martedì 2 giugno 2015

La ragione nel Paese delle meraviglie

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1. Prima della famosa antologia sul pensiero debole,[1] nel 1979 ne era uscita un’altra, presso Einaudi, intitolata Crisi della ragione, meno nota della prima, ma forse ancor più interessante sul piano della storiografia filosofica. L’antologia era curata da Aldo Gargani e conteneva una decina di contributi da parte di importanti studiosi di diverse discipline.[2] Il sottotitolo della raccolta era: «Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane». In calce all’Introduzione si specificava che la raccolta, ben lungi dal costituire un assemblaggio ex post di testi disparati, era il frutto di un progetto di lavoro attivo dal 1976 «…che si è sviluppato e specificato negli anni successivi a contatto con i dibattiti che si sono svolti in Italia e all’estero sull’argomento».[3]
Quest’antologia ha un suo rilievo nella storia filosofica del nostro Paese poiché intendeva costituire una sorta di dichiarazione esplicita, un vero e proprio manifesto, che avrebbe dovuto fissare l’attenzione del pubblico su un evento epocale come la crisi della ragione. Essa avrebbe dovuto anzi rappresentare una presa d’atto del fatto che ormai c’eravamo lasciati alle spalle la ragione e ci apprestavamo a entrare in una nuova epoca, non esplicitamente nominata, ma che oggi, col senno di poi, potremmo definire come epoca della post-ragione.
Poiché ci interessano in modo particolare proprio le origini e gli sviluppi, nel nostro Paese, delle teorie riguardanti la crisi della ragione e l’avvento della post-ragione, prenderemo in analisi dettagliatamente l’Introduzione al volume scritta da Aldo Gargani, nella quale si cerca di prospettare il significato generale della svolta in questione. Si tratta di uno scritto abbastanza breve ma assai denso, in verità piuttosto faticoso, con molte ripetizioni e dall’argomentazione non sempre lineare. Del resto, quando la ragione è in crisi, tutto è possibile e si sa che il sonno della ragione genera mostri.
2. Forse proprio perché si trattava di crisi della ragione, fin dalle prime battute l’Autore trascurava ogni tentativo di definizione dell’oggetto di cui si sarebbe occupata la raccolta, qualificandolo, al più, come la «… rappresentazione classica e tradizionale della ragione umana».[4] Si noti che Gargani sembra essere interessato non tanto all’esigenza di un aggiornamento della nozione di razionalità, quanto a sancire una presa d’atto, sia della sua crisi, sia del sopravvenire di un paradigma del tutto nuovo. L’idea della rottura prevale dunque nettamente su quella della continuità. Si noti ancora che la ragione di cui si dichiara la crisi non pare collocarsi in ambiti particolari e in risposta a problemi particolari (crisi della logica dialettica, dei fondamenti della matematica, della razionalità dell’attore, …). Pare piuttosto collocarsi in modo assai generico e vago «… sul suolo delle esperienze culturali e scientifiche così come su quello delle esperienze sociali» nonché su quello della «nostra condotta intellettuale». Una crisi davvero generale dunque.
3. Quali sarebbero le cause di questa crisi? Fin dalle prime righe, la ragione è imputata di aver trascurato e lasciato fuori dal proprio ambito delle cose molto importanti e, nello stesso tempo, di avere creato una gerarchia arbitraria nel campo del sapere: «Della rappresentazione classica e tradizionale della ragione umana è stata impugnata la capacità di esaurire in ampiezza e in spessore il campo delle nostre operazioni intellettuali. La crisi di quell’immagine ha delineato, per così dire, una nuova vita intellettuale, spodestando quelle strutture che la razionalità classica aveva privilegiato ma che aveva anche finito per escludere dai loro ambienti concettuali configurandole in un’arbitraria tipizzazione gerarchica delle forme del sapere».[5] La crisi della ragione, dunque, sembra esser stata determinata dal sopravvenire di una “nuova vita intellettuale” che avrebbe prodotto una rivolta, da parte di tutti i campi arbitrariamente esclusi, contro una ragione che aveva esercitato arbitrariamente un potere di gerarchizzazione e di esclusione.[6]
4. I limiti della ragione classica sono così ulteriormente precisati: «Riconosciamo l’impraticabilità di un modello di razionalità dal momento in cui esso risulta insufficiente a coprire nuovi territori della conoscenza o mostra di essere divenuto un repertorio di immagini fittizie e ornamentali rispetto agli effettivi meccanismi di costruzione del nostro sapere e rispetto alle energie sociali e intellettuali che non hanno ancora trovato il terreno della propria codificazione. È allora che scopriamo che certe rappresentazioni accreditate della ragione sono in realtà astratte e nebulose».[7] Si sostiene dunque, come fosse un dato auto evidente, che siano sopravvenuti dei nuovi territori della conoscenza e dei nuovi meccanismi di costruzione del sapere e che ci siano delle energie sociali e intellettuali che cadono ormai costantemente al di fuori del vecchio modello di ragione. Insomma, cara vecchia ragione, ormai la vita è altrove! Si possono così contrapporre i nuovi soggetti sociali e intellettuali, le nuove esigenze e le nuove pratiche a un modello di ragione che sarebbe divenuto astratto e nebuloso.
5. Un’altra accusa nei confronti della ragione classica è quella di essersi presentata come una «struttura naturale, necessitante e apriorica» che aveva avuto la pretesa di inglobare tutto e che, dunque, era stata costretta a un «regime linguistico alto, astratto e sublime». Di fronte a questa insana pretesa: «Tutto ciò che è specifico, individuale era pertanto degradato rispetto alle terse strutture razionali di un ordine centrale, esclusivo e invariante, entro il quale è da sempre codificato e precostituito il gioco di tutte le possibilità che competono alle cose, alla natura così come ai movimenti del nostro pensiero».[8] Viene così precisato che non solo la ragione aveva messo da parte cose molto importanti, ma che la ragione aveva preteso anche di inglobare e gerarchizzare tutto. Le due cose sono un po’ in contraddizione, ma pazienza. Quello che era presentato come un settorialismo, un particolarismo della ragione, appare ora anche come un universalismo arbitrario, una velleità imperialistica.
Queste argomentazioni non sono proprio nuove e riecheggiano una vecchia accusa di matrice romantica che ha sempre imputato alla ragione nomotetica di generalizzare, di trascurare i dettagli, i particolari, in altri termini, di trascurare la vita autentica. Peggio, di coltivare ed esercitare un malcelato progetto di dominio sulla vita. La ragione viene figurata come una entità dispotica e bramosa di dominio, quasi nei termini di talune teorie francofortesi o nei termini di Foucault. Magari anche Nietzsche e Heidegger potrebbero concordare.
6. Dopo queste dichiarazioni programmatiche, si passa a introdurre una serie di casi (si tratta più che altro di esempi) che dovrebbero portare acqua al mulino della crisi della ragione. Il primo grande accusato è Newton. Lo Spazio e il Tempo (scritti con la maiuscola) della fisica newtoniana sarebbero stati prodotti dal «pregiudizio di una razionalità astratta, apriorica e necessitante» tanto che essi come tali «sussistono assolutamente, al di sopra e indipendentemente dagli eventi singoli, specifici e concreti». A noi risultava che Newton, all’epoca sua, avesse dovuto lottare contro una serie di pregiudizi ben più gravi che non quello della ragione.
Comunque, dopo avere prodotto vari altri esempi di autoritarismo newtoniano, l’Autore prosegue: «Il tempo, lo spazio, l’inerzia, la velocità - in quanto raffigurati entro il super ordine geometrico della ragione classica - segnavano una sorta di destino per gli eventi individuali e specifici, perché erano definiti in un’immagine logica che sembrava conficcata nella realtà stessa. […] In questa assunzione la ragione classica si manifesta come un ordine ideale assoluto che è già predeterminato nelle cose e che, pertanto, gode di uno statuto di inesorabile evidenza».[9]
Si dice, in sostanza, che nel regime dispotico newtoniano gli eventi individuali erano costretti a subire il destino definito dal super ordine geometrico della ragione classica (che poi sarebbe l’ordine cartesiano). Qui, l’uso del termine “destino” è quanto mai rivelatore di riferimenti nient’affatto scientifici. L’ipotesi dello spazio e del tempo come sistemi di riferimento assoluti e l’ineluttabilità delle leggi di Newton farebbero così tutt’uno con il carattere violento e costrittivo della ragione. Anche se non siamo d’accordo con lui, ci pare del tutto ammirevole l’obiettivo di Gargani di liberare, finalmente, gli “specifici eventi individuali” dal loro tragico destino cartesiano e newtoniano.
È senz’altro probabile che le leggi fisiche non newtoniane del Paese delle meraviglie del reverendo Dodgson siano meno repressive nei confronti degli eventi individuali, più libertarie e più confacenti alle esigenze di Gargani. Com’è noto, in Attraverso lo specchio Alice nega di poter credere in una cosa impossibile e allora la Regina Bianca, per spingerla ad allenarsi, le dice: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età io mi esercitavo mezz’ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».
7. Lo scopo delle argomentazioni anti newtoniane di Gargani sembra essere quello di stabilire una correlazione tra la violenza epistemica esercitata dalla ragione nei confronti degli eventi fisici e il potere arbitrario esercitato sugli uomini nella società: «È soltanto con schemi razionali astratti, rigidi e irrelati che […] lo stile del pensiero classico poteva erigere il suo super ordine e il suo super linguaggio privilegiati nei quali disciplinare ogni evento e ogni forma di esperienza. Questo super ordine tracciava contemporaneamente un codice di disciplinamento per l’intera condotta umana. […] questo ordine e quest’armonia si presentavano come ideali conficcati nella realtà; erano concetti, ma poi più che concetti dal momento che, nel corso di un’immane travaso dal pensiero alla realtà e all’esistente, essi si trasmutavano nelle strutture ontologiche più dure e persistenti».[10]
L’immagine di una ragione “conficcata nella realtà” viene ripetuta abbastanza ossessivamente anche altrove. Qui Gargani, comunque, non fa altro che girare intorno alla confusione tra modelli gnoseologici e modelli ontologici che è tipica di una buona parte della filosofia occidentale. In più aggiunge la convinzione foucaultiana che la confusione non fosse solo questione d’ignoranza ma fosse un espediente esplicitamente finalizzato a sostenere un sistema di dominio. Fosse così, la storia della filosofia sarebbe una fetta della storia politica del dominio nella società occidentale.  Nel corso della storia culturale dell’Occidente abbiamo senz’altro “conficcato” molte cose nella realtà. Il fatto è che comunque ora, generalmente, non siamo più né platonici, né newtoniani. Il rapporto tra modelli gnoseologici e modelli ontologici si è modificato storicamente, la nozione di razionalità è senz’altro mutata col tempo ma ciò non significa che ci stiamo apprestando a trasferirci nel Paese delle meraviglie. Non sarebbe saggio gettare alle ortiche il modello fisico del sistema solare solo perché il Re Sole l’ha usato per la sua propaganda politica.
 8. Si chiede pensoso l’Autore: «Perché un modello di razionalità non si limita a un impegno cognitivo, ma si pone come se fosse la realtà stessa?».[11] La risposta avanzata non è nuova ed è piuttosto banale: ciò dipenderebbe da un bisogno di sicurezza e di ordine. Dunque l’avvento della ragione (non si dice con chiarezza quando sarebbe avvenuto il misfatto) sarebbe stata la conseguenza di una specie di condizione psicologica infantile, del bisogno di rassicurazione. La specie umana avrebbe una banale ma pericolosa tendenza a mettere ordine a tutti i costi: «Se la razionalità tradizionale ha assunto la fisionomia che abbiamo delineata, ciò è dipeso da una strenua e violenta aspirazione a un ordine assoluto e definitivo di sicurezza […]. È dipeso, cioè, dalla circostanza che la ricerca cognitiva era coniugata a una strategia diretta a disciplinare sia i fenomeni naturali, sia la condotta intellettuale, morale e sociale entro un sistema di norme di paradigmi per i quali non si prevedono né limiti, né eccezioni, e quindi assunti come irrevocabili e assoluti. È stata questa strategia a configurare la razionalità umana come una natura; da un lato, come natura del pensiero, o più precisamente, come «leggi naturali del pensiero» e, dall’altro, come struttura oggettiva del mondo».[12] Noi avevamo sempre capito che il ricorso alle leggi di natura, per diversi secoli della storia d’Occidente, avesse avuto un significato progressista. Evidentemente c’eravamo sbagliati.
9. La soddisfazione del bisogno infantile di ordine ha tuttavia creato gravi conseguenze perché avrebbe finito con l’alterare la vera natura delle cose stesse cui la ragione veniva applicata. Secondo Gargani infatti: «Nella filosofia, nella fisica, nell’etica, nell’economia politica classica fino alla recente epistemologia analitica sono stati introdotti costrutti concettuali che sono estranei rispetto alle strutture sistemiche che dovrebbero, invece, interpretare. Questi costrutti hanno avuto un effetto devastante sui sistemi nei quali sono stati applicati dissolvendo il reticolo delle relazioni che sussistono all’interno di essi […], e generando una serie di opposizioni e di dicotomie tra le parti dei sistemi, […] cioè tra termini che andrebbero inseriti nelle interrelazioni sistemiche nelle quali soltanto assumono un significato».[13]
A parte la discutibile possibilità di individuare una “vera natura” delle cose prima che queste siano conosciute dalla ragione (forse c’è un altro modo per conoscerle!), apprendiamo qui sorprendentemente che le cose hanno delle “strutture sistemiche” e dei “reticoli di relazioni” che sono lì in attesa di essere interpretati. Si sostiene, insomma, una specie di principio di indeterminazione: l’applicazione della razionalità al mondo stravolge il mondo stesso, lo “razionalizza”, e quindi ne rende impossibile una autentica comprensione. La razionalizzazione, invece di mostrare la realtà, la nasconde e la stravolge. Erano teorie molto diffuse all’epoca, tra i movimenti giovanili e nella letteratura popolare e tra gli intellettuali. Chi la pensa in questo modo, non può che essere spinto a trovare qualche via di accesso, che non sia razionale, alla vera realtà.
10. La ragione quindi, a causa del bisogno infantile di sicurezza, violenta le cose e le rende irriconoscibili. Trasferendo il ragionamento sul piano di una grandiosa visione cosmico storica,  abbiamo poi che quando la ragione viene assunta a criterio fondamentale di una civiltà non può che determinare il decadimento della civiltà stressa: «L’immagine delle presunte leggi eterne della ragione umana, basate sulla natura delle cose e su quella del pensiero, è la trasfigurazione ideale - in termini di un attacco distruttivo e di un’implacabile esclusione di ciò che non è eguale, non ripetitivo, ma nuovo e poliforme - dell’istinto con il quale uomini animali si avventano furiosamente sulla loro preda, su tutto ciò che si muove e che non è immediatamente subordinato».[14] L’età della ragione pienamente realizzata corrisponde così inevitabilmente al degrado di una civiltà: «… la pratica della ripetizione, la ricerca di ciò che è eguale, l’inseguimento tenace del passato appiattiscono, al livello socio culturale, i simboli del sistema di comunicazione e producono l’usura dei codici in uso nei quali non trovano espressione nuovi accumuli di energia fluttuante. È in questa estenuazione dei codici, in cui i simboli risultano livellati, che si manifesta l’esaurimento di una forma di vita, e il decadimento di una civiltà. È allora che diciamo che una società è marcia».[15] Sono senz’altro degni di nota gli “accumuli di energia fluttuante”. Secondo Gargani, la razionalizzazione tipica dell’Occidente non era altro che il marcio che avanza.
11. L’autore sostiene apertamente che la razionalizzazione distrugge la vita: «La circostanza che in ogni forma di sapere si impiegano strutture concettuali, simbologie e notazioni linguistiche ha, infatti, indotto ad assumere il repertorio di tecniche di una forma di razionalità come se esso fosse l’inventario completo delle cose stesse e di tutte le possibilità che ad esse competono. Le strutture linguistico formali assolutizzate e spacciate come strutture del cosmo hanno dissanguato le realtà dei fenomeni indagati, cancellando la condizione propria di qualunque esistenza empirica che è quella di oltrepassare, di trascendere gli schemi logico concettuali».[16] È decisamente interessante la convinzione che la condizione propria di ogni esistenza empirica sia quella di andare oltre  gli schemi logico concettuali (andare dove?). L’importante comunque è oltrepassare e trascendere.  Insomma, il mondo empirico di Gargani tanto più progredisce verso l’oltre quanto più si allontana dalla ragione.
12. È interessante il fatto che anche la politica (che per definizione è invischiata con il potere) sia complice del progetto di prevaricazione della ragione sul mondo: «In quel paradigma di razionalità si rispecchiano i partiti e le organizzazioni politiche che legittimano la propria strategia come lo sbocco finale e inesorabile di un processo storico lineare, con il quale procedono a identificarsi. Ciò facendo, un partito politico traccia un paradigma dei processi storico sociali che ha unicamente la funzione preliminare di garantire l’esclusiva legittimità della propria strategia e della propria condotta. Entro questi modelli sociopolitici – che per il loro carattere autoritario e rigido non si distinguono dagli schemi inverificabili della teologia e delle organizzazioni ecclesiali - gli eventi, le esperienze dei gruppi sociali e degli individui all’interno dei gruppi sociali diventano termini da regolamentare, ordinare e disciplinare in un paradigma prestabilito, anziché costituire termini di riferimento per la specificazione e la verifica di una condotta e di una strategia politiche».[17]
Anche la politica sarebbe così il frutto del bisogno infantile di mettere ordine, di regolamentare, ordinare e disciplinare. Contro questo progetto violento e dispotico della ragion politica si collocherebbero non ben precisati eventi e esperienze degli individui e dei gruppi sociali (magari dotati di adeguati “reticoli di relazione” e “strutture sistemiche”!). Come si può ben vedere, anche il Sessantotto era arrivato nel Paese delle meraviglie.
13. Gargani tuttavia, dopo avere insistito sui misfatti di Newton e sulle disavventure della ragione, ritiene giunto il momento di usare l’arma segreta: egli ci ricorda che la fisica classica, al principio del Novecento, è andata in crisi grazie all’avvento della teoria della relatività. Ora, generalmente si ritiene che quest’ultima abbia costituito una rivoluzione scientifica,[18] ma Gargani la considera soltanto sotto il profilo della crisi della ragione, dunque come un argomento a suo favore: «Il modello classico della razionalità scientifica è stato messo in crisi al principio di questo secolo dalla teoria della relatività che ha proceduto a definire le nozioni di tempo, spazio, velocità, lunghezza in relazione a sistemi fisici locali di riferimento, mediante l’impiego di orologi e di regoli rigidi».[19] E conclude che: «Sul suolo di esperienze fisiche controllate si sono formate le nozioni di tempo spazio che hanno svelato il carattere astratto e nebuloso delle corrispondenti nozioni nella fisica classica».[20] Evidentemente Gargani non ha molto chiaro il significato usuale del termine “astratto” e, in questo scritto, lo usa sempre più o meno come un hegeliano, intendendo qualcosa di fasullo, artificioso e irreale. In realtà le teorie della fisica einsteiniana sono tanto astratte quanto quelle della fisica newtoniana, anzi, richiedono probabilmente un livello di astrazione ancora maggiore. Sono semplicemente quadri di riferimento diversi, neppure incompatibili tra loro, tanto che le leggi della fisica newtoniana hanno una perfetta descrizione in termini relativistici. Nel passaggio da Newton a Einstein la ragione non è andata in vacanza e non ci siamo certo trasferiti nel Paese delle meraviglie.
14. L’ipotesi di Gargani è invece che il passaggio da Newton a Einstein abbia inaugurato un nuovo tipo di razionalità, che però non è più la razionalità “classica”, ma una specie di post-razionalità. «Mettendo in discussione le immagini astratte e necessitanti della fisica classica, la teoria relativistica ha fissato una nuova forma della razionalità, definendo ogni nozione entro un reticolo di relazioni fisiche, e non sulla base di una meta norma logica fissata indipendentemente dalle determinazioni delle funzioni fisiche».[21] Purtroppo per Gargani, anche quella relativistica è una meta norma ed è altrettanto astratta e necessitante di quella della fisica classica. Altrimenti avremmo potuto già costruire, in quattro e quattr’otto, il teletrasporto di Star Trek.
15. Ma quello che interessa di più a Gargani sembra una facile e vaga analogia tra il suo modello del cosmo relativistico e certi modelli marxiani e hegeliani: «Nel nuovo movimento di pensiero inaugurato dalla teoria relativistica non vi sono schemi astratti, avulsi dalle strutture che essi dovrebbero definire, ma soltanto funzioni fisiche disposte in un sistema di interazioni reciproche».[22] È banale osservare che anche il cosmo descritto da Newton prevedeva “funzioni fisiche disposte in un sistema d’interazioni reciproche”. Che lo spazio e il tempo fossero considerati come assoluti era solo una ipotesi di riferimento che non nuoceva in alcun modo alle capacità di previsione della teoria, per lo meno nell’ambito della realtà quotidiana. Le “funzioni fisiche disposte in un sistema d’interazioni reciproche” di Gargani rimandano perigliosamente, oltre che ai già citati “reticoli di relazione” e alle “strutture sistemiche”, alle teorie della complessità che hanno macinato per un decennio un sacco di parole ma non hanno prodotto un granché.[23]
16. Tra le grandi novità che avrebbero mandato in crisi la ragione, accanto alla rivoluzione einsteiniana è posto, quasi come se si trattasse della stessa cosa, lo sviluppo dell’operazionalismo: «La crisi della razionalità classica porta soprattutto il segno della funzione crescente che l’azione e le procedure operative sono venute a esercitare nella cultura europea tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. […] In luogo di sostanze, di entità statiche, subentrano operazioni di misura, interazioni tra strutture fisicamente determinate».[24] Si spendono quindi molte parole a esaltare la concezione di Mach, il quale serve evidentemente a Gargani per introdurre surrettiziamente una prospettiva relativistica, non certo in senso einsteniano, ma in senso epistemologico. In effetti, operazionismo e costruttivismo, a prescindere dai loro meriti, sono stati di fatto l’anticamera del relativismo e della costruzione sociale della verità verso cui Gargani mostra di pendere nettamente. In un altro punto del testo, egli ribadisce esplicitamente la sua posizione rispetto al condizionamento sociale della conoscenza e alle relative responsabilità della ragione: «La crisi dell’immagine classica della razionalità […] è connessa alla scoperta del carattere strategico, al bisogno di sicurezza e non a un bisogno cognitivo, al quale tale immagine doveva assolvere. Quel modello di razionalità era espressione di un’immaginazione e di una committenza sociali dirette a disciplinare la ricerca entro forme ideali compiute e irrevocabili, precostituite come strutture naturali, al di sopra e a distanza dalle concrete specifiche operazioni delle menti degli uomini».[25] È bello sapere che la ragione ha avuto una sua committenza sociale.
17. La rivoluzione relativistica einsteniana e l’operazionalismo costruttivista autorizzerebbero così, secondo Gargani, la riduzione della gnoseologia e dell’ontologia a una sorta di filosofia della prassi costruita a misura della vita che è, come ognun sa, imprevedibile e non razionalizzabile: «Mettendo in discussione gli schemi astratti e apriorici, la teoria relativistica ha restituito molti gradi di libertà alla condotta intellettuale e all’immaginazione scientifica e, contemporaneamente, ha proposto una metodologia scientifica centrata sul controllo mediante le esperienze fisiche. Proprio perché usciva dal regime invadente di schemi apriorici e astratti e imponeva un severo controllo empirico delle nozioni scientifiche, la teoria relativistica ha promosso la liberazione della immaginazione scientifica. Infatti si trattava di emancipare l’attività intellettuale da qualsiasi schema preconcetto in vista della spiegazione dei fatti. Con Mach ed Einstein hanno fatto irruzione nell’analisi del sapere scientifico fattori di natura non razionale, non suscettibili di essere organizzati dentro una metodologia prescrittiva. Sono elementi e istanze di carattere intuitivo, psicologico e pragmatico».[26] Insomma, con Mach ed Einstein avremmo finalmente realizzato una metodologia scientifica incentrata sul controllo mediante le esperienze fisiche (e Galileo?) e poi, cosa ancor più importante, avrebbero fatto irruzione fattori di natura non razionale, saremmo cioè finalmente definitivamente entrati, come si diceva, nella fisica e nella filosofia del Paese delle meraviglie.
 18. A questo punto Gargani segnala come una gran rivoluzione il fatto che si sia giunti ad ammettere finalmente che la produzione delle teorie possa anche avvenire attraverso procedimenti non riconducibili a uno schema razionale classico. Si sostiene che: «La teoria e l’epistemologia della relatività tracciano un nuovo modello di razionalità, emancipando la condotta intellettuale da qualsiasi schema apriorico e accordandole una possibilità di usi e di strumentazioni concettuali che è praticamente infinita, - fino a forzare i confini della razionalità - ma che peraltro trova una restrizione e una selezione in quella specie di imbuto, per così dire, delle nostre imprese intellettuali che è costituito dal controllo dell’esperienza».[27] Insomma, Gargani sostiene che nella fase dell’invenzione delle teorie: «Si deve poter andare anche contro la ragione, nel senso di ricorrere a procedure di pensiero che non saranno incluse nella teoria, allo stesso modo che per erigere un edificio un ponte occorre innalzare impalcature che non faranno parte dell’edificio del ponte».[28] Queste sono tuttavia elementarità popperiane e post popperiane. È chiaro che la fisica non si sviluppa nello stesso modo in cui si sviluppa un sistema deduttivo, ma questo lo sapeva anche Galileo. Gargani confonde drammaticamente, o forse volutamente, il piano della scoperta (dove magari anche anything goes!) rispetto al piano della giustificazione che richiede sempre, ahimè qualche straccio di procedimento razionale “classico”.
19. Dopo avere dato il benvenuto alla teoria della relatività, alle idee di fondo dell’operazionalismo e dell’anything goes, a questo punto Gargani passa a occuparsi della matematica e a sostenere, nell’ambito del dibattito sui fondamenti, un punto di vista di tipo intuizionista - costruttivistico, prendendo posizione per Brouwer, inquadrandolo tuttavia in una prospettiva pragmatistica: «A differenza del modello della matematica platonizzante, la matematica costruttivista non legittima le proprie procedure in riferimento a un dominio precostituito di insiemi infiniti, ma in termini delle loro conformità allo scopo […]. La condotta intellettuale nei termini dello stile costruttivista, del ricorso all’azione, della conformità allo scopo abolisce quella distanza che la tradizione classica aveva posto tra il sapere e le attività degli uomini, e rimette la razionalità in una nuova forma, a contatto con le pratiche della condotta intellettuale umana».[29]
Insomma, il modello intuizionista - costruttivista, secondo Gargani, sarebbe in grado di riavvicinare il mondo della conoscenza, reso astratto dalla ragione classica, con il mondo della vita. Il ragionamento riguarda sempre il contesto della scoperta, ma si fa finta che riguardi anche il contesto della giustificazione. Resta sempre il fatto che, per quanti avvicinamenti si facciano, è difficile produrre la meccanica quantistica – comunque la si interpreti - a partire dalle nostre beneamate pratiche quotidiane. Secondo Gargani poi, l’intuizionismo porterebbe a un «contatto diretto ed esplicito con le pratiche mentali degli uomini». Insomma, l’intuizione, facoltà romantica per eccellenza, può essere messa a fondamento della vita, della poesia, e anche della matematica. Peccato che Brouwer non abbia mai sostenuto che ognuno può fabbricarsi la sua matematica come, invece, può scrivere i versi di una canzone o comporre un brano musicale. Sia che la matematica abbia un fondamento realista o intuizionista, purtroppo – sarà questo l’effetto di un colpo di mano di Euclide - avrà sempre un che di tirannico, e limitativo, come ben sa chiunque abbia dato anche solo un esame di matematica. Quand’anche si usino le geometrie non euclidee, come nel caso della teoria della relatività, non si sfugge alla tirannia della verifica (o della falsificazione del modello).
20. L’ontologizzazione della ragione avrebbe comportato, secondo Gargani, anche una specie di distorsione storica, e cioè la subordinazione del presente al passato: «Si può dire che l’interpretazione, in termini di una cadenza analitica, delle nostre operazioni intellettuali esprima un rapporto di subordinazione del presente rispetto al passato. Essa sembra certificare la presenza di un disciplinamento del linguaggio mediante l’esclusione e il divieto di possibilità alternative. […] Sembra che il nostro presente debba ancorarsi a condizioni precedenti: il presente diviene così una mera estensione del passato. Il presente appare già da sempre nel passato. […] Il presente diviene a questo punto una ritualizzazione del passato».[30]
Tutto ciò fa rammentare alquanto il Nietzsche delle Considerazioni inattuali. Insomma, ancora, le regole della logica, della matematica e le regole del linguaggio che si sono accumulate e precisate nel corso della storia della cultura sono percepite come un elemento tirannico, un potere arbitrario limitatore della nostra libertà espressiva.[31] Il modello ideale cui Gargani s’ispira è sempre quello del Paese delle meraviglie.
21. Non basta. E qui abbiamo uno degli aspetti più strepitosi delle teroie di Gargani. Anche l’argomentazione logica soffrirebbe pesantemente di una sorta di dittatura del passato sul presente. La stessa deduzione logica, secondo Gargani, avrebbe infatti un carattere eminentemente conservatore. Infatti: «…secondo il modello tradizionale, classico di razionalità chi svolge un’argomentazione non costruisce contemporaneamente la forza, la validità di essa, ma la trae, la deriva soltanto dalle premesse in cui la conclusione è già implicita, già depositata. Il fattore che ha reso possibile questa immagine delle procedure logiche è costituito dalla nozione di analiticità, cioè di quella nozione che aveva l’ufficio di consacrare l’inesorabilità del passaggio da una parte del discorso a un’altra […]. Come se si trattasse di una causa naturale che produce i suoi effetti».[32]
 Contro la perversa dittatura del sillogismo e dell’analiticità, finalmente smascherata, Gargani è indotto ad auspicare una buffa riforma egualitaristica della logica: «Questa immagine classica della verità logico - matematica e della certezza formale deve essere sostituita da una rappresentazione in cui scompaiono le fittizie relazioni gerarchiche tra le parti del discorso, delle inferenze in cui l’inesorabilità della validità logica sembra dipendere da un’iniezione di verità dall’alto verso il basso. In realtà, ciò che viene prima - ossia, la premessa, la formula generale con la quale si procede nel calcolo - ha un significato, ha una funzione non per se stesso, in isolamento, bensì solo in rapporto a ciò che viene dopo. […] In questa nuova rappresentazione delle proprietà logiche del discorso, cade il rapporto gerarchico, a-simmetrico, tra premesse e conclusioni, tra formule applicazioni, tra ciò che è generale e ciò che è singolare. Sorge quella interrelazione tra le parti del discorso che costituisce la condizione della sua coerenza».[33] Invitiamo il lettore a immaginare cosa accadrebbe qualora facessimo finalmente pulizia delle “fittizie relazioni gerarchiche tra le parti del discorso” e del “rapporto asimmetrico tra premesse e conclusioni”. Qualora non avessimo capito bene, Gargani precisa ulteriormente che «Nulla vieta che si produca un uso in cui ciò che è generale costituisce un caso tra gli altri. Per capire cos’è una norma, una formula generale, bisogna cominciare a praticare il gioco delle applicazioni e delle loro conseguenze».[34]
Abbiamo così un’allegra mescolanza, potremmo quasi dire una felice circolarità, tra le premesse e le conclusioni, dove, già che ci siamo, potrebbe venir meno anche l’asimmetria e la distinzione tra ciò che è singolare e ciò che è universale. Neppure Parmenide ed Hegel avevano osato tanto. Comprendiamo certamente che queste sbrodolature intendano in qualche modo far riferimento alla logica abduttiva che veniva proposta, in quegli anni, da taluni studiosi come una gran novità.[35] Ma, ancora una volta, la logica abduttiva si riferisce al procedimento della scoperta e non alla giustificazione. Come ben sapeva anche Sherlock Holmes, dopo il brillante colpo di fulmine, anche la migliore intuizione doveva trovare una chiara giustificazione, doveva ahimè sobbarcarsi tutti quegli odiati procedimenti autoritari che consistevano nell’esibire delle prove.
22. Dopo avere arruolato Einstein e avere sovvertito la logica e la matematica, Gargani ritorna a  suggerire che, dietro la ragione classica, c’è sempre stato il potere arbitrario.[36] «La crisi della razionalità classica si è originata dalla consapevolezza che quella razionalità non è una natura, e che la struttura socio economica della nostra civiltà ha generato un sistema di astrazioni e di generalità che riflettono una costellazione di poteri e di funzioni del dominio. Anziché essere una natura, quella razionalità si è rivelata, sotto la spinta dei bisogni della nostra vita, «una crosta sottile e precaria» che nasconde un codice di norme convenzionali, un sistema di divieti proibizioni imposte dai gruppi sociali dominanti nei termini di una ragione naturale e normale. A queste istanze normative il disciplinamento sociale si è innalzato usando le espressioni di un linguaggio astratto e universale».[37] Insomma, bisogna dare ragione a Foucault.
Già alcuni sofisti avevano sospettato che gli Dei fossero solo un trucco dei potenti per intimorire e sottomettere gli uomini. La ragione di Gargani sembra avere esattamente la stessa funzione: «La pratica sociale autoritaria per proteggere il privilegio di classi e gruppi su altri è sempre ricorsa a metanorme, cioè a regole che disciplinano il sistema sociale dall’esterno, nel senso che la loro legittimazione non ha riferimento alle relazioni reciproche e controllabili del sistema al suo interno. La metanorma del privilegio sociale deve essere avulsa dal sistema che pretende di disciplinare, in linea di principio. La ragione classica, «naturale» e «normale», assolve alla medesima funzione sociale alla quale assolveva l’ipotesi teologica».[38] Gargani non spiega come faccia la post-ragione di cui egli parla, a evitare di costituire, a sua volta, un ordine di potere. Non lo dice ma la conclusione è inevitabile: la post - ragione non può essere un tipo di ragione, è un’altra cosa. Qualche anno dopo, qualcuno s’inventerà il pensiero debole.
23. Gargani trascura, piuttosto scandalosamente, per uno storico della filosofia quale egli anche era, il ruolo storico che l’argomentazione razionale ha avuto nello scardinamento dei pregiudizi, delle false credenze, delle disuguaglianze, dei sistemi di potere. Per il Gargani annunciatore di crisi, la ragione critica, la sentinella di cui ha parlato Bobbio, non è mai esistita. L’illuminismo deve essere stato il culmine del marcio e delle deviazioni. Secondo Gargani, la rivoluzione o la riforma sociale non si fanno anche grazie alla ragione ma contro la ragione: «La disponibilità a obbedire alle regole generali, che sono proprie della nostra forma di civiltà, è un automatismo sociale che è entrato in crisi in presenza di nuovi bisogni di energie che non possono trovare la propria codificazione negli schemi socioculturali tradizionali. Gli schemi astratti universali, nei quali è stato modellato il disciplinamento della società in termini di sfruttamento di protezione del privilegio, sono la trasfigurazione ideale simbolica di quello che costituisce il più grande tormento degli uomini, «la genuflessione in comune»».[39]
Insomma, la ragione classica garantisce l’ordine cosmico e l’ordine sociale, mentre – dobbiamo presupporre – la post-ragione di Gargani dovrebbe garantire la mancanza di disciplina, il disordine, l’insubordinazione e il cambiamento. «Nella razionalità classica erano state tracciate le grandi linee di una suprema armonia destinata a legittimare le disuguaglianze sociali, le sofferenze dei gruppi sociali subalterni e degli individui all’interno di essi. È la legittimazione di un’armonia che si produce alle spalle degli uomini, di un sistema etico-sociale assoluto, di tipo euclideo, che trascende le circostanze specifiche della vita degli individui, che Ivan Karamazov mette in discussione. […] L’armonia centrale, assoluta definita al di fuori del riferimento alla vita degli uomini, dei loro bisogni e dei loro modi di pensare giudicare - l’armonia al di fuori di ogni sistema d’osservazione insediata nella vita reale - rappresenta un ordine trascendente, inverificabile, tracciato al di fuori dell’esperienza possibile».[40] Nel Paese delle meraviglie dovrebbe dunque regnare una felice disarmonia.
24. La crisi della ragione classica, quando c’è, non può che essere di ordine generale e investire non solo la logica o la matematica, non solo la fisica, ma anche le scienze umane e il settore della cultura più in generale.[41] Si tratta cioè di una crisi epocale globale: «La crisi della razionalità classica - che si è prodotta (per esempio) nell’ambito della teoria fisica che utilizzava schemi concettuali inintelligibili in quanto non determinabili mediante funzioni fisiche - è anche la crisi di una razionalità morale e sociale formalmente analoga che non è specificata dagli eventi sociali e individuali, che si sottrae ai sistemi di riferimento etici e politici degli individui. Infatti, ciò che è «vero» o «falso» o «giusto» o «crudele» è ciò che gli uomini sentono e giudicano nella forma della loro vita. Le figure etiche e sociali non possono essere delineate da una razionalità che traccia modelli di armonia alle spalle delle esperienze socioculturali che li smentiscono».[42] Insomma, ci sarebbe un parallelo, evidentemente non occasionale, tra la crisi della razionalità classica che è avvenuta in fisica e la rivolta contro l’oppressione sociale e la situazione di disagio esistenziale. Come s’è visto, un modello di razionalità caratterizza una civiltà intera. Se vien meno quella razionalità, vien meno la civiltà intera. Sempre teorie vagamente foucaultiane, per non dire di peggio. Secondariamente, se ciò che è “vero” o “falso” dipende da “ciò che gli uomini sentono e giudicano nella forma della loro vita” allora si ribadisce quella teoria della costruzione sociale della verità che ha prodotto una bella serie di paradossi e conseguenze indesiderate.[43]
25. Per fortuna c’è il nuovo che avanza. Secondo Gargani, nella società e nella cultura odierna si possono ravvisare gli elementi di un nuovo ordine, che sarebbero poi gli elementi costitutivi del Paese delle meraviglie: «Non si è trattato della catastrofe o del collasso di una forma di razionalità per auto esaurimento. Il vecchio ordine entra in crisi perché viene spodestato da uno nuovo. Diversamente non cederebbe mai il passo. È un errore di ottica considerare i tratti di una crisi per se stessi, in isolamento. In realtà, un modello di razionalità e una cultura appaiono impraticabili e ormai distanti in concomitanza con una nuova visione intellettuale che subentra, e organizza energie non ancora codificate. Senza una nuova strutturazione metodica della vita intellettuale sociale, il vecchio ordine della ragione non sarebbe mai entrato in crisi».[44] Il nuovo che avanza autorizza a un accorato appello di tono futurista o dadaista: «Respingiamo la cieca obbedienza a uno stile intellettuale insediato nella tradizione e nei linguaggi istituzionalizzati perché la scelta e il bisogno di accostare il pensiero, la scrittura o la ricerca scientifica a un contatto più ravvicinato con le forme della nostra vita, impongono di forzare il sistema delle convenzioni che hanno sino allora ha disciplinato il nostro modo di guardare la realtà».[45]
26. Il nuovo ordine intellettuale che emerge dalla crisi della ragione e dalla rottura delle convenzioni è un ordine che si trova finalmente in accordo con la vita. «Nelle situazioni in cui emergono nuovi modi di vedere di trattare con le situazioni della nostra vita si ricorre a metafore, a espressioni piene di significato corporeo allo scopo di evitare le forme convenzionali dei linguaggi istituzionalizzati. La ripulsa nei confronti di questi ultimi si manifesta allora, in un atteggiamento fisico direttamente vissuto. […] Nella scoperta di un nuovo ordine di verità subentra una specie di nuova tensione muscolare. Piantando in asso figure logore e astratte, e dei linguaggi del sapere istituzionalizzati, ricerchiamo un contatto più diretto, un’approssimazione crescente con l’esperienza che ci circonda, sottraendoci allo schema fondamentale della razionalità classica di un antefatto primordiale del nostro sapere, di una teologia del sapere tutto dispiegato».[46] La tensione muscolare contrapposta alle figure logore e astratte è davvero degna di Marinetti.
27. Non può mancare anche un appello all’immediatezza e alla spontaneità, al rifiuto liberatorio nei confronti dell’obbligo oppressivo, imposto dalla ragione, di doversi continuamente controllare e giustificare: «Sottraendoci a quello schema ci esimiamo dal dover giustificare quello che pensiamo o diciamo con ragioni che ci portano troppo lontani da noi stessi verso lontananze inesperibili».[47] È bene dunque stare attenti a non andare “troppo lontano da noi stessi”. Cambia così anche decisamente il nostro rapporto personale con la storia: «… ci emancipiamo dall’immagine servile della storia come svolgimento di una linea retta di eventi verso un termine finale, perché la storia si svolge sì, ma secondo una linea curva che ricade su se stessa, senza far intravedere il luogo aperto finale in cui ogni cosa andrà a posto. Significati, norme, valori, forme di sapere vengono disporsi entro le linee concentriche di una realtà e di un’esperienza più vicine, dirette e accessibili. Di qui il riavvicinamento significativo, che si è prodotto nel nostro tempo, delle forme del sapere e del linguaggio a ciò che ci circonda, alle circostanze della vita comune, alle situazioni dell’esperienza quotidiana, al mondo che noi stessi siamo».[48] Pur non essendo del tutto chiaro che cosa sia la «linea curva che ricade su se stessa» – non osiamo qui pensare che si tratti di un’allusione al Nietzsche dell’eterno ritorno – si comprende che la nuova storicità sarebbe sottratta alla tirannia della costrizione lineare e diverrebbe un eterno presente quotidiano molto “relazionale” e “sistemico” in cui senz’altro le forme astratte del sapere potranno ricongiungersi finalmente con la vita.
28. Non mancano poi toni lirici decisamente marxiano - heideggeriani: «Si chiama crisi della razionalità la percezione che la casa del nostro sapere è di fatto disabitata perché, trasformandosi i rapporti sociali, i rapporti tra uomini e donne, tra genitori e figli, fra istituzioni e governati, anche il nostro sapere nella politica, nella musica, nella letteratura, nella scienza risulta trasformato. Quella crisi è tracciata nella situazione in cui sentiamo un accumulo di energie che vanno oltre regole e convenzioni saturate, con le quali coincidevano, per così dire, gli estremi della nostra consapevolezza. È in questa situazione di transizione che si esperisce l’impressione che vi sia un sapere non esplicitato o non portato pienamente coscienza al di là di quello di cui disponevamo; ossia sentiamo che il sapere e la nostra consapevolezza non riescono più a coincidere come accadeva nel sistema chiuso di quelle convenzioni».[49] Un vero e proprio mal d’epoca. Qui il disagio esistenziale viene arruolato contro la ragione e vaghi mutamenti di prospettiva esistenziale e di clima culturale sono addotti come sintomi del cambiamento epocale annunciato.
29. Nella chiusa finale, non poteva mancare uno sguardo idilliaco sul futuro del Paese delle meraviglie: «È questo il momento in cui sperimentiamo la grandezza del nostro tempo. Si tratta di qualcosa di paragonabile a un soprassalto di sequenze armoniche, come direbbero i teorici della nuova musica, in cui ciascun particolare accordo trova il proprio spazio e la propria puntualizzazione, senza essere sacrificato alla dispotica predominanza della sequenza tonale. È la situazione in cui ciascun particolare vive la sua connessione con tutti gli altri movimenti di pensiero al di fuori della predestinazione teologica di una scena intellettuale privilegiata».[50] Insomma, la conciliazione tra il particolare e l’universale, che era sempre stato il sogno di Hegel, ora l’abbiamo finalmente a portata di mano.
30. Queste cose erano pensate e scritte, nel nostro Paese, tra il 1976 e il 1979 da Aldo Gargani ed erano, come minimo, state condivise dalla schiera d’intellettuali di tutto riguardo che compaiono come firme nella raccolta.[51] A quarant’anni di distanza possiamo costatare come la profezia della post- ragione, di un nuovo sapere più ampio, più pervasivo, più libero e libertario, più intrecciato con la vita e con l’esperienza comune, abbia fallito miseramente. L’annunciata svolta determinata dalla crisi della ragione, che doveva liberarci dalla schiavitù dei sillogismi analitici, che doveva produrre la riconciliazione tra particolare e universale, si è tradotta soltanto in un aumento del caos e dell’irrazionalità nella maggior parte delle nostre pratiche quotidiane. La scienza, quella seria, per fortuna ha proceduto per conto suo, magari andandosene altrove. La gran rivoluzione annunciata si è ridotta a qualche futile gesto dadaista, scambiato per la realizzazione della libertà. Come risultato effettivo sono stati esaltati il relativismo, l’irrazionalismo, il nichilismo, fino al punto che la filosofia italiana degli ultimi quarant’anni è stata definita come un insieme di «immagini del nulla». E finalmente solo ora qualcuno sta avanzando l’ipotesi che sia appena il caso di tornare alla realtà.
 
29/5/2015
 
                                                                              Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
2006 Boghossian, Paul
Fear of Knowledge. Against Relativism and Constructivism, Clarendon Press, Oxford. Tr. it.: Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Carocci, Roma, 2006.
 
1976 Cacciari, Massimo
Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano.
 
1983   Eco, Umberto  &  Sebeok, Thomas A.   (a cura di)
Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Bompiani, Milano.
 
1979 Gargani, Aldo (a cura di)
Crisi della Ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino.
 
2000   Ginzburg, Carlo
Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano.
 
1983   Vattimo, Gianni  &  Rovatti, Pier Aldo   (a cura di)
Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano.
 
1985   Viano, Carlo Augusto
Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino.
 
 
NOTE
[1] Cfr. Vattimo & Rovatti 1983.
[2] Cfr. Gargani 1979. Per la precisione si trattava di Aldo Gargani, Carlo Ginzburg, Giulio C. Lepschy, Francesco Orlando, Franco Rella, Vittorio Strada, Remo Bodei, Nicola Badaloni, Salvatore Veca, Carlo Augusto Viano. Sono tutti intellettuali italiani, per cui, presumibilmente, la raccolta è rappresentativa della crisi della ragione dal punto di vista del nostro Paese.
[3] Cfr. Gargani 1979: 49.
[4] Si tratta, come ognun vede, di un’accezione assai vaga e onnicomprensiva. L’ipotesi di una crisi della ragione impediva ovviamente di entrare troppo nei dettagli. Un tentativo articolato di definizione dei diversi significati della razionalità si trova soltanto nell’ultimo saggio, quello di Viano, da cui emerge, come minimo, che la ragione si dice in molti modi.
[5] Cfr. Gargani 1979: 5.
[6] Dal punto di vista obsoleto della vecchia ragione, tutto ciò potrebbe anche essere considerato come una specie di rivolta dell’irrazionale.
[7] Cfr. Gargani 1979: 5.
[8] Cfr. Gargani 1979: 6.
[9] Cfr. Gargani 1979: 6-7.
[10] Cfr. Gargani 1979: 7-8.
[11] Cfr. Gargani 1979: 9.
[12] Cfr. Gargani 1979: 9.
[13] Cfr. Gargani 1979: 10-11.
[14] Cfr. Gargani 1979: 14.
[15] Cfr. Gargani 1979: 14-15.
[16] Cfr. Gargani 1979: 15.
[17] Cfr. Gargani 1979: 17-18.
[18] Intendo questo termine nel senso di Kuhn. È chiaro che una rivoluzione scientifica comporta anche delle modifiche nella visione del mondo di un’epoca. Enrico Bellone disse una volta che il più grande filosofo del XX secolo è un fisico.
[19] Cfr. Gargani 1979: 20. Non si capisce a cosa serva specificare l’attrezzeria della teoria della relatività.
[20] Cfr. Gargani 1979: 20. È appena il caso di osservare che le concezioni di tempo e spazio di Newton erano così astratte e nebulose che sono quelle che continuiamo a usare nel 99% delle nostre situazioni pratiche quotidiane.
[21] Cfr. Gargani 1979: 21.
[22] Cfr. Gargani 1979: 21.
[23] Tra gli esponenti di questa tendenza abbiano Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, ma anche personaggi come Edgard Morin, René Thom.
[24] Cfr. Gargani 1979: 21-22
[25] Cfr. Gargani 1979: 31.
[26] Cfr. Gargani 1979: 24-25. Sembra in sostanza che la scienza sperimentale sia nata con Einstein.
[27] Cfr. Gargani 1979: 25-26.
[28] Cfr. Gargani 1979: 26.
[29] Cfr. Gargani 1979: 28-29.
[30] Cfr. Gargani 1979: 35.
[31] La questione del rapporto tra la langue e la parole è stata chiarita abbastanza efficacemente dalla linguistica del XX secolo, senza bisogno di far ricorso alla crisi della ragione.
[32] Cfr. Gargani 1979: 37-38.
[33] Cfr. Gargani 1979: 38-39.
[34] Cfr. Gargani 1979: 40.
[35] Sono gli anni in cui sono stati riproposti Peirce e Sherlock Holmes. Cfr. Eco & Sebeok 1983.
[36] Dal che si potrebbe desumere che, ora che abbiamo la teoria della relatività, l’intuizionismo, l’operazionismo, il costruzionismo, il relativismo e quant’altro, il potere si sia sostanzialmente indebolito e che noi abbiamo così guadagnato una sostanziale nuova libertà. 
[37] Cfr. Gargani 1979: 40.
[38] Cfr. Gargani 1979: 40.
[39] Cfr. Gargani 1979: 41.
[40] Cfr. Gargani 1979: 41.
[41] Nel 1976 Massimo Cacciari aveva pubblicato Krisis. Cfr. Cacciari 1976.
[42] Cfr. Gargani 1979: 42.
[43] Si veda in proposito Boghossian 2006.
[44] Cfr. Gargani 1979: 43.
[45] Cfr. Gargani 1979: 44.
[46] Cfr. Gargani 1979: 44-45.
[47] Cfr. Gargani 1979: 45.
[48] Cfr. Gargani 1979: 45.
[49] Cfr. Gargani 1979: 46.
[50] Cfr. Gargani 1979: 48.
[51] Alcuni di loro, a onor del vero, non hanno poi seguito la post – ragione fino al post-moderno. In particolare Ginzburg e Viano sono intervenuti con estrema chiarezza contro il pensiero debole e l’ermeneutica postmodernista. Cfr. Viano 1985 e Ginzburg 2000.