1. Nel nostro Paese, nonostante le pressioni incalzanti per
favorire una sistematica deregulation
in qualsiasi ambito, bisogna riconoscere che la marcia dei diritti, quel processo inarrestabile verso l’espansione
e la codificazione di sempre nuovi diritti, preconizzato da Bobbio qualche anno
fa,[1] ha continuato a svilupparsi, seppure in maniera silente e sotterranea.
La sua principale manifestazione pare sia quella di sottoporre a sempre nuovi vincoli una serie di ambiti della
vita sociale che tradizionalmente erano rimasti al di fuori di qualunque
regolazione. Insomma, mentre da più parti si sollevavano plateali proteste
contro un eccesso normativo, contro
la pretesa pervasiva delle istituzioni pubbliche di regolare qualsivoglia
aspetto della vita sociale, nello stesso tempo, proprio a partire dalla società
civile, si sviluppava una sempre più pervasiva domanda di regole. Questa domanda
si è espressa non soltanto in termini di provvedimenti normativi obbligatori e
legalmente sanzionati, ma anche in termini di principi e codici di
comportamento fondati sul consenso, sulla moral
suasion. Tra la norma sanzionatoria e la moral suasion si possono, in effetti, trovare infinite gradazioni
di prescrittività e di coattività.
2. Sul piano storico globale, un esempio tipico di questa
tendenza è costituito dalle molteplici Dichiarazioni
e Carte dei diritti, promosse da
organizzazioni internazionali, che negli ultimi decenni hanno teso a definire
particolari categorie di diritti: i diritti dell’uomo, i diritti della donna, i
diritti dell’infanzia, dei profughi, ecc. Per quanto sostenute generalmente da
un ampio consenso, per quanto, quindi, segno di una chiara tendenza all’estensione
dei diritti, queste Carte spesso sono state tradotte con estrema difficoltà
nelle legislazioni degli Stati nazionali o nel diritto internazionale, e spesso
sono rimaste lettera morta. Hanno svolto tuttavia, e svolgono tuttora, la funzione
importante di definire un accordo di massima intorno a ciò che è desiderabile,
a ciò che è lecito pretendere, a ciò per cui ci si sente legittimati a
combattere. Anche nelle specifiche società nazionali, si è assistito, negli
ultimi decenni, a una proliferazione di nuovi diritti o a nuove specificazioni
di vecchi diritti. Accanto all’effettiva produzione normativa, si sono tuttavia
progressivamente affiancati strumenti regolativi meno costrittivi, sia in
ambito pubblico sia in ambito privato. Mi riferisco all’enorme quantità di
decaloghi, carte dei principi, di carte dei diritti, di guide, di
raccomandazioni che tendono a organizzare, fin nei minimi dettagli, i settori
più disparati e gli aspetti più elementari della vita sociale. Questa
proliferazione di nuove regole, peraltro abbastanza caotica e dispersiva, ha la
caratteristica di non derivare da qualche filosofia della politica o da qualche
sistema etico o religioso ben preciso, quanto di scaturire da esigenze
spontanee. Ciò pone indubbiamente problemi di coerenza, problemi di possibili
conflitti, senza per ciò stesso far venir meno il dato di una crescente domanda
di regole. Proviamo, di seguito, a fare qualche esempio.
3. Un settore degno di rilievo, ad esempio, è costituito da
tutto quel che afferisce alla cosiddetta privacy.
Com’è noto, le società arcaiche erano società quasi del tutto prive di senso
del privato. Solo con la differenziazione culturale e sociale è stato possibile
definire l’ambito del privato e, all’interno di questo, l’ambito del privato
del singolo individuo.[2] Il diritto alla privacy
è stato fatto valere, ovviamente, nei confronti dello Stato (nei casi, ad
esempio, della corrispondenza, delle intercettazioni delle conversazioni
telefoniche) ma anche a ogni livello della vita sociale, come nel caso, ad
esempio, della diffusione di notizie circa la vita privata degli individui. Gli
ambiti coperti dalla riservatezza sembrano essere in continuo aumento e, come
molti altri casi, si è anche assistito a una serie di esagerazioni, segno che
la definizione di questa sfera di diritti è ancora piuttosto incerta. Se è bene
che il datore di lavoro non sappia qual è la malattia per cui il dipendente si
assenta dal lavoro, non è altrettanto sicuro che l’esito negativo di un Esame
di Stato non debba essere pubblicato. Un altro caso controverso attinente alla
difesa della sfera del privato è costituito dalla pubblicità telefonica, che,
nel nostro paese, ha trovato una regolamentazione, a dir poco, di tipo
salomonico.
4. Un settore che ha conosciuto uno sviluppo notevole è quello
concernente i cosiddetti diritti del
malato. Si tratta di un settore molto ampio all’interno del quale hanno
trovato posto normative che garantiscono sempre più il diritto al risarcimento
in caso di mala sanità, fino a normative che concernono la fairness nei confronti del paziente. Un altro capitolo che ha avuto
uno sviluppo tumultuoso é quello attinente alla sfera della produzione e dei consumi. Anche in questo campo, oltre a ciò che è già solidamente
regolato nell’ambito del codice civile, si sta manifestando la tendenza a un
ampliamento di prerogative e garanzie (la restituzione con la clausola “soddisfatti
o rimborsati”, la riparazione in caso di cattivo funzionamento, il ritiro dell’usato).
In un settore affine a quello dei diritti del consumatore si collocano le strategie comunicative delle imprese
produttrici di beni di consumo che mirano a fornire garanzie supplementari,
tutele, rassicurazioni, informazioni che spesso hanno che fare con l’immagine
del prodotto o con certi requisiti dei processi di produzione. Così si può
garantire che il tonno in scatola sia stato pescato con criteri di sostenibilità,
si può avvertire il giocatore incallito che è meglio “giocare responsabilmente”,
si può mettere l’accento sul risparmio energetico che si potrà conseguire
attraverso una certa lampadina, oppure sul fatto che un determinato prodotto è
del tutto naturale, e così via.
5. Un altro settore, ancora, che ha subito un abbondante
sviluppo regolativo riguarda il linguaggio
pubblico. A parte quanto già previsto dai codici, si assiste a una tensione
sempre più marcata tra la tendenza, da un lato, a garantire fino all’estremo la
libertà di parola e, dall’altro, a controllare puntigliosamente la parola
stessa, soprattutto quando questa sia pronunciata in pubblico. Validi esempi
sono costituiti dalla tendenza verso il turpiloquio del linguaggio politico,
che è sempre più consentita - anche se, a parole, moralmente condannata - e
dalla tendenza, sicuramente contrastante, verso la messa all’indice di
determinate espressioni considerate disdicevoli. In quest’ambito, abbiamo non
solo la pubblica condanna nei confronti di discorsi politici volgari e offensivi,
ma anche la tendenza a condannare la pubblicità ingannevole, oppure offensiva,
la tendenza al minuto controllo terminologico a proposito di argomenti
sensibili (a proposito, ad esempio, di certi argomenti storici, oppure di certe
categorie sociali). In questo ambito si colloca anche il discutibilissimo politically correct, che tuttavia è
riuscito a imporre le sue varie acrobazie linguistiche (“diversamente abili”, “operatori
ecologici”, “presidenta”, ecc…). Insomma, siamo nella piena espansione di nuovi
vincoli che si traducono tuttavia in altrettanti nuovi diritti per categorie più
o meno ampie di persone.
6. Ci si può domandare quali siano le ragioni profonde di
questa tendenza generale che abbiamo evidenziato. A parte le mode culturali, è
sempre più chiaro che, con la differenziazione sociale che procede in maniera
tumultuosa, si sono creati degli ambiti di scambio, normalmente lasciati all’iniziativa
individuale, che sono sempre più potenzialmente
rischiosi, settori in cui ciascuno può facilmente essere vittima indifesa. È aumentata la
possibilità di incorrere in piccole o grandi violenze quotidiane in cui
ciascuno di noi può, di volta in volta, comparire come vittima o come offensore.
I nuovi vincoli, in fin dei conti, servono ad aumentare la prevedibilità, a dare maggiore sicurezza, a diminuire
il rischio che è sempre più insito nelle varie transazioni sociali. Tutto
ciò, quando funziona, tende a tradursi in un aumento di fiducia e quindi in una facilitazione delle transazioni
sociali. In fin dei conti, se è vero che, per certi versi, desideriamo maggiore
libertà, è altrettanto vero che, per diminuire i rischi quotidiani in cui
possiamo incorrere, tendiamo a invocare norme, regole, codici che, comunque,
rappresentano una qualche restrizione di libertà. Ciò testimonia a favore dell’opinione,
peraltro non nuova, ma che i nostri fautori della deregulation evidentemente stentano a capire, che la libertà è sempre
una libertà regolata.
7. Questa domanda diffusa di normazione costituisce un terreno
assai variegato, in continua espansione, dove è difficile produrre delle classificazioni
soddisfacenti. Si tratta di un terreno nel quale il diritto sconfina nell’etica,
dove il pubblico e il privato si sovrappongono in maniera inestricabile, dove l’economia
confina con la comunicazione. In campo etico si parla sempre più spesso di etica applicata, nell’ambito della
comunicazione e dell’organizzazione si parla sempre più di culture organizzative, nell’ambito delle professioni si parla di
deontologia o di etica professionale,
mentre in campo politico si parla sempre più di garanzie e di etica politica.
Nel mondo anglosassone (che, come al solito, ci precede di qualche decennio)
gli artefatti normativi di cui stiamo parlando hanno cominciato a comparire più
o meno negli anni ‘70, sono stati chiamati codici
etici o codici di condotta negli
affari e hanno dato luogo allo sviluppo di una vera e propria etica degli affari. Secondo una
classificazione che va per la maggiore, questo complesso di regolamentazioni è
stato distinto in tre categorie principali. I codici etici veri e propri, che contengono la definizione di valori
e principi che caratterizzano gli scopi dell’organizzazione. La loro funzione è
quella di definire, per i membri dell’organizzazione, le loro varie
responsabilità nei confronti del pubblico. Talvolta questi codici etici vengono
individuati come la mission dell’organizzazione
stessa o come il complesso degli impegni nei confronti dei dipendenti, dei
clienti, dei sostenitori. Questi codici valgono come massima norma di
riferimento interna e come immagine offerta al pubblico, all’esterno. I codici di comportamento, che sono di
solito intesi come interpretazioni e illustrazioni dei principi e dei valori
dell’organizzazione. Si tratta di regole generali cui i membri dell’organizzazione
si devono ispirare nel momento in cui devono prendere delle decisioni qualificanti.
Insomma, questi determinano lo stile di comportamento dell’organizzazione. I codici di condotta, che sono il
complesso di regole specifiche che indicano ai membri dell’organizzazione che
cosa esattamente ci si attende da loro, oppure quali siano i comportamenti
ritenuti disdicevoli. Spesso in questi codici di condotta sono incluse le
sanzioni per le infrazioni in diversi campi. Questi codici tendono ad
assicurare l’omogeneità di comportamento tra i membri dell’organizzazione e
proteggere l’organizzazione stessa da comportamenti indesiderati da parte dei
suoi membri. Di solito questi codici di etica degli affari coprono una serie di
ambiti applicativi abbastanza caratteristici.
8. La definizione di questi artefatti normativi, da alcuni
decenni, è pratica comune nell’ambito delle professioni e delle associazioni
professionali, nell’ambito delle istituzioni della pubblica amministrazione,
nell’ambito dei servizi e nell’ambito delle organizzazioni private. Anche nel nostro
Paese, recentemente, sono stati introdotti principi di questo genere, nella
pubblica amministrazione e nei servizi, basti ricordare le carte dei servizi o i contratti
formativi; nelle scuole sono ben conosciuti i piani dell’offerta formativa. Un aspetto che ha suscitato l’attenzione
della pubblica opinione nel nostro Paese concerne la definizione, da parte dei
pubblici servizi, di tempi certi per l’espletamento di ciascuna pratica.
9. La tendenza che stiamo esaminando non poteva non
coinvolgere anche il campo della politica.
Il mondo della politica possiede indubbiamente un’incerta collocazione: da un
lato, esso tende a farsi Stato e quindi a svolgere un ruolo istituzionale
ufficiale (ad esempio, l’uomo politico che riveste la carica di sindaco); dall’altro,
esso affonda le sue ramificazioni nella società civile e nelle relazioni
interpersonali (ad esempio, le relazioni tra gli elettori e il candidato).
Abbiamo poi le organizzazioni politiche (partiti, sindacati, associazioni di
vario genere) le quali si trovano a mezza strada tra il pubblico e il privato,[3]
possiedono al proprio interno un risvolto burocratico e organizzativo, ma che
si rivolgono anche ad un vasto pubblico di partecipanti (associati, affiliati)
e di “clienti” (ad esempio, gli elettori). Ciascuno di questi complessi livelli
di interazione che caratterizzano la sfera politica è suscettibile di
presentare, per chi ne è coinvolto, ampi
margini d’incertezza, tanto da porre seri problemi di fiducia. Ciò accade, in particolare, nella situazione del nostro
Paese, che ha visto crescere negli ultimi anni fenomeni assai rilevanti di antipolitica. Si è aperta così la
possibilità di varie forme di regolazione attraverso qualche tipo di codice,
sia esso codice etico, codice di comportamento o codice di condotta, che sia in
grado di diminuire i rischi che sono
intrinseci alle transazioni di tipo politico, di aumentare la fiducia e di identificare
e confinare comportamenti negativi. In quanto organizzazioni, i partiti, i
sindacati e le associazioni similari possono avere un loro codice etico che
rappresenta la loro mission, e
svariati codici di condotta, volti a regolare il loro comportamento interno e
nei confronti del pubblico. Lo stesso dicasi per le istituzioni che sono composte
di eletti (consigli, giunte, sindaco, ecc.). Ma ciò vale anche per i candidati, che hanno dei legami con le
loro rispettive organizzazioni, ma anche con il pubblico, con i potenziali
elettori.
10. Sono quindi stati sviluppati anche nel nostro Paese, nell’ambito
della sfera politica, diversi artefatti normativi che mirano a regolamentare
questi complessi rapporti. Nel nostro paese l’esempio più famoso è stato il “Contratto
con gli italiani”, stipulato pubblicamente da Silvio Berlusconi nel 2001.[4] In
quell’occasione, pur essendo diffusa la sensazione che si trattava, fondamentalmente,
di un espediente di comunicazione, molti commentatori riconobbero, comunque, di
essere in presenza di uno stile politico decisamente
innovativo, almeno per il nostro paese. Esso ha lasciato una traccia nel luogo
comune secondo cui, per vincere le elezioni in Italia, bisogna scrivere un programma
di pochi punti, formulati in termini assai elementari e comprensibili da tutti.
11. Da allora in poi, si sono susseguiti, seppure con grande
confusione, i tentativi di mettere per iscritto decaloghi, carte, contratti,
codici di comportamento che i vari candidati s’impegnano a seguire, secondo
quella sorta di espediente di razionalità imperfetta che consiste nel legarsi le mani anticipatamente, come ha bene spiegato Elster.[5] Gli aspetti che
vengono più spesso presi in considerazione, in questi artefatti, sono spesso
legati all’incertezza cui va incontro l’elettore nel fidarsi di un determinato
candidato (la quale è collegata spesso all’attualità, agli scandali), oppure
riguardano particolari aspetti che si ritiene che siano particolarmente
sensibili presso gli elettori. Da una breve rassegna, raccolta attraverso
Internet, gli argomenti più ricorrenti sono: la rinuncia al comportamento
partigiano, tipico della lotta politica, nel momento in cui si sia eletti ad
una carica istituzionale (espresso tipicamente nella frase “sarò il sindaco di
tutti”); la promessa esplicita di non fare (in caso di secondo turno) patti
sottobanco allo scopo di avere i voti di qualche frazione; l’impegno a
rispettare un criterio di parità di genere nell’attribuzione delle cariche (le
cosiddette “quote rosa”); in seguito al coinvolgimento di diversi uomini politici
in scandali di vario genere, è diventato d’obbligo garantire agli elettori che
i candidati, o coloro che potrebbero essere chiamati a ricoprire incarichi
esecutivi, non siano sottoposti a indagini o non abbiano conseguito condanne.
Sempre in seguito agli stessi eventi, soprattutto in determinate aree del
Paese, è abbastanza frequente l’esplicita dichiarazione di estraneità agli
ambienti mafiosi; sempre per lo stesso motivo, una serie di regole concerne il
rapporto tra politica e affari, in particolare per quel che riguarda il finanziamento
delle campagne elettorali e la trasparenza relativa alla scelta dei fornitori e
agli appalti pubblici. Un altro aspetto ricorrente riguarda le informazioni
circa il proprio operato che normalmente ci si impegna a fornire a chiunque sia
interessato a controllare gli eletti. In ultimo, l’intenzione di sottoporre ai
cittadini periodici rendiconti del proprio operato, nonché l’intenzione di
sottoporre alla popolazione, attraverso particolari strumenti di
partecipazione, come assemblee pubbliche, consultazioni, referendum, la richiesta
di pareri concernenti questioni scottanti o particolarmente problematiche.
Ultimamente, sarà un effetto del default
incombente, compare anche il criterio della buona tenuta del bilancio.
12. Un esempio tipico, a mio giudizio assai interessante, di
questi codici di autoregolamentazione dei candidati e degli eletti è costituito
da una Raccomandazione, elaborata nel 1999 dal congresso dei Poteri Locali del
Consiglio d’Europa. Si tratta del Codice
europeo di comportamento per gli eletti locali e regionali, [6] un documento molto articolato, esemplare
per chiarezza, che copre praticamente tutti gli ambiti di attività degli
eletti. Il documento, pur essendo (sarà un caso) poco conosciuto nel nostro
paese, può tuttavia costituire un’utile base di partenza, sia per gli elettori,
sia per i candidati, per stipulare il loro patto
di rappresentanza.
13. Questi codici etico-politici possono, naturalmente,
suscitare facili ironie e alimentare il sospetto che siano facilmente usati
come espedienti propagandistici e poi tranquillamente ignorati, una volta
eletti (come ha fatto Berlusconi, con il suo “Contratto con gli Italiani”[7]).
Spesso, questi codici non prevedono organi di controllo e sanzioni che possano
essere comminate. Sono manifestazioni di buona volontà, talvolta si riducono a operazioni
d’immagine. Da questo punto di vista poterebbero semplicemente essere considerati
come parte della chiacchiera globale.
Tuttavia questi codici, a lungo andare, se presi sul serio, possono avere dei
risvolti positivi. Intanto servono a stabilire pubblicamente quali siano i parametri del mondo possibile che gli
elettori considerano preferibili. In altri termini possono aiutare l’elettore a
definire i requisiti di qualità del
prodotto politico che dovrebbe aspettarsi. Servono a stabilire una comune opinione, di carattere
universale, che diventa per ciò stesso difficile, per chi abbia delle
tentazioni, trasgredire apertamente. Insomma, servono a individuare e confinare
certi comportamenti deleteri e a costringerli, per lo meno, alla clandestinità.
Una volta che abbiano raggiunto un consenso ampio di pubblico, questi codici possono
poi anche trovare una definizione normativa più rigorosa e ufficiale e possono
anche, quindi, giungere ad avere degli organi di controllo e delle sanzioni. Ne
sa qualcosa il sindaco di Roma, Alemanno, che si è trovato con una Giunta quasi
tutta di maschi, in presenza di un regolamento che obbligava la presenza di una
certa quota di femmine. Lo stesso vale per la norma che obbliga un equilibrio
di genere all’interno dei Consigli di amministrazione delle imprese private. Insomma,
da un primo vincolo di tipo morale, si può passare a vincoli sempre più stringenti
in termini normativi.
14. Per questo sarebbe un errore considerare con sufficienza questa tendenza all’esplicitazione dei principi etici ispiratori alla base dei programmi elettorali dei vari candidati e alla stipulazione di codici di comportamento, o di patti, con gli elettori. Certo, può essere usata dai candidati come fumo negli occhi, ma può anche essere usata in termini costruttivi, dai movimenti partecipativi, per migliorare la qualità della politica. È del tutto possibile conferire a dei Comitati indipendenti di cittadini il compito di controllare l’effettivo andamento dell’attività di governo e di segnalare, al pubblico e ai mezzi d’informazione, le eventuali violazioni delle promesse elettorali e dei codici etici condivisi.
Giuseppe
Rinaldi
(20/09/2011 – rev. 03-07-2021)
NOTE
[1] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992.
[2] Quest’ultima sottolineatura è importante,
poiché ci sono società che conoscono la differenza tra pubblico e privato, ma
nell’ambito del privato (ad esempio, nella famiglia estesa) può non essere
riconosciuta alcuna forma di privacy
per i singoli membri, soprattutto se si trovano in particolari condizioni di
status come, ad esempio, quella di essere minori di età, oppure quella di
essere donna.
[3] Com’è noto, nel nostro Paese, partiti e
sindacati hanno sempre rifiutato una regolamentazione legislativa.
[4] Si ricorderà che, più che un semplice codice
di comportamento, si trattava di un vero e proprio contratto (per quanto discutibile
sul piano formale), che prevedeva una sanzione in caso di inadempienza
(Berlusconi prometteva che non si sarebbe più candidato).
[5] Cfr. J. Elster, Ulisse e le sirene, Il Mulino, Bologna, 1983.
[6] Raccomandazione n. 60 del 17 giugno 1999 del
Congresso dei Poteri Locali del Consiglio d’Europa. Dato l’estremo interesse
del documento, ho proposto a Città Futura la sua pubblicazione, in un articolo
a parte.
[7] Cfr., in proposito, Luca Ricolfi, Dossier Italia. A che punto è il “Contratto
con gli italiani”, Il Mulino, Bologna, 2003 e, sempre di Ricolfi, Tempo scaduto. Il “Contratto con gli
italiani” alla prova dei fatti, Il Mulino, Bologna, 2006.