lunedì 22 settembre 2014

Non è Francesca…

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Nella trasmissione «Piazza pulita» di venerdì 15 settembre si discuteva, tra le altre cose, di politica estera e, in particolare, dell’atteggiamento da tenere, nei confronti dell’Isis, il sedicente Stato islamico che sta allargando la sua presenza nel Medio Oriente, si sta macchiando di varie atrocità nei confronti di cittadini occidentali tenuti in ostaggio e sta praticando una politica di genocidio nei confronti di varie minoranze locali. A un certo punto è stata affrontata la questione del silenzio sulla questione finora mostrato da parte delle comunità islamiche italiane, di una loro presunta reticenza a prendere un’esplicita posizione di condanna nei confronti dell’Isis. Una giovane italiana intervistata, presentata come una convertita all’Islam, ha risolto elegantemente e sbrigativamente la questione dichiarando che quelli dell’Isis non hanno nulla a che fare con l’Islam. Sottintendendo che, insomma, l’Isis non è una questione che riguardi in modo particolare gli islamici. Ben diverso è stato invece l’atteggiamento di un giornalista curdo presente, anch’egli di fede islamica, il quale, invece, riconosceva la matrice islamica dell’Isis e, proprio per questo, invitava tutti gli islamici a prendere posizione, a scendere in Piazza contro l’Isis per combattere, nell’Isis, una pericolosa deviazione sviluppatasi sul terreno stesso dell’Islam. Le due posizioni non potrebbero essere più diverse: secondo la giovane, i musulmani non fanno certe cose, se qualcuno le fa, questo non può essere un musulmano; secondo il giornalista ci possono essere dei musulmani che fanno certe cose e questi vanno combattuti. Per la giovane l’Islam non può che essere puro e integro, mentre per il giornalista l’Islam può anche degenerare e, proprio per questo bisogna impegnarsi per mantenerlo integro.
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Questo micro dibattito solleva una serie di questioni molto interessanti. I musulmani in generale sono in qualche misura chiamati in causa da quel che sta facendo, in nome dell’Islam, la scheggia impazzita dell’Isis? Sono in qualche misura responsabili? Sono tenuti in qualche modo a dissociarsi? Sono tenuti in prima persona a combattere l’Isis? Qualora non si dissocino, dobbiamo considerarli complici? E che dire delle dissociazioni a metà, quelle accompagnate da tanti «se» e da tanti «ma»? Problemi simili non sono del tutto nuovi. Proprio nella nostra storia recente abbiamo vissuto qualcosa di simile. Negli anni del terrorismo, molti ricorderanno le ambigue prese di posizione di certi ambienti della sinistra nei confronti dei «compagni che sbagliano», a fronte di coloro che si sono sacrificati di persona per combattere esplicitamente il fenomeno e di altri ancora che invece l’hanno di fatto fiancheggiato.
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La questione comunque è assai ingarbugliata. In primo luogo si deve affrontare un problema assai generale, e cioè se le idee (siano esse ideologie, religioni o, più semplicemente, mode e/o modi di pensare) portino una qualche responsabilità morale per i comportamenti che vengono perpetrati in loro nome. In termini di principio le idee, di per sé, non agiscono, non fanno proprio nulla. Le idee, in quanto idee sono perfettamente inoffensive. Tra l’idea e la sua effettiva messa in pratica c’è sempre – come si esprime Searle – un gap, un salto. Perché le idee possano avere effetti pratici, hanno bisogno di una scelta esplicita da parte di un soggetto e di un altrettanto esplicito atto di volontà. La responsabilità della scelta e dell’atto di volontà va completamente attribuita al soggetto e non certo all’idea che può essere stata presa in considerazione nel determinare la scelta. Ciò vale anche nel caso (seppur problematico) in cui ci siano dei soggetti collettivi.[1] Possiamo esprimerci in generale sostenendo che le idee di per sé non sono dei soggetti che possano essere considerati colpevoli dal punto di vista morale. Se le cose stessero soltanto così, allora dovremmo permettere la circolazione delle idee più efferate e più mostruose e dovremmo perseguire soltanto coloro che scelgono di metterle in pratica, ma soltanto nel momento in cui lo fanno effettivamente.[2] Alcuni estremi difensori della libertà di pensiero la pensano esattamente così.
D’altro canto, se ci concentriamo strettamente nel campo dell’etica, intesa come disciplina filosofica, un’idea può essere valutata come moralmente cattiva, cioè contraria a determinate regole morali che siano state assunte. E’ importante considerare che il giudizio di immoralità nei confronti di un’idea è un giudizio puramente logico, che non può essere tradotto in una attribuzione di colpa. Dunque si possono condividere idee immorali senza avere alcuna colpa. Solo in culture arretrate si considera la condivisione di un’idea come una colpa. Un po’ di tempo fa, in Occidente, si poteva essere perseguitati per essere eretici, oppure per il fatto di credere nella magia.
Abbiamo però un’ulteriore casistica: ci possono essere delle idee che, indipendentemente dalla loro moralità, possono essere, di fatto, idee pericolose.  Il problema nasce poiché il rapporto tra le idee che circolano e le decisioni che i soggetti prendono nei fatti è diverso dallo schema della totale separazione e della totale autonomia morale del soggetto. Il soggetto autenticamente autonomo è un’approssimazione teorica, che può avere anche applicazione in filosofia ma che si riscontra raramente in concreto. Gli elementi ambientali sono spesso determinanti agli effetti della decisione, tendono cioè a condizionare le decisioni dei soggetti, tendono cioè a far sì che i soggetti scelgano, seppure liberamente, proprio ciò che l’ambiente suggerisce loro. Tra gli elementi ambientali ci sono proprio le idee. Idee che spesso costituiscono delle prescrizioni di comportamento (soprattutto nel caso delle religioni e delle ideologie). Le idee dunque possono essere delle circostanze che influenzano le decisioni, poiché è un dato di fatto che gli umani sono animali culturali influenzabili, si lasciano cioè deliberatamente influenzare.[3] Per fare questa asserzione non abbiamo dunque bisogno di risolvere uno dei problemi tipici della filosofia analitica e cioè quello di determinare quale sia la causa effettiva della volontà, oppure quale sia la natura del gap.
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Senza considerare la questione della colpa personale, senza considerare la moralità o l’immoralità dell’idea rispetto a certi sistemi etici, dunque dal punto di vista dei loro possibili effetti pratici nelle situazioni specifiche non tutte le idee sono perfettamente uguali tra loro. Dobbiamo rassegnarci al fatto che possono esserci delle idee pericolose.[4] Non perché esse possano direttamente in quanto idee causare qualche tipo di danno, ma perché possono costituire l’ambiente affinché qualcuno, prendendole in considerazione, decida, magari anche in piena autonomia, di causare qualche danno. Le idee quindi, pur non avendo, in quanto idee, una responsabilità morale, possono stare nella catena causale che può produrre il danno. Naturalmente si tratta di una catena probabilistica, ma non per questo priva di effetti. Se si tolgono certe idee pericolose dalla circolazione, s’indebolisce la catena causale e quindi si rende meno probabile il danno conseguente.
D’altro canto, chi condivide idee pericolose, finché non le mette in pratica, non è ovviamente personalmente responsabile, anche se può essere legittimamente considerato come una persona pericolosa. Costui può avere infatti maggiori probabilità di altri di decidere positivamente e di passare alla pratica dell’idea pericolosa. Insomma, la condivisione di idee pericolose aumenta sensibilmente la probabilità di diventare un tipo pericoloso. Si obietterà che qui siamo nel campo del pregiudizio, ma se il pregiudizio ha un qualche fondamento, non è più un pregiudizio gratuito, ma una forma d’intelligenza sociale. Sarà discutibile quanto si vuole, ma sempre di intelligenza sociale si tratta.
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Accade spesso che ci si rifiuti – probabilmente per una sorta di cecità emotiva – di considerare responsabilmente le possibili conseguenze pratiche di certi costrutti ideologici o religiosi. La questione delle idee pericolose è complicata dal fatto che le idee non sono atomi isolati, entrano spesso in relazione tra di loro costituendo ampie conglomerazioni, sistemi più o meno coerenti, possono riprodursi e generare una copiosa discendenza. Ci possono essere così delle catene di implicazioni che possono venire anche molto da lontano. Ad esempio Karl Popper ha mostrato come in alcune filosofie del passato possano nascondersi conseguenze di tipo totalitario.
E non vale neppure la convinzione di taluni che, essendo magari tradizionalmente portatori di idee pericolose, o di idee che sono state pericolose in passato, ritengono che queste si possano  riconoscere, circoscrivere e tenere sotto controllo senza troppa difficoltà. Può facilmente accadere che questi contenuti obsoleti riprendano vita tanto da trovarseli davanti come dei fantasmi del passato da dover combattere. È proprio il caso della guerra santa. Ma è anche il caso del mito della lotta armata rivoluzionaria, oppure dell’invasamento da parte dello Spirito Santo. La pericolosità di certe idee non sta tanto nel contenuto assoluto delle idee (il quale può essere valutato in termini etici) ma negli effetti che la disseminazione di certe idee può produrre in certi ambienti.[5]
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Un discorso del tutto diverso va fatto per l’atto soggettivo di produrre e diffondere idee pericolose. È questo un tipo di responsabilità morale che riguarda soprattutto gli operatori della cultura, quelli che genericamente si chiamano intellettuali . Usiamo qui il termine in senso ampio, comprendendo propagandisti, giornalisti, scrittori, vignettisti, imam, opinionisti, uomini politici e così via. Per estensione, la cosa può riguardare anche gruppi organizzati, di carattere ideologico, religioso o quant’altro. Questo tipo di responsabilità è conosciuto come responsabilità intellettuale. Da un lato abbiamo la libertà di opinione e di espressione, per cui in teoria ciascuno avrebbe il diritto di produrre e diffondere qualsiasi idea. Dall’altro lato abbiamo tuttavia la considerazione per cui alcune idee – come è stato detto - possono essere idee pericolose. Le idee pericolose vanno commisurate non tanto sulla base del diritto di espressione quanto sulla base di un’etica della responsabilità. Occorre cioè pensare soprattutto alle conseguenze della loro diffusione. Impedire all’imam di predicare la guerra santa è una questione di responsabilità. Lo stesso vale per il fatto di impedire i cori razzisti negli stadi, di proibire l’espressione dell’odio antisemita, oppure di perseguire la negazione dello sterminio degli ebrei.
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Finora abbiamo parlato genericamente di idee pericolose. È chiaro che i ragionamenti fatti valgono solo se le idee in questione sono davvero pericolose. Certo non è sempre facile decidere della pericolosità di certe idee, ma non è neppure impossibile. Non vale neppure la considerazione che un’idea debba essere considerata pericolosa e condannata solo dopo che abbia concretamente mostrato la sua pericolosità. La cosa importante è che non si confonda il giudizio morale con il giudizio di pericolosità.
A chi spetta decidere se un’idea è pericolosa? È chiaro che nelle società democratiche la pericolosità di certe idee in primo luogo dovrebbe emergere dal dibattito pluralistico. Certe idee pericolose dovrebbero essere individuate e messe al bando sulla base di un comune sentire. Sono in effetti all’opera dei meccanismi di controllo sociale per cui accade spesso che certe idee pericolose si auto emarginino e si auto estinguano. Accade tuttavia che ci siano idee pericolose che sembrano invece godere di una vitalità inconsueta, che mostrano di avere una enorme capacità di presa e di espansione. Una parte del pericolo sta proprio nella loro capacità virale. Di fronte alla capacità virale di certe idee pericolose può diventare allora necessario un intervento esplicito, in termini di contrasto, attraverso strumenti persuasivi, strumenti educativi. Non si esclude comunque che uno Stato democratico non possa, attraverso le sue istituzioni, decidere di limitare, impedire la diffusione di idee considerate pericolose. O Addirittura di condannare coloro che formulano e diffondono simili idee. Molti stati hanno adottato leggi che perseguono il negazionismo.
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La questione del trattamento delle idee pericolose è resa più complicata dal fatto che quelle che abbiamo chiamato semplicemente idee tendono a non stare soltanto nelle menti fuggevoli degli individui, ma tendono spesso a consolidarsi in vere e proprie cose e, soprattutto, in vere e proprie istituzioni: libri, manuali di istruzioni, chiese, moschee, scuole di indottrinamento, partiti politici, gruppi organizzati e quant’altro. In questi casi, la prescrizione ad agire (a tradurre l’idea in pratica) si basa su un percorso formativo che mira proprio a sopprimere la differenza tra la mera componente ideale e la componente pratica.
Il problema può poi assumere una certa complessità nel caso di religioni o ideologie dal carattere piuttosto vago, oppure dal carattere intrinsecamente contradditorio. Insomma, certi testi ideologici o religiosi possono prescrivere tutto e il contrario di tutto, possono rappresentare dei comodi ricettacoli da cui trarre, di volta in volta, quello che fa comodo. I testi possono essere invocati per sostenere le più diverse nefandezze. Di fronte a testi di questo genere, nessuno può dire quale sia la corretta interpretazione. E spesso l’appello al buon senso non basta. In più, le interpretazioni fondamentaliste, spesso, hanno dalla loro il fatto di basarsi sulla lettera del testo.[6] In questi casi nessuno può dire in astratto quale sia la vera religione, oppure la vera versione di una certa ideologia. Gli attentatori delle Torri Gemelle erano convinti di andare in Paradiso ed erano sicuramente islamici come milioni di onestissime persone che non farebbero male a una mosca.
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Quando complessi religiosi o ideologici, per quanto vaghi siano, producono, sul loro stesso terreno, delle idee pericolose, esponendo così la società intera al rischio che qualcuno le metta in pratica, oppure addirittura spingendo a che vengano messe in pratica, allora è tutto il complesso religioso o ideologico che viene messo in discussione. Le pratiche orrende commesse in nome di un’idea, siano esse a proposito o a sproposito, chiamano in causa tutti quelli che condividono quell’idea, anche coloro che individualmente non produrrebbero mai quelle pratiche. Nel caso specifico dell’Isis, è chiaro che il taglio della gola spettacolare delle loro vittime non è principalmente rivolto a noi occidentali, è rivolto soprattutto agli islamici, e rappresenta una sorta di chiamata all’azione, di arruolamento. E’ come se dicessero: «Noi facciamo questo in nome di tutti gli islamici. E’ questo ciò che tutti gli islamici dovrebbero fare. Ecco, è questo che dovete fare!». In questo caso, è davvero troppo facile sostenere che quelli dell’Isis non siano appartenenti in qualche modo alla famiglia islamica. In casi simili, un nazionalista in buona fede potrebbe dire che «i nazisti non erano davvero nazionalisti», un marxista in buona fede potrebbe sostenere che i Khmer rossi non erano davvero marxisti, un cristiano in buona fede potrebbe affermare che i pellegrini con la spada delle crociate non erano davvero cristiani, un comunista in buona fede potrebbe dire che le Brigate Rosse non erano davvero comuniste, e così via. Si tratta ahimè di risposte miopi, autoassolutorie, che hanno la gravissima conseguenza di non produrre alcun chiarimento, di non spiegare come mai in un certo ambito religioso o ideologico si è sviluppata ed è stata coltivata una idea pericolosa. L’espurgazione delle idee pericolose può essere assai utile a migliorare le religioni e le ideologie, ma perché ciò avvenga occorre riconoscere il terreno che ha incubato l’idea pericolosa stessa.
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Molti della generazione di chi scrive ricordano, l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il 9 maggio 1978, come un profondo trauma morale. Nessuno di noi era fautore della lotta armata, ma avevamo la netta percezione che comunque le Brigate Rosse, seppure sbagliando completamente, seppure comportandosi da emeriti sconsiderati, fossero in qualche modo appartenenti alla famiglia della sinistra.[7] Le parole che dicevano, le espressioni che usavano erano inequivoche, non potevano non essere considerate come appartenenti alla cultura politica della sinistra. Ebbene, l’assassinio di Moro, compiuto in nome di una sedicente «giustizia» popolare, compiuto in nome di una sedicente rivoluzione proletaria, era come se fosse stato compiuto nel nome di tutti noi, di tutta la sinistra. Era come se qualcuno, da lontano, tentasse di coinvolgere tutta la sinistra in quel volgare assassinio politico. È stato in quel momento che chi scrive ha capito, non solo in teoria (il che era già avvenuto da un pezzo) ma anche in pratica, che un’idea capace di generare quella mostruosità non poteva che essere un’idea pericolosa. Era dunque un’idea da cui ci si doveva dissociare, un’idea che doveva essere combattuta apertamente. E a maggior ragione dovevano essere combattuti i loro sostenitori e diffusori. A chi scrive non è mai passata per la testa, neppure per un istante, la troppo comoda giustificazione che i Brigatisti Rossi non appartenessero, più o meno lontanamente, alla variegata famiglia dei comunisti.
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Dopo queste tristezze, proverò a chiudere con una nota buffa che, comunque, è piuttosto attinente al nostro argomento. Nel 1969 il cantautore Battisti era diventato celebre con una canzonetta molto orecchiabile, il cui testo esemplificava esattamente la cecità emotiva di coloro che preferiscono sempre stare dalla parte dei puri e che non vogliono fare i conti con le evidenze spiacevoli. Il testo è piuttosto noto e rappresenta, in presa diretta, la beata reazione d’incredulità di un giovane mentre gli veniva riferito, con dovizia di particolari, che Francesca, la sua ragazza, era stata vista in giro insieme a un altro. Nonostante una sfilza di prove addotte dal volonteroso testimone del fattaccio, il poveretto continuava a sostenere che quella non poteva essere la sua ragazza. «Non è Francesca» era il ritornello rassicurante che era più volte ripetuto.
 
22/09/2014
Giuseppe Rinaldi
 
[1] Per le decisioni prese, un partito può essere sciolto, uno stato può essere condannato, un gruppo politico può essere messo fuori legge, un gruppo industriale può essere condannato per avere inquinato, e così via.
[2] Infatti è sempre possibile una situazione di debolezza della volontà per cui un’azione che è stata deliberata non viene effettivamente messa in opera.
[3] Questo tipo d’influenza dunque non attenua minimamente la responsabilità soggettiva, poiché c’è pur sempre il gap e la possibilità di non fare quel che l’ambiente suggerisce sussiste sempre.
[4] Questa nozione di idee pericolose è vicina per certi aspetti alle teorie di K. Popper.
[5] In una biblioteca di studio della storia contemporanea non è pericoloso che ci stia anche il Mein Kampf di Hitler. È assai più pericoloso il fatto che la stessa pubblicazione si trovi nella biblioteca di un centro sociale di estrema destra. La pubblicazione è la stessa, gli effetti possono essere molto diversi.
[6] Nel caso del marxismo, ad esempio, è indubbio che il rovesciamento dello Stato e la dittatura del proletariato faccia parte del programma marxista. Coloro che vogliono abbattere lo Stato sono marxisti, c’è poco da dire. Se poi qualcuno di fede democratica abbraccia il marxismo, saranno problemi suoi distinguersi dagli abbattitori dello Stato. Di fonte a un gruppo politico marxista che abbia dichiarato guerra allo Stato non è sufficiente dire loro «non siete marxisti». Non è neppure sufficiente dire che sono «marxisti che sbagliano».
[7] C’era, in effetti, qualcuno che sosteneva che erano dei fascisti, oppure degli infiltrati provocatori, ma queste tesi non hanno mai avuto grande popolarità.