venerdì 3 ottobre 2014

I più furbi di tutti (1.1)

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Pur avendo grande stima di Marco Lodoli, devo dire apertamente che questa volta non sono d’accordo con quello che ha scritto. Lodoli, oltre che scrittore, è un acuto commentatore di questioni scolastiche, un conoscitore dei giovani, cui ha dedicato le sue energie d’insegnante con grande sensibilità e passione. L’articolo che ha suscitato il mio dissenso s’intitola “Addio cultura umanista”,[1] un articolo che sicuramente potrà andare ad aggiungersi alle molte inutili e fuorvianti previsioni catastrofiste che sono comparse negli ultimi decenni. La tesi sostenuta da Lodoli è che «la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti».
La descrizione nuda e cruda può anche essere condivisibile, ma il fatto grave è che da buon postmoderno Lodoli poi conclude: «Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei».
Insomma, se abbiamo capito bene, la ventilata sparizione della cultura umanistica potrebbe anche non essere un male e di questa sparizione dobbiamo prendere atto, non perché abbiamo dei buoni argomenti per ritenerla superata, errata, inutile o pericolosa, ma semplicemente perché uno stuolo di ragazzini non è più in grado di stare ad ascoltare un insegnante per un quarto d’ora di seguito: «…per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c’è poco da fare, l’oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente». La cultura umanistica per Lodoli sarebbe dunque diventata inattuale e noi ci dovremmo rassegnare a prendere atto di questa situazione e, al più, a cercare di comprendere di soppiatto in quale direzione stiano andando i tempi, direzione dei tempi che i ragazzini sarebbero in grado di cogliere assai meglio di noi. Non ci resta insomma che fare l’inchino al post umanesimo e al post - pensiero.
Forse le cose non stanno proprio così. Vorrei prenderla un po’ alla larga. Un paio d’anni fa, un’autorevole ricerca internazionale di Evans, Kelley e Sikora,[2] che ha ottenuto anche da noi qualche fuggevole richiamo sulla stampa, si è posta il problema di identificare gli strumenti più idonei ad assicurare il superamento delle influenze negative dello svantaggio culturale famigliare sul destino dei figli. Ebbene, secondo questo studio, lo strumento più efficace in assoluto sarebbe quello di dotare le famiglie svantaggiate di una risorsa davvero sorprendente e innovativa: i libri. I ricercatori intendono proprio i libri intesi come oggetti fisici. Non è necessario che i genitori sappiano effettivamente usare i libri che posseggono: basta averli in casa. Se essi hanno in casa molti libri, questi costituiranno un ambiente abituale per i figli, rappresenteranno una continua fonte di stimolo, permetteranno all’insegnamento scolastico di trovare una solida sponda in famiglia. È la massa dei libri che fa la differenza. I libri costituiscono dunque, per una qualsiasi famiglia, una delle più importanti forme di capitale culturale.
I ricercatori non si sono tuttavia accontentati di questa conclusione e hanno provato a quantificare la massa, si sono cioè domandati se ci sia una soglia, in termini di numero di libri, oltre cui l’effetto benefico del libro diventi sicuramente efficace, oltre cui si possa cioè riuscire seriamente a compensare lo svantaggio culturale. Ebbene, la soglia identificata è di circa 500 libri (libri non scolastici, s’intende!). Questo significa che, con una cospicua dotazione di almeno 500 libri, una famiglia svantaggiata sul piano culturale può riuscire a cancellare la sua situazione di svantaggio e mettere i propri figli sul piede di parità con le altre famiglie. Cinquecento libri non sono neanche tanti, per ospitarli è mediamente sufficiente uno scaffale largo due metri e mezzo, con cinque ripiani.[3] Aggiungo che la ricerca di Evans e soci è transnazionale, per cui i risultati sono di validità abbastanza generale.
A questo punto noi possiamo domandarci: «Quante sono le famiglie del nostro Paese che hanno in casa almeno 500 libri?». Per avere una risposta possiamo brevemente ricorrere a un indicatore che ho raccolto personalmente in una delle mie indagini sui giovani. Alla domanda “Approssimativamente, quanti libri ci sono in casa tua?”, la media delle risposte delle famiglie alessandrine (quelle che avevano un giovane alla soglia dell’Esame di Stato nel 2009) si attestava sui 200 libri. Solo una fascia minima del 15% ha dichiarato di avere in casa più di 500 volumi.[4] Marco Lodoli insegna nelle borgate romane e ha soprattutto presenti i giovani degli ambienti sociali più deprivati, ma evidentemente anche al Nord, al centro del triangolo industriale, abbiamo una diffusa situazione di degrado culturale, magari meno evidente e piuttosto ben mascherata. Molte delle nostre famiglie non hanno in casa neanche quella quota di libri che servirebbe a una famiglia deprivata a compensare la sua situazione di svantaggio culturale! Anche le famiglie del nostro territorio, nonostante la ricchezza esteriore, gli abiti griffati, il grande consumo di gadget elettronici, nascondono dunque una povertà culturale insospettata, di cui probabilmente hanno anche scarsa consapevolezza. A livello nazionale, poi, sono note le stime di De Mauro e dei suoi collaboratori intorno alla diffusione dell’analfabetismo di ritorno. Solo un terzo della popolazione del nostro paese è in grado di leggere e comprendere il senso di un articolo di giornale di media difficoltà.[5]
Quando mi capita di fornire questi dati ottengo sempre reazioni di fastidio, mi accorgo di essere subito percepito come un presuntuoso che si permette di giudicare dall’alto la cultura degli altri. Certe cose tra persone per bene non si fanno! Ma allora, perché siamo tutto sommato disposti ad ammettere un livello di miseria materiale in aumento (le “famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese” sono un ritornello costante in cui c’è quasi compiacimento) e siamo invece così riluttanti ad ammettere la presenza diffusa della miseria culturale? Per avere una spiegazione di questa rimozione collettiva dobbiamo andare un po’ indietro. Nel Sessantotto, sull’onda di Don Milani e della contestazione, c’era stata una rivendicazione di diritto allo studio che aveva ottenuto importanti successi: l’apertura a tutti dell’Università, l’innalzamento della scolarità, la scuola per gli adulti. Contemporaneamente c’era stata l’esplosione del mercato della cultura di massa (libri tascabili, riviste, musica, cinema, media). Insomma, sembrava che gli italiani fossero tutti destinati a diventare degli intellettuali, dei raffinati consumatori di cultura. Invece ci possiamo accorgere solo oggi che quella generazione (i padri/ le madri dei giovani di oggi), se ha innalzato mediamente il livello dei propri titoli di studio, a causa forse di una trasmissione culturale troppo affrettata non ha saputo acquisire un’autentica dimensione culturale, si è accontentata di un’infarinatura superficiale che è ben presto svanita, di fronte al degrado delle relazioni e delle conversazioni, di fronte alle TV, di fronte agli insuccessi e alle delusioni della vita quotidiana. Non basta il diploma o la laurea per cambiare abitudini culturali radicate da generazioni. Nonostante gli sforzi di cambiamento, ciascuno è stato risucchiato verso i tratti culturali tipici del proprio milieu sociale.[6] Il degrado culturale, come una specie di forza di gravità o come una sorta di entropia ha così fatto sentire alla lunga i suoi effetti. La maggior parte dei padri non aveva 500 libri in casa e non ha fatto granché per procurarseli. E i figli di oggi non sono da meno.
L’unica differenza è che i ragazzi del Sessantotto avevano la percezione netta della loro condizione sociale deprivata e avevano cercato di acquisire almeno la parvenza di una cultura legittima, e la relativa certificazione. I giovani di oggi invece sembrano e si sentono tutti uguali, non si sentono esclusi da una qualche cultura legittima, non credono di avere nulla da conquistare e così a scuola reagiscono (non proprio tutti, per fortuna) con un senso di estraneità, come racconta con efficacia Lodoli nel suo articolo descrivendo una collega: «“Io non esisto più, sono diventata invisibile”, mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria, e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento”». Dietro di ciascuno di questi giovani che non sanno più afferrare le parole ci sono i 500 libri che mancano. Ci sono genitori che hanno visto ben presto il degradarsi di una superficiale formazione scolastica ricevuta con troppa fretta. Genitori che non hanno proceduto ad alcun aggiornamento delle loro conoscenze e così oggi si trovano a essere in sintonia al più con la cultura di qualche decennio fa; ma anche genitori che hanno messo da parte i consumi culturali impegnati perché li avevano adottati solo per moda, che hanno smesso di andare al cinema di qualità, di andare a teatro, di frequentare i dibattiti e le conferenze. O, ancora, genitori che hanno smesso di discutere e di partecipare, che hanno rinunciato alla politica (il ceto politico odierno è l’esatto specchio di questa situazione). Per la maggior parte dei beni vale la regola che “meno se ne ha, più se ne sente il bisogno”. La cultura è invece un bene alquanto differente per il quale vale la regola “meno se ne ha, meno se ne sente il bisogno”.
Da tutto ciò deriva che, quando parliamo della diffusione della cultura nel nostro Paese, siamo vittime, come Lodoli, d’un’illusione ottica sistematica che ci fa costantemente sovrastimare le capacità culturali medie della popolazione. Se la cultura umanistica non si diffonde presso la popolazione, allora siamo spinti a concludere che ci deve essere qualcosa che non va nella cultura umanistica; che sia invece la popolazione ad avere qualche problema non ci passa neppure per l’anticamera del cervello. In campo culturale è profondamente sbagliato adottare la logica della maggioranza. Ammesso poi che ci sia davvero una “fine della cultura umanistica”, questa riguarda, come abbiamo visto, più la generazione dei padri che non quella dei figli: non si può trasmettere quello che non si ha o quello che si possiede solo in forma superficiale.
Lodoli si lamenta della sparizione della cultura umanistica, ma anche la cultura scientifica non si sente tanto bene. Se i giovani annoiati da Leopardi o da Debussy si dedicassero al calcolo algebrico, alla meccanica quantistica o alla genetica, potremmo anche considerarla una svolta culturale di un certo rilievo. Ma non sembra sia proprio così. Caro Lodoli, non è che la cultura umanistica e la cultura scientifica abbiano fatto il loro tempo. Sono le sole forme di cultura che conosciamo e se fossimo saggi faremmo bene a tenercele strette. La crisi che sta attraversando il nostro Paese è anche e soprattutto una crisi che deriva dai nostri enormi deficit culturali. Non è che i giovani del venturo post – umanesimo, che Lodoli descrive con un po’ d’invidia e d’ammirazione, abbiano accesso a qualche inusitata forma di conoscenza, a dimensioni della logica o dell’espressione proibite a noi grevi gutemberghiani, a nuove manifestazioni culturali di cervelli mutanti che si stanno evolvendo tra gli ipertesti o nei social network. No, non sono mirabolanti creature del futuro, sono solo il frutto della nostra collettiva arretratezza, della nostra miseria culturale, di quella nostra beata presunzione per cui possiamo anche sentirci poveri, ma non riusciamo proprio a sentirci ignoranti. Anzi, non solo non siamo ignoranti, siamo i più furbi di tutti.
 
01/11/2012
03/10/2014 (rev.)
                                                                             Giuseppe Rinaldi
 
 
NOTE
[1] Cfr. Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso, su La Repubblica del 31/10/2012.
[2] Evans, Mariah D. R. & Kelley, Jonathan & Sikora, Joanna & Al., Family scholarly culture and educational success. Books and schooling in 27 nations, in Research in Social Stratification and Mobility, 28 (2), 2010. Pp. 171-197.
[3] Sarebbe affascinante cimentarsi nell’ideare una biblioteca minima di 500 titoli essenziali della nostra cultura da salvare e da trasmettere alle future generazioni.
[4] Cfr. Rinaldi, Giuseppe (a cura di), Giovani e cultura civica. Indagine con gli studenti diplomandi di Alessandria, Guerini e Associati, Milano, 2012.
[5] Cfr. De Mauro, Tullio, La cultura degli Italiani (a cura di Francesco Erbani), Laterza, Bari, 2010.
[6] Su questo tema si veda il sempre attuale Bourdieu, Pierre, La distinction, Les Éditions de Minuit, Paris, 1979. Tr. it.: La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983.