1.
Da qualche tempo[1] le fake-news
sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il
mondo della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social
media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico
sembra abbia compreso che le fake
sono una cosa seria, che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta a
quanto pare diffondendo la consapevolezza che in una società minimamente civile
non possiamo fare a meno della
verità. Una modica quantità di
verità sembra sempre più costituire un bene primario. Non resta che sperare
che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il
caso delle fake-news è solo uno
degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante -
di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione
della menzogna, e di una serie di suoi nuovi
derivati, nelle interazioni sociali e nello spazio pubblico della
comunicazione. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato
intorno agli anni novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente
fino ai nostri giorni.
2. In campo culturale, e particolarmente in campo
filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è
vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il
nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei
confronti di certi prodotti subculturali strettamente legati alla diffusione
presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e
Bricmont pubblicarono un loro famoso libro contro le imposture
intellettuali[3] (fashionable
nonsense) in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di
alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva,
Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva
un resoconto dettagliato della cosiddetta burla
di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno
nordamericano.
Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica,
rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla,
attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di
tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale
americana alla moda, Social Text,
una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi
anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire
le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è
pieno di assurdità e di palesi non
sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo
aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno,
le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e
in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’
fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione
sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi,
arriva alla conclusione che “il π di
Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono
ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’articolo è dello stesso tono. Ciò
nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social
Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando
un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996.
3. L’allarme circa la diffusione di contenuti
menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel
2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato
Bullshit, ovverossia, tradotto in
italiano, Stronzate.[5] Così
esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità
di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio
contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo
una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così
tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo
una teoria».[6] Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel
1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu
pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al
problema era piuttosto alto. Con il suo intervento Frankfurt intendeva
richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco
seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre
più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra
espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante
e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in
oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.
Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione
sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit
sarebbe all’incirca un prodotto
linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata,
insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit
sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza
di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo,
Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, segnalando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti
avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la
sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e
incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade,
invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica
immaginazione.
4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a
emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un
atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido
di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth
Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo
studio di Keyes ha segnato, a quanto pare, la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un
libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito - della sempre
maggior diffusione della menzogna
nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la
situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente
contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla
pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna
erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un
comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione
sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di
segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la
comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth
era) sarebbe dunque – secondo l’Autore - una nuova epoca in cui le relazioni
interpersonali sarebbero sempre più caratterizzate dallo sdoganamento
della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà.
Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo
libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una
casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre
maggior indifferenza nei confronti della
verità in tutti i settori della società contemporanea.
5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più
diffusione, segno della sua capacità di individuare e contraddistinguere un
nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford
English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth
come parola dell’anno del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario
possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta
consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a,
una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei
fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries:
«Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella
configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle
emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo
a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una
argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata
sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di
antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento
oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di
realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.
Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi
che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […]
indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a
una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza.
Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico
sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della
effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da
“post-verità”, i fatti oggettivi - chiaramente accertati - sono meno influenti
nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni
personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente anche se, a nostro
giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora
più che mai evidente: la postverità non concerne solo le
discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni
tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi,
indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.
6. Il prefisso post davanti a truth
ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo
anglosassone come un aggettivo. La
traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo,
rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una
traduzione con il costrutto oltre –
vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che
porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo
produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare
ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo
uso efficace.
Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare
una sorta di oltre passamento della
istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali,
fino al punto dal determinarne la sua totale perdita
di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero,
la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua,
una questione che non ci riguarda
più. Il termine oltre-vero non
si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono
già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit)
ma a una particolare modalità di
considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il
vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento
pratico, soprattutto da parte del grande pubblico o come una disposizione
teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion
leader e simili.
7. La sensazione è che con l’oltre-vero
non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11]
bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo
Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti - le stronzate
(bullshit) non
sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che
chi la proferisce abbia la nozione di
quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare
la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che
una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre
stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da
Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in
ciò sta la sua principale inadeguatezza
nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua
estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei
conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una
conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena
maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci
sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il
caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi
disonesti. Nella post truth era
nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio
per questo i mentitori – anche quelli classici - sono sempre più frequentemente
assimilati a simpatici
intrattenitori, cioè a bullshit
artist.[13]
8.
L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non
influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture
intellettuali e al bullshit,
sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news,
di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news
è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il
termine inglese fake-news (in
italiano notizie false) indica
notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese
pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale
attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake
news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate
giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei
media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata
proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».
Se le fake sembra abbiano avuto la loro
lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro
che il passaggio delle fake-news
dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando
le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake
e il bullshit, fino a una sorta di
vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit.
Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne
classiche – sembrano sempre meno
sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal
basso valore veritativo che siano però dotati di forte attrattiva per il
pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale,
delle dicerie, dei rumor che spesso
costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si
tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro
visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein
2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti
analoghi e sulla psicosociologia delle
credenze si può consultare Bronner 2003.
9. Infine,
la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che
coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica.
Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth
politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà.
Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se
vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica
oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità
come sostantivo e postruista come
aggettivo, potrebbe andar bene politica
postruista.
Citiamo da
Wikipedia anglofona: «La post-truth
politics (denominata anche post-factual politics e post-reality
politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente
caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli
effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole
d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth
politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione
della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di
secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un
problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita
politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei
suoi relativi cambiamenti sociali».
La politica
postruista (o oltre-vera) è
dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente
alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti,
non tiene conto della realtà delle
cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica
postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando
questa sia collocata entro il quadro della postverità,
sia sul piano pratico sia su quello
teorico. Poiché la politica
postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa
tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake
e bullshit. Come casi esemplari di
politica postruista sono spesso citate la campagna per la brexit
e quella per l’elezione di Trump alla Casa Bianca.
10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato,
siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi
inaspettati, che stanno assumendo un certo peso nella vita delle nostre società.
Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere
per lo meno qualche somiglianza di
famiglia.[15] Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora
in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto
sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che
tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o
indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando
di circoscrivere e rappresentare.
Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per
stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un
gigantesco iceberg che galleggia in
mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news
e la politica postruista sarebbero
l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che
corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua
definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è
molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più
pericoloso. La postverità, o il
mondo dell’oltre-vero, sarebbe il
mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che
per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si
potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit,
cioè per così dire specie di stronzate
specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la
realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più
trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita
- sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è
detto - nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla
intenzionalmente celare.
Dopo avere delineato sommariamente, in termini
descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature,
cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale
ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo
futuro.
11. Se la postverità (o l’oltre-vero)
è il mare che tiene a galla il bullshit e tutto il resto, è il caso
allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema
sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il
vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico
e teorico, secondo cui in molte
situazioni la verità è trascurabile.
Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare
a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun
interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la
verità e per dire la verità. In
altre parole, ci sono soltanto più dei punti di vista, collocati tutti sullo
stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte
del tutto personali. Il tutto è però – si badi bene - supportato da un’ulteriore
sottile connotazione di ordine morale secondo cui è inevitabile, o addirittura
giusto, che sia così e secondo cui, così facendo, possiamo cavarcela
tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio. Insomma, la
condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o
addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide
l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta
fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando
ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di
analisi, distingueremo ora un ambito
pratico e un ambito teorico,
anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.
11.1. Per quel che concerne l’ambito
pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia
più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento
e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di
tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei
mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di
ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora,
intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere
la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo
chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth
era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di
dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro
comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo
fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se
stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile,
così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi
approcci come a una sorta di alt.ethics [etica alternativa]. Questo
termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato
positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto”
nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai,
nessuno vuole essere considerato un
mentitore».[17]
Insomma, è come se noi in pratica tenessimo
costantemente spalancata una zona
grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente
in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza
agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più
ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità.
L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il
carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una
verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva,
poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali.
Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di
essere sempre perfettamente
adeguati.
11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero
nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la
nozione stessa della autenticità
individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli
individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire
in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere
aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più
disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale
permanente. Ciò ingenera identità
fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere
in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una
simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche
considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già
citato bullshit artist. Con la
postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self
e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli
altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il
contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno
strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile
– nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.
11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti
della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato
teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto
parallela con la convinzione che la
verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione
filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia
occidentale.[18] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito,
cioè della convinzione oggi diffusa ovunque - dagli intellettuali ai politici,
fino alle casalinghe - secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna verità di cui
valga la pena di occuparsi.
11.4. Questa idea strampalata,[19] per quanto se ne sa,
ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni
Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello
di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie
del sospetto,[20] due orientamenti strettamente imparentati con
l’oltre-vero, e cioè il relativismo[21] e, soprattutto, il politically correct.[22] Si trattava,
in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle
relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente
considerata come un’imposizione del
potere (come ad es. in Foucault) allora non restava che considerare come
altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere
radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni
soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra
i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine
elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le
enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali,
furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto,
a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti
di vista.
11.5. Proprio a partire dal relativismo
e dal politically correct, nel
volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico,
anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito
una specie di pastiche sincretico -
di carattere cinico, anarcoide e antimoderno - di tutte le filosofie che
nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro.
Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha
proclamato la fine delle grandi
narrazioni. Al posto del pensiero
forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato
esaltato il pensiero debole ed è
stato dato l’addio alla
verità.[23]
Sui rapporti tra il postmoderno
e la postverità (o oltre-vero)
è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[24] Abbiamo già citato le
imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la
filosofia postmoderna. Per brevità mi limiterò a un breve montaggio di alcuni
passi di Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel
suo libretto intitolato Postverità e
altri enigmi.[25] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo
nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande
pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto,
dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del
postmoderno».[26] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che
la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione
più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti,
solo interpretazioni»».[27] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la
diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie
e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più
forte».[28] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr]
[…] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle
accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel
populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati
garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene
orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social
media)».[29] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno,
populismo e postverità è diretta».[30]
11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche
fondamento, allora l’antipatia per la
verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth
era,è dunque storicamente
connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia
per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa
corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali
pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In
filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente
costituito dal trascendentalismo,
l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua
mente.[31] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato
tipico di tutti i romanticismi. In
proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del
Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura
delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento - esse
pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice -,
e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di
rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere
studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto
trattata in un modo scientifico».[32] Insomma, secondo Berlin, anche quando i
romantici sembrano profondamenti immersi in quel che fanno essi sono
pervicacemente fuori dal mondo,
assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il
romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a
essere ampiamente popolarizzata e ad
avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del
postmoderno.
12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni
decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di
fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta
dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile,
ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx)
prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In
altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione
costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria,
dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme
circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le
stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove
tecnologie.
Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[33] hanno
agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la
rivoluzione delle nuove tecnologie
ha messo a disposizione di ogni singolo
individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità
enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era
distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico.
Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo
luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione
nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[34] In particolare si è reso
sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti
nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris,
per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione
documediale.
Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è
l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di
diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di
informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di
informazioni e di idee».[35] La documedialità ormai diffusa sta così
permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio
comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza
necessaria - anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con
una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo
di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano,
sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[36]
Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso
possibile – magari anche solo come effetto secondario - una indifferenza
di massa nei confronti della verità e della realtà.
13. Il carattere peculiare della nuova situazione è che
la verità, da fatto pubblico e
sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo - qual era stata finora
prevalentemente - tende sempre più a diventare un fatto
privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato
in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore
della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con
un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della
verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci
avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[37]
su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la
verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog
e, a parte i suoi follower, sarebbe
perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta
impossibile, abbiamo oggi l’impulso a
pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in
partenza dalla loro convivenza con milioni di altri soggetti.
Volendo usare una semplificazione, è come se
l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è
stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo - avesse lasciato il
posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi
più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di
mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno
prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun
altro disposto a condividerli, con la probabilità sorprendentemente alta di
trovare sempre un gran numero di follower. Analizzare e smentire
ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per
qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo
e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si
rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di
meccanismo di inflazione. Troppe
verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione.
Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come
aveva già suggerito Keyes.
14. Questa trasformazione non resta confinata ai
singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio
comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a
prendere il posto dell’opinione
pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di
Habermas[38] - è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi
mezzi di comunicazione, come le gazzette, i servizi postali e dei primi luoghi
di incontro, come caffè e teatri.[39] I singoli soggetti s’informavano,
s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione
più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione
pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema
democratico - all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione
del bene comune e alla formazione
della volontà generale. Sappiamo
bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a
molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas
aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi
della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle
democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti
della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione
pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle
democrazie.
Accade così che, al posto della vecchia opinione
pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri che avvenivano
ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare
della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di
dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e
diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti
altrui con risposte che si mantengono – come si è detto - per lo più a livello
espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto
effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non
si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano
sovrapposizioni continue, dove c’è concorrenza o dove ci si ignora bellamente.
Si tratta di uno spazio in cui gli
universali della comunicazione[40] sono costantemente ignorati o stravolti.
Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo
imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme.
In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione
pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e
cioè della invasione delle imposture
intellettuali, delle fake-news
e della politica postruista.
15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo
- è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La
nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero
stabilire una agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra
loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene
comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata
dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare
questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della
comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove.
Nella post-truth era non c’è più
nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a
confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano
alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti
che una verità comune non c’è, e
che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di
ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi
momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower
si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di
nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo like-dislike.
L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo
del riconoscimento del proprio punto
di vista, del proprio ego. Questa
nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[41]
16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie
dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente –
seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è
assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due
fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze.
Per capire meglio la questione ci dobbiamo occupare del rapporto
tra tecnologia e cultura.
16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il
riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo
questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie
estensioni del self e gli esseri
umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie
comunicative di cui dispongono nella loro epoca. Gli studiosi della scuola di
Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo
e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità
primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la
scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno
all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui
corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self.
A questa prima fase segue la seconda fase, che corrisponde all’introduzione
della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa
a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile
solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono
sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase,
lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo
dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo
gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è
strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, come un libro
stampato. Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono,
la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero
reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli
aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla
cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere
gutemberghiano del self e a una
sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale.
Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità
di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio
globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e
la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi
sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una
conferma della interpretazione di McLuhan.
16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici
sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self
e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un
caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo
Internet ci rende stupidi?[42]
L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più
recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese
sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi.
Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro
cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di
cambiare profondamente – in termini fisici - le nostre stesse connessioni e
strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare gli studi di
Dehaene[43] sulla lettura – ripresi da Carr - hanno mostrato in maniera
inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro
sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di
leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La
Rete può
a
buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione
della mente mai diventata di uso comune, con la
sola
eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è
la più potente arrivata dopo il libro».[44]
L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che
s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza
degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo
degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il
pensiero articolato e complesso.
16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie
della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria
complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi
all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste
sulla sproporzione che è venuta a
determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal
progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità)
dell’utilizzatore medio. Un po’ come la bomba atomica.
Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della
scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a
una qualche sorta di oralità
secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una
civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per
mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo,
suono e immagini - costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua
compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[45] Ferraris quindi è stato
indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo
influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto - alla
filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato
determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da
parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che
tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant
nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è
stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di
accusa di imbecillità. Dice
Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità
come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è
una colpa».[46] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser
sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio
fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia
una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello
sviluppo dello spirito umano.
Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È
il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a
legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino,
senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora
hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli
imbecilli».[47] Secondo Eco,
dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la
riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini
del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la
costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più
o meno come un elemento invariante.
16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse,
sempre a partire dagli anni Novanta, un progressivo degrado
culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di
tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso
richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte
rilevantissima della popolazione italiana, al quale l’istruzione di massa,
promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che
rimedio.[48] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più
preoccupanti e non si nota alcun miglioramento. Sembra anzi che la crescita
dell’alfabetizzazione, che aveva visto un costante aumento per diversi secoli,
si sia ora fermata o si sia addirittura invertita.
Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro
contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo
Videns che è del 1997.[49] Sartori fin da allora si era particolarmente
interessato al destino dell’homo
politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo
videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di
ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento
sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare
e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza
capire».[50] Afferma Sartori: «[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa
nella sfera di un mundus
intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun
modo il mundus sensibilis, il mondo
percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il
progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu
oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce
immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e
con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un
concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun
oggetto adeguato»».[51]
Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori
era Televisione e post-pensiero. Il
post-pensiero cui accenna Sartori
sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente
discusso. Così si esprime infatti Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano
derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino
anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale;
è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità
di articolare idee chiare e distinte».[52] Anche in questo caso possiamo parlare
di una sopravvenuta irrilevanza del
pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire
il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto
che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e
che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato
un grave pericolo per la democrazia.
Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi
scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan.
Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria
- si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno
linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove
la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più
superficiale ed elementare. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il
rischio di un grave impoverimento del
pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di
sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle
tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono
descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili
e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.
17. Nel suo studio intitolato La
terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[53] Simone ha condotto, dal
punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del
cambiamento del self in relazione
alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self
è in gran parte un costrutto linguistico è del tutto lecito pensare che il tipo
di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla
strutturazione dello stesso self.
17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota
metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei
fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente
trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni
vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di
quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di
fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con
un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con
fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si
lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di
dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome
preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire
silenziosamente».[54] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a
proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.
17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di
individuare e circoscrivere un fenomeno
vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del
self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul
mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto
un’interessante distinzione tra culture
proposizionali e culture non
proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX,
le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da
quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[55] Per comprendere
adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del
linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale. […] La pratica
proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba
essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in
proposizioni, - e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto
più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi
in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo
di struttura».[56] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare
che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi
oggetto che può essere «letto»».[57] Questo significa che il carattere testuale
dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo
scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente
gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale
rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato,
sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi
possono essere visti come facce della stessa realtà».[58] Queste massime sono
chiamate dall’Autore Massime della
Lucidità.
17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche
dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti: «[…] a)
è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti,
ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista
referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali
indifferenziate; c) per conseguenza
non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si
può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale
condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è
necessario nemmeno indicarli specificatamente; d)
rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella
sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa
gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore
il compito di crearsene una».[59] La conseguenza è che: «Questo orientamento si
ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di
questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto
è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito.
L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante
l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio
le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[60]
La Massima di Fusione insomma è
quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più
quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento
irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti
può richiamare il globalismo della
visione del mondo infantile.
Dunque le culture non proposizionali non è che mettano
da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria.
Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano
a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi
mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero
è qui ridotto alle sue forme più elementari.
17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo
Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti
culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che
chiamiamo globalmente civiltà
occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche
come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche
determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di
scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[61] Come
si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della
civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È
abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità,di
cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi
agevolmente dalla parte della cultura della Grande
Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità.
Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche
quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi
narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltre
passamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è
ben visto - sulla dominante emotiva
che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel
caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero –
sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara
tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit
artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non –
proposizionali della Grande Fusione.
18. Trattandosi di fenomeni
vaghi, nell’accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi
dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie
e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni
probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso
possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità.
Le nuove tecnologie di per sé possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del
linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità che quella della
Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia prevalendo di gran
lunga la Fusione sulla Lucidità?
Le ragioni generali di questo trend
non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le
sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è
spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina,
è un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati - all’anarchia
del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura
occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno dei
risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata
considerata come espressione del
potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di
vista rappresenta invece la liberazione dal fardello
del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e
alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte loro manifestazioni, hanno solo
e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.
Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di
modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello
della modernità e permettono indubbiamente di liberare
il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare
il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso,
invece di diventare compiutamente uomini
del libro, si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può
diventare molto social. Si può
aspirare a diventare bullshitter
professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci
cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa
che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi
tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità
interna.[62] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da
imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è
una macchina per scrivere[63] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della
scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è
prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit
che ci invade da ogni parte. La tecnologia ci permette anche questo uso
degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.
19. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere
le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di
fenomeni connessi alla svalutazione
della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione,
che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono
indubbiamente una certa somiglianza di
famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg.
Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle
nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le
nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e
preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella
loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce
diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo
andati in altre parole in cerca di una teoria.
Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del
tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione
tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel
caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione
dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è
che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo
ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie
stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di
trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste
trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci
siamo occupati, dalla politica postruista alle fake
news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca
consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei
fenomeni vaghi, molto evidenti nelle
loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il
pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una
lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o
meno come nel film L’invasione degli
ultracorpi.
Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro
alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della
costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove
tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una
mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta
cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro
concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità
– siamo appena all’inizio - possa costituire la base
materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della
testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una
vera modernità, per la quale però – come s’è visto - occorrerebbe rimettere
al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi –
come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione - che il
mare dell’oltre-vero finisca per
seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit
e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.
Giuseppe Rinaldi
05/04/2018
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BIBLIOGRAFIA
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2009 Vattimo, Gianni
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Roma.
NOTE
[1] Questo articolo è nato dalla sollecitazione di
alcuni amici di Appunti Alessandrini
che hanno chiesto la mia opinione sulla questione della postverità.
Credevo di cavarmela facilmente ma il compito si è rivelato più complesso del
previsto. Spero che il risultato non li deluda troppo, visto che sono riuscito a
produrre poco più di una introduzione alla questione. Scrivere l’articolo è
stato comunque molto utile soprattutto per me, perché ho avuto modo di imparare
parecchie cose. Nel corso del lavoro mi sono ulteriormente persuaso che si
tratti di un argomento di enorme portata dal punto di vista politico e culturale
e che meriti ulteriori approfondimenti.
[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo
secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro
il relativismo e contro il
postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due
decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e
Marconi 2007.
[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione
francese compare la dizione impostures
intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la
dizione fashionable nonsense,
traducibile con stupidaggini di
moda o sciocchezze di moda.
[4] Cfr. Sokal & Bricmont 1997: 15-16.
[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con
svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate,
puttanate - viene comunemente tradotto in italiano con stronzate.
Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate.
Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.
[6] Cfr. Frankfurt 2005: 11.
[7] Cfr. il mio articolo Stronzate.
Un concetto sempre più attuale pubblicato sul blog Finestrerotte
il 2/7/2015.
[8] La stessa Wikipedia per certi aspetti potrebbe
essere un prodotto della postverità.
[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce
rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.
[10] Così spiegano gli Oxford
Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the
meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent
years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or
event – as in post-war or post-match – the prefix in post-truth has a meaning
more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become
unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016
[11] Sulla nozione di menzogna, vedi D’Agostini
2012.
[12] H. G. Frankfurt (2005: 53).
[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit
artist potrebbe essere
reso con il nostro termine contaballe.
[14] La citazione contiene un mio piccolo
aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.
[15] La nozione di somiglianza
di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.
[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero
con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di
Frankfurt, per il quale bullshit è
una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit
costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda
Ferraris 2017, prima
dissertazione.
[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness.
La traduzione è nostra.
[18] Si veda D’Agostini 2002.
[19] Per una confutazione della tesi VNE secondo cui la verità non esiste si veda D’Agostini
2002.
[20] Paul Ricoeur ha definito come filosofie
del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie
che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più
autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era
della rete, la proliferazione delle cosiddette verità
alternative che spesso non sono altro che bullshit.
[21] So bene che esistono diversi tipi di relativismo.
Qui non posso che semplificare per brevità.
[22] È curioso che il politically
correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni
Novanta.
[23] Cfr. Vattimo & Rovatti 1983 e Vattimo
2009.
[24] Per chi fosse interessato, segnalo il mio articolo
Il tramonto annunciato dei profeti del
nulla pubblicato sul blog Finestrerotte in data
18/3/2015.
[25] Cfr. Ferraris 2017.
[26] Cfr. Ferraris 2017: 19.
[27] Cfr. Ferraris 2017: 21.
[28] Cfr. Ferraris 2017: 11.
[29] Cfr. Ferraris 2017: 27.
[30] Cfr. Ferraris 2017: 48.
[31] Cfr. Ferraris 2004 e Ferraris 2012.
[32] Cfr. Berlin 1965: 195.
[33] Cfr. la seconda dissertazione in Ferraris
2017.
[34] Su questo punto si veda Searle 1995.
[35] Cfr. Ferraris 2017: 69.
[36] Cfr. Ferraris 2017: 113.
[37] Cfr. Foucault 1983.
[38] Cfr. Habermas 1990 [1962].
[39] Si veda Habermas 1990[1962].
[40] Sugli universali della comunicazione si veda
sempre il contributo di Habermas.
[41] Segnalo in proposito il mio saggio: I
soggetti del populismo, pubblicato sul mio blog Finestrerotte
il 23/3/2017.
[42] Cfr. Carr 2010. Lo studio originale è del 2010 ed
è stato pubblica in Italia l’anno successivo.
[43] Cfr. Dehaene 2007.
[44] Cfr. Carr 2010: 144.
[45] Cfr. Ferraris 2007 [2005].
[46] Cfr. Ferraris 2016.
[47] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2015/06/11/umberto-eco-internet-parola-agli-imbecilli_n_7559082.html
[48] Si veda ad esempio De Mauro 2010.
[49] Cfr. Sartori 1997.
[50] Cfr. Sartori 1997: XI.
[51] Cfr. Sartori 1997: 22.
[52] Cfr. Sartori 1997: 111.
[53] Cfr. Simone 2000.
[54] Cfr. Simone 2000: 125.
[55] Cfr. Simone 2000: 127.
[56] Cfr. Simone 2000: 128-129.
[57] La definizione proviene da Wikipedia (in
inglese).
[58] Cfr. Simone 2000: 129-130.
[59] Cfr. Simone 2000: 129-130.
[60] Cfr. Simone 2000: 130-133.
[61] Cfr. Simone 2000: 135.
[62] Cfr. Dember & Earl 1957.
[63] Cfr. Ferraris 2007 [2005].