venerdì 22 aprile 2016

La malattia morale dell’Europa

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1. Prima le carrette del mare stracariche di disperati, uomini, donne e bambini, con gli innumerevoli naufragi cui abbiamo assistito quasi in diretta, poi le lunghe marce dei profughi lungo i percorsi balcanici, lungo le ferrovie e le strade secondarie, in mezzo ai campi. Abbiamo visto pullman e treni bloccati, persone identificate con un numero scritto sul braccio. Abbiamo visto i blocchi alle frontiere, quei blocchi che non ci dovevano più essere, le barriere di filo spinato, quello affilato (razor barbed wire), fatto apposta per tagliare e strappare. Abbiamo visto accampamenti di povere tende, pieni di fango, di uomini, donne e bambini in attesa di passare la frontiera. E poi bambini incamminati sull’asfalto, viaggiare da soli, con il corredo di una coperta. Abbiamo visto gli sgombri degli accampamenti, gli scontri dei profughi con le forze dell’ordine a suon di manganellate e gas lacrimogeni. Abbiamo visto un gran numero di sventurati che hanno perso la vita per attraversare un fiume, per saltare un muro, per salire su un camion, per viaggiare nascosti dentro a terribili e mortali contenitori. Tutto questo in Europa.
 
2. Di fronte a tutto ciò l’Europa sembra oggi un gigantesco paese inebetito, agitato dalle passioni estreme, senza testa, senza cuore e senza memoria. Un paese che non capisce, incapace di agire in modo efficace, quasi come fosse paralizzato. Eppure quel che accade in questi tempi non è certo una novità. Forse più di ogni altro paese, l’Europa ha conosciuto i disastri della guerra e ha conosciuto su vasta scala proprio il fenomeno dei profughi. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale milioni di profughi hanno percorso il paese in ogni senso. L’Europa, per di più, ha conosciuto tutte le atrocità possibili e immaginabili, tanto da aver contribuito, suo malgrado, a determinare la figura giuridica dei «crimini contro l’umanità».
Abbiamo poi vissuto una terza guerra non combattuta, la Guerra fredda, durata una quarantina d’anni, ma che, per molti aspetti, ci ha consegnato panorami del tutto simili a quelli di una guerra calda. Forse più di ogni altro paese l’Europa poi ha conosciuto le restrizioni dei confini, i reticolati e i muri: la cortina di ferro, prototipo di tutti i confini ostili, e il muro di Berlino, prototipo di tutti i muri divisivi. E i muri li abbiamo anche esportati, abbiamo fatto scuola.
Nessuno più si ricorda l’Europa spaccata in due, Berlino tagliata a metà, il ponte aereo, i missili puntati da una parte e dall’altra, le esplosioni “sperimentali” delle testate nucleari a scopo intimidatorio, le spie, i passaporti e i controlli alle frontiere. Governi autoritari di qua e, soprattutto, al di là della cortina di ferro. Abbiamo visto processi arbitrari, sparizioni, omicidi politici, imprigionamenti, torture, campi di detenzione, violazioni dei diritti più elementari in tutti i sensi. Abbiamo visto le invasioni con i carri armati. Abbiamo visto, nel cuore della civilissima Europa, qualcuno che si è dato fuoco per protestare. Tutto questo è finito soltanto tra il 1989 e il 1994. Abbiamo davvero la memoria corta. Eppure c’eravamo. Abbiamo visto tutto. Lo spettacolo ci è stato servito, giorno dopo giorno, dai giornali, dagli schermi della televisione, mentre eravamo seduti sulle nostre poltrone. Abbiamo visto e abbiamo dimenticato. E quelli che allora ancora non c’erano, se solo avessero un qualche interesse per il passato recente, non avrebbero difficoltà a trovare una grande abbondanza di documenti. Gli archivi sono ancora tutti lì che aspettano.
 
3. La domanda, forse un po’ retorica, forse un po’ ingenua, che s’impone a questo punto è se i popoli siano in grado di imparare qualcosa dalla loro storia, o se invece non siano condannati a ripeterla all’infinito, ripetendo sempre gli stessi errori. Sono davvero così stupidi, cioè poco intelligenti, incapaci di apprendere, quelli che si fanno chiamare enfaticamente “popoli”?
 3.1. Come si spiega, ad esempio, che la cattolicissima Polonia, paese che nella storia ha sempre avuto confini incerti, paese da sempre spartito, invaso, oppresso, che nel secondo conflitto mondiale ha dato un tributo terribile di morti, che si è trovato invaso alternativamente da nazisti e sovietici, che ha vissuto in prima persona l’abominio dei campi e lo sterminio degli ebrei, un paese che poi è stato il porta bandiera della lotta contro l’oppressione sovietica (vi ricordate di Solidarność?), ebbene, come si spiega che la Polonia sia oggi uno dei paesi europei più xenofobi? Il partito politico oggi egemone in Polonia si chiama Diritto e Giustizia (PiS). Si tratta di un partito politico di destra, conservatore, populista, clericale ed euroscettico. Uno dei tratti caratteristici del suo programma è la proposta d’introduzione della pena di morte, cosa peraltro non più ammessa in Europa. Al PiS appartengono l’attuale Presidente polacco Andrzej Duda e il Primo Ministro Beata Maria Szydło, in carica dal 2015. Costei, ironia della sorte, è nata a Oświęcim. Per chi non lo sapesse, Oświęcim è il nome polacco di Auschwitz.
3.2. E che dire della cattolica Austria che è stato il paese dell’Anschluss alla Germania nazista approvato con un plebiscito al 99,7%. L’Austria è il paese che ha visto gli orrori di Mauthausen, dai quali qualcosa dovrebbe avere senz’altro imparato. L’Austria peraltro è oggi governata da un governo progressista. Dopo le elezioni politiche del 2013 in Austria c’è un governo di coalizione tra  SPÖ (socialdemocratici) e ÖVP (popolari cristiano - sociali). Capo del governo è il socialdemocratico Werner Faymann. Tuttavia, poiché siamo in procinto delle elezioni, il governo progressista austriaco non ha trovato nulla di meglio che rincorrere le politiche xenofobe della destra. Così l’Austria è diventato oggi il paese dove si ricostruiscono i posti di blocco e i reticolati alle frontiere con la benedizione dei cristiano – sociali e dei socialdemocratici.
3.3. E l’Ungheria? Forse vale la pena di ripercorrere alcune tappe, troppo spesso dimenticate, della storia del paese europeo più xenofobo e più ostile ai profughi, che ha costruito chilometri di filo spinato lungo le sue frontiere. L’Ungheria divenne indipendente dal 1918 e, dopo la breve rivoluzione comunista di Béla Kunh, il potere fu preso dall’ammiraglio Horthy che diede vita a un regime conservatore e autoritario sostenuto dai grandi proprietari. Il regime sostenne i nazisti in cambio di vantaggi territoriali. Solo nel 1944 si ebbe l’invasione nazista e, in conseguenza, un colpo di stato fascista delle Croci frecciate di Szálassy. Il nuovo regime seppur di breve durata non mancò di collaborare allo sterminio degli ebrei ungheresi. Dopo la guerra, la nuova Repubblica cercherà di voltar pagina e all’inizio ebbe una spinta popolare. L’Ungheria tuttavia venne progressivamente a cadere nell’orbita staliniana, fino alla rivolta di Budapest del 1956, soffocata però dai carri armati sovietici. Nonostante ciò l’Ungheria rimase fedele al blocco sovietico e partecipò, nel 1968, alla repressione della Primavera di Praga.
Le prime elezioni libere dopo la caduta del muro, nel 1990 furono vinte dai conservatori. Dopo l’ingresso nella UE nel 2003, la politica ungherese fu sempre più dominata dalla figura ultra conservatrice di Viktor Orbán, l’uomo del filo spinato. Dalle elezioni del 2014 l'Ungheria è governata da una coalizione tra Fidesz (Unione Civica Ungherese) e KDNP Partito Popolare Cristiano Democratico). Il Primo Ministro confermato è tuttora Viktor Orbán, leader di Fidesz, un partito conservatore, populista e cristiano - membro tra l’altro del PPE). L'altro partito della coalizione è il KDNP di orientamento cristiano democratico. La maggioranza che ha costruito lo scandaloso reticolato si dichiara dunque cristiana oltre che democratica e lo stesso si presume per la maggioranza dei suoi elettori.
3.4. Non possiamo non citare poi gli tutti quegli Stati nati dalla ex Jugoslavia. Bisogna ricordare, anche se non sembra vero, che nella ex Jugoslavia c’era stata una vittoriosa resistenza contro il nazismo. L’unica resistenza europea vittoriosa sui campi di battaglia che ha costruito uno Stato a sua immagine e somiglianza. Una resistenza vittoriosa che ha determinato la nascita del socialismo “dal volto umano” di Tito, in realtà uno Stato semi totalitario che non ha saputo neppure costruire, nei successivi decenni, un minimo senso di comunità nazionale. Tanto che la ex-Jugoslavia ha conosciuto, negli anni Novanta, una travagliata e lunga guerra civile dove si sono praticati i massacri etnici e i crimini contro l’umanità. Oggi, della ex Jugoslavia, solo la Slovenia è riuscita a entrare nelle UE.  La frontiera europea da quelle parti è dunque alquanto irregolare e frastagliata, dovuta al fatto che molti paesi (Serbia, Montenegro, Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia) non possiedono ancora i requisiti per entrare a far parte della UE. Si tratta di paesi instabili, terre che da sempre sono frontiera tra diversi mondi e diverse etnie. Terre dove la democrazia incontra ostacoli e difficoltà e dove però si coltivano con cura i più svariati nazionalismi, ormai fuori tempo massimo.
3.5. Tra i paesi xenofobi della penisola balcanica si sta distinguendo in particolare la Macedonia, candidato all’ingresso nella UE. L'attuale primo ministro macedone, dal gennaio 2016, è Emil Dimitriev, conservatore, segretario dell’Internal Macedonian Revolutionary Organization - Democratic Party for Macedonian National Unity (VMRO-DPMNE). Un partito dal nome molto lungo.[1] Si tratta di un partito che si proclama cristiano e democratico, sebbene abbia un carattere fortemente nazionalistico. Quello attuale è un governo ad interim, costituitosi in seguito a una grave crisi politica interna, e il paese andrà alle elezioni nel giugno 2016. La destra quindi anche qui cerca di cavalcare la questione dei profughi contro il SDSM (Social Democratic Union of Macedonia) partito rivale di orientamento socialdemocratico.
3.6. E che dire della civilissima Danimarca che si trova oggi sotto la guida di un governo di coalizione di destra guidato dal primo ministro Lars Lokke Rasmussen (del Partito Liberale), che si regge però sull’appoggio esterno dello xenofobo Partito del popolo (DF) di Kristian Thulesen Dahl. Il DF si oppone in particolare all'immigrazione, specialmente da paesi musulmani, considerati culturalmente incompatibili con la società danese. La coalizione guidata da Rasmussen ha fatto recentemente approvare una legge piuttosto ripugnante, che fa tornare alla memoria ben altri tempi, che prevede il sequestro dei beni personali ai migranti che fanno richiesta di asilo. La motivazione è di far fronte alle spese della loro accoglienza.
E che dire poi della Francia, terra della laicità, della liberté, egalité e fraternité che pure ha fatto uno sforzo per integrare al proprio interno le diverse etnie. Ebbene, la Francia ha generato un partito xenofobo dalle percentuali a due cifre, la cui rappresentante aspira ora alla Presidenza della Repubblica. Lo stesso discorso vale per quasi tutti gli altri paesi, dove le correnti xenofobe sono ormai diffuse e notoriamente in crescita. Lo stesso vale anche per l’Italia dove la destra xenofoba, non fosse per le sue divisioni interne, avrebbe probabilmente la maggioranza.
3.7. A partire da questa rapida e certo incompleta rassegna di casi recenti più o meno eclatanti di euro-xenofobia, possiamo  affermare, con un qualche fondamento, che i paesi dell’Europa che nel secondo conflitto mondiale e poi nella Guerra fredda hanno subito le peggiori forme di oppressione e i maggiori disastri, i paesi che si sono trovati spesso dalla parte sbagliata, quelli che avrebbero dovuto imparare più duramente dai propri errori, sono oggi anche i paesi più retrivi, i paesi più inospitali, i paesi più sordi al destino dei profughi. In altri termini, i paesi che avrebbero avuto più ragioni per ricordare pare invece abbiano fatto di tutto per dimenticare. Oppure hanno adottato uno schema di memoria a compartimenti stagni: quel che è successo allora non c’entra nulla con quel che succede oggi. I popoli che solitamente sono così pieni di sé, così pieni del loro orgoglio nazionale e delle loro identità, delle loro narrazioni ancestrali, in certi casi mostrano di avere la memoria davvero molto corta.
 
4. Una certa sinistra nostrana ci ha abituati a prendercela con le classi dirigenti europee, con la burocrazia di Bruxelles, con le istituzioni finanziarie, con il cosiddetto neoliberismo. Con il finanzcapitalismo. Spesso l’Europa è rappresentata come un oscuro manipolo di complottisti che tramano per l’affermazione dei loro interessi. Ebbene, una volta tanto sembra proprio che la colpa non possa essere addossata alla finanza e all’economia. Gli stati europei bene o male sono democratici, sono proprio i popoli dell’Europa che eleggono i parlamenti e i governi i quali poi chiudono le frontiere, costruiscono i reticolati e manganellano i profughi. Nell’Europa democratica ci sono i fili spinati democratici e, talvolta, come s’è visto, anche quelli socialdemocratici. Sono, ahimè, le maggioranze a essere responsabili di questa svolta retriva. Maggioranze che guardano solo all’immediato, che sono ignoranti (nel senso che ignorano quel che dovrebbero sapere), che hanno poca memoria. Si dice che i governi abbiano paura del populismo. Il problema è che i populisti non fanno altro che dare voce pubblica, libero sfogo, ai sentimenti più profondi che allignano tra le masse. Il populismo è solo il rivelatore di un sentimento radicato di particolarismo e di esclusione che ormai serpeggia ovunque. Diciamolo pure in un altro modo, i governi sanno benissimo che per restare in sella bisogna tener conto della pancia dei popoli. Poiché l’Europa è popolata di maggioranze arretrate, i sistemi politici europei non possono fare altro che produrre risposte politiche di chiusura. I sistemi politici democratici europei non fanno che amplificare gli egoismi dei popoli. Al punto da anticipare i peggiori egoismi dei propri popoli per mere convenienze elettorali. Non sono i popoli che sono schiavi della propaganda, sono i politici che vanno a ruota, al seguito dell’immaturità delle masse dei loro rispettivi paesi.
 
5. Così questa Europa imbelle, schiava delle maggioranze immature, non ha trovato di meglio che usare l’arma dello scambio di danaro per tentare di allontanare  da sé la questione dei profughi siriani. Di qui quell’assurdo patto con la Turchia, paese dalla già incerta democrazia, che in cambio di denari, calcolati nell’ordine dei miliardi, e della velocizzazione delle pratiche per il suo ingresso nella UE, dovrebbe fare il lavoro sporco di gestire il traffico dei profughi siriani. Piuttosto di darsi una politica estera degna di questo nome, piuttosto che darsi un’intelligence europea e una forza armata europea, piuttosto di procedere speditamente nel processo di unificazione, piuttosto di agire in prima persona garantendo l’asilo a chi ne ha diritto, si preferisce rinviare il tutto a tempi migliori e demandare le urgenze a terzi poco affidabili. Pagando in contanti. Quella dell’Europa somiglia oggi a una gigantesca replica della politica dell’appeasement, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Un paese d’irresponsabili che non ha il coraggio di fare quel che si dovrebbe. Se Roosevelt avesse ragionato come ragiona oggi in politica estera la UE, saremmo ancora tutti in camicia bruna, saremmo forse qualcosa di simile alla Corea del Nord.
 
6. Di fronte alle maggioranze arretrate anche le religioni sono state costrette a recedere, a tradire i loro principi e valori più profondi e conclamati. Abbiamo visto che molti dei governi più xenofobi della UE sono sostenuti da partiti che spesso si rifanno al cristianesimo o al cattolicesimo. Anche le religioni dunque mostrano i loro limiti e pare non sappiano più cosa dire e cosa fare, tranne la facile retorica degli appelli e delle prediche. Ricordiamo le polemiche veementi di alcuni nostri alti prelati e di alcuni nostri atei devoti che si strappavano le vesti poiché nella Costituzione europea non era stato inserito il preambolo sulle origini cristiane dell’Europa.  Ebbene, come chiediamo agli islamici europei di scendere in piazza contro il terrorismo islamista per dissociarsi, aspettiamo ora di vedere le masse cristiane e cattoliche scendere in piazza contro i propri governi xenofobi, magari con lo slogan «Not in My Name!». Tanto perché queste supposte radici cristiane si vedano, una volta tanto - a meno che il prototipo del cristiano europeo non sia Viktor Orbán.  La cristiana Angela Merkel, dopo la sua recente apertura ai profughi si è tirata addosso un sacco di critiche in patria e ha dovuto aggiustare il tiro. Papa Francesco ha invitato tutte le parrocchie italiane a ospitare le famiglie dei profughi: quante hanno risposto? Alla facile retorica di marca cristiana e cattolica corrispondono nei fatti (nelle cabine elettorali e nelle piazze) ben altri comportamenti. Si chiama ipocrisia.
E non è neanche vero del tutto che i paesi più secolarizzati, i paesi più laici, siano i paesi più accoglienti. Evidentemente anche la morale laica, su questo punto, lascia alquanto a desiderare. La laica Francia, com’è stato ricordato, ha generato un partito xenofobo dalle percentuali a due cifre. Anche la Francia progressista di François Hollande non ha una politica di respiro europeo sui rifugiati, mentre i blocchi alle frontiere e gli sgomberi li abbiamo visti anche lì. L’annoso dibattito sulle radici morali e culturali dell’Europa, se si tratti di radici religiose o di radici laiche, mostra così tutta la sua vacuità. Più che a una radice o a un’altra, sembra che ci troviamo piuttosto di fronte a una totale assenza di radici autentiche.
 
7. Questa condizione odierna in cui si trova l’Europa può essere descritta e compresa nei termini di una profonda malattia morale. Intendo con ciò un grave disturbo della moralità collettiva che impedisce a una comunità di condividere un complesso di principi e di regole di tipo universalistico, capaci fondare compiutamente un concetto maturo di umanità.[2] Una comunità sociale e politica che nei fatti sia profondamente divisa sui principi di fondo che definiscano cosa debba intendersi per umanità non può che essere una comunità fittizia, un artificio di comodo per favorire, al più, traffici e commerci, non certo una comunità morale. Se l’Europa spesso si riduce a essere di fatto un’istituzione dal carattere strumentale è perché un’altra Europa proprio non c’è. Se c’è, è in netta minoranza e non è in grado di contare più di tanto.
Le malattie morali non si curano con le consultazioni democratiche, perché queste non possono fare altro che rispecchiare implacabilmente la malattia stessa. Le malattie morali si curano attraverso la maturazione morale degli individui. Si curano istituendo un circuito virtuoso tra la cultura civica che dovrebbe salire dal basso e la pedagogia istituzionale che dovrebbe scendere dall’alto. Purtroppo nei paesi europei, essendo questi relativamente nuovi o del tutto nuovi alla democrazia, la cultura civica diffusa lascia alquanto a desiderare e la pedagogia istituzionale fornisce spesso esempi che peggio non si potrebbe. Gli intellettuali europei, il mondo della cultura, sembrano tuttora incapaci di uscire dal buco delle loro prospettive nazionali per riuscire a pensare su scala continentale e globale. Quel che ci servirebbe davvero, cioè un esercizio di meditazione e apprendimento a partire dalla nostra storia recente, lo stiamo evitando, lo stiamo mettendo da parte accuratamente, lo stiamo rimuovendo.
 
8. L’Europa è nata dalla resistenza contro il fascismo, contro il nazismo, ma anche dalla resistenza, assai meno celebrata, contro il socialismo e il comunismo reali. Una resistenza lunga che, oltrecortina, si è prolungata fino alla caduta dei regimi comunisti. Mi è capitato, in uno scritto di molti anni fa, di definire e considerare anche il movimento internazionale del Sessantotto come una resistenza alla guerra fredda.[3] Ebbene, se l’Europa odierna è l’esito di tutte quelle complesse e lunghe resistenze, allora dobbiamo ammettere che qualcosa non ha funzionato. Le resistenze evidentemente non sono bastate. Le resistenze forse hanno fallito, forse di fatto sono state sconfitte. Ma non hanno fallito per il motivo cui si pensa comunemente. Il vero problema dell’Europa non è il finanzcapitalismo, come molti si ostinano ancora a credere. È la pancia dei popoli. La loro penosa arretratezza, la loro meschinità, la loro mancanza di memoria, la loro ipocrisia religiosa, i loro piccoli nazionalismi, la loro incerta definizione della stessa nozione di umanità.
 
9. I nostri genitori hanno combattuto il nazismo e il fascismo. Molti di noi hanno continuato a dirsi e a sentirsi antifascisti. Molti di noi hanno appoggiato le lotte contro i regimi dell’Est, dalla Rivoluzione ungherese del 1956 alla Primavera di Praga, da Solidarność fino alla caduta del muro di Berlino. Ma avevamo certo le idee più chiare su quel che era giusto rifiutare che non sul modello di società da costruire. Ci siamo schierati e abbiamo combattuto contro qualcosa. Ora, è forse giunto il momento di aprire il dibattito per definire con chiarezza per cosa ci vogliamo impegnare, per cosa vogliamo esistere come società civile europea. Quale modello di umanità ci ispira, quale modello di umanità vogliamo costruire. I profughi che corrono per le strade d’Europa, quelli che bussano alle porte dell’Europa, oggi ci impongono, solo con il fatto della loro presenza, a riaprire quel dibattito che non abbiamo mai veramente iniziato o che, stupidamente, avevamo addirittura creduto concluso. I profughi sono lo specchio nel quale si riflette il nostro ancora incerto, immaturo e contradditorio modello “europeo” di umanità. Questa dunque è la domanda alla quale davvero non possiamo più sfuggire: chi siamo davvero e che modello di umanità vogliamo. Purtroppo, oggi ci troviamo a dover affrontare e definire questa questione non in astratto, non in termini filosofici o letterari, ma confrontandoci concretamente e direttamente con la pancia dei popoli, con la zavorra delle maggioranze arretrate, non solo di casa nostra ma di tutto un continente. Buon 25 aprile.
 
      Giuseppe Rinaldi
      21/04/2016
 
 
OPERE CITATE
 
2010   De Monticelli, Roberta
La questione morale, Raffaello Cortina, Milano.
 
1999   Rinaldi, Giuseppe
Il Sessantotto nella situazione internazionale, in Arnoldi, Mario  &  Rinaldi, Giuseppe   (a cura di), Trent’anni dopo. Due saggi sul Sessantotto, Edizioni dell'Orso, Alessandria.
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Uso il nome in inglese, onde evitare il cirillico.
[2] Sulla nozione di immaturità morale collettiva vedi De Monticelli 2010.
[3] Cfr. Rinaldi 1999.

giovedì 14 aprile 2016

Guerre di religione

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1. In un suo breve articolo[1] pubblicato nella rubrica Contromano, sul Venerdì di Repubblica, Curzio Maltese, di cui in genere mi capita di condividere le prese di posizione, se n’è uscito con una serie di affermazioni piuttosto sorprendenti. L’assunto principale sostenuto dall’autore è che: «[…] la religione è sempre servita da maschera per gli interessi economici».[2] Di conseguenza, afferma l’autore: «Qualsiasi persona di media cultura dovrebbe sapere ormai che le guerre di religione non sono quasi mai esistite, neppure in epoche in cui la religione contava assai più di adesso nella vita quotidiana».[3] L’affermazione è davvero impegnativa, soprattutto per il suo grado di generalizzazione e per il riferimento al passato.
Curzio Maltese è sicuro di stare sostenendo una tesi assai ovvia e universalmente condivisa, infatti, a suo giudizio: «È questa una lettura ormai banale e accettata perfino dalla maggior parte dei testi scolastici e non solo da quelli «di sinistra»».[4] E così continua: «Eppure a leggere i giornali e ad ascoltare i talk show sembra che nessuno dei partecipanti e degli opinionisti abbia compiuto gli studi dell’obbligo. Tutti impegnati a discutere di scontri di civiltà e guerre fra Islam e Occidente, come se davvero contassero questi valori per i signori delle guerre. Si continua addirittura ad analizzare i poveri sconclusionati scritti di Oriana Fallaci, che ebbero gran successo nella società della distrazione di massa, come pure i blockbusters al cinema, i romanzetti erotici, il fast-food, il populismo razzista e altra cianfrusaglia per poveri di spirito».[5]
 
2. Insomma, ci par di capire, secondo Curzio Maltese le religioni (e dunque quella islamica che ci interessa in particolare) non c’entrano con quello che sta succedendo oggi nel cosiddetto mondo islamico e, per contraccolpo, nel resto del mondo. Che le religioni c’entrino qualcosa sarebbe solo una beata illusione dei commentatori superficiali e scarsamente acculturati che ancora si affannano a discutere di fantasmi. Va detto subito che una conseguenza quanto mai interessante di queste posizioni è che, in questo modo, le religioni sono completamente assolte da qualunque tipo di responsabilità storica. Infatti, così precisa Curzio Maltese: «Nella lettura dei Vangeli o del Corano non si può trovare alcuna giustificazione per gli immensi massacri compiuti nel nome di Gesù o di Maometto, che sono serviti a fini di potere».[6] Questa posizione è del tutto analoga a quella di certi islamici nostrani che affermano che il terrorismo islamista, come quello degli attentati a Parigi e a Bruxelles, non li riguarda minimamente, che non riguarda l’islam e che per giunta i terroristi che fanno quelle cose non possono essere islamici.[7]
 
3. La prova decisiva delle sue tesi starebbe, secondo Curzio Maltese, nella universale diffusione di un certo qual realismo politico motivato da interessi di bassa lega che coinvolgerebbe tutti i contendenti delle guerre contemporanee: «Nei vertici internazionali fra i potenti della terra non si parla mai di valori religiosi o di principi democratici […] ma di oleodotti, investimenti, strategie economiche. I valori dell’Occidente non impediscono ai nostri governi democratici di avere come alleati l’Arabia Saudita, dove le donne non possono neppure guidare, o la Turchia che ha il record mondiale di giornalisti in carcere. D’altra parte il Corano non impedisce ai capi dell’IS di arricchirsi con ogni sorta di traffici, vivere nel lusso sfrenato e fare affari con l’Occidente degenerato».[8] Ci par di capire che il fatto che i leader delle guerre non siano veri uomini di fede e coltivino invece degli interessi materiali sarebbe sufficiente a qualificare quelle stesse guerre come guerre laiche, prive cioè di un qualsiasi fondamento religioso.[9] Così anche i laici sono sistemati.
 
4. Si potrebbe obiettare che in molti casi queste guerre hanno avuto come obiettivo la sconfitta o addirittura lo sterminio dell’avversario religioso, oppure l’obiettivo interno dell’imposizione di leggi religiose, come avviene oggi con la shari’a. Oppure, ancora, si potrebbe obiettare che il fenomeno del martirio o del terrorismo suicida deve per lo meno avere come presupposto una forte convinzione soggettiva di tipo religioso. Le evidenze empiriche che vanno in questa direzione e che sono emerse soprattutto negli ultimi tempi, sono spiegate in questo modo: «Naturalmente nessun crociato sarebbe morto per una rotta commerciale piuttosto che per la Terra Santa, così come non si troverebbero kamikaze disposti a farsi saltare per aria, distruggendo tante vite innocenti, per arricchire un califfo, invece che per onorare Allah e finire in paradiso con uno stuolo di vergini. La storia è piena di masse trasformate in carne da macello grazie ad assurde superstizioni. Ma noi perché dobbiamo perdere tempo in sciocchezze invece di combattere gli interessi materiali che stanno dietro queste stragi?».[10]
Queste tesi nel loro complesso hanno un terribile sapore di deja vu. Si può dire che corrispondano a una nostra vecchia conoscenza, mai sparita dalla circolazione e che anzi tende a riprodursi in modo allargato fino a pretendere di diventare senso comune. Si tratta della teoria secondo la quale sono gli interessi materiali a muovere la storia. Invece, le motivazioni soggettive, gli elementi culturali, sono soltanto delle sovrastrutture controllate e manipolate da chi si trova in posizione dominante. Chi possiede il potere può manipolare le coscienze e quindi può tranquillamente usare la massa dei superstiziosi per i propri scopi. Alcuni decenni or sono questa teoria serviva a interpretare le società capitalistiche e a predicare l’ineluttabilità della rivoluzione proletaria, ora viene applicata all’islam per sostenere che in fondo «siamo tutti uguali» e cioè schiavi degli interessi materiali.
 
5. Una tesi assai simile, magari con qualche articolazione in più, è stata spesso enunciata anche da Lucio Caracciolo, il direttore di Limes, nei suoi numerosi interventi pubblici e sui media, quando si è trovato ad analizzare le vicende relative all’IS e alla diffusione del terrorismo di matrice islamista in Europa. Secondo questo modo di pensare, la religione sarebbe soltanto un paravento atto a nascondere il vero gioco degli interessi; per capire quello che sta succedendo occorre accuratamente prescindere dalla religione e occorre rivolgersi a comprendere i conflitti di interessi che si scontrano sul terreno dei rapporti internazionali. Occorre prendere in considerazione gli interessi materiali. La politica internazionale è così ridotta a una sorta di fisica dei rapporti internazionali, quasi come se stessimo discutendo delle leggi della meccanica o magari della dinamica dei fluidi. Tutto questo è solitamente chiamato geopolitica, termine cui viene conferita una grande aura di modernità e di scientificità.
 
6. Le tesi di Curzio Maltese e di Caracciolo sono soltanto l’ennesima manifestazione della già citata tesi riduzionistica secondo cui la storia è prodotta in ultima analisi dai conflitti di potere e dai conflitti economici. Si tratta di una visione davvero molto antica che ha per lo meno tre illustri predecessori, un certo Machiavelli, cioè una certa lettura del Machiavelli, il cinico Hobbes e il materialismo storico di Marx. Una grande famiglia di realisti - materialisti.
Questo insieme di tesi ha avuto una certa fortuna – oltre che per il fatto indubitabile che in certi casi è risultato del tutto applicabile e corretto – soprattutto perché sembra in grado di offrire una spiegazione scientifica della storia, sembra in grado di individuare una legge ineluttabile, una volta conosciuta la quale possiamo trarne con successo una serie di esiti, non solo di tipo filosofico ma anche di tipo pratico. Se riteniamo di possedere una sorta di fisica del potere e degli interessi economici possiamo coltivare l’illusione di poter manipolare le forze in gioco e quindi di venire a capo di tutte le questioni che ci interessano. Se invece ci trovassimo di fronte agli insondabili meandri della coscienza, oppure alle dinamiche delle ideologie e delle religioni, alle dinamiche sfuggenti della cultura, allora ci troveremmo in una situazione di enorme maggiore incertezza.
 
7. La teoria riduzionistica, come s’è detto, non è del tutto campata per aria. Veniamo da una storia – quella europea – nella quale effettivamente, almeno negli ultimi due secoli, i conflitti di potere e i conflitti economici (spesso tra loro strettamente intrecciati) l’hanno fatta da padroni. In base a questa esperienza è stato così fin troppo facile sviluppare la convinzione che tutti i conflitti siano sempre e soltanto di questo tipo. È stato facile proiettare questo schema anche nel passato prossimo e in quello remoto, per cui è stato possibile andare a studiare cose come la lotta di classe nella Grecia antica o nel medioevo. Tuttavia basterebbe andare appena un poco più in là dei “manuali scolastici” sempre pronti a inseguire l’ultima moda – magari di sinistra come quelli che conosce Curzio Maltese – per scoprire che le guerre di religione sono sempre state la norma conclamata piuttosto che l’eccezione e che in particolare hanno rappresentato il filo conduttore profondo della storia europea. Questo è avvenuto semplicemente per il fatto che la religione ha rappresentato per secoli il cemento comune indispensabile a qualunque società. Si noti che il più delle volte sono stati gli attori stessi a dichiarare che stavano facendo la guerra per motivi religiosi. Perché mai non si deve credere alle dichiarazioni esplicite delle parti in causa? La teoria secondo la quale gli attori s’ingannano sistematicamente circa le loro reali motivazioni non può essere applicata a tappeto. Può darsi che qualche volta sia accaduto, ma allora l’auto inganno andrebbe dimostrato e la cosa non è semplice.
 
8. Ridurre, ad esempio, la diffusione del cristianesimo primitivo a mere questioni di interessi materiali è davvero azzardato. La Reconquista si può spiegare a prescindere dalla religione? E la battaglia di Lepanto? Possiamo spiegare Giovanna d’Arco e Guy Fawkes senza ricorrere alla religione? E che dire di Cromwell? In Francia un intero periodo della storia nazionale è intitolato proprio alle guerre di religione. È curioso poi che, tra i suoi esempi, Maltese non abbia citato la riforma protestante, una guerra civile dove senz’altro c’erano anche delle motivazioni economiche ma che è terminata con l’affermazione del principio del cuius regio eius religio. 
Per venire ai tempi nostri, come si fa a ridurre l’antigiudaismo e l’antisemitismo a una mera questione di interessi materiali? Perché non si deve prendere sul serio Israele quando proclama di essere «lo Stato degli ebrei»? In tutto il mondo ci sono molte aree dove infuriano tensioni e conflitti di tipo religioso, con tanto di attentati, massacri, chiese incendiate, e così via. E’ davvero difficile negarne il carattere religioso.  Perché non si deve prendere sul serio il folle progetto di Boko Haram di instaurare la shari’a nell’Africa sub sahariana? Il fatto che i Talebani siano stati aiutati in origine dagli occidentali non toglie nulla al fatto che il loro progetto di costruzione di una repubblica islamica aveva una base di tipo religioso. Quale interesse economico possiamo attribuire poi al ricco Bin Laden che ha finito i suoi giorni in una miserabile caserma, in una landa desolata, per combattere la sua jihad? Dobbiamo rassegnarci: la religione ha contato alquanto e conta tutt’ora.
 
9. I realisti politici e i marxisti tendono a presentarsi come spassionati osservatori dei dati empirici, come veri e propri scienziati storico sociali privi di preconcetti. In realtà la loro posizione esprime una ben precisa visione della società, una ben precisa filosofia della storia, come s’è detto, di tipo riduzionistico. E le filosofie della storia sono, si sa, per l’appunto, filosofie. Modi di vedere le cose che pretendono di mettere le braghe a tutta la storia passata, presente e futura. Decisamente un po’ troppo se vogliamo trovare davvero delle indicazioni pratiche per orientarci nel presente. Le filosofie della storia assomigliano alquanto proprio alle ideologie o addirittura alle religioni. Ragion per cui, se vogliamo valutare l’impatto delle religioni sulla società e sulla storia forse dovremmo fare a meno proprio delle filosofie della storia.
 
10. Se c’è una cosa che abbiamo imparato negli ultimi tre o quattro decenni è che, a livello storiografico e a livello delle scienze sociali, le spiegazioni mono-causali di solito non stanno in piedi e che, al più, solo qualche volta ci azzeccano, come l’orologio fermo che due volte al giorno segna l’ora esatta. Intanto non è neanche vero che a fare la storia siano sempre e soltanto i conflitti. Il conflitto ha una sua rilevanza, ma ci sono anche altri fattori che prescindono completamente dalla conflittualità. Esistono ragguardevoli imprese di ricerca che hanno avuto buoni successi cercando di mettere in rilievo gli elementi di continuità piuttosto che gli elementi di conflitto e rottura.
Ammettiamo pure che si ritenga preferibile operare nel quadro di una teoria del conflitto, non è assolutamente vero che i conflitti debbano svolgersi soltanto a livello politico o economico. Se consideriamo solo gli ultimi due secoli, abbiamo visto alla ribalta conflitti di tipo assai diverso, spesso mescolati tra loro in maniera molto stretta. Negli ultimi decenni gli studiosi hanno via via preso in considerazione una gamma davvero assai ampia di conflitti. Ci riferiamo ai conflitti generazionali, i conflitti di genere, i conflitti etnici, i conflitti religiosi, i conflitti linguistici, i conflitti nazionali, i conflitti di potere, i conflitti economici, i conflitti di classe, i conflitti razziali, i conflitti centro/ periferici, i conflitti di civiltà. Ognuno di questi tipi di conflitti ha una sua specificità e tuttavia è in grado di interagire con buona parte degli altri tipi, creando modelli di conflittualità assai complessi. In ogni caso, la riduzione di tutto ciò a conflitti di potere economico è miope e semplicistica.
 
11. Chi la pensa come Curzio Maltese finisce per coltivare senza accorgersene una visione riduttiva e fondamentalmente falsa delle stesse religioni. La tendenza è quella di ridurre la religione ai contenuti delle credenze, alla narrazione contenuta in un Libro di qualche tipo. Appunto, la parola di Cristo o le prediche di Maometto, le quali di per sé non possono che essere inoffensive. Le religioni, in realtà, soprattutto nelle epoche passate, hanno sempre rappresentato l’ordine fisico, l’ordine sociale e l’ordine culturale, hanno cioè costituito la modalità principale attraverso cui una società poteva organizzarsi, prendere coscienza di sé e definire una propria azione storica. La religione, in tali casi, per una società non può che rappresentare davvero tutto. Nell’elemento religioso sta l’identità individuale, stanno le relazioni familiari e sociali, la lingua, le istituzioni e le forme di governo; ma anche la gerarchia sociale e la divisione del lavoro,  l’amministrazione della giustizia, le forme artistiche e le tecniche, il calendario, la scienza naturale, la stessa nozione della storicità, i rapporti con le altre religioni e con gli altri popoli.
Il fatto che col passar del tempo alcune religioni abbiano ceduto alla cultura secolare alcune, o buona parte, di queste funzioni non ha cambiato la natura delle religioni. Per la maggior parte del tempo della storia umana sono state proprio le religioni a organizzare le società nel loro complesso. Di guerre ce ne sono state a bizzeffe ed è davvero buffo ritenere che la religione sia sempre stata solo un paravento estrinseco. Non sappiamo neanche ancora se la laicizzazione che si è affermata in occidente negli ultimi secoli debba essere considerata come un trend definitivo, oppure se non sia una piccola anomala parentesi che preluda a un ritorno della religione, come alcuni studiosi hanno previsto e come molti auspicano. Qualcuno del resto ha sostenuto che le moderne ideologie altro non siano che religioni secolari.
 
12. Non è neanche vero che tutte le religioni si siano secolarizzate, come è invece successo ad alcune religioni in Occidente, e non è vero che si stia assistendo ovunque alla privatizzazione e all’interiorizzazione della religione. In una certa parte del mondo si è anzi assistito, proprio nel Novecento, a una sorta di «rivincita di Dio», come ha sostenuto Kepel,[11] che ha preteso di combattere la secolarizzazione e di ritornare a forme di società religiose integrali, dove la religione giochi un ruolo pubblico fondamentale. Indubbiamente il tentativo più rilevante in questo senso pare oggi essere quello del fondamentalismo islamista (pur con tutte le sue varianti) che mira a costituire la società islamica secondo il modello tradizionale della shari’a e della umma. Il libro diventa in questo caso il testo unico posto al centro della società e della cultura e il libro diventa anche la guida per la guerra.
 
13. Curzio Maltese sembra poi dimenticare (qui non ha letto bene neanche i manuali scolastici) che tutte le grandi religioni hanno espresso dei ben precisi modelli di organizzazione sociale, di organizzazione politica e di organizzazione economica. Modelli di società che sono del tutto subordinati a un finalismo religioso. Fin da Weber è stata studiata accuratamente proprio l’etica economica delle grandi religioni. Ancora oggi in Occidente, in una fase di accentuata secolarizzazione, si sostiene che l’etica economica delle religioni del passato abbia avuto una sua percepibile influenza. In Europa, i Paesi che hanno conosciuto la riforma protestante sono notoriamente diversi per tanti aspetti da quelli che hanno conosciuto la controriforma. La stessa nozione dell’individualità che oggi fonda la laicità in Occidente è nata proprio sul terreno della religione.
 
14. Nei confronti dell’islam, siamo propensi a fare costantemente due errori percettivi che sono nell’ordine: a) ritenere che l’islam sia ormai una religione secolarizzata, privatizzata, confinata nell’interiorità individuale e che quindi possa tranquillamente aspirare a godere della libertà religiosa in un quadro pluralistico; b) ritenere quindi che i contenuti religiosi e le motivazioni religiose non abbiano alcuna autonomia effettiva e che siano destinati a passare in secondo piano con l’affermazione progressiva del benessere economico; ritenere, in altri termini, che la coscienza finisca sempre per adeguarsi alle condizioni materiali.
Come ha bene osservato Ayaan Hirsi Ali[12] in contrasto con queste posizioni, l’islam in realtà non ha mai deposto la propria ambizione a regolare integralmente la vita del credente e della società intera. Nei paesi islamici non è mai avvenuto un processo di secolarizzazione, di privatizzazione e di interiorizzazione come quello che si è riscontrato in Occidente. Una riforma dell’islam, equivalente alla riforma protestante, non è mai avvenuta e pare non essere neanche alle porte.  Senza una riforma del genere non sarà possibile per l’islam diventare compiutamente una religione privata dell’interiorità capace di agire in un quadro pluralistico di libertà religiosa. Quelle a cui assistiamo nel mondo islamico oggi sono per l’appunto guerre dove certamente il fattore del potere, il fattore economico, oppure il fattore etnico, hanno una certa importanza ma dove il problema fondamentale è ancora quello religioso, mescolato ovviamente a tutti gli altri aspetti della società che la religione pretende di dirigere e di regolare.
 
15. La centralità della questione religiosa in quest’area è nettamente percepibile a partire da due fenomeni tra loro correlati: a) il rifiuto della secolarizzazione e della modernizzazione (il rifiuto esplicito di diventare una religione dell’interiorità) e, quindi, la reazione contro l’Occidente, visto da tutte le correnti religiose islamiche fondamentaliste come il regno del male; b) l’esplosione di una vera e propria guerra civile interna, a sfondo politico – religioso, che ha a che fare con la definizione di quale sia la vera osservanza. Si tratta, in generale, del trasferimento sul piano della globalizzazione di vecchi conflitti religiosi interni che hanno sempre attraversato l’islam. La spaccatura più rilevante è quella ben nota tra sunniti e sciiti, cui però si aggiungono moltissime altre linee di frattura.
La guerra di religione nell’islam odierno si configura quindi come guerra su due fronti, contro il nemico esterno e contro il nemico interno. Si tratta di processi che si alimentano vicendevolmente e che possono indubbiamente sfruttare il contesto internazionale nelle maniere più varie. Il fatto poi che, all’interno di questi due conflitti principali, possano trovare posto istanze di giustizia sociale, oppure la difesa di una qualche specifica identità etnica, non toglie che il carattere principale dei conflitti, il filtro fondamentale, sia di carattere religioso. Il motivo di ciò è proprio il fatto che nelle società di quei paesi l’elemento religioso è ancora l’organizzatore fondamentale della vita politica, sociale, culturale ed economica.[13] I Fratelli musulmani, che sono diffusi in molti paesi e che hanno un vasto seguito tra le masse islamiche, non sono certo un movimento affine all’IS, eppure sono fautori dell’applicazione letterale della shari’a, sono cioè fautori di quello che noi chiamiamo stato etico. Quel modello di stato che abbiamo combattuto sotto il nome di fascismo, nazismo e comunismo reale.
 
16. Di fronte a questa complessità, l’armamentario concettuale di Curzio Maltese – e di tutti gli orientamenti consimili – è decisamente inadeguato e pressoché del tutto speculare rispetto a quello della Oriana Fallaci che egli tanto critica. Certi modi di pensare schematici possono sopravvivere solo se li si coltiva, appunto, religiosamente e non li si mette mai a confronto con i dati della realtà. Un atteggiamento da realismo politico in senso stretto può essere utile al più nelle contingenze immediate, quando si deve trattare un cessate il fuoco o uno scambio di prigionieri. Ma quando si tratta – come si tratta – di intervenire in conflitti dal carattere marcatamente religioso in modo da non fare dei disastri, in modo da precostituire i fondamenti per uno sviluppo pacifico, in modo da favorire effettivamente i «diritti dell’uomo», allora non si possono trascurare le dinamiche di tipo religioso, anzi, va loro dato un posto centrale. Il fallimento dell’intervento in Afghanistan e ancor più in Iraq è stato dovuto proprio all’applicazione dello schema miope del realismo politico e dell’economicismo.
 
17. La questione che qui vien posta ha rilevanza non solo a proposito delle questioni internazionali ma anche nella politica interna dei Paesi occidentali. La sottovalutazione sistematica dell’importanza del fattore religioso non può che produrre una visione superficiale dei problemi dell’integrazione degli immigrati islamici in Occidente. Secondo questo schema, la questione dell’integrazione viene ricondotta, appunto, agli interessi materiali, cioè viene ricondotta a una serie di interventi di natura prevalentemente economica (casa, lavoro, servizi,…). Sul piano culturale la questione è ricondotta sic et simpliciter all’apprendimento della lingua e all’esercizio della libertà religiosa (il diritto di avere un luogo di culto, il rispetto delle loro tradizioni e dei loro precetti).[14]
Questa posizione, per quanto non del tutto inutile, è del tutto incapace di cogliere la tensione aspra che è indotta nelle coscienze individuali quando da un lato si condivida fin dall’infanzia una religiosità intesa come una regola integrale di vita e di organizzazione sociale e ci si trovi poi d’altro lato a vivere in un assetto fondato sulla individualità e sul pluralismo come quello prevalente in Occidente. Chi è stato abituato a concepire l’islam come regola integrale di vita e di organizzazione sociale non può che percepire una frattura profonda con il modello occidentale di vita, non può che sentirsi estraneo all’Occidente. Non può che considerare l’Occidente come il Regno del male.[15]
 
18. Poiché non esiste oggi un islam riformato, un islam che abbia fatto seriamente i conti con la modernità,[16] gli islamici che si trovano a vivere in Occidente non possono che reprimere la propria prospettiva religiosa originaria in virtù del bisogno di adattarsi. Quanto è messo da parte, può affievolirsi e sparire col tempo, e così accade il più delle volte; ma può anche riemergere con conseguenze drammatiche. In personalità poco strutturate che si trovano in bilico tra due mondi così radicalmente opposti ci sono tutte le condizioni per scatenare forme di conversione, nel senso letterale del termine, conversioni che hanno il senso del ritorno alle origini, della riappropriazione della propria identità perduta. Un genitore, magari onesto lavoratore, d’un tratto può decidere di uccidere la figlia perché essa rifiuta le regole matrimoniali della tradizione, o semplicemente perché veste all’occidentale; una giovane ragazza istruita nelle nostre scuole può sognare di diventare moglie di un guerriero dell’IS e può decidersi a partire per unirsi al Califfato; uno sbandato può decidere di dare un senso alla propria vita definendo ora come estranei coloro in mezzo ai quali è  nato e cresciuto e giungendo a mettere in pratica atti di terrore; un emarginato qualunque può sentirsi offeso per una vignetta o per un film e può decidere di obbedire a una fatwa omicida di cui ha conosciuto l’esistenza magari solo su Internet.
 
19. Certo, chi si trova in bilico tra due mondi può anche vivere tacitamente la propria contraddizione e continuare ad adeguarsi al modello occidentale. Questo è senz’altro il modello di adattamento prevalente, quello che ha un maggior successo. Di fronte tuttavia a un correligionario che gli assomiglia e che, invece, ha fatto la scelta del terrore egli potrà considerarlo pur sempre come un «fratello», oppure come un «compagno che sbaglia»,[17] potrà far finta di non vedere, potrà volgersi dall’altra parte, che è già un modo di solidarizzare, oppure potrà favorirne indirettamente l’attività. A Molenbeek, nelle giornate della crisi, ci sono state molte manifestazioni d’insofferenza nei confronti dei giornalisti e nei confronti della Polizia (esattamente simili alle manifestazioni di strada contro la Polizia cui assistiamo nel nostro Paese quando viene arrestato un boss mafioso). Per questo i terroristi di Parigi e di Bruxelles si sono rifugiati nel loro quartiere d’origine, per questo i mafiosi, i camorristi, anche quando latitanti, non abbandonano mai il loro territorio. Eppure Molenbeek – la televisione l’ha mostrato – è tutt’altro che uno slum di periferia sporco e degradato. Case in buone condizioni, negozi, strade pulite e ordinate. Si tratta di condizioni materiali infinitamente migliori di quelle di un medio paese del Medio Oriente. Non sono state certo principalmente le motivazioni economiche quelle che hanno spinto i ragazzi di Molenbeek ad andare a combattere con l’IS e a farsi esplodere come martiri. La celebrazione degli interessi materiali fa parte soltanto dei nostri paraocchi tipicamente eurocentrici e questa distorsione sistematica è il perno attorno a quale ruota e si avvita anche la nostra debolezza concettuale di fronte alle guerre di religione.
 
Giuseppe Rinaldi
10/04/2016
16/04/2016 (rev.)
 
 
 
OPERE CITATE
 
2016 Curzio Maltese
Le guerre di religione? Mai esistite. Ma nei Talk Show se ne blatera ancora, in Il Venerdì di Repubblica, n. 1464 del 8 aprile 2016.
 
2015   Hirsi Ali, Ayaan
Heretic, Harper.  Tr. it.: Eretica, Rizzoli, Milano, 2015.
 
1991   Kepel, Gilles
La revanche de Dieu, Éditions du Seuil, Paris.  Tr. it.: La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991.
 
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Curzio Maltese 2016.
[2] Cfr. Curzio Maltese 2016: 2 cpv. Testo integrale del capoverso: «Dalle Crociate al primo Califfato, dalla colonizzazione in Africa e Americhe all’impero Ottomano, la religione è sempre servita da maschera per interessi economici»
[3] Cfr. Curzio Maltese 2016: 1 cpv.
[4] Cfr. Curzio Maltese 2016: 5 cpv.
[5] Cfr. Curzio Maltese 2016: 6 cpv.
[6] Cfr. Curzio Maltese 2016: 3 cpv.
[7] Su questo punto si veda il mio articolo “Non è Francesca” pubblicato su questo blog Finestrerotte.
[8] Cfr. Curzio Maltese 2016: 6 cpv.
[9] Maltese dimentica che se anche per ipotesi tutti i fondatori di religioni fossero stati degli impostori, come peraltro è stato autorevolmente sostenuto, ciò non cambierebbe di un millimetro la natura delle religioni come fenomeno storico sociale.
[10] Cfr. Curzio Maltese 2016: 7 cpv. Questa tra l’altro è la chiusa dell’articolo.
[11] Cfr. Kepel 1991.
[12] Cfr. Hirsi Ali 2015.
[13] Per questo motivo si pretende l’osservanza integrale della shari’a, per questo si può sparare alle ragazze che vanno a scuola e si può proclamare che boko haram, cioè che l’educazione occidentale è blasfema per definizione.
[14] Interventi che suscitano le ire degli indigeni.
[15] Su tutti questi punti si veda sempre Hirsi Ali 2015.
[16] I cosiddetti “islamici moderati” sono considerati come dei cattivi islamici da coloro che seguono un islam letterale. La lettera dell’islam non è mai stata riformata, anzi, è stata spesso irrigidita nelle lotte e nei conflitti interni (si pensi al wahabismo oppure ai Fratelli musulmani, oppure all’integralismo sciita). Solo dopo una riforma effettiva potrà darsi un islam moderato dottrinalmente coerente, altrimenti ci saranno soltanto degli islamici tiepidi, che seguono superficialmente le loro dottrine.
[17] Di «compagni che sbagliano» ne sappiamo qualcosa, nella nostra storia recente.