sabato 25 febbraio 2012

Abusi di memoria

 













Il recente volume di V. Pisanty, Abusi di memoria,[1] ha il pregio di riproporre all’attenzione del pubblico la problematica del rapporto tra storia e memoria, con particolare attenzione alla questione degli abusi della memoria della Shoah. Ciò avviene proprio in un periodo in cui le recenti celebrazioni hanno sollecitato complesse riflessioni intorno alla loro stessa opportunità, al loro significato profondo, alla loro capacità di presa sull’opinione pubblica e ai loro effetti pedagogici, alla loro funzione ai fini della costruzione di una comune identità.

Secondo l’Autrice, gli abusi di memoria riscontrabili nell’ambito della Shoah sono strettamente collegati ai limiti intrinseci della memoria stessa. “Il difetto…sta … nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. […] In ciò la memoria si distingue dalla storia (intesa come storia critica): mentre questa persegue un ideale universalistico di oggettività – o di intersoggettività – scientifica che, almeno in teoria, la svincola da ulteriori funzioni pratiche, ideologiche e/o politiche, la memoria è costitutivamente particolare, soggettiva e strumentale. […] Contrariamente alla ricostruzione storica, che si sottomette al vaglio critico di un uditorio universale e autorizza gli interpreti a confrontarla con l’evidenza documentaria per verificarne l’attendibilità, la memoria è sempre di qualcuno, che la considera come la propria emanazione e perciò ritiene di poterne fare l’uso che vuole”.[2]

Ciò fa sì che l’atteggiamento commemorativo e l’atteggiamento storiografico comunque finiscano per divergere irrimediabilmente. “Per un cultore della memoria, lo storico che pretende di desacralizzare il mondo, spogliando gli eventi dell’alone simbolico che li avvolge, è un arido razionalista incapace di far vibrare in sé le corde dello spirito, o addirittura un disgregatore intenzionato a minare le fondamenta dell’ordine sociale. Per lo storico, di converso, la memoria collettiva comporta sempre un principio di usurpazione e di mitizzazione, e i suoi cultori sono strumenti più o meno consapevoli di un abuso ideologico volto a legittimare questo  o quell’altro ordine costituito. È proprio per correggere tale abuso che la storiografia scientifica si è emancipata dalla memoria, istituendosi a disciplina autonoma deputata a sorvegliarne gli eccessi”. [3]

Nonostante i limiti strutturali della memoria rispetto alla storia, è innegabile, secondo l’Autrice, che essa abbia manifestato sempre più la tendenza ad assumere una posizione di primo piano, fino a diventare una vera e propria ossessione della cultura contemporanea. L’Autrice osserva, infatti, che “Il dibattito sugli usi e gli abusi della memoria s’inserisce in una riflessione più generale circa la ‘bulimia commemorativa’ che avrebbe colpito le società contemporanee, affette dal bisogno compulsivo di coltivare il ricordo di traumi attorno ai quali costruire identità collettive. L’ossessione non riguarda solo la memoria del genocidio ebraico, come dimostra la moltiplicazione di date commemorative che si accalcano nei calendari istituzionali dei diversi paesi. […] Un tratto che accomuna queste ricorrenze è la centralità attribuita al ruolo delle vittime… Da cosa dipenda l’attuale egemonia del discorso vittimario è una questione di cui si è molto discusso in anni recenti: diversi storici e sociologi ne scorgono le cause nella crisi ideologica del post 1989 e nella conseguente ricerca di narrazioni sostitutive, di matrice prevalentemente etnica, a cui affidare le proprie incerte identità. […] Oltre a glorificare il ruolo di Vittima, l’ossessione della memoria ritualizza il rapporto tra la cittadinanza e la cosa pubblica, riempiendo l’attuale vuoto di partecipazione politica attiva con l’osservanza di liturgie commemorative sancite dal “dovere della memoria”, formula vagamente intimidatoria che prescrive la perpetuazione delle narrazioni identitarie tra gli oneri imprescindibili di appartenenza a una comunità (o all’umanità stessa)”.[4]

Insomma, siamo attratti irresistibilmente verso la memoria, sebbene la memoria, dati i suoi limiti, abbia buone probabilità di tradire le nostre stesse aspettative. Proprio per questo, ha senso occuparsi, dettagliatamente e criticamente, degli abusi della memoria. Il volume della Pisanty è composto di un’introduzione alla questione dei rapporti tra storia e memoria e alla problematica degli abusi di memoria e da tre intensi capitoli dedicati ai principali abusi cui è andata incontro, secondo l’Autrice, la memoria della Shoah: la negazione, la banalizzazione e la sacralizzazione.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’Autrice ripercorre in termini sintetici la storia del negazionismo, fin dai primordi, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ricostruendone le figure più tipiche (Rassinier, Faurisson, …), le istituzioni che ne hanno alimentato il battage (tra cui il famigerato Institute for Historical Review) e le reazioni da parte degli storici e dei vari Legislatori che, in diversi Paesi, hanno approvato leggi, contro il negazionismo. Un elemento, forse secondario, ma a giudizio di chi scrive, dotato di qualche importanza, che emerge da questa rassegna è che, contrariamente al pensiero comune che considera i negazionisti come esponenti della destra estrema, il negazionismo ha anche lambito frange dell’estrema sinistra. È il caso, ad esempio, di Roger Garaudy, noto esponente marxista (intellettuale di maggior spicco del PCF fino al 1970) che ha recentemente elaborato tesi negazioniste e antisemite nel suo volume del 1995 intitolato Les Mythes fondateurs de la politique israélienne. È anche il caso di alcuni liberal che hanno sostenuto la causa negazionista soprattutto sotto il profilo della libertà di parola: ad esempio Chomsky.

Per quanto emerge dalla documentazione fornita, ciò che infastidisce particolarmente, nell’ambito del negazionismo, è la capacità di manipolazione dei fatti (secondo la visione postmoderna per cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni) e la disponibilità mostrata, da parte dell’opinione pubblica, a prestare attenzione alle più strane teorie del complotto da esso avanzate. In effetti, se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, allora la verità sarà sempre un risultato delle manipolazioni e dei complotti del potere. L’unica prospettiva adeguata sarà dunque la filosofia del sospetto. I negazionisti, in effetti, hanno ottenuto popolarità proprio perché si sono proposti come smascheratori del potere. La dottrina prospettivista della verità e la teoria dello smascheramento sono tuttora assai popolari, sia nella cultura dell’estrema destra che in quella dell’estrema sinistra. Questa interpretazione è ulteriormente suffragata dal fatto che Faurisson (già professore di critica letteraria all’Università di Lione) si è occupato di critica testuale, proprio dal punto di vista del sospetto. Il revisionismo dunque può essere considerato come lo specchio della debolezza della prospettiva culturale del secondo Novecento che, rifiutando un elementare realismo fondato sulla prova, ha autorizzato qualsiasi manipolazione, qualsiasi allegra costruzione e decostruzione.

La banalizzazione e la sacralizzazione sono due classici tipi di abuso della memoria già ampiamente messi in luce e discussi da Todorov.[5] L’Autrice li applica al caso della Shoah in due densi capitoli. La banalizzazione implica una semplificazione estrema, una sottovalutazione e uno stravolgimento della memoria stessa, assimilandola a eventi che con essa nulla hanno a che fare; la sacralizzazione comporta invece un’ipervalutazione indebita della memoria che tende a renderla assoluta, intangibile, incommensurabile, sacra.

Nel caso della Shoah, “…i banalizzatori … adeguano la rappresentazione della Shoah a formati narrativi ipercollaudati per rendere la memoria più facilmente assimilabile e commercializzabile. Oppure spogliano la Shoah dei suoi attributi specifici allo scopo di equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo, secondo la logica per cui se tutti sono colpevoli allora nessuno lo è per davvero. In ogni caso essi riconducono la Shoah a uno schema generalissimo con cui pretendono di conferire senso alle situazioni più disparate, interpretate secondo la dicotomia Vittima/Carnefice assoluti”.[6] I sacralizzatori, dal canto loro, “…sottraggono la Shoah dalla serie degli eventi storici per proiettarla in una dimensione “altra”, metafisica e metastorica, in cui la memoria viene isolata, riverita e protetta dalle incursioni indesiderabili, eventualmente allo scopo di rivendicare un monopolio sulla scelta degli usi cui essa può legittimamente dare adito”.[7]

La banalizzazione è essenzialmente legata alla diffusione della Shoah come prodotto della cultura di massa e alla sua applicazione, in termini riduttivi e impropri, ad altri fenomeni che con essa poco hanno a che fare. Colui che banalizza prende per buona una memoria della Shoah edulcorata, superficiale. Spesso si è indulgenti verso le banalizzazioni, pensando a una loro supposta utilità pedagogica, in base al principio del “meglio che niente”. In realtà la memoria banale è solo l’ombra della memoria, una memoria sterile che crede di essere, ma non è. La sacralizzazione è legata invece a varie rivendicazioni di intangibilità, oppure a strumentalizzazioni vere e proprie della sacralità della Shoah. L’Autrice, ad esempio, riporta, con dovizia di particolari molto interessanti, l’uso decisamente improprio che il sionismo ha fatto della Shoah. Mentre la banalizzazione si fonda soprattutto su uno scadimento cognitivo, la sacralizzazione è un’operazione che ha a che fare con una estremizzazione del senso morale, con un improprio commercio con il valore, i quali tendono più o meno consapevolmente, a impedire la comprensione e l’analisi critica dell’evento. Ci si trova così di fronte a un valore sempre più assoluto, ma sempre più vuoto di contenuto.

È possibile individuare, evitando di scivolare negli abusi, un’area di uso conveniente della memoria? L’Autrice rileva la difficoltà di una simile impresa e manifesta interesse soprattutto per l’analisi critica dei meccanismi retorici che presiedono alla costruzione delle memorie stesse. In ogni caso, dalla casistica proposta emerge con chiarezza che l’unico uso conveniente della memoria è quello problematico e critico (un uso che implica già, comunque, una presa di distanza dalla memoria stessa). Emerge un serio invito a esercitare una continua vigilanza critica, poiché i rischi di banalizzare e/o sacralizzare sono sempre presenti. Chiunque a qualunque titolo si occupi di memoria dovrebbe dunque essere consapevole che si tratta di una materia delicata, dovrebbe essere messo in grado di comprendere la natura della memoria, i meccanismi, le strategie retoriche e ideologiche che le sono proprie, dovrebbe guadagnare un’autonomia morale e intellettuale tale da consentirgli di elaborare una memoria davvero ben temperata, una memoria che sia in grado di confrontarsi in modo maturo con la storia.

 

Giuseppe Rinaldi (25/2/2012)

 

OPERE CITATE

Valentina Pisanty, Abusi di Memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano 2012.

Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, Milano, 2001.

 

NOTE

[1] Cfr. V. Pisanty (2012).

[2] V. Pisanty (2012: 3).

[3] V. Pisanty (2012: 5).

[4] V. Pisanty (2012: 6-7).

[5] T. Todorov (2001).

[6] V. Pisanty (2012: 11).

[7] V. Pisanty (2012: 11).