle. Sono semplicemente degli individui che hanno calcolato che, in quel momento, in quel contesto, un certo comportamento potrebbe essere conveniente e probabilmente non sarà mai individuato e punito. E se qualcuno sarà danneggiato, tanto peggio per lui. Tutti siamo potenzialmente esposti a sceglier di comportarci da free rider. Anzi, siamo continuamente incentivati a farlo. Del resto nella società a somma zero non ci sono risorse sufficienti per tutti e non resta che avanzare a spallate. In una situazione di generale deregulation, accade per giunta che ciascuno si trovi a rivestire alternativamente innumerevoli volte il ruolo della vittima e quello del persecutore. Non c’è bisogno di raffinate rilevazioni statistiche per riconoscere che negli ultimi decenni nel nostro Paese c’è stato un aumento esponenziale dei free rider e che la qual cosa ha contribuito complessivamente alla costruzione di un ambiente sociale minaccioso, insicuro e pericoloso.

 

17. I concetti di fiducia, capitale sociale e free rider ci possono servire per capire come, ai giorni nostri, si sia giunti alla crescita imponente della istanza sicuritaria. Mi riferisco qui al fatto che a un certo punto – riferiamoci per semplicità al caso italiano – i leader politici hanno capito che, ai fini dell’ottenimento del consenso, funzionava molto di più presentarsi come free rider trasgressivi che come difensori delle norme e delle istituzioni. Questo perché era venuta a determinarsi una vera e propria aspirazione di massa alla trasgressione. Recalcati parlerebbe forse di una pulsione libertaria o magari edonistica. È stata questa una rivoluzione nel campo dell’etica pubblica che da noi è cominciata nei primi anni novanta – appena dopo la caduta del comunismo. Insulti, parolacce, attacchi alle istituzioni, violazioni palesi delle regole giustificate come atti politici, e così via. La nuova politica degli anni novanta portata avanti dalle allora nuove forze politiche (Lega Nord e Forza Italia) ha avuto il significato dello sdoganamento dei free rider. Il primo Berlusconi mandava implicitamente il messaggio di una totale deregulation contribuendo così a formare un’intera generazione di free rider, che, da allora, non ha più cessato di esprimersi e di moltiplicarsi. Del resto Berlusconi, nonostante le condanne, non ha mai cessato di avere un seguito elettorale e nessuno del suo stretto entourage ha mai provato la più piccola vergogna. Ancora oggi viene considerato un perseguitato. Bossi – l’atro politico innovatore - dal canto suo invitava a buttare nel cesso la bandiera nazionale ma poi utilizzava i fondi pubblici versati al suo partito a favore di “The family”.

Dopo tangentopoli, che aveva segnato la fine della Repubblica dei partiti,[18] sarebbe stata l’ora di realizzare finalmente in Italia una Repubblica dei cittadini fondata sulla responsabilità e sul senso civico e che avesse come obiettivo primario la conservazione e la crescita del capitale sociale. Abbiamo avuto invece la Repubblica dei free rider. Nel caso italiano, i free rider hanno trovato qualche resistenza un po’ nelle grandi città – dato il livello culturale mediamente più elevato – e soprattutto nelle regioni rosse, dove più radicati erano il capitale sociale e la tradizione civica.[19] Tuttavia nel giro di due o tre decenni – basta guardare la sequenza dei i risultati elettorali – anche queste aree sono state espugnate e sono diventate più o meno uguali al resto del Paese. È stato questo senz’altro uno dei casi in cui la moneta cattiva ha scacciato quella buona.

 

18. Tuttavia – come si già accennava - negli ultimi tempi è subentrata una novità davvero significativa, cui forse non è stata riservata la dovuta attenzione. Nell’ultimo decennio – periodo che poi coincide con la crisi economica – c’è stata una sorta di presa di coscienza a livello di massa del fatto che il free rider può essere molto fastidioso e pericoloso. Quando ci sono tanti free rider in circolazione si può anche fare, per un po’, una bella festa della trasgressione, ma poi gli effetti si cominciano a sentire. Accanto alla Repubblica dei free rider ha così cominciato a crescere la Repubblica dei fregati. Quando i free rider sono tanti, è matematico che sono per forza di più le fregature che ricevi rispetto a quelle che riesci a rifilare agli altri e, dopo un po’, ti accorgi che non è un bel vivere. Così, inaspettatamente, i due partiti di Bossi e Berlusconi che avevano accompagnato l’ascesa dei free rider e che hanno tenuto banco per un bel po’ hanno cominciato a segnare il passo. Nel passaggio dalla vecchia alla nuova Lega e con la crescita impetuosa del M5S la pulsione libertaria (per dirla con Recalcati) che quei partiti avevano suscitato e cavalcato ha lasciato sempre più lo spazio alla pulsione sicuritaria, cioè al mercato della protezione.

La nuova Lega di Salvini e il M5S rappresentano in pieno questa nuova tendenza, il passaggio cioè dalla licenza alla protezione. Salvini, da questo punto di vista, è davvero esemplare, perché si comporta da free-rider buono nel momento stesso in cui si erge a giustiziere nei confronti dei free-rider cattivi. Del resto, chi non conosce quel motivo tipico del cinema americano dove l’eroe, per salvare il mondo, deve agire violando le regole e lasciando di stucco i sostenitori delle regole? La differenza tra il primo Berlusconi e l’attuale Salvini sta tutta qui. Berlusconi predicava la licenza più totale mentre ora Salvini promette di riportare l’ordine. Prima lo sdoganamento dei free rider e il conseguente invito implicito a comportarsi tutti come free rider. Poi l’arrivo del castigamatti.

 

19. Non ho usato a caso il termine mercato della protezione. Nei meccanismi che vedono l’alternanza di licenza e protezione, che abbiamo appena illustrato, c’è un’analogia notevole con il comportamento della mafia. Beninteso – è il caso di sottolinearlo - si tratta solo di una analogia, ma è comunque una analogia interessante, al fine di comprendere fino in fondo quel che sta succedendo, in Occidente e in Italia, rispetto al capitolo della sicurezza. Secondo Diego Gambetta,[20] uno degli studiosi più acuti del fenomeno mafioso, la mafia siciliana deve essere considerata come un’industria fornitrice di servizi di protezione in determinati mercati dove, per vari motivi, non esistono o sono venute meno le istituzioni di regolazione della fiducia. Senza istituzioni di regolazione della fiducia, infatti, ogni transazione diventa oltremodo rischiosa, tanto da spingere le parti in causa a rivolgersi a un intermediario che sia in grado di fornire le dovute assicurazioni. La mafia in altri termini vende sicurezza, cioè protezione privata: «…la mafia è un caso particolare di una specifica attività economica: è un’industria che produce, promuove e vende protezione privata».[21] Gambetta ha mostrato esaurientemente come la mafia fondamentalmente funzioni gestendo in proprio il ciclo della sfiducia/ protezione, creando preventivamente una condizione di sfiducia, di precarietà, di rischio, inducendo così una domanda di protezione che poi prontamente essa stessa s’incarica di soddisfare, prendendo così il posto delle istituzioni e imponendo ovviamente un prezzo per i propri servizi. La sicurezza nell’ottica mafiosa è un bene che si paga.

La mafia dunque distribuisce, con la sua attività, un capitale sociale surrettizio al posto di un capitale sociale autentico. Spiega in proposito Cartocci: «Se il capitale sociale è costituito dalla condivisione spontanea di norme informali, che incorporano una specifica costellazione di valori, è anche vero che tali valori possono essere dis-valori. Ciò avviene quando le solidarietà che vengono sostenute sono difensive, fino a diventare omertose, e scattano quando la comunità nel suo insieme si considera minacciata dall’esterno. In questo caso gli esiti intolleranti ed escludenti (bonding) del capitale sociale prevalgono su quelli includenti (bridging), che allargano i confini dell’identità collettiva».[22]

Nelle società dove il capitale sociale autentico è stato consumato e non più ricostituito, dove l’insicurezza e la paura regnano sovrane, i fornitori di protezione non possono che fornire dei sostituti a buon mercato della sicurezza, i quali tuttavia difficilmente saranno rifiutati, quando ci si senta davvero in pericolo. Un esempio tipico di protezione di questo genere è la soluzione indicata da Trump per risolvere il problema della violenza dilagante nelle scuole americane. E cioè, munire tutti gli insegnanti di armi d’ordinanza. La lobby delle armi, vendendo armi a chiunque crea il problema. Il quale problema vien risolto munendo ogni insegnante di un’arma. Lascio al lettore il compito di utilizzare questo modello per interpretare più analiticamente l’attuale offerta di sicurezza presente nelle dichiarazioni e nei provvedimenti del governo Salvini-Di Maio.

 

20. A questo punto – allargando un po’ lo sguardo oltre le miserie nostre caserecce - mi resta ancora da citare – visto che ho preso le mosse da Recalcati – un ormai vecchio libro degli anni ottanta di Christopher Lasch il cui titolo è L’io minimo.[23] Lasch aveva già allora colto alcuni aspetti essenziali delle trasformazioni di cui ci stiamo occupando. Così Lasch stesso ha sintetizzato la sua tesi, nelle prime battute della sua introduzione al libro stesso: «In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza. Gli uomini vivono alla giornata; raramente guardano al passato, perché temono d’essere sopraffatti da una debilitante “nostalgia”, e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste condizioni l’identità personale è un lusso, e in un’epoca su cui incombe l’austerità, un lusso disdicevole. L’identità implica una storia personale, amici, una famiglia, il senso d’appartenenza a un luogo. In stato d’assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. L’equilibrio emotivo richiede un io minimo, non l’io sovrano di ieri».[24]

L’idea di Lasch è che, nella condizione dell’insicurezza e della paura, gli individui cambiano intimamente e ciascuno si trova a dover ricondizionare il proprio self e quindi a regredire a una sorta di struttura primitiva e barbarica. Mors tua, vita mea. Il self in condizioni simili non può essere troppo articolato e differenziato, poiché sarebbe troppo esposto alle aggressioni del mondo esterno, troppo meditabondo e dubbioso per agire con decisione, incapace di essere aggressivo e/o di essere indifferente ai destini altrui, quando ciò sia reputato necessario. Non può neanche essere troppo coerente poiché – ci viene ricordato spesso – in un mondo di continui cambiamenti chi è coerente è un imbecille destinato a una sicura sconfitta. Questo miminal self di cui parlava Lasch è esattamente il self adatto per quei tipi umani che alternativamente, nella loro vita quotidiana, si trovano a rivestire, nel gioco del free rider, la parte sia delle vittime sia dei persecutori. Questo è il minimal self che è in grado di rispondere alle parole d’ordine di Salvini e del M5S nei termini della pulsione sicuritaria. Dovrebbe risultare abbastanza chiaro il fatto che a un tipo di self del genere non si può chiedere di votare per costruire l’Europa, di stare nell’euro, di fare dei sacrifici per pagare il debito pubblico, di cedere poteri a un governo sovranazionale, di accogliere gli immigrati, di avere fiducia nella scienza, di coltivare l’etica pubblica, di esporsi in prima persona per denunciare il malaffare. Non gli si può neanche chiedere di seguire gli insegnamenti di papa Francesco. Costoro sono molto più propensi a ringraziare chi mette loro in mano una rivoltella.

 

21. Abbiamo così dato uno sguardo alle dinamiche sicuritarie del nostro tempo, mettendo a fuoco alcuni elementi di teoria ed esaminando in dettaglio – a mo’ di esempio - soprattutto la situazione italiana. È chiaro che un modello analogo può essere utilizzato anche per comprendere le dinamiche sicuritarie per lo meno in quello che chiamiamo Occidente. Giacché è proprio in Occidente che le forze populiste stanno avanzando.

Le pulsioni sicuritarie, pur costituendo come dice Recalcati degli universali della natura umana, non possono comunque che essere legate a precise condizioni storico sociali. Se è così, allora dobbiamo cercare la loro origine nelle recenti vicende storico sociali dell’Occidente. Per spiegare il successo di un Salvini fornitore di protezione siamo risaliti all’inizio degli anni Novanta, quando invece di una Repubblica dei cittadini abbiamo avuto una Repubblica dei free rider. Ebbene se allarghiamo lo sguardo oltre i confini del nostro Paese, in quello stesso periodo abbiamo assistito a un processo del tutto analogo a livello globale. Proprio in quel periodo c’è stato un evento di portata globale costituito dalla caduta del comunismo e dalla fine della Guerra fredda. Si è trattato indubbiamente una svolta epocale, di un fenomeno transnazionale, tanto che Fukuyama fu indotto a utilizzare in quella occasione la metafora della «fine della storia».[25] Secondo Fukuyama – il suo libro è del 1992 – con la caduta del comunismo il mondo globale si apprestava a entrare in una nuova fase della storia nella quale si sarebbero affermati definitivamente l’economia di mercato e il sistema politico liberal democratico. Fukuyama aveva senz’altro ragione. Ebbene, anche in quel caso tuttavia le attese non furono mantenute. Ci si poteva attendere la costruzione di un nuovo ordine mondiale fondato sul libero scambio, sulla crescita economica, sulla democratizzazione e sullo sviluppo del capitale sociale. Invece – come abbiamo già visto nel caso italiano - abbiamo avuto soltanto la diffusione dei free rider a livello globale. E ora, a quanto pare, dopo il trionfo del disordine globale, stiamo assistendo alle chiusure protettive e alla chiamata al ritorno all’ordine.

 

22. Per comprendere sommariamente quanto è accaduto – ormai sono passati trent’anni e un qualche bilancio seppur sommario lo possiamo pur tentare - possiamo seguire brevemente i tre protagonisti che ci hanno accompagnato in questa nostra analisi e cioè la globalizzazione economica, lo Stato e le istituzioni e il capitale sociale.

22.1. Per quel che riguarda la globalizzazione economica, meccanismo assai poco governato e governabile, negli ultimi tre decenni abbiamo avuto una diffusione dello sviluppo assai più disomogenea di quanto non ci si potesse attendere. Abbiamo già avuto modo di vedere che l’Occidente – contrariamente alle attese - ha segnato un rallentamento progressivo, con tassi di crescita decrescenti, fino alla drammatica società a somma zero di cui parlava Ricolfi. D’altro canto, si sono avuti ritmi di sviluppo vertiginosi in alcune economie non occidentali, ritmi che hanno avuto conseguenze non indifferenti rispetto alle economie del vecchio mondo. Una parte consistente del mondo – costituita dal Sud America, dall’Africa e parte dell’Asia e comprendente in gran parte il mondo islamico – è invece rimasta ai margini dello sviluppo globale, implodendo in conflitti interni catastrofici o in situazioni di sotto sviluppo endemico, condizioni che a loro volta hanno creato una forte pressione migratoria verso il Nord del mondo, particolarmente verso il Nord America e l’Europa. Solo in questo contesto possiamo collocare la revanche della jihād contro l’Occidente che ci ha regalato il terrorismo islamista.

22.2. Lo Stato in Occidente aveva sempre avuto un ruolo preponderante, tanto che nel Novecento gli Stati nazionali hanno scatenato ben due guerre mondiali (cui va aggiunta la stessa Guerra fredda). È opinione comune che, a partire dalla fine della Guerra fredda, gli Stati nazionali in Occidente abbiano visto ridursi sempre più il loro ruolo a favore dei meccanismi economici e finanziari sovranazionali. Il disarmo post Guerra fredda, l’ideologia neoliberista, lo spirito della deregulation, il rallentamento della crescita, complice anche una certa inefficienza dei vecchi Stati, hanno condotto alle privatizzazioni, al dimagrimento dei sistemi di welfare, in taluni casi alla cessione di sovranità, entro certe materie, a organismi sovranazionali. Insomma, gli Stati sono stati dati per spacciati. Contro gli Stati militavano sia la ideologia liberista – ringalluzzita dalla vittoria sul comunismo – sia la ideologia dei partiti delle sinistre, data la loro eredità anti statalista e anti istituzionale. Insomma, la politica ha visto progressivamente ridursi il campo istituzionale nazionale – senza che questo sia stato sostituito da analoghe istituzioni internazionali. Ciò ha creato un catastrofico indebolimento della politica proprio nel momento in cui si trattava invece di governare i processi mondiali della globalizzazione economica e di affrontare la questione dei ritardi nello sviluppo di vaste aree del mondo. Solo ora cominciamo a capire come il disastro degli Stati e delle istituzioni nazionali, non certo avvenuto per caso, si trovi alla radice dei più gravi problemi del tempo presente. La formazione della UE e della relativa moneta unica – unico tentativo che avrebbe potuto andare controcorrente - ha risentito gravemente proprio dell’indebolimento della politica, fino alla sua attuale paralisi e – presumibilmente – futura involuzione.

22.3. Il terzo protagonista della nostra mini storia, il capitale sociale, è stato quello decisamente più silenzioso e inavvertito. Quello che è stato lasciato a se stesso e che ora soltanto sta facendo sentire la sua voce. La voce prepotente della sua assenza. Il capitale sociale dipende dal contesto istituzionale in cui si trova ad agire e nei contesti istituzionali deboli non può fare miracoli. L’Occidente nella sua storia ha, pur con varie vicende, accumulato sui suoi territori, nell’ambito degli Stati nazionali, un capitale sociale come mai si era visto nella storia. In parte questo capitale sociale è stato ripetutamente costruito e dilapidato nelle tre guerre del Novecento e nelle contemporanee lotte di classe. Ebbene, è facile comprendere come la bassa crescita economica, la progressiva perdita d’importanza degli Stati e delle istituzioni nazionali e l’avvento dei free rider, legati alla nuova economia e alla nuova politica globali, abbiano portato alla erosione progressiva del capitale sociale storico e alla sua mancata ricostituzione. Per un po’ si è vissuti di rendita sulle glorie del passato. Ora non c’è rimasto più nulla. Qualcuno crede che attraverso la rete, nel mondo dei social, sia possibile una ricostituzione del capitale sociale, una ricostituzione della fiducia e della partecipazione. Magari la costituzione di una nuova opinione pubblica. L’esperienza purtroppo dimostra che non è così. Pare anzi che le interazioni in rete contribuiscano piuttosto a distruggere che a creare capitale sociale, come testimonia ampiamente il fenomeno della postverità.[26] O, al più, la rete si mostra in grado di costruire capitale sociale di tipo particolaristico (bonding).

22.4. Naturalmente le vicende del capitale sociale hanno una forte caratterizzazione di tipo locale e diventa difficile generalizzare. Occorrerebbero studi specifici nei vari Paesi e anche in sub aree. Ma ne sappiamo abbastanza per avere una idea di come siano andate le cose.

Per quel che riguarda la storia recente del nostro Paese, le formazioni che hanno originato capitale sociale sono quelle che hanno dato origine alla Repubblica dei partiti: quella della cultura cattolica e quella della cultura socialista e comunista. Sono state mirabilmente descritte nel famoso omonimo libro di Scoppola.[27] È sempre stata deficitaria in Italia la cultura della grande borghesia, la cultura del civismo democratico repubblicano. Certo, in quest’area abbiamo avuto in passato una produzione culturale di primordine, che tuttavia è rimasta minoritaria. Per un certo periodo di tempo questa cultura, pur minoritaria, è stata rispettata e ha promosso lo sviluppo della classe dirigente e degli intellettuali, soprattutto nelle istituzioni e negli ambienti urbani. A partire da un certo punto – come abbiamo già descritto - anche questa cultura e il suo relativo capitale sociale sono stati travolti, lasciando spazio ai free rider della nuova politica, ai furbetti del quartierino e al “mondo di sopra”.

Per quel che riguarda l’Europa, occorrerebbe inseguire le varie storie nazionali – cosa che qui non possiamo fare per limiti di spazio. Possiamo però tenere in conto almeno una delle grandi trasformazioni recenti che ha coinvolto molti Paesi europei e cioè proprio la fine del comunismo. In Europa l’amputazione del self che abbiamo descritto nei termini di Lasch (e la relativa diffusione di una pulsione di protezione – sempre per stare al gioco di Recalcati) si ritrova abbondantemente nei Paesi ex comunisti. Già derelitti per gli effetti del comunismo reale, che aveva distrutto qualsiasi forma di capitale sociale che la storia avesse prodotto in precedenza, costoro, quando si sono convertiti improvvisamente alle istituzioni liberaldemocratiche e all’economia di mercato, non hanno saputo fare altro che riprodurre un mondo hobbesiano di competizione selvaggia, dove chi vuol sopravvivere deve rassegnarsi ad adottare un minimal self. Solo così si spiegano i fili spinati di Orbán o certe posizioni del cosiddetto gruppo di Visegrád (Per esteso, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia – sono i Paesi che guadagnano di più dalla loro appartenenza all’Europa e che nello stesso tempo sono i meno disposti ad assumere gli oneri richiesti agli Stati membri. Ricorda qualcosa?).

 

23. Oggi possiamo dunque scorgere con chiarezza che le società liberal capitaliste occidentali non hanno saputo usare proficuamente la vittoria sul comunismo nella Guerra fredda, anzi pare proprio che l’abbiano sperperata e vanificata, visto che ora il rischio concreto è quello di consegnare l’Occidente al populismo. Quella vittoria avrebbe dovuto preludere alla formazione di un ordine economico e politico globale che avrebbe dovuto rapportare correttamente lo Stato e il mercato, produrre la crescita del capitale sociale, anche dove questo era meno presente e sviluppato, e lo sviluppo dei diritti umani. Poiché la componente sociale totalitaria era stata ormai estirpata, si trattava di valorizzare la componente sociale di tipo liberale, democratico e comunitario. Purtroppo la visione complessiva è mancata o la capacità di perseguirla è venuta meno. Si è ritenuto, davvero troppo ingenuamente, che l’introduzione su scala allargata della concorrenza economica, del libero mercato, esaurisse tutti i compiti di direzione politica e che tutto il resto sarebbe venuto da solo. Abbiamo così avuto l’epoca d’oro dei free rider. La logica della concorrenza – indispensabile nel campo economico – è stata trasferita ipso facto alla società intera, dando luogo a tutti quei processi non governati che, a lungo andare, hanno finito per diffondere una dose colossale di paura e di insicurezza. L’immigrazione e il terrorismo, visti in questa prospettiva, sono stati solo la cartina di tornasole di un disagio profondo e preesistente. Nei tre decenni trascorsi è venuto a determinarsi un mondo forse ancor peggiore del precedente, dove non ci sono più soltanto due nemici contrapposti, due modelli di società, come ai tempi della Guerra fredda, ma dove tutti sono diventati nemici di tutti, finendo poi per evocare sulla scena il grande Leviatano. Nel deficit del capitale sociale, il libero mercato ci ha regalato il populismo.

 

24. Così, a trent’anni dalla vittoria sul comunismo reale (il quale, beninteso, non è certo da rimpiangere), il risultato cui assistiamo oggi con un certo sconcerto è quello di un Occidente dove la politica è sempre più ridotta alla domanda di protezione, in termini sempre più marcati di chiusura e di localismo. Dove il capitale sociale di tipo bonding ha sistematicamente la meglio su quello di tipo bridging. Dove la politica, analogamente alla mafia, crea i problemi e poi li risolve offrendo protezione e, ovviamente, chiedendo qualcosa in cambio. La nuova Europa che uscirà l’anno prossimo dalle elezioni – elezioni che le forze europeiste e di sinistra perderanno senza alcun dubbio – sarà l’Europa della protezione e dell’ordine, ma anche l’Europa immobile dei particolarismi e dei fili spinati. Quel po’ che riusciremo a tenere insieme dell’Europa sarà solo quel che sarà tenuto insieme dal cemento della paura e non certo dall’impulso verso lo sviluppo e dall’apertura verso il mondo. L’Europa della paura ha così davanti a sé davvero delle sorti magnifiche e progressive. Potremo allora sempre consolarci con il nostro Lucio Dalla: «Si esce poco la sera compreso quando è festa/ e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra». In fondo, lo sapevamo da un bel po’.


Giuseppe Rinaldi

19/09/2018

 

OPERE CITATE

 

2002 Cartocci, Roberto

Diventare grandi in tempi di cinismo. Identità nazionale, memoria collettiva e fiducia nelle istituzioni tra i giovani italiani, Il Mulino, Bologna.

 

2007 Cartocci, Roberto

Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna.

 

1992 Gambetta, Diego

La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino.

 

1992 Fukuyama, Francis

The End of History and the Last Man, The Free Press, Glencoe. Tr. it.: La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1996.

 

1984 Lasch, Christopher

The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.

 

1993 Putnam, Robert D.

Making Democracy Work. Civic Tradition in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993.

 

2014 Ricolfi, Luca

L’enigma della crescita. Alla scoperta dell’equazione che governa il nostro futuro, Mondadori, Milano.

 

2017 Ricolfi, Luca

Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

 

1991 Scoppola, Pietro

La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Il Mulino, Bologna.

 


NOTE

 

[1] Cfr. Massimo Recalcati, “Nella mente di Salvini”, La Repubblica del 5/09/2018.

[2] Recalcati usa un linguaggio lacaniano, nel cui ambito è consuetudine distinguere tra pulsione e desiderio. Mentre la pulsione è distruttiva in quanto soggioga l’individuo, il desiderio è costruttivo poiché è il grado di strutturare l’azione consapevole della soggettività.  Non entro qui ulteriormente nel merito di queste distinzioni che vanno oltre la centratura di questo articolo. Accudimento e attaccamento sono altri concetti assai prossimi.

[3] Cfr. Massimo Recalcati, cit. .

[4] Cfr. Massimo Recalcati, cit. .

[5] Cfr. Massimo Recalcati, cit. .

[6] Sondaggio Demos per La Repubblica del 15/9/2018.

[7] Ciò significa che essere o no cattolici non influenza minimamente l’atteggiamento nei confronti del “prossimo” quando questo prende l’aspetto di un migrante. Sondaggio IPSOS per il Corriere della Sera del 15/9/2018.

[8] Cfr. Ricolfi 2017.

[9] Cfr. Ricolfi  2017: 143-144.

[10] Cfr. Ricolfi 2017: 145-146.

[11] Cfr. Ricolfi 2014.

[12] Cfr. Ricolfi 2017: 160.

[13] Cfr. Ricolfi 2017: 162.

[14] Sarebbe sbagliato non notare un deciso cambiamento di segno rispetto al favore che ancora qualche decennio fa incontravano le privatizzazioni.

[15] Non entro qui nella definizione di questo concetto che è piuttosto complesso. Chi desideri una introduzione può consultare Cartocci 2007.

[16] Il loro nome deriva da chi viaggia a sbafo sui mezzi pubblici senza pagare il biglietto. Può essere esteso anche ai clandestini. Ricordo, solo come battuta, che una volta viaggiare a sbafo era considerato un atteggiamento di sinistra. C’è un’ampia letteratura sui free-rider in campo economico e in campo sociologico. Poiché non posso addentrarmi, preciso che userò questo concetto in modo descrittivo, generico e intuitivo.

[17] Da L’anno che verrà di Lucio Dalla. La canzone è del 1978. Ne riporto le prime due strofe: «Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'/ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò./ Da quando sei partito c'è una grossa novità,/ l'anno vecchio è finito ormai/ ma qualcosa ancora qui non va./ Si esce poco la sera compreso quando è festa/ e c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,/e si sta senza parlare per intere settimane,/ e a quelli che hanno niente da dire/ del tempo ne rimane». Lucio Dalla si riferiva al clima sociale successivo alla fine dei movimenti del sessantotto, il clima della sconfitta dell’impegno pubblico e della successiva chiusura nel privato.

[18]  Cfr. Scoppola 1991.

[19] Cfr. Putnam 1993.

[20] Cfr. Gambetta 1992.

[21] Cfr. Gambetta 1992: vii.

[22] Cfr. Cartocci 2002: 61.

[23] Cfr. Lasch 1984.

[24] Cfr. Lasch 1984: 7.

[25] Cfr. Fukuyama 1992.

[26] Segnalo in proposito il mio saggio Il fenomeno vago della postverità pubblicato sul mio blog Finestrerotte.

[27] Cfr. Scoppola 1991.