sabato 23 novembre 2019

“L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski















  

1. La chiave interpretativa dell’ultimo film di Polanski si può trovare tutta nei primissimi minuti di proiezione. Siamo nella celebre École militaire di Parigi. La macchina da presa si muove lentamente in una sconfinata piazza d’armi deserta, circondata da una serie continua di costruzioni settecentesche. All’improvviso sbuca un piccolo drappello di soldati che marcia lentamente verso un obiettivo imprecisato. La macchina li segue con una lunga carrellata e intanto lentamente si avvicina. Così, poco a poco, quello che sembrava una specie di elemento architettonico lungo la base dei palazzi disposti intorno alla piazza d’armi, si rivela essere una fitta schiera di soldati immobili. Una moltitudine immensa di uomini che un momento prima risultava del tutto invisibile. Si scopre a questo punto che il piccolo drappello stava marciando, davanti a un intero esercito schierato, verso l’ufficiale Dreyfus, fermo in piedi in mezzo alla piazza, in attesa della degradazione. Sembra con ciò suggerire Polanski, in termini meramente visivi, che la realtà non è mai come sembra.

Inizia così una lunga e intrigante riflessione sulla verità e sulla menzogna, che ha come sfondo, proprio soltanto come sfondo, la storia dell’affare Dreyfus. Va segnalato, in proposito, che la sceneggiatura del film è stata condivisa da Polanski con Robert Harris, autore del libro An Officier and a Spy da cui è tratto il film. Data la stretta collaborazione tra i due, non staremo a fare distinzioni di sorta. Oltretutto Harris aveva già collaborato con Polanski nella sceneggiatura di The Ghostwriter (L’uomo nell’ombra del 2010). Anche in quel film si affrontavano problemi del tutto analoghi, relativi alla scrittura e al testo come veicoli di verità o di menzogna.

2. Di questo film s’è detto molto ma purtroppo in maniera piuttosto superficiale, il tutto mescolato con l’ulteriore condimento delle vicende giudiziarie personali di Polanski. Com’è noto, a Parigi, la prima del film è stata impedita da una manifestazione d’ispirazione me-too. Tutto ciò ha suscitato molte e contradditorie aspettative. C’è chi ha denigrato Polanski e il suo film, chi invece l’ha apprezzato come un grande capolavoro. Il film comunque ha ricevuto il Gran premio della giuria a Venezia 2019. In tutto questo bailamme, facciamo prima a dire quello che, secondo noi, non è, questo nuovo film di Polanski. Proveremo poi a pronunciarci su quel che secondo noi effettivamente è, o che forse avrebbe voluto essere. La qual cosa – come si vedrà - si rivelerà un pochino più complessa. Dunque, non è propriamente un film storico sull’affare Dreyfus. Non è un film sull’antisemitismo. Non è un film sul ruolo degli intellettuali e dell’opinione pubblica nel Novecento. Non è neppure un film sulle istituzioni e sul potere. È piuttosto, anticipando la soluzione del rebus, come già accennato, un film sulla verità come testo e scrittura, e sulla costruzione e decostruzione della verità stessa. Tutti gli elementi poc’anzi citati, che sono stati variamente invocati dalla critica, c’entrano senz’altro, danno il corpo al film, ma il nucleo autentico del film è solo e soltanto la tesi per cui niente è come sembra. Tutto è testo, tutto è scrittura e, conseguentemente, il costrutto testuale determina l’esistenza. Le istituzioni e le società sono espressioni del testo, al servizio del testo. Solo un’interpretazione ci salverà, per parafrasare un celebre filosofo che, in realtà, ci è davvero poco simpatico.

3. Ma vediamo meglio le singole questioni. Perché un film possa effettivamente essere detto film storico non basta che sia ambientato in un periodo storico diverso dal presente. Non basta, per fare un film storico, che si vedano i romani antichi con lo scudo e la corazza, non basta che si vedano i nazisti scorrazzare sulle motocarrozzette, oppure mettere in scena Churchill o Abramo Lincoln. Non basta cioè che ci sia un’ambientazione storica. Un film storico in senso proprio è un film che è in grado di proporre un’interpretazione di un qualche episodio della storia. La parola da rilevare qui è interpretazione, cioè ermeneutica. La storia è tale se conferisce una struttura di senso a qualcosa che prima non l’aveva, o non l’aveva del tutto. Insomma, da un lato abbiamo i fatti bruti (raw data) della cronaca, dall’altro abbiamo gli eventi dotati di senso. In mezzo c’è la storiografia. Il film storico – usando le prerogative proprie del cinema – deve essere in grado di produrre un qualche nuovo senso interpretativo che prima non c’era. Altrimenti rimane solo una piatta esposizione di raw data, informazioni che possono riguardare epoche diverse dalla presente ma che rimangono comunque senza senso, oppure che rimangono dotate del senso elementare che hanno i dati bruti. Nel film di Polanski, il fatto storico del caso Dreyfus è semplicemente esposto, illustrato, rappresentato, peraltro in maniera davvero eccezionale sul piano della ricostruzione e degli aspetti visivi. Viene tuttavia meramente riproposto quel che se ne sa già ampiamente per altre fonti. Insomma, come abbiamo suggerito, il caso storico dell’affare Dreyfus viene certo usato da Polanski/Harris, ma per un altro scopo.

4. Lo stesso ragionamento lo possiamo fare per l’antisemitismo. Non è l’antisemitismo il fulcro del film. Si badi bene che l’antisemitismo nel film c’è, è presente dappertutto. Ma è proprio questo il problema. Il film mostra come l’antisemitismo faccia parte del paesaggio sociale della Francia fin de siècle. È un atteggiamento condiviso e dato per scontato più o meno da tutti. È come l’aria che si respira. I personaggi del film sono quasi tutti portatori insani di antisemitismo. L’antisemitismo è parte dell’ambiente, è dato per scontato. Ciò nonostante, nel film non c’è alcuna approfondita interpretazione del fenomeno dell’antisemitismo. Esso viene semplicemente mostrato, pur nelle sue gravi e inaccettabili conseguenze ma, appunto, viene solo mostrato. Polanski non ha voluto fare un film storico sull’antisemitismo, anche perché un simile film lo aveva già fatto, con davvero egregi e straordinari risultati. Non è che Polanski non sia capace di fare un film storico sull’antisemitismo. Solo che in questo frangente non era il discorso principale che gli interessava.

5. Non è neppure un film incentrato sulla nascita dell’opinione pubblica e sul nuovo ruolo degli intellettuali. Questo va detto, nonostante il titolo originale francese del film riprenda proprio il motto di Zola “J’accuse!”. Zola, nel film, non ha alcuna presenza rilevante. È mostrato molto di corsa, più o meno come un potente lobbista dell’opposizione. Le ragioni profonde dell’engagement di Zola non sono neppure accennate, sono date per scontate. Insomma, Zola c’è ma non si vede, fa parte dell’arredamento. L’esercito e il governo sono la macchina che costruisce la menzogna, Zola e l’opposizione sono la macchina che decostruisce la menzogna, facendo appello all’opinione pubblica e usando la stampa libera. Tutto ciò è puntualmente descritto. Come e perché sia stato possibile quel tipo di impegno e come e perché riescano a farcela non è minimamente spiegato. Polanski non è interessato a entrare nel merito e ad analizzare il nuovo ruolo dell’intellettuale che si prospetta in seguito al caso Dreyfus e il nuovo rapporto che viene a instaurarsi tra stampa, opinione pubblica, pluralismo e democrazia. La battaglia dell’opposizione è mostrata, ma le motivazioni profonde, quelle che avrebbero effettivamente permesso un’interpretazione storica, restano del tutto sullo sfondo.

Anche per quanto riguarda le istituzioni, le cose non vanno molto diversamente. Seppure la struttura autoritaria dell’esercito francese come istituzione sia dettagliata in maniera rigorosa e venga ricostruita in tutti i suoi odiosi particolari, essa non viene spiegata. Ci vien detto che le cose funzionavano così, ma non il perché.

6. La ragione di tutto ciò è che a Polanski (e al co-sceneggiatore Harris) del caso Dreyfus interessa una cosa soltanto: il complesso dei meccanismi di costruzione e decostruzione della verità. E questi meccanismi sono senz’altro universali da che mondo è mondo, per cui il caso Dreyfus non può essere che solo un esempio. Una specie di caso sperimentale. Un esempio certo paradigmatico, ma solo un esempio. Dreyfus come personaggio lo si vede solo all’inizio del film e poi alla fine, con qualche intermezzo ricostruttivo delle sue vicende processuali, quando la narrazione lo richiede. Il vero protagonista del film di Polanski non è Dreyfus - cioè l’ebreo perseguitato, la vittima dell’antisemitismo - ma il colonnello Piquart, quello che riveste il ruolo dell’investigatore. All’inizio Piquart sembra uno sprovveduto, uno dei tanti che aveva avuto un ruolo marginale nell’affaire. Uno che aveva creduto esattamente quello che avevano creduto, più o meno in buona fede, proprio tutti. Tanto che viene promosso a comandare l’ufficio investigativo, un ufficio così segreto da essere designato eufemisticamente come Ufficio Statistica. Tuttavia, poco a poco la sua figura s’irrobustisce e si consolida, fino a guadagnare un posto centrale e determinante nella vicenda. Il modello umano che si concretizza progressivamente sotto gli occhi dello spettatore è quello di uno Sherlock Holmes che ha, come unico suo scopo, la soluzione di un puzzle investigativo e quindi la decostruzione delle prove addotte a carico di Dreyfus, lo smascheramento dei depistaggi e la scoperta della sua innocenza. Non Zola e l’opinione pubblica sono i motori della vicenda, bensì la pervicacia investigativa di una specie di Holmes al di qua della Manica. Del resto, le avventure di Holmes nella fiction di Conan Doyle sono del tutto contemporanee alle ben più effettuali indagini di Piquart.

7. La prova più lampante di quanto andiamo sostenendo è che quasi due terzi del film è impegnato nella ricostruzione e nella esibizione, invero davvero straordinaria, puntuale e documentatissima, delle tecniche investigative del tempo. Nell’esibizione delle carte, dei dossier e degli archivi. E nel ricorso alle varie nuove professionalità connesse alle indagini, come il grafologo, il fotografo, ecc. Il film di Polanski è sostanzialmente un film sulle tecniche investigative fin de siècle. Una specie di ricerca sull’essenza stessa delle tecniche investigative e sulla figura stessa dell’investigatore, colui che è in grado di vedere ciò che gli altri non vedono. Colui che è in grado di rivolgere la propria attenzione ai margini del testo, ai margini, si badi bene, del quadretto incorniciato nell’ufficio di Piquart, dove ci sono i frammenti della falsa prova che ha incastrato Dreyfus.

Piquart, in seguito alla sua promozione, prende possesso del suo ufficio e dei suoi poteri, fino a quando non comincia a sospettare che qualcosa non torna. Invece di girarsi dall’altra parte, di accomodarsi alla comune opinione, si accinge semplicemente a seguire le tracce, come un novello Guglielmo da Baskerville. Le tracce, se si vogliono seguire, ci sono sempre e in abbondanza. Non possiamo non lasciare tracce – dice Ferraris, sulle orme di Derrida. E le tracce lo conducono a scoprire le prove dell’innocenza di Dreyfus e, invece, della colpevolezza del colonnello Esterhazy. Una volta trovate le prove, si tratta tuttavia di fare i conti con il sistema di potere che ha fabbricato e sostenuto la menzogna. E di qui, tutti gli avvenimenti successivi, i depistaggi, l’allontanamento di Piquart, le campagne di stampa e i ricorsi degli avvocati dell’opposizione. Si tratta di fatti conseguenti che tuttavia sono raccontati da Polanski quasi frettolosamente. Le reazioni del potere, dei fabbricanti della verità ufficiale, sono quelle che tutti ci aspettiamo, ampiamente prevedibili e quindi in fin dei conti poco interessanti.

8. Ciò che interessa veramente a Polanski dunque è il processo dell’indagine. Si tratta dunque di un caso Dreyfus che vien trattato sotto il profilo di una spy story. Una spy story di altissimo livello, ma pur sempre una spy story. Attraverso questa riduzione, forse un po’ naïve e spregiudicata, Polanski riesce però a enunciare e a sostenere alcuni principi di carattere generale, non del tutto nuovi, ma che non fa mai male ribadire, e di cui forse ai tempi nostri c’è estrema necessità. Non c’è verità senza testo. La condanna di Dreyfus, a torto o a ragione, si è basata sulle carte. I testi possono dire la verità, ma possono anche essere usati per mentire. L’uso veridico o menzognero dei testi dipende dai rapporti di potere e, soprattutto, dalle istituzioni di potere che hanno il controllo della produzione testuale. La produzione dei testi, e il loro uso, in ogni epoca storica (dunque anche nella Francia di fine Ottocento) obbedisce a quelli che sono i pregiudizi diffusi nelle società dei tempi. Tuttavia, ogni produzione testuale, sia essa veridica o menzognera, non può che lasciare essa stessa delle tracce. Immersi nella testualità, poiché le nostre vite e le nostre istituzioni sono fatte in gran parte di testi, non possiamo non lasciar traccia. Così, grazie alle tracce, grazie ai margini del testo, accanto alle vicende della costruzione della menzogna si configura la possibilità di una sua decostruzione. Piquart è uno Sherlock Holmes decostruzionista alle prese con i margini di un testo. Un vero e proprio Guglielmo da Baskerville che usa consapevolmente il metodo Morelli, che si serve cioè di minime tracce per ricostruire il senso del testo manifesto. Una strategia minimalista per determinare l’autenticità o la falsità dell’opera. Su tutti questi argomenti c’è una letteratura enorme, che tuttavia qui risparmiamo volentieri al lettore.

9. Il discorso centrale del film dunque, dietro al fulgore della Francia fin de siècle, dietro alla mirabile ricostruzione degli ambienti, dei costumi dell’epoca, risulta essere un teorema quanto mai intellettualistico e astratto: una riflessione sulla testualità e sulla scrittura e sulle loro conseguenze sociali. In contrasto con questa tendenza di fondo, il film viene ricondotto a una dimensione esistenziale, in prima persona, da un unico personaggio, l’amante o la fidanzata di Piquart. Si noti che è l’unica donna che compare nel film. Forse andrebbe anche notato che il personaggio è interpretato dalla stessa compagna di Polanski, Emanuelle Seigner. La ricerca della verità dell’investigatore Piquart ha come risultato, in un primo tempo, la distruzione della vita privata della donna e, successivamente, la sua ricostruzione al suo stesso fianco, anche se alla fine, tenendosi fuori dalle convenzioni, i due decidono di non sposarsi. Il lavoro sul testo, l’investigazione, dunque – sembra dire Polanski - non riesce mai, per quanto ciò sia necessario, a essere un esercizio freddo del puro logos, ma ha sempre profonde conseguenze esistenziali. Testo ed esistenza sono due estremi che pur nella loro eterogeneità finiscono per intrecciarsi continuamente. Solo alla fine, discutendo con la sua compagna, Piquart sembra così smettere le fredde vesti dell’interprete mind oriented e sembra diventare più propriamente umano. Ma ritorna subito il Piquart arido interprete della verità nell’incontro faccia a faccia – che chiude il film – con Dreyfus, un incontro del tutto freddo e privo di empatia. Se testo ed esistenza s’intrecciano continuamente, è il caso tuttavia di tenerli ben distinti, onde evitare condizionamenti impropri.

10. Il film, che è incentrato, come s’è detto, sulla questione dell’interpretazione, pone dunque consapevolmente il problema di un’etica dell’interpretazione (diciamo pure, in senso habermasiano). In un mondo come il nostro in cui la testualità si è moltiplicata in modo vertiginoso, in cui tutto viene preso pacchianamente per buono, in cui si trovano sempre schiere di imbecilli creduli, Polanski e Harris, attraverso il caso Dreyfus, ci ricordano che non tutto è come sembra. Che quel che ci sembra ovvio è sempre il risultato di un’attività di costruzione, di scrittura da parte di chi ha il potere di farlo e se ne arroga il diritto. O anche solo da parte dell’opinione prevalente e/o del pregiudizio prevalente di un’epoca. Per un principio etico indispensabile alla sopravvivenza della nostra cultura e della nostra società, allora, non perché siamo onesti, buoni, umani o altruisti, dobbiamo prestare sempre la massima attenzione ai meccanismi della produzione testuale, dobbiamo guardare oltre il testo manifesto, oltre il testo incorniciato - come fa effettivamente il bravo Piquart - dobbiamo guardare ai margini del testo, al mondo del non ancora detto o al mondo che per qualche motivo è stato costretto al silenzio, e recuperare quel che non sembra ovvio, quello che ci viene costantemente oscurato e negato dal mare della testualità stessa nel quale siamo costantemente immersi e in cui rischiamo costantemente di annegare.



Giuseppe Rinaldi

23/11/2019