giovedì 24 luglio 2014

Quel nazista che «è» in te (1.1)–Prima parte

 
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La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger, inviata al suo sostenitore francese Jean Beaufret, è stata scritta nel dicembre del 1946. La Lettera costituisce, di fatto, il primo intervento rivolto all’opinione pubblica occidentale da parte del pensatore[1] tedesco dopo il più che decennale silenzio e la crisi finale seguiti alle travagliate vicende biografiche conseguenti la sua collaborazione con il nazismo. Nella storiografia filosofica, la Lettera è anzitutto considerata dagli studiosi come la prima documentazione sulla «svolta» ontologica - la cosiddetta Kehre - del pensiero di Heidegger rispetto alle posizioni espresse in Sein und Zeit nel 1927. È anche considerata, nell’ambito della storia dell’esistenzialismo, come una presa di posizione da parte di Heidegger nei confronti delle interpretazioni del suo pensiero che ormai circolavano un po’ ovunque e nelle quali egli non si riconosceva più. Non era infatti ancora passato un anno dalla famosa conferenza pubblica di Sartre intitolata L’esistenzialismo è un umanismo (tenuta a Parigi il 29 ottobre 1945) in cui lo stesso Sartre aveva citato l’Heidegger di Sein und Zeit come uno dei filosofi di riferimento dell’esistenzialismo. Queste due interpretazioni costituiscono una vulgata decisamente riduttiva e sempre meno sostenibile sulla base di quanto la ricerca storiografica sta faticosamente portando in luce, tra molte reticenze, omissioni e complicità.[2]

Per una corretta contestualizzazione e interpretazione della Lettera occorre precisare che Jean Beaufret si era presentato, per iscritto, a Heidegger nell’ottobre del 1945, cominciando a intavolare con lui un rapporto di corrispondenza. Il 10 novembre 1946 gli aveva inviato alcuni quesiti circa la questione dell’umanismo, che era alquanto dibattuta nella Francia del dopoguerra, anche per la diffusione dell’esistenzialismo sartriano. La risposta di Heidegger avvenne appunto in dicembre. La lettera venne parzialmente pubblicata in Francia sulla Revue Fontaine, con una introduzione di Beaufret stesso. Attorno alla Revue si trovava un gruppo di sostenitori francesi di Heidegger (tra cui un giovanissimo Edgar Morin), i quali avevano già tentato di prendere dei contatti con lui nell’autunno del 1945, offrendogli l’opportunità di pubblicare articoli o saggi in Francia. La Lettera venne poi rivista da Heidegger per una pubblicazione più ufficiale nel 1947 e venne poi pubblicata come opera singola nel 1949. È stata poi ancora collocata dallo stesso Heidegger nella sua raccolta intitolata Segnavia.[3]

Nello stesso periodo in cui veniva elaborata e diffusa la Lettera, si era consumato uno dei periodi più drammatici della vita di Heidegger. Il 22 aprile 1945 le truppe alleate francesi entravano a Friburgo, mentre Heidegger era ancora sfollato. Il 25 aprile il corpo accademico dell’università si era ricostituito come istituzione autonoma sopprimendo l’ordinamento nazista che era stato varato proprio sotto il famoso rettorato di Heidegger negli anni 1933-34. Nel luglio del 1945 le Autorità francesi di occupazione avevano insediato una Commissione presso l’Università che aveva lo scopo di procedere all’epurazione di chi aveva collaborato col regime. A Friburgo il personaggio più in vista e suscettibile di essere accusato di collaborazione era indubbiamente proprio lo stesso Heidegger. In un primo tempo, nel mese di maggio, a titolo cautelare, la casa e la biblioteca di Heidegger furono poste sotto sequestro, provvedimenti che egli riuscì, con fatica, poi a far rientrare. Il 23 luglio del 1945 Heidegger comparve per la prima volta di fronte alla Commissione che iniziò a istruire una pratica che andrà piuttosto per le lunghe. Il verdetto fu emesso il 19 gennaio 1946 e comportava il pensionamento obbligatorio (come peraltro aveva chiesto lo stesso Heidegger) e la proibizione di insegnare. Nella primavera del 1946 Heidegger fu curato da von Gebsattel nella sua clinica specializzata per i disturbi psicosomatici. Il 28 dicembre del 1946 la delibera della Commissione fu ufficialmente ratificata dal Governo militare. L’11 marzo del 1947 Heidegger ricevette il provvedimento ufficiale del governo del Baden, che ribadiva nei suoi confronti lo stesso provvedimento del Governo militare.

La Lettera va dunque inquadrata, ben oltre la Kehre o il dibattitto intorno all’esistenzialismo, nel tentativo, da parte dei sostenitori di Heidegger, sia tedeschi sia francesi, di presentarlo al mondo come un uomo di cultura completamente concentrato sul pensiero e di avallare la sua linea di difesa, tesa a minimizzare la collaborazione con il nazismo. Era la tesi della grösste Dummheit, cioè della «colossale stupidaggine» che ha ancora oggi moltissimi sostenitori, particolarmente in Italia.[4] La Lettera aveva dunque il compito di rappresentare all’opinione pubblica occidentale, nelle sue linee fondamentali, le «nuove» tesi filosofiche che erano state maturate da Heidegger nel decennio dopo la pubblicazione di Sein und Zeit nel 1927. Dopo l’adesione al nazismo di Heidegger, avvenuta agli inizi degli anni Trenta, dei suoi sviluppi intellettuali in effetti si sapeva piuttosto poco. Ora la Lettera, nella sostanza, costituiva, senza ombra di dubbio, il tentativo di presentare l’Heidegger del periodo nazista in una versione che fosse digeribile per il pubblico internazionale.[5] Il resto dell’attività filosofica di Heidegger, fino alla sua morte avvenuta nel 1976, sarà caratterizzato proprio da questo tentativo di occultamento delle sue responsabilità e di riciclaggio delle sue opere più discutibili prodotte durante il decennio nazista. Il tentativo ebbe tanto successo che oggi molti considerano Heidegger come «il più grande filosofo del XX secolo».

In effetti, i difensori e promotori francesi di Heidegger ebbero davvero un grande successo, nonostante fossero legati agli ambienti dell’estrema destra. Ha osservato in proposito Faye: «… è profondamente inquietante vedere che due dei principali difensori di Heidegger, Jean Beaufret e François Fédier, i quali hanno svolto un ruolo importante nella diffusione della sua dottrina in Francia, sono arrivati l’uno sino a far proprio il negazionismo di Robert Faurisson e l’altro a scrivere a favore di Ernst Nolte».[6] Va precisato che una parte consistente del mondo heideggeriano francese (compreso Roger Munier, il traduttore francese di Heidegger) ha preso le distanze proprio da Beaufret. Così ha complessivamente commentato queste vicende lo storico Hugo Ott, autore di un’importante biografia di Heidegger: «La delibera del 28 dicembre 1946, periodo in cui già veniva alla luce la Brief über den Humanismus indirizzata a Jean Beaufret, rimase giuridicamente valida e vincolante. Heidegger si levò, come l'araba fenice, dalla cenere del rogo allestito dal governo militare francese per penetrare nella vita spirituale della Francia con un impatto filosofico decisivo; il pensiero di Heidegger cominciò così la propria marcia trionfale nell'area delle lingue neolatine».[7] Da allora, a quanto pare, non si è più fermato.

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In questo articolo, procederemo a un elementare esercizio di analisi puntuale della Lettera, convinti che si tratti di un’operazione assai utile per la comprensione sia delle autentiche radici del pensiero heideggeriano, sia dei motivi dell’accoglienza trionfale che ha ricevuto, dal dopoguerra in poi, negli ambienti religiosi come negli ambienti della cultura laica, sia di destra che di sinistra. Lasceremo che sia lo stesso Heidegger a guidarci, con un’ampia serie di citazioni, convinti che la Lettera abbia rappresentato, in quel frangente, una sorta di calcolata mediazione tra ciò che per lui era ormai divenuto irrinunciabile, grazie anche e soprattutto al decennio d’intensa militanza nazista, e ciò che invece egli poteva concedere, grazie a un’accurata operazione di occultamento e maquillage, alle aspettative del nuovo pubblico dell’Occidente post bellico, cui ora necessariamente si rivolgeva.

Pur essendo stata rielaborata rispetto alla copia originale inviata a Jean Beaufret, la Lettera non ha una struttura organica. Procede per proposizioni apodittiche e per ampliamenti e precisazioni successive, con svariate digressioni. Lo stile dunque la rende un’opera piuttosto complessa e contorta, nelle cui pieghe poteva quindi avvenire una certa dissimulazione. Nello scritto heideggeriano, vengono progressivamente introdotti alcuni concetti di ordine generale che mirano a chiarire i fondamenti della sua nuova impostazione filosofica[8] che, tuttavia, secondo l’Autore, risalirebbero coerentemente fino ai tempi di Sein und Zeit. Questi concetti dovrebbero servire come punto di riferimento per il suo confronto con le posizioni degli esistenzialisti francesi e di Sartre in particolare (cosa che, come è stato detto, doveva essere l’obiettivo manifesto della missiva). Le prime due pagine della lettera sono particolarmente interessanti, poiché, in un certo senso, costituiscono una densissima seppur criptica sintesi della «nuova» posizione filosofica maturata da Heidegger che verrà poi successivamente ribadita e sviluppata, diventando così la posizione caratteristica del cosiddetto «secondo Heidegger».[9]

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Il fatto che lo spunto di partenza sia costituito proprio da una riflessione sull’azione non fa che confermare la collocazione della riflessione di Heidegger nell’ambito delle filosofie attivistiche. In apertura il pensatore afferma risolutamente che: «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. […] L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere. Dunque può essere portato a compimento in senso proprio solo ciò che già è. Ma ciò che prima di tutto «è», è l’essere».[10]

La frase d’inizio presenta svariate difficoltà interpretative, legate all’uso davvero insolito delle nozioni di essenza e di attuazione. Parafrasando, secondo Heidegger, dunque, l’essenza dell’agire, del generico agire[11] - poiché non si dà altra specificazione, non è di tipo strumentale, come tutti credono e praticano comunemente, e cioè il produrre un effetto che sia ritenuto utile da qualcuno per qualche motivo. Non consiste, cioè, nel mettere in atto dei mezzi per un fine. Per il nostro Autore, l’agire è invece l’effettiva realizzazione di ciò che già è. Infatti, a suo dire, solo ciò che già è può essere portato a compimento. Un simile linguaggio suona come del tutto assurdo e incomprensibile alla mentalità contemporanea. Che senso ha portare a compimento ciò che già è?

Anzitutto, Heidegger dà completamente per scontato che l’agire debba avere un’essenza. Nella storia della filosofia, una buona metà dei filosofi ha negato risolutamente che esistano essenze. Se una simile terminologia può essere genericamente ammessa nel linguaggio comune, non può esserlo tuttavia nel linguaggio filosofico, poiché ciò implica l’adesione a una precisa visione della realtà, a una metafisica delle essenze, in altre parole a un qualche essenzialismo.[12] La concezione delle essenze di Heidegger è di derivazione husserliana, il quale l’aveva a sua volta mutuata da Aristotele. Essa tuttavia ha subito una semplificazione radicale da parte dello stesso Heidegger. Mentre in Aristotele e in Husserl l’essenza è la quidditas, è la forma, la definizione della cosa, in Heidegger l’essenza è l’essere immanente in un ente che viene alla presenza. Le essenze dunque sono tutte uguali, sono il marchio che l’essere impone all’ente, a qualsiasi ente.

Il lettore contemporaneo di fronte a una domanda circa l’essenza dell’agire pensa che si stia cercando una definizione dell’agire. Per Heidegger si tratta invece di intuire l’agire in quanto manifestazione dell’essere. Ebbene, l’intuizione dell’essenza dell’agire suggerisce al pensatore che l’agire non sia l’agire strumentale (portare a compimento ciò che ancora non è) ma sia piuttosto l’agire tautologico (portare a compimento ciò che già è). Questo tipo di agire ha qualche parentela con il classico passaggio dalla potenza all’atto nella filosofia aristotelica e scolastica. Si ricorderà che in Aristotele avevamo una curiosa situazione per cui ciò che già era in potenza poteva poi diventare effettivamente in atto. Dunque si poteva attuare solo ciò che era già in potenza. In fondo l’essenza era definita come quod quid erat esse (to ti en einai). Il problema è che Heidegger aveva inteso fare la distruzione fenomenologica di Aristotele, il ché non poteva che portare alla eliminazione delle essenze aristoteliche. Cosa sono allora le essenze heideggeriane? Sono enti dotati di significato che si manifestano da sé (vengono alla presenza) e ciò vuol dire che mostrano la loro essenza in quanto fatti comparire dall’essere. L’essenza è sempre intuita immediatamente e quindi non c’è alcun problema di definizione razionale. L’essenza è sempre un evento fatto avvenire dall’essere (la verità dell’essere). Poiché tutti gli enti sono manifestazioni dell’essere, tutti gli enti mostrano una essenza essenziale nel momento in cui si manifestano.

Va segnalato comunque che l’espressione “portare a compimento l’essere” è un’assurdità per chiunque abbia un minimo di pratica col linguaggio della metafisica occidentale. Aristotele, senz’altro più rigoroso di Heidegger, non avrebbe concordato con il fatto che l’essere stesso debba essere portato a compimento. In Aristotele sono le forme che debbono essere portate a compimento. L’essere aristotelico, banalmente, non è una forma da attuare. Al più, secondo le più recenti interpretazioni, può essere considerato, guarda un po’, proprio come una specie di attività allo stato puro.[13] Heidegger invece considera tutti gli enti come manifestazioni immediate dell’essere, la cui essenza non sta nella loro quidditas, ma è riconducibile (non è chiaro come) all’essere. Esempi di strane cose simili si trovano nel vecchio neoplatonismo. Che le cose stiano così è dimostrato dall’uso del tutto casuale che vien fatto della nozione di essenza da parte di Heidegger. Poiché gli enti si mostrano nella radura dell’essere, la loro essenza non può che essere intuita (sarebbe questa la famosa ερμηνεία dell’ermeneutica).

Con la sua fulminea dichiarazione d’apertura, Heidegger si è comunque collocato immediatamente agli antipodi della posizione di Sartre: se per Sartre l’esistenza precede l’essenza,[14] è evidente, già fin da queste prime battute, che per Heidegger è l’essere (ancorché non ben definito e comunque inteso in modo vagamente aristotelico e scolastico) che precede sia l’essenza (in tal caso dell’agire) che l’esistenza. Con le poche righe iniziali della Lettera siamo così tornati indietro di secoli nella storia della filosofia. Come è noto – è ampiamente spiegato sui manuali liceali di storia della filosofia – l’essenzialismo è entrato in crisi tra il XII e il XIII secolo, almeno dai tempi di Roscellino di Compiégne, e la crisi è continuata fino alla nascita della scienza moderna e ha proseguito ben oltre. Solo i tedeschi e i teologi hanno continuato a giocare con le essenze.[15] Prima di Heidegger, la tradizione essenzialista aveva visto all’opera, proprio in Germania, filosofi del calibro di Hegel e Marx. Molti romantici avevano adottato un’impostazione essenzialistica. Lo stesso vale, ahimè, per i filosofi della razza che non potevano fare a meno di essere essenzialisti.[16] Lo stesso vale per Husserl, il maestro di Heidegger. L’essenza di Heidegger costituisce tuttavia una regressione alla filosofia presocratica, è un’essenza primordiale, precategoriale, che ha il solo compito di mostrare la parentela con l’essere della cosa. Nulla più. Qualunque ammissione di essenze intese come idee platoniche o come forme aristoteliche costituirebbe già una degenerazione metafisica. Se Heidegger avesse voluto essere filologicamente fedele ai presocratici, avrebbe dovuto abolire il termine essenza dal suo vocabolario. Il fatto che l’abbia mantenuto ha finito per conferire all’ermeneutica una smisurata libertà di interpretazione, poiché nel mostrarsi l’essenza viene interpretata con un atto che è lo stesso atto che fa essere l’ente. Il pensiero heideggeriano è “pensiero dell’essere” perché esso genera l’ente nel momento stesso in cui lo interpreta (vedi oltre).

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La definizione iniziale dell’essenza dell’agire aveva tuttavia il compito di introdurre una ben più centrale questione. Infatti, Heidegger fa ora entrare in scena il pensiero che, a suo dire, rappresenterebbe un tipico agire nei termini essenzialistici or ora discussi (ciò si evince poiché vien detto che il pensiero porta a compimento). Che cosa dunque compie o attua il pensiero? Esso attua ciò che prima era già, ma che evidentemente era solo in potenza e cioè attua «il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo».[17] La frase non è di nuovo molto chiara[18] e il suo significato si basa tutto sull’interpretazione della nozione di «riferimento». Bezug in questo caso significa «mettere in collegamento», «riguardare qc.», «riferirsi a qc.». Nel pensiero, dunque, avverrebbe l’attuazione del riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo.[19]

Poiché ci accontentiamo di capire poco per volta, emerge intanto che, evidentemente, anche l’uomo ha una sua essenza, anche se Heidegger, a differenza di Aristotele, non spiega quali requisiti occorre avere per possedere un’essenza. Trattandosi di una lettera sull’umanismo, possiamo comunque intanto acquisire che c’è un’essenza umana. Secondariamente, dall’affermazione citata possiamo dedurre che l’Autore escluda che ci possa essere un riferimento tra essere ed essenza umana al di fuori del pensiero. Questo riferimento, se c’è, si attua esclusivamente nel pensiero. L’impostazione generale del ragionamento diventa comunque ancora più oscura. Non è ben chiaro poi chi sia il protagonista effettivo di tutto ciò: il pensiero attua, ma il riferimento è dell’essere, il destinatario, l’effetto, sembra l’essenza dell’uomo.

Andando avanti e indietro sul testo, tuttavia si evince ben presto che il pensiero di cui parla Heidegger è un pensiero sui generis, che non ha nulla a che fare con il comune pensiero discorsivo a cui è avvezzo il lettore contemporaneo. Non ha la caratteristica di un intelletto attivo aristotelico o di una forma trascendentale kantiana. Insomma, non ha nulla a che fare con quel che si agita nella scatola cranica dei singoli individui.

Esso sembra poi espletare una funzione piuttosto passiva. Si premura, infatti, di spiegare Heidegger: «Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere viene al linguaggio».[20] Notiamo che qui il discorso di Heidegger, che prima era di tipo vagamente argomentativo, è ora diventato improvvisamente allusivo e metaforico. Il pensiero sembra insomma svolgere il ruolo di una sorta di passacarte. Esso ha ricevuto una consegna dall’essere (cioè il famoso riferimento, che possiamo supporre fosse in potenza, cioè da attuare) e ora a sua volta lo offre all’essere, si suppone come riferimento compiuto, attuato, avvenuto. L’ultima riga della citazione introduce una questione inedita, precisando che l’offerta sta nel fatto che «nel pensiero l’essere viene al linguaggio». Tradotto in parole povere, sembra che tutto ciò possa significare che, in generale, senza pensiero e senza linguaggio, comunque questi possano essere intesi, non ci può essere un riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo e viceversa. Che cosa però siano effettivamente pensiero e linguaggio e cosa significhi che l’essere si riferisce all’essenza dell’uomo resta tutto da spiegare.

Il mistero permarrebbe fino alla fine se non si adottasse una strategia esplicativa che emerge abbastanza evidentemente da un’attenta considerazione della biografia del pensatore e delle sue dichiarazioni, nonché di autorevoli interpretazioni degli studiosi.[21] Le vaghe espressioni heideggeriane diventerebbero immediatamente comprensibili ammettendo che il linguaggio di cui egli parla sia in realtà una lingua[22] e che sia costituito in realtà dal tedesco e, in subordine, dal greco antico e, ugualmente, ammettendo che il pensiero vada inteso come la visione del mondo di un popolo o di una civiltà.[23] Heidegger dunque, pur lasciandolo intendere, non sta parlando di ciò che può avvenire a livello individuale, sta parlando di popoli e civiltà, di lingue e visioni del mondo.

Heidegger, in effetti, non aveva alcun interesse per i processi psicologici relativi al linguaggio e al pensiero a livello di singoli individui. Insieme a Husserl aveva sempre condannato lo psicologismo. Aveva invece molto interesse per il tedesco e il greco antico. Pensava che i tedeschi, grazie alla loro lingua, fossero gli autentici eredi del pensiero greco. Com’è noto, Heidegger, nello scrivere, rifiutava sistematicamente di usare termini che fossero di origine non germanica. È famosa una sua battuta in cui aveva seriamente sostenuto che i francesi, a causa della loro lingua, non sono in grado di pensare come i tedeschi. Il tedesco originario e il greco antico erano considerate da Heidegger come le uniche due lingue che erano capaci per la loro natura intrinseca di ospitare l’essere.

Allora, l’affermazione secondo cui «…nel pensiero l’essere viene al linguaggio» non riguarda un generico pensiero e un linguaggio individuali, bensì il pensiero e la lingua collettivi, di un popolo o di una civiltà, come nel caso della cultura tedesca o nel caso della cultura dei greci antichi. Tutto ciò rende le proposizioni oracolari di Heidegger immediatamente comprensibili e apre però una quasi ovvia prospettiva interpretativa che, ahimè, impone di collegare il «nuovo» Heidegger della Kehre con il nient’affatto nuovo pensiero völkisch, tipico dell’epoca tra le due guerre e particolarmente tipico dell’ideologia nazista.

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Heidegger, resosi forse conto della vaghezza in cui stava intrattenendo l’interlocutore, tenta di chiarire quale sia secondo lui il rapporto tra l’essere e il linguaggio/ lingua, e se ne esce però con una sfilza di metafore: «Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono».[24] Dopo aver preso fiato, ci troviamo dunque di fronte a una messa in scena, con una terminologia altamente metaforica e poetica, di una casa/ linguaggio/ lingua abitata sia dall’uomo che dall’essere – una specie di condominio - con dei sorveglianti, che sono i pensatori e i poeti, il cui vegliare costituisce nientemeno che la capacità di manifestazione dell’essere, la quale capacità accede così al linguaggio/ lingua e viene anche custodita dal linguaggio/ lingua.

Si conferma perlomeno nettamente che il pensiero e il linguaggio cui si alludeva in apertura non erano proprio da considerarsi a livello individuale. Si parla dell’«uomo», dei pensatori e dei poeti. Va anzitutto notato che, in questa visione metaforica, il linguaggio sovrasta nettamente l’uomo (noi diremmo più prosaicamente «gli uomini») poiché gli uomini abitano dentro il linguaggio. Come dire che il linguaggio/ lingua precede i singoli individui, i quali lo ereditano, lo custodiscono e lo tramandano. Dalle cime abissali della metafisica siamo così precipitati nell’ambito di una disquisizione sulle funzioni e sui vizi e le virtù delle lingue nazionali. A questo punto però diventa per lo meno un po’ più chiaro cosa voglia dire che l’essere compare nel linguaggio. L’essere evidentemente compare nella lingua nazionale (tedesca ed eventualmente greca) di un popolo (il popolo tedesco, evidentemente) o di una civiltà (la civiltà greca). L’essere compare altresì nel pensiero, il quale pensiero ora può essere inteso, più o meno, come una Weltanschauung, come uno Spirito del tempo di hegeliana memoria che prende corpo  grazie a una lingua nazionale.

C’è di più. Il linguaggio/ lingua attraverso il quale si manifesta l’essere non è quello della gente comune, bensì quello di speciali funzionari del linguaggio che sono i poeti e i pensatori.[25] Si badi bene, non si tratta dei poeti e dei pensatori dell’umanità, come la vaghezza del testo lascerebbe intendere: si tratta sempre di tedeschi (ed eventualmente greci antichi), per quel che abbiamo detto poc’anzi. La relazione con l’essere tramite il linguaggio/ lingua è dunque una faccenda che non è alla portata di chiunque e che richiede una qualche particolare abilità, un vero e proprio ruolo ad hoc, da parte dei poeti e pensatori, in un contesto linguistico specifico e appropriato.

Quanto al pensiero, Heidegger ci tiene a ribadire che esso non ha a che fare con un qualche progetto utilitaristico, da realizzare in termini di mezzi e di fini. Non è il famoso pensiero separato dalla vita, che elabora progetti e poi resta nell’attesa penosa della loro realizzazione; il pensiero tanto criticato da Nietzsche. Il pensiero autentico è quello che «agisce in quanto pensa»,[26] cioè compie ed esaurisce la sua azione nel suo stesso pensare. Una specie di performativo del pensiero, direbbero i linguisti. Sembra un altro paradosso, ma anche questa citazione diventa facilmente spiegabile: Heidegger si sta occupando della perfetta identità di pensiero e azione, riferita a una collettività d’individui che condivide una specifica lingua di tipo precategoriale. È un altro modo per dire che questo pensiero collettivo, espresso da poeti e pensatori, va concepito come un atto immediato, un atto assoluto che determina immediatamente l’attuazione del proprio contenuto. Tutto ciò non è davvero nulla di nuovo e appartiene a una tradizione attivistica, anti pragmatistica, che va per lo meno da Hegel a Nietzsche e a Gentile.

Se ce ne fosse ancor bisogno, Heidegger precisa che: «Questo agire è probabilmente il più semplice e nello stesso tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo. […] Il pensiero […] si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare».[27] Ciò che cambia, rispetto a Hegel, Nietzsche e Gentile, è il soggetto dell’atto: qui è l’essere stesso (mai ben definito) che si manifesta nell’identità di pensiero e attività (quello che sarà definito altrove come evento). Dunque, il pensiero collettivo di un popolo o di una civiltà, a partire da quanto detto in apertura, attua attivamente la sua passività, (!) in modo che l’essere possa entrare sulla scena del mondo e proferirsi in quanto verità. Davvero non molto diverso dallo Spirito hegeliano. Se l’«uomo» heideggeriano nasconde poi in realtà l’uomo tedesco, avremo una situazione in cui l’essere compare motu proprio nella lingua e nel pensiero tedeschi, attraverso i funzionari del linguaggio tedeschi, e si proferisce in quanto verità nella cultura tedesca, forse proprio attraverso lo stesso pensiero di Heidegger, e magari attraverso la poesia di Hölderlin.

La verità dell’essere di cui si parla non va dunque evidentemente intesa come un contenuto cognitivo, un complesso di proposizioni che siano logicamente vere o false, ma piuttosto come l’avvento di ciò che è vero, nello stesso senso in cui Hegel intendeva l’avvento necessario dello Spirito del mondo. Non facciamo fatica a intravedere una visione fatalistica della storia, la quale si svolge sul terreno dell’essere (più tardi Heidegger dirà «nella radura dell’essere») e che viene considerata alla stregua di un destino impersonale che determina la vita o la morte di interi popoli e civiltà. Fin da Sein und Zeit il fato o il destino è per Heidegger l’autentica chiave interpretativa della storia.

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Tutto quel che è stato esposto finora è però solo la regola generale di quanto dovrebbe accadere se non sopravvenissero degli ostacoli. In ogni storia che si rispetti, ci sono sempre degli ostacoli. Purtroppo, secondo Heidegger, attualmente il pensiero è precipitato in una condizione di oscurità. Non si tratta tanto di errori o deficienze individuali, quanto di un decadimento collettivo, sempre a livello di popolo o di civiltà.[28] Si tratta – spiega Heidegger – di una conseguenza necessaria dovuta alla corruzione del linguaggio/ lingua che l’ha reso incapace di ospitare adeguatamente la manifestività (così traduce Volpi) dell’essere. Insomma, il linguaggio/ lingua ha smesso di essere la casa dell’essere, l’essere non può più manifestarsi tramite la lingua per portare a compimento l’essenza dell’uomo (che è un dono dell’essere). Gli uomini odierni dunque, avendo smarrito il linguaggio autentico, sono diventati uomini senza essenza (sono cioè come animali – questo sarà detto in dettaglio più in là).

Heidegger spiega accuratamente che il linguaggio/ lingua attuale (si riferisce qui probabilmente all’intera civiltà occidentale) non è più capace di esprimere uno stato d’indistinzione tra soggetto e oggetto (se si preferisce, di fusione). Quest’affermazione non deve sorprendere più di tanto, poiché se si vuole che ci sia l’identità di pensiero e azione, deve necessariamente esserci un’identità tra soggetto e oggetto. Spiega, infatti, accuratamente, il nostro Autore: ««Soggetto» e «Oggetto» sono infatti denominazioni improprie della metafisica, che fin dall’inizio si è impossessata dell’interpretazione del linguaggio nella forma della «logica» e della «grammatica» occidentali. […] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per una strutturazione più originaria della sua essenza tocca al pensare e al poetare. […] Se vogliamo imparare a esperire nella sua purezza, e cioè nello stesso tempo a portare a compimento, la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dall’interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele».[29]

Se l’essere non riesce più (o non è riuscito, come Heidegger invece sperava, nel decennio nazista) immediatamente a mostrarsi nel linguaggio dei pensatori tedeschi, e a tradursi in azione, tutto ciò è colpa della metafisica (cioè della logica e della grammatica) e della scomposizione avvenuta tra soggetto e oggetto.[30] Questo tra l’altro è un motivo conduttore che Heidegger conosceva bene, avendolo usato come attenuante per giustificare la mancata continuazione di Sein un Zeit. Disse che gli era venuto meno proprio il linguaggio.[31] Dunque, affinché il pensiero «porti a compimento questo lasciare», affinché cioè il pensiero si lasci compenetrare dall’essere, occorre rivoluzionare completamente il linguaggio o, meglio, occorre tornare a un linguaggio/ lingua ancestrale, originario,[32] come quello che esisteva prima dello sviluppo della metafisica, quando ancora non erano comparse la logica e la grammatica, quel che è definito come pensiero pre-categoriale. Il pensare è affine al poetare proprio perché, per pensare nella maniera giusta, occorre fare a meno della grammatica e della logica. Solo così sarà possibile «portare di nuovo il pensiero nel suo elemento».[33] Si noti bene che Heidegger non propone una riforma individuale del linguaggio, o del pensiero, bensì una colossale e rivoluzionaria metamorfosi collettiva, che costituisca contemporaneamente un ritorno alle origini e un nuovo inizio.

Poiché non era possibile, neanche per un rivoluzionario conservatore come Heidegger, pretendere che tutti si mettessero a parlare e pensare in greco arcaico, è evidente che questa ripresa del linguaggio ancestrale, originario, precategoriale (antilogico e anti grammaticale) poteva avvenire solo in Germania, grazie proprio alle particolarità straordinarie attribuite alla lingua tedesca. Si ricordi che l’essere aveva parlato per bocca di Hölderlin e il pensatore Heidegger lo aveva compreso adeguatamente. L’ultimo dei metafisici, secondo Heidegger, era stato proprio un tedesco (Nietzsche) e ora, grazie alla distruzione fenomenologica, sempre opera di un tedesco, si poteva prospettare un nuovo inizio del pensiero e del linguaggio.

Questa visione, ben lungi dal costituire soltanto una teoria storiografica, sarà usata da Heidegger anche per interpretare i fatti della storia recente. Il nazionalsocialismo aveva fallito la propria missione (e questa è la sola scarna analisi su questo argomento effettuata dal pensatore dopo la sconfitta del nazismo) proprio a causa della sua arrendevolezza nei confronti della tecnica. Cioè, esso non aveva saputo essere tanto radicale quanto sarebbe stato necessario, non aveva saputo superare i guasti della metafisica, non aveva saputo realizzare l’identità di soggetto e oggetto, non aveva saputo essere sufficientemente antilogico e anti grammaticale e, dunque, non aveva saputo realizzare, sul piano storico, la coincidenza di pensiero e azione nel linguaggio e nella cultura tedesca.[34] Così l’essere, che era così disponibile a irrompere nella storia (si veda oltre, dove si dice che l’essere «vuol bene»), era rimasto tagliato fuori. Sarà per la prossima volta.

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Eppure la connessione con l’essere, per quanto nascosta, dimenticata, difficoltosa a causa della corruzione del linguaggio, a causa della tecnica, a causa della metafisica, è tuttavia fondamentale, per Heidegger, poiché per lui è indiscutibile il fatto che: «Il pensiero è l’engagement per e attraverso la verità dell’essere, la cui storia non è mai passata, ma sta sempre per venire. La storia dell’essere sostiene e determina ogni condition et situation humaine».[35]

Qui si chiarisce un aspetto importante, e cioè che la sparizione dell’essere dall’orizzonte dell’Occidente e un nuovo avvento dell’essere (il nuovo «inizio») sono strettamente correlativi, poiché, come dice la citazione, la storia dell’essere non è mai passata ma sta sempre per venire. Ogni celarsi dell’essere annuncia la possibilità di un nuovo avvento. Solo in relazione all’avvento dell’essere (Heidegger parlerà altrove proprio di «evento») viene a determinarsi la storia, cioè ogni condizione e situazione umana. La situazione esistenziale dunque, non è la situazione individuale tanto cara a Sartre, bensì la situazione collettiva di un popolo o di una civiltà nella sua dipendenza dall’essere. È così che l’essere determina e sostiene l’essenza umana, che così è sempre un’essenza situata. Qui è abbastanza chiaro l’intento di colpire immediatamente il fondamento individualistico dell’esistenzialismo sartriano che si basa su un engagement del soggetto nel mondo. L’esistenzialista sartriano crede di fare la storia attraverso la sua praxis; in realtà, attraverso il pensiero heideggerianamente inteso, se questo fosse correttamente praticato, è la storia dell’essere che si appalesa tanto da sostenere e determinare ogni condizione e situazione umana. La situazione esistenziale dunque non è altro che il destino collettivo deciso sul piano dell’essere.

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Heidegger afferma dunque, ma non ritiene di dover spiegare nei dettagli, che l’essere determina la storia. Del resto, l’argomento fondamentale di Sein und Zeit riguardava proprio il rapporto tra essere e tempo. Heidegger in quel contesto aveva affrontato in dettaglio le questioni relative all’analisi fenomenologica della temporalità (il Dasein) e si era fermato proprio alla soglia della trattazione dell’essere. Per comprendere meglio la sua concezione del rapporto tra l’essere e la storia, sarà opportuno riesumare uno dei concetti che hanno contribuito a generare Sein und Zeit e cioè il concetto di mondo della vita (Lebenswelt). I mondi della vita, nella filosofia tedesca dell’epoca,[36] erano entità strutturate che erano creazioni dello Spirito (cioè costrutti culturali) e che erano dotate di una loro specifica forma, irriducibili le une alle altre). I mondi della vita erano, di fatto, mondi di significato e dunque si reggevano grazie a uno specifico pensiero e linguaggio. Secondo la prospettiva essenzialistica, entro ciascun mondo della vita si dava luogo, dunque, allo sviluppo di una specifica essenza dell’uomo, appunto un’essenza situata. In una situazione simile, i singoli individui non possono, dunque, che interiorizzare il mondo della vita in cui vengono a ritrovarsi (in cui sono gettati). I mondi vitali nascono, si sviluppano e poi spariscono: anche questa era una nozione assai comune nella filosofia tedesca dell’epoca. I tedeschi dell’epoca erano affascinati dalla cultura della Grecia antica proprio perché ritenevano che essa costituisse un mondo della vita paradigmatico.

Heidegger, invece di considerare il mondo della vita in termini empirici, come una cultura in senso antropologico, non ha fatto altro che considerarlo come un’essenza, andando così ad aggiungerlo ad altre essenze di cui si discuteva a quel tempo: classi sociali, razze, popoli. L’interesse naturalmente poteva vertere sulla descrizione di un determinato mondo della vita (Heidegger ha compiuto ciò in parte in Sein und Zeit) oppure poteva vertere sui meccanismi di passaggio da un mondo della vita all’altro. Una volta costatato che un certo mondo della vita era giunto alla fine, avendo perso la sua specifica essenza che è un dono dell’essere, si poteva dunque cercare un «nuovo inizio». Essendo tuttavia i mondi della vita delle galassie conchiuse di significato, era chiaro che non si poteva dare inizio a qualcosa di nuovo senza rompere completamente con tutto l’insieme dei significati del mondo precedente (logiche e grammatiche comprese).

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L’essere dunque non svolge altro, nella filosofia di Heidegger che la funzione del terreno originario, del fondamento, sul quale si generano e poi scompaiono, come eventi dell’essere, i diversi mondi della vita. Per questo l’essere sta al di là di ogni definizione, poiché stando noi sempre dentro a un mondo della vita, ogni definizione dell’essere è sempre relativa al nostro mondo. L’essere è invece ciò che non è riducibile, è appunto il fondamento originario, ciò che è così originario da essere intraducibile nelle lingue dei vari mondi e dunque può solo mostrarsi esso stesso nella sua potenza (ai poeti e ai pensatori greci e tedeschi), può solo erompere. Per questo, vedremo, occorre operare la distruzione fenomenologica del linguaggio e del pensiero correnti. L’aspetto interessante (e tragico per quelli che ci credono) della distruzione fenomenologica è che essa sa sempre che cosa distrugge ma non sa mai quel che costruisce, poiché il senso della distruzione è quello di togliere gli impedimenti per lasciare che l’essere si sveli, compaia, si manifesti da sé stesso. Per questo non è possibile costruire il nuovo mondo della vita attraverso un progetto razionale, poiché la razionalità stessa è già marchiata dalle tare del vecchio mondo. Tutti i tentativi di razionalizzazione sono solo tentativi di mantenere in piedi il vecchio mondo. Per questo occorre una situazione in cui atto, linguaggio e pensiero coincidono, insieme alla potenza, per lasciare venire alla luce la nuova essenza vitale, una nuova essenza umana situata.

Ogni nuovo mondo della vita – e qui sta la questione fondamentale – viene dunque concepito come un oggetto fenomenologico, come un oggetto che «si mostra da se stesso».[37] Il poeta e il pensatore non sono attivi in prima persona, sono coloro attraverso i quali si mostra ciò che è radicalmente nuovo e diverso. Niente di veramente nuovo rispetto a Hegel che credeva di avere visto aggirarsi lo Spirito del mondo a cavallo per le strade di Jena. Il nazismo rappresentava dunque per Heidegger la nuova apertura dell’essere, il nuovo inizio, da cui avrebbe preso il via un cambiamento totale. Si sarebbe originato un nuovo mondo della vita all’interno della quale si sarebbe originata una nuova essenza umana. Si poteva dunque lasciar perdere la prosecuzione di Sein un Zeit e impiegare le proprie energie per dar voce, come pensiero, a ciò che l’essere veniva da sé mostrando in tutta la sua potenza. Heidegger ha passato il decennio nazista cercando di fare il suo meglio per essere il megafono, peraltro poco ascoltato, dell’essere.[38] L’affermazione di un nuovo mondo della vita non poteva essere arrestato da considerazioni razionali, etiche, moralistiche, essa era considerata da Heidegger come un destino ineluttabile. Al singolo non restava che, come in Nietzsche, volere il proprio destino.

È chiaro che, in questa prospettiva, qualsiasi umanesimo non poteva che essere considerato come roba vecchia, strutturalmente legata a un vecchio mondo. I criteri del bene e del male che valgono in una forma di vita possono benissimo non valere più in un’altra forma di vita. Il nuovo inizio doveva necessariamente collocarsi al di là del bene e del male. Date idee come queste, l’adesione al nazismo non poteva essere una casuale grösste Dummheit, come ha sostenuto Heidegger, bensì una conseguenza del tutto ovvia. E’ chiaro che la separazione tra l’uomo e il pensiero, come sostengono certi apologeti, nel caso Heidegger non ha davvero alcun senso.    

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È interessante il fatto che i funzionari del linguaggio/ lingua (cioè i poeti e i pensatori - tedeschi) abbiano il compito, attraverso il loro vegliare, di attuare (cioè, sempre, di portare a compimento) la manifestatività dell’essere e di custodirla. Dunque i funzionari del linguaggio non possiedono in realtà alcuna loro particolare creatività: essi si limitano a vegliare e a custodire una manifestatività che è d’iniziativa altrui (dell’essere), la quale accade come evento. Sono dei meri effetti dell’iniziativa dell’essere. Insomma, essi sono parlati, detti dall’essere. Questa sconcertante concezione del ruolo degli intellettuali è nota per essere una concezione molto diffusa nelle epoche arcaiche, ma anche nell’epoca classica. I poeti ma anche i pensatori non erano considerati creatori di una qualche verità poiché non c’era nulla da esprimere in una forma particolare o individuale (come pensavano invece i romantici). Essi semplicemente avevano il compito di rispecchiare quello che è. Al più di contemplare quello che è. Essi erano soltanto un mezzo per un fine che stava altrove. L’arte nel mondo antico non era mai espressione ma sempre mimesis. Ebbene, i funzionari del linguaggio di Heidegger svolgono la stessa funzione: «Il pensiero […] si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare».[39] Insomma, se evitiamo di fare un uso strumentale del linguaggio e ci mettiamo, come intende Heidegger, a pensare, allora l’essere potrà affiorare spontaneamente. Questo affioramento non avviene attraverso un procedimento di significazione chiaro e distinto, ma attraverso una sorta di auto disvelamento. Il pensiero non è cognizione, è praxis.

È evidente che - Heidegger non lo dice esplicitamente - il modello umano che viene proposto non è quello di chi vive nella deiezione, bensì quello di colui che poeta e che pensa, lasciandosi invasare dall’essere. Non è naturalmente un modello per tutti gli uomini, poiché queste attività sono molto difficili, ed è facile smarrirsi. I funzionari del linguaggio di Heidegger aspirano a essere riconosciuti come gli esploratori di un cammino difficoltoso che non è adatto a tutti. Aspirano a essere riconosciuti come guida. Da questa situazione deriva un linguaggio oscuro, ripetitivo, profetico. Deriva - nonostante le affermazioni contrarie, nonostante la convinzione di avere superato qualsiasi soggettività - il ricorso a metodi completamente soggettivi e non comunicabili per vie normali.[40] Deriva il rifiuto di qualunque verifica in termini logici o in termini scientifici. Il pensiero è considerato solo come un lasciare. Heidegger evidentemente per una decina d’anni si è lasciato pensare dall’essere.

Anche per quel che concerne il metodo stesso della Lettera, Heidegger ritiene che il linguaggio più appropriato per la ricerca e la comunicazione non sia quello razionale argomentativo (considerato schematico). Ciò si capisce da come cerca il dialogo con il suo interlocutore Beaufret: «Le questioni sollevate nella Sua lettera potrebbero essere meglio chiarite in un dialogo diretto. Nella scrittura il pensiero perde facilmente la sua mobilità, ma soprattutto riesce difficilmente a tenere quella specifica pluralità di dimensioni che è propria del suo ambito. A differenza di quanto accade nelle scienze, il rigore del pensiero non consiste semplicemente nell’esattezza artificiale, cioè tecnico-teoretica, dei concetti. Esso riposa nel fatto che il dire rimane puramente nell’elemento della verità dell’essere, e lascia dominare ciò che, nelle sue molteplici dimensioni, è il semplice».[41]

Evidentemente, i funzionari del linguaggio stanno dalla parte della parola detta, più che della parola scritta. La parola scritta è sospetta di rigorismo tecnico e di decadenza. Anche qui non possiamo che tornare alla cultura greca degli esordi e alla diffidenza nei confronti della parola scritta che vi si può trovare. Lo scopo del dire starebbe nella sua capacità di cogliere la verità dell’essere nella sua semplicità. È chiaro che qui si fa riferimento alla parola profetica (o alla parola poetica). Si fa riferimento a un’epoca arcaica (del tutto immaginaria) in cui c’erano poeti e profeti che attingevano direttamente e senza difficoltà alla verità dell’essere (meglio: acconsentivano che l’essere si mostrasse loro attraverso il linguaggio/lingua). Una sorta di rinvio a una comunità profetica dove si comunichi con semplicità grazie all’intuizione immediata e non all’argomentazione o alla scrittura.[42] Ma se il passato e il futuro non possono che coincidere a livello dell’essere, se «la storia dell’essere non è mai passata ma sta sempre per venire», allora i discorsi del Führer non potevano che essere recepiti come una potente manifestazione di questo dire semplice che rimane nella verità dell’essere.

 

(*) È in preparazione un secondo articolo con l’analisi puntuale delle parti restanti della Lettera.

 

 

24/07/2014

02/09/2014

Giuseppe Rinaldi

 

 

 

OPERE CITATE

 

1988   Bourdieu, Pierre

L’ontologie politique de Martin Heidegger, Les Éditions de Minuit, Paris.  Tr. it.: Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna, 1989. [1975]

 

1987   Farias, Victor

Heidegger et le Nazisme, Éditions Verdier, Paris.  Tr. it.: Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.

 

2005   Faye, Emmanuel

Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris.  Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 2012.

 

1927   Heidegger, Martin

Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen.  Tr. it.: Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1970. [1927]

 

1946   Heidegger, Martin

Über den Humanismus, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main.  Tr. it.: Lettre sur l’humanisme, in Heidegger, Martin   (a cura di), Questions III, Gallimard, Paris, 1966.

 

1993   Heidegger, Martin

Basic Writings (edited by David Farrel Krell), Harper Collins, New York.

 

1976   Heidegger, Martin

Wegmarken, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main.  Tr. it.: Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.

 

2013   Kosman, Aryeh

The Activity of Being, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts.

 

1988   Ott, Hugo

Martin Heidegger - Unterwegs zu seiner Biographie, Verlag Campus, Frankfurt.  Tr. it.: Martin Heidegger: sentieri biografici, SugarCo Edizioni, Milano, 1990.

 

1946   Sartre, Jean-Paul

L'existentialisme est un umanisme, Éditions Nagel, Paris.  Tr. it.: L'esistenzialismo è un umanismo, Pagus, Treviso, 1993.

 

1987   Tagujeff, Pierre-André

La force du préjugé, Éditions La Découverte, Paris.  Tr. it.: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994.

 

 

 

NOTE

 

 

[1] Così amava ora autodefinirsi lo stesso Heidegger, in polemica con tutti gli altri filosofi.

[2] Si vedano in proposito Ott 1988, Farias 1987 e Faye 2005.

[3] Cfr. Heidegger 1976.

[4] Uno dei più espliciti e accalorati difensori è il filosofo Gianni Vattimo, il quale tra l’altro ha dichiarato che, secondo lui, il coinvolgimento di Heidegger con il nazismo sarebbe da considerarsi come un atto di impegno e di coraggio.

[5] Cfr. Faye 2005.

[6] Cfr. Faye 2005: 451.

[7] Cfr. Ott 1988: 295-296.

[8] È assai questionabile se Heidegger abbia davvero compiuto una svolta nel suo pensiero, come egli stesso ha sostenuto e come sostengono molti studiosi.

[9] Va ricordato che il «secondo Heidegger» è per lo più costituito di opere (molte delle quali non pubblicate) prodotte nel decennio nazista e poi rielaborate e date alle stampe dopo il 1947.

[10] Heidegger 1976: 267.

[11] Il traduttore in inglese rende con action.

[12] Naturalmente Heidegger non avrebbe approvato questa classificazione della sua filosofia poiché, come si vedrà, egli ritiene di avere oltrepassato la metafisica e la filosofia. Heidegger conosceva bene la questione delle essenze poiché era stato studioso della filosofia medievale e di Duns Scoto in particolare.

[13] Si veda il recente Kosman 2013.

[14] Si veda Sartre 1946.

[15] Esistono ancora oggi correnti essenzialistiche nel pensiero contemporaneo, ma costituiscono una ristretta minoranza.

[16] Mentre non è strettamente necessario che un essenzialista sia razzista, è di norma necessario che un razzista sia essenzialista. Il rapporto tra l’essenzialismo e le filosofie della razza è stato spiegato in maniera approfondita da Tagujeff 1987.

[17] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[18] Il traduttore inglese dice più chiaramente: «Thinking accomplishes the relation of Being to the essence of man».

[19] Non è chiaro come faccia l’essere a portare a compimento un riferimento all’essenza dell’uomo, senza una qualche forma umana qualsiasi. Escludendo un processo di creazione (che si potrebbe pensare in termini di teologia medievale) si deve pensare a una qualche relazione misteriosa. Heidegger parla di «riferimento» che è termine estremamente ambiguo. Perché A si riferisca B, bisogna che A e B siano entità distinte e ben individuate. Ma noi veniamo subito a sapere che il riferimento di cui si parla avviene nel pensiero. Escludiamo dunque che si tratti di un riferimento reale, è un riferimento che evidentemente è pensato. Tuttavia «pensato» non significa evidentemente argomentato, bensì colto, intuito.

[20] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[21] Si vedano Farias 1987 e Faye 2005.

[22] In tedesco lingua e linguaggio si dicono nello stesso modo (Sprache) e Heidegger gioca astutamente sull’ambiguità.  La traduzione italiana contribuisce a nascondere più che a chiarire. Mi rassegno, nel resto dello scritto, a usare linguaggio, come è ormai nell’uso, limitandomi a usare la coppia linguaggio/ lingua quando mi parrà il caso di rammentare al lettore questo ampio e ambiguo spettro semantico.

[23] Heidegger usa Gedanke (pensiero) in modo vago e allusivo, con una estensione che va dal pensiero inteso come attività ai contenuti stessi del pensiero, fino alle teorie filosofiche.

[24] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[25] Ci sono passi in Heidegger in cui si sostiene tuttavia che pensatori e poeti hanno una semplicità profondamente popolare.

[26] Cfr. Heidegger 1976: 268.

[27] Heidegger 1976: 268. «Reclamato» non è ben chiaro cosa voglia dire. Nella traduzione inglese si legge banalmente claimed. Reclamo e richiesta non sono proprio lo stesso. La frase successiva in inglese è assai più chiara: «Thinking, in contrast, lets itself be claimed by Being so that it can say the truth of Being».

[28] Sono costretto a unire sempre popolo e civiltà a causa dell’ambiguità heideggeriana. Sospetto fortemente che egli abbia elaborato le sue posizioni filosofiche pensando al popolo tedesco, quindi in chiave spudoratamente nazista, e che poi, una volta sconfitto il nazismo, con pochi tratti di penna abbia portato il suo discorso a livello della civiltà occidentale, ottenendo così una specie di effetto spengleriano di riflessione sulla decadenza dell’Occidente, assai più digeribile che non un discorso sulla decadenza della Germania.

[29] Heidegger 1976: 268.

[30] In sostanza, invece di postulare un soggetto senza limiti (come il superuomo in Nietzsche) Heidegger postula un oggetto senza limiti (l’essere).

[31] In realtà Sein un Zeit si era interrotto perché Heidegger aveva finalmente avuto la cattedra di Husserl a Friburgo e poi perché l’essere aveva cominciato a mostrarsi in tutta la sua Lichtung, tanto da richiedere al filosofo un altro tipo di impegno.

[32] L’originario semplice inteso come fondamento è uno dei tarli della fenomenologia husserliana da cui ha preso le mosse Heidegger.

[33] Heidegger 1976: 269.

[34] L’unico vero pensatore che sarebbe stato in grado di affrontare questo compito (cioè Heidegger stesso) era stato messo da parte.

[35] Heidegger 1976: 268. In francese nell’originale.

[36] In ciò peraltro Heidegger non possiede alcuna originalità. Si trovano concetti analoghi in Dilthey, in Cassirer, ma anche in Simmel, in Tönnies, in Spengler e, naturalmente, in Husserl.

[37] Cfr. Heidegger 1927: 56. «Il concetto fenomenologico di fenomeno intende come automanifestantesi l’essere dell’ente».

[38] È noto che Heidegger aspirava a essere considerato come il pensatore del nuovo corso nazista, aspirava ad avere un ruolo simile a quello assunto da Gentile in Italia. Non è riuscito solo a causa del carattere oligarchico del nazismo e della miriade di fazioni e lotte interne anche nell’ambiente degli intellettuali. Si veda in proposito Bourdieu 1988.

[39] Heidegger 1976: 268.

[40] È esattamente lo stesso atteggiamento che aveva Husserl nei confronti del metodo

[41] Heidegger 1976: 269.

[42] È abbastanza sconvolgente pensare che le femministe heideggeriane abbiano potuto pensare che questo tipo di linguaggio potesse essere il prototipo di un nuovo linguaggio delle donne da contrapporre al linguaggio logocentrico del maschio.

 

mercoledì 9 luglio 2014

Una sinistra senza radici


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Si è prospettata in questi giorni l’ennesima scissione nell’area a sinistra del PD. SEL sta perdendo i pezzi, è riuscita a dividersi sul decreto del governo Renzi riguardante gli 80 euro di riduzione delle tasse in busta paga. Quella che sembrava essere la formazione politica alla sinistra del PD più aperta, meno dogmatica, quella che aveva saputo fare meglio i conti con il «nuovo che avanza», non ha saputo reggere all’impatto di un riformismo moderato come quello di Renzi (un riformismo che peraltro è ancora tutto da valutare nella sua capacità di essere conseguente ed efficace). Questa notizia ha seguito di pochi giorni l’affaire Spinelli che ha lacerato la coalizione elettorale della Lista Tsipras.[1] Si è trattato a quanto pare di una storia di equivoci, poltrone, spartizioni, recriminazioni, personalismi. Anche il precedente esperimento della lista di Rivoluzione Civile, riunitasi intorno all’ex magistrato Ingroia, era evaporato ben presto tra molte polemiche. Tutto ciò, anziché smentire, non fa che confermare un luogo comune. E cioè la tendenza a dividersi, che è ormai universalmente considerata una malattia cronica dell’area collocata alla sinistra del PD e che è ormai diventata un facile oggetto dei lazzi dei comici e delle barzellette. Dove ci sono tre militanti di sinistra, ci sono almeno quattro correnti. Siamo evidentemente – come avrebbe detto acconsentito anche Marx – alla commedia.
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Di fronte al recente inatteso successo elettorale del PD di Renzi alle elezioni Europee si potrebbe ritenere che il destino di quest’area sia ormai segnato e sia cioè quello di una progressiva perdita di significato e di peso politico e, dunque, quello di una magari lenta ma progressiva sparizione. La nuova legge elettorale, se e quando ci sarà, non mancherà probabilmente di dare una spinta strutturale in questa direzione. Così deve avere pensato anche la frazione di deputati che è uscita da SEL e passata al gruppo misto, forse con la prospettiva di entrare nel PD.
Ci si può tuttavia domandare se una simile prospettiva di sparizione sia un bene o un male per il futuro della sinistra in senso lato, PD compreso. La nostra ipotesi è che la sparizione dell’area alla sinistra del PD avrebbe almeno tre conseguenze poco desiderabili: a) un impoverimento del panorama politico dovuto alla sparizione di un’area culturalmente vivace e creativa, seppure assai variegata e contraddittoria, di un laboratorio di idee e di fermenti di cui ha sempre usufruito tutta la sinistra, sempre in senso lato; b) la sparizione della rappresentanza di molti elettori che comunque non avrebbero alcuna disponibilità a dare il proprio consenso al PD e che verrebbero scaraventati nell’area dell’astensione; c) la definitiva emarginazione politica di vari strati sociali e movimenti, già peraltro emarginati, che si rifanno a quest’area.
Ciò avverrebbe in una situazione in cui il PD sta accentuando sempre più la sua configurazione di partito personale, di orientamento pragmatico, in cui il dibattito culturale è sempre più prossimo allo zero, dove al più si discute dei mezzi piuttosto che dei fini. In tal caso la presenza di un’attiva e combattiva area plurale alla sinistra del PD potrebbe svolgere un’utile funzione di laboratorio politico culturale, di elaborazione, di dibattito e sperimentazione. Sono per altro quelle funzioni che Barca, in un recente documento, aveva auspicato diventassero la prassi politica di base di un nuovo PD profondamente riformato al proprio interno.[2] Qualche tradizione in questo senso si trova anche nella storia di alcune delle attuali formazioni della sinistra. Per esempio, val la pena di ricordare la famosa «fabbrica» di Vendola.
È chiaro tuttavia che senza un profondo processo di riaggregazione e ristrutturazione quest’area non potrà assolvere alcuna effettiva funzione e sarà effettivamente condannata all’irrilevanza e alla sparizione. Si potrebbe argomentare che se questo processo non è avvenuto finora, in condizioni assai più favorevoli, non c’è alcun motivo di pensare che debba avvenire in un prossimo futuro, in un contesto che sarà sensibilmente peggiore. L’argomento in effetti non fa una grinza. L’unica speranza ormai è che il pericolo incombente della sparizione possa fungere da spinta per il cambiamento, anche se il cambiamento determinato da vincoli esterni spesso finisce per essere più esteriore appunto che autentico.
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Del resto in proposito c’è un esempio a portata di mano. Le recenti elezioni europee hanno visto all’opera la cosiddetta Lista Tsipras (L’Altra Europa con Tsipras). Si tratta di un cartello elettorale nominalmente ampio come non si era mai visto nel nostro Paese. Comprendeva infatti SEL, PdRC, Azione Civile di Ingroia, la Lista Pirata e altre organizzazioni minori. Il PdCI, dopo una iniziale adesione, si è tuttavia defilato. L’aspetto più significativo è senz’altro il fatto che la Lista Tsipras sia stata promossa da un gruppo di intellettuali dell’area della sinistra (Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale), che poi l’hanno anche di fatto egemonizzata nella stesura dei programmi e nella scelta delle candidature. Ha goduto dell’attenzione di aree d’opinione come quelle de “il manifesto”, di MicroMega, del Fatto Quotidiano, di talune organizzazioni sindacali di orientamento radicale come la FIOM. Nel corso della campagna elettorale la Lista ha raccolto la solidarietà di molte personalità dello spettacolo, della cultura, del giornalismo.[3] Per la prima volta è accaduto che le tradizionali organizzazioni dei partiti della sinistra abbiano condiviso il campo con l’area di opinione e con gli intellettuali. Non a caso sono nati problemi con il PdCI e si è sviluppata una questione di rappresentatività degli eletti che ha visto contrapposti la Spinelli e i candidati esclusi. Il carattere proporzionale delle elezioni europee unito ai contenuti prettamente politici della consultazione avrebbero comunque consentito di saggiare la capacità di impatto elettorale di quest’area ampia e variegata.
La valutazione della prestazione elettorale del cartello è stata alquanto controversa. Alla soddisfazione per il superamento della soglia di sbarramento del 4% si sono contrapposte valutazioni negative circa l’ammontare dei voti ricevuti. Ad esempio, ha scritto recentemente Paolo Flores d’Arcais con un piglio assai critico: «Un anno fa Sel prendeva il 3,2 per cento e Rivoluzione civile (Ingroia + Comunisti italiani + Rifondazione) il 2,25%. Il 4,03 della lista Tsipras è perciò l’1,42 per cento in meno delle percentuali raccolte lo scorso anno e considerate da tutti fallimentari. In termini assoluti va ancora peggio: 1 854 420 lo scorso anno (senza la Val d’Aosta che ha liste sue), 1 009 643 oggi (sempre senza la Val d’Aosta): un’emorragia di 754 786 suffragi, il 40,7 del proprio (e già fallimentare) zoccolo duro. Nel frattempo, quasi metà dei voti del M5S dello scorso anno hanno cambiato indirizzo, come evidenziato dalle indagini sui flussi, mentre Renzi malgrado il vento in poppa non raggiunge i consensi di Veltroni nel 2008, per non parlare dei milioni e milioni in più di renitenti alle urne. Il potenziale reale per una lista di sinistra della società civile era gigantesco, è rimasto invece al pugno di mosche».[4]
Sia che si veda il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, è indubitabile che, anche alla luce della recente scissione interna di SEL, il problema fondamentale di quest’area è quella di riuscire a innovare la propria cultura politica, consolidarsi organizzativamente e contrastare le tendenze alla frammentazione. Ciò implicherebbe tra l’altro passare dal cartello elettorale a una forma di organizzazione più matura. Si tratta di comprendere se tutto ciò sia realisticamente fattibile.
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Tutto quel che si può dire dell’area alla sinistra del PD, complessivamente considerata, è proprio che attualmente si tratta di un’area e niente più. La cosa davvero divertente è che non ha neanche un nome. Finora abbiamo dovuto usare la circonlocuzione «a sinistra del PD». Se andate su Wikipedia a cercare qualche ragguaglio troverete degli articoli assai imbarazzati, pieni di contestazioni, dove si parla, senza alcuna chiara definizione, di sinistra radicale, oppure di estrema sinistra o anche di sinistra antagonista e di sinistra extraparlamentare. Con tutti questi termini si possono costruire le intersecazioni più strane. Per convenzione, in questo articolo noi useremo il termine «sinistra» tout court, in modo da abbracciare tutta l’area alla sinistra del PD nel modo più ampio possibile (questa scelta ha un qualche fondamento se consideriamo il PD – com’è giusto – un partito di centro sinistra). Si tratta comunque di un’area terribilmente eterogenea, sia dal punto di vista delle culture politiche che dal punto di vista organizzativo.[5]
 Poiché ormai la presa del Palazzo d’Inverno non è più di attualità, poiché a tutti coloro che si collocano in questa area non piace il riformismo renziano, posto che per costoro non sia una buona strategia entrare in massa nel PD per rafforzare le sinistre interne (sono più d’una anche lì,…), avrebbe senso per loro elaborare una piattaforma comune, un programma di governo chiaro e distinto, un programma che sia tuttavia fattibile, per un riformismo più robusto e più radicale di quello del PD. Su un simile programma sarebbe possibile fare una campagna intensiva, nel «sociale», «tra la gente», chiedendo, alla fine, il consenso degli elettori. Con un simile programma si potrebbe andare alla ricerca di alleanze allo scopo di conquistare un ruolo nei governi locali e di portare avanti in parlamento qualche significativa battaglia di civiltà.
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La ristrutturazione che abbiamo prospettato non sarebbe del tutto impossibile poiché, in effetti, al di là della marea di parole dei distinguo e dei gerghi, quello che gira e rigira nelle analisi e nelle proposte che si fanno nell’area ha molto in comune. Anzi, si ha l’impressione che i nuclei tematici, i tormentoni, che ritornano, siano sempre gli stessi. Fino alla noia. Fino a far sospettare che, al di là di pochi stanchi motivi conduttori, quest’area abbia ben più poco da offrire. Se non andiamo errati nell’area della sinistra ci sono almeno cinque motivi che ritornano con grande insistenza. Li prenderemo in esame uno per uno, fabbricando ovviamente dei tipi ideali, ma sviluppando anche nei loro confronti una serie di osservazioni critiche, allo scopo di evidenziare i loro punti deboli, quelli che necessiterebbero di una migliore elaborazione, magari di un qualche aggiornamento.
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1) Una parola d’ordine che ha molto successo nell’area è quella dei bisogni. Bisogna partire dai bisogni della gente, si sente dire, sottintendendo che questo non è fatto dal centro-sinistra. In genere ci si riferisce ai bisogni dei precari, dei disoccupati, degli emarginati, di quelli che «non arrivano alla fine del mese», e così via. I bisogni tuttavia vengono spesso generalizzati, diventando così una categoria bio-politica astratta, riferita agli esseri umani in genere, indipendentemente da qualsiasi determinazione. Si tratta di dare voce ai bisogni elementari di chiunque si trovi in una condizione di privazione (bisogno della casa, del lavoro, di assistenza medica, di asilo, di cittadinanza, di espressione, di aggregazione). Tutto ciò si rifà a una concezione, non certo nuova, secondo cui un cambiamento radicale del sistema deve partire dai bisogni. Il sistema tenderebbe a eludere i bisogni delle persone anziché soddisfarli, per cui la rivendicazione a partire dai bisogni, lo scatenamento dei bisogni, avrebbe di per sé un valore rivoluzionario. All’estremo, anche le forme di devianza, quali che siano, sono interpretate come espressione radicale dei bisogni insoddisfatti.[6] Le diverse forme di devianza che albergano nel «sociale» sono considerate come potenzialmente antisistema e dunque guardate con simpatia, per le proprie potenzialità politiche. Strategicamente, si pensa che il «partire dai bisogni» possa costituire un linguaggio unificante, dalla forza ineluttabile, basato su ciò che è comune per definizione, capace quindi di aggregare, passando di bisogno in bisogno, una massa di opposizione sempre più grande.
Purtroppo questa teoria è piuttosto semplicistica e finora non ha retto alla prova dei fatti. I bisogni non sono mai oggettivi, sono sempre percepiti, interpretati, filtrati. Possono essere indotti, possono essere soggetti a effetti curiosi, come nel caso della privazione relativa. Storicamente le macchine desideranti all’opera possono avere ottenuto qualche successo locale, ma non hanno mai prodotto aggregazioni durature, anzi hanno spesso prodotto ulteriori spaccature e frammentazioni. Accade che chi si mobilita in nome di un bisogno impellente non si mobiliti mai per tutti gli altri meno impellenti. In altri termini, dalle lotte per i singoli bisogni particolari non si passa mai a un impegno politico di tipo universalistico. Solo il disciplinamento dei bisogni, il loro inquadramento in un progetto universalistico può portare alla politica, ma ogni sovrapposizione della politica viene considerata come un elemento repressivo, come un incanalamento nel «sistema». Si tende in altri termini a restare in balia dei bisogni, aspettando la radicalizzazione che verrà sicuramente dal peggioramento della situazione.
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2) Un’altra parola d’ordine è costituita dalla radicalizzazione dei diritti. Il linguaggio dei diritti è antitetico a quello dei bisogni, perché i bisogni sono tipicamente di carattere induttivo, mentre i diritti sono di carattere deduttivo. Siccome l’elenco dei diritti che vengono rivendicati è molto lungo, e ogni giorno ne viene aggiunto qualcuno, è piuttosto facile confrontare le più varie situazioni specifiche di privazione con l’elenco dei diritti, per denunciare le inadempienze, per mobilitare gli interessati in nome di qualche diritto. Ci sono almeno quattro varianti: i diritti già guadagnati che vengono tolti, i diritti nuovi che devono essere guadagnati, i diritti scritti (specialmente sulla Costituzione) che non sono attuati e i diritti umani in generale che devono trovare attuazione.
Fin qui non ci sarebbe nulla di male. Ma la radicalizzazione dei diritti di cui stiamo parlando va ben oltre la legittima battaglia che chiunque può intraprendere per l’affermazione di un qualche diritto. Il fatto è che la rivendicazione dei diritti viene spesso formulata in nome di un’etica dell’intenzione e al di fuori di qualsiasi etica della responsabilità. Tutto ciò si traduce nella proclamazione di una serie di rivendicazioni senza alcuna fattibilità. Come quando si dice che poiché «siamo in una Repubblica fondata sul lavoro» tutti devono avere un lavoro. Questo rituale rivendicativo, più che a un effettivo allargamento dei diritti, mira principalmente a produrre un atteggiamento di indignazione, a mostrare che il sistema non è in grado di garantire diritti che proclama o scrive. Ciò finisce per svolgere, nelle intenzioni, la solita funzione antisistema: mostrare che solo cambiando radicalmente il sistema, si potranno avere i diritti che spettano di diritto.
Oltre agli inevitabili scivolamenti retorici, la lunga marcia attraverso i diritti va incontro a due scogli di cui spesso non si vuol parlare: la legalità e la fattibilità. Anzitutto, la rivendicazione dei diritti implica spesso il conflitto con i diritti di altri soggetti, con norme e leggi preesistenti: le imprese non possono licenziare, la casa ce la prendiamo, sequestriamo i dirigenti, entriamo illegalmente nel Paese, sabotiamo i cantieri. Secondariamente, purtroppo, i diritti costano, cosa da cui derivano ulteriori conflitti tra i soggetti dei diritti. Poiché le risorse sono limitate, finanziare i diritti di alcuni significa subito togliere finanziamenti ai diritti degli altri. Di fronte a questa obiezione il discorso viene di solito archiviato facendo l’elenco di alcune spese statali palesemente inutili, evocando l’evasione fiscale, oppure usando lo slogan secondo cui «i soldi si prendono dove sono», oppure, nella versione più soap, secondo cui «anche i ricchi devono piangere». Del resto, qualunque forma di razionalizzazione della spesa pubblica che miri a trovare risorse viene accusata di voler infierire con dei tagli indiscriminati allo Stato sociale. In fin dei conti questa tendenza ha sempre considerato gli sprechi e la corruzione come fenomeni di routine, e non come la principale causa dell’insostenibilità dello Stato sociale. Appare chiaro che bisogni e diritti diventano, in questa prospettiva, solo due facce della stessa medaglia, cioè l’espressione di una volontà «senza se e senza ma» che non si pone particolari problemi di fattibilità. Le macchine desideranti sono sempre al lavoro.
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3) Un’altra parola d’ordine, questa volta di ordine più metodologico, riguarda le nuove forme di democrazia. È una diretta conseguenza dell’abbandono della dittatura del proletariato della tradizione comunista, ma di una non ben chiara accettazione della democrazia. In effetti tra tutte le culture politiche che soggiornano nell’area della sinistra, brilla per la sua assenza proprio la cultura politica della democrazia. Questo tipo di prospettiva passa per un’analisi che dichiara finita la politica, finita la democrazia, finito lo Stato.[7] I soggetti (variamente interpretati come lavoratori, gente, popolo, soggetti devianti, soggetti desideranti, oppure titolari di diritti, corpi vitali, o simili) non hanno altra strada che mobilitarsi e dare luogo a nuove forme alternative di partecipazione e di democrazia. La strada è naturalmente quella delle aggregazioni «dal basso», a partire dai livelli locali, per promuovere qualche tipo di autogoverno, anche se spesso si opera in ambiti minimali. Il modello più caratteristico di questa strada per il rinnovamento della democrazia è da molti considerato quello del movimento NoTAV. In altri ambiti, sono stati fatti alcuni esperimenti come quello dei bilanci partecipati, che tuttavia non si sono diffusi più di tanto. A livello accademico si sono discussi e talvolta sperimentati diversi modelli di democrazia partecipativa che tuttavia sono rimasti, appunto, a livello accademico. Questi movimenti locali che rivendicano le nuove forme di democrazia tendono a scivolare 1) verso movimenti single issue (e quindi perdono qualsiasi capacità di essere dei movimenti politici in senso globale e universalistico), oppure verso 2) movimenti referendari (dove c’è senz’altro una caratterizzazione politica universalistica, ma dove poi tutto si consuma nella battaglia per un referendum – si è già costatato più volte che le aggregazioni talora assai ampie nate intorno ai referendum non si traducono poi in alcuna continuità politica).
Il problema di fondo di questo orientamento è che, dando per finiti lo Stato, le istituzioni e la democrazia rappresentativa (in nome di un’altra ipotetica futura democrazia) non si fa nulla per difendere e rafforzare lo Stato, le istituzioni, la democrazia che ci sono e si finisce, obiettivamente, sulla stessa linea di coloro che in questi decenni hanno giocato allo sfascio istituzionale. Purtroppo in questo caso gli sfascisti di destra e quelli di sinistra finiscono per coincidere davvero.
Sul fronte sindacale ci sarebbe uno spazio straordinario per questo tipo di sperimentazioni; una volta si parlava di democrazia economica. Il problema anzitutto è che il sindacato italiano non è mai stato un campione di democrazia interna effettiva e che, soprattutto nei sindacati più radicali (tipo FIOM), internamente vigono ancora le pratiche cooptative della tradizione. Secondariamente il sindacato italiano è tipico per non avere mai voluto sperimentare nelle fabbriche forme di partecipazione alla gestione. Per cui, fino a prova contraria, la sperimentazione di nuove forme di democrazia, sul terreno della democrazia economica sembra davvero preclusa. Sarà per questo che nel nostro Paese in genere si preferisce rivolgersi alle valli di montagna o ai Consigli di quartiere per questo tipo di esperimenti.
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4) Un’altra parola d’ordine ancora riguarda le varie forme di solidarietà. Poiché c’è la «crisi dello Stato sociale», poiché urgono i bisogni della gente, giusti o devianti che siano, poiché il sistema toglie i diritti alle persone, allora si tratta di fare subito qualcosa, di organizzarsi per gestire in proprio la soluzione di alcuni problemi. Qui le iniziative, spesso lodevoli e interessanti, si moltiplicano, seguendo il filo dei bisogni e/o dei diritti violati (dall’ospitalità nei confronti dei migranti, ai corsi di alfabetizzazione, alle mense per i poveri, al riciclaggio di suppellettili usate, alla creazione di opportunità di lavoro, fino agli asili autogestiti, alle collette di viveri e medicinali, all’uso dei beni sequestrati alla mafia, …). Questo ampio settore di impegno e intervento trova spesso collaborazione con il mondo del volontariato e con il mondo cattolico impegnato sul fronte del sociale. A questa stessa tematica appartiene tuttavia  anche la sperimentazione di nuove forme di socialità, che si sono diffuse soprattutto nei cosiddetti CSA e CSOA.
Accade tuttavia che l’impegno in questo tipo di forme di solidarietà, quando ha successo, finisca spesso per essere vissuto come impegno single issue e che raramente si traduca poi in politica, nei termini più generali e universalistici. Spesso le sperimentazioni delle nuove forme di socialità e di self-help diventano del tutto autoreferenziali e finiscono per costituire delle forme di auto emarginazione (come nel caso dei Centri sociali). Sul piano teorico è poi interessante domandarsi perché la solidarietà tendenzialmente non decolla e tende anzi a rimanere circoscritta.  Il fatto è che mentre il linguaggio della politica è tendenzialmente universalistico (l’esempio tipico è il linguaggio dei diritti) il linguaggio della solidarietà è sempre particolaristico, implica sempre un contatto faccia a faccia, implica quindi un restringimento dell’ambito comunitario entro cui si agisce. Quando la solidarietà esce dall’ambito particolaristico, allora diventa un diritto, ma allora si parla d’altro, si dovrebbe parlare, appunto di politica. Si può fare il volontariato per tutta la vita senza incontrare mai la politica.
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5) A livello generale, infine, una parola d’ordine molto popolare, ripetuta come un mantra, concerne la cospirazione del capitalismo finanziario internazionale. Naturalmente la cospirazione riguarda anche e soprattutto l’Unione Europea e ciò fa sì che, all’interno dell’area della sinistra, prevalgano senz’altro posizioni confusamente anti UE e anti euro. La cospirazione viene spesso data come auto evidente. Spesso è concepita come un disvelamento, come la rivelazione di una verità che «loro» vogliono mantenere celata.  È chiaro che la cospirazione del capitalismo finanziario ha soltanto sostituito la vecchia teoria del SIM che piaceva tanto alle Brigate Rosse. In particolare, tutto quel che avviene in Europa è considerato solo come effetto di un complotto neo-liberista.
Senz’altro c’è stata un’ondata neoliberista, senz’altro il capitalismo finanziario ha avuto le sue degenerazioni che vanno denunciate e combattute. Ci sono molte buone analisi del fenomeno con tanto di proposte di soluzione, che attendono una risposta dalla politica. Qui si discute della teoria della cospirazione neoliberista usata come chiave esplicativa di tutto quel che avviene nel mondo e come quadro di analisi principe per effettuare le scelte politiche più disparate. Questo fanatismo persecutorio ha contribuito a mantenere tutta quest’area su posizioni da keynesismo da strapazzo, continuando a chiedere politiche di deficit spending per finanziare il welfare, politiche inflazionistiche di aumento del debito o, addirittura, politiche di cancellazione del debito. Il tutto spesso condito con la proposta di «uscire dall’euro». Un incredibile bricolage fai da te di scienza economica casereccia che, qualora fosse adottato, porterebbe senz’altro il Paese alla rovina.[8]
Questo fanatismo persecutorio ha inoltre impedito di cogliere le differenze – che sono macroscopiche – tra il neo-liberismo e l’economia sociale di mercato che è la teoria economica prevalente in Europa, ha impedito di valutare in maniera obiettiva le riforme del mercato del lavoro praticate ormai in quasi tutto il nord dell’Europa, di prendere in considerazione una seria riforma delle relazioni industriali, sempre sul modello europeo,  e di affrontare la questione del reddito di cittadinanza, anch’esso ormai diffusissimo in Europa, seppure in forme diverse. Insomma, provincialismo bello e buono: la colpa è sempre degli altri.
Si può aggiungere che ha anche impedito di formulare l’obiettivo di una legge per la regolamentazione dei partiti,  magari sul modello tedesco, che potrebbe dare una svolta al sistema politico italiano, contribuendo a regolare il mercato della competizione politica, che in Italia è completamente drogato dai partiti proprietari e dalle oligarchie correntizie. Invece i partitini dell’estrema sinistra (dove ci sono sia i partitini proprietari che i partitini oligarchici) si accontentano di una riforma proporzionale (che non avranno mai) per poter mettere a frutto (in termini di poltrone) le loro percentuali elettorali da prefisso telefonico. L’ala movimentista antagonista invece se ne frega dei partiti e mai s’impegnerebbe per una loro regolazione.
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Combinando in vario modo 1) la teoria dei bisogni, 2) la teoria dei diritti, quella delle 3) nuove forme di partecipazione 4) delle nuove forme di solidarietà e della 5) cospirazione finanziaria si riesce a riprodurre i due terzi dei discorsi che comunemente tengono banco nell’area della sinistra. Se si aggiungessero alcuni riferimenti all’ecologismo (declinati spesso in termini fondamentalisti) e all’antimilitarismo, il quadro sarebbe pressoché completo. Il terzo restante è costituito da recriminazioni 1) nei confronti dei traditori, rappresentati dal vecchio PD, ma ancor più dal PD di Renzi; 2) nei confronti degli elettori che votano in modo «contrario ai loro interessi», oppure 3) nei confronti dei media che «condizionano gli elettori». Non mancano, per completare il quadro, ma bisogna proprio andare a cercarli, sprazzi di quasi tutte le vecchie ideologie della sinistra dell’Ottocento e del Novecento, che vengono custoditi e coltivati con cura forse degna di miglior causa. Si tratta proprio di sprazzi, perché l’area della sinistra dal punto di vista culturale, pur con le debite eccezioni, è complessivamente piuttosto carente, rasenta anzi spesso un vero e proprio preoccupante analfabetismo culturale.
È chiaro che se i cinque punti distintivi che abbiamo individuato vengono preferibilmente declinati in forma radicale, se le recriminazioni nei confronti dei traditori sono così rancorose da impedire ogni alleanza e se per giunta spuntano qua e là fondamentalismi vecchi e nuovi, allora tutto è fatto per chiudersi, per diventare sempre più autoreferenziali e irrilevanti.
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Se tutto è davvero riconducibile ai pochi punti che abbiamo visto, ne consegue che in teoria non dovrebbe essere troppo difficile elaborare un programma comune di governo della sinistra (magari facendo qualche sforzo di approfondimento in più, tenendo anche conto delle obiezioni che abbiamo avanzato – che del resto sono del tutto risapute e ben lungi dall’essere originali). Naturalmente un programma comune di governo dovrebbe implicare un’organizzazione comune la più ampia possibile, abbastanza flessibile da poter praticare una tattica di tipo elettorale, una politica delle alleanze altrettanto flessibile e, contemporaneamente, abbastanza pluralista da lasciare ampi margini di autonomia pratica e teorica agli aderenti, siano essi singoli individui o gruppi, collettivi o quant’altro. Date le diverse prospettive politiche e organizzative che potenzialmente si ritrovano nell’area, che paiono alquanto irriducibili, l’unica struttura che realisticamente potrebbe dare un minimo di organicità all’area stessa sarebbe una struttura federale. Si potrebbe ipotizzare una federazione come quella del Labour Party inglese, cui si possa anche aderire in quanto gruppi locali. Una federazione però munita di organismi, statuti, congressi, programmi, leader ufficiali, maggioranze e minoranze. Insomma un’organizzazione compatta, tatticamente molto flessibile, dotata strategicamente di un grande pluralismo interno e di una grande capacità di fungere da area di dibattito, da laboratorio di idee e di sperimentazioni.
Perché non si fa qualcosa del genere? Perché non ci si pensa neppure? Gli ostacoli a un percorso del genere sembrano purtroppo riguardare quasi esclusivamente i limiti soggettivi, sia degli individui che della miriade di micro organizzazioni di cui è costituita l’area.  Per federarsi, occorre riconoscere gli altri, su un piano di pluralismo e di parità. Occorre avere interesse per gli altri. Occorre una grande flessibilità mentale per distinguere quel che è tatticamente conseguibile in ciascuna situazione dai principi di fondo che - come si dice sempre– sono non negoziabili e che ciascuno potrebbe continuare a professare. Questo però è proprio quello che gli appartenenti all’area della sinistra non sono mai stati in grado di fare. Storicamente sono invece sempre stati portatori, chi più e chi meno, di un atteggiamento personale di presunzione, di autosufficienza, di insofferenza, di fondamentalismo che si traduce nella più totale incapacità di aggregazione, un clamoroso limite  per gente che parla tutti i giorni di socialità e di comunismo.
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Il rapporto dell’area della sinistra con la cultura poi è quanto mai rivelatore di una profonda mancanza di un’identità culturale, soprattutto se pensiamo a possibili prospettive future. In effetti, anche se non lo ammetterebbero mai, le possibilità per quest’area di trovare un’identità di qualche tipo è legata proprio allo sviluppo di una prospettiva culturale unificante. È legata quindi alle fabbriche del sapere e agli intellettuali. Non a caso sono stati proprio gli intellettuali relativamente indipendenti che hanno fatto da collante alla recente Lista Tsipras.
Nell’area della sinistra non mancano intellettuali e istituzioni culturali di primordine. Tra gli intellettuali abbiamo personaggi come Rodotà, Gallino, Zagrebelsky. C’è una rivista come MicroMega. Ci sono dei bravi giornalisti che sono molto competenti e attivi. Il fatto è purtroppo che questa area intellettuale, che si colloca per lo più su posizioni neo illuministe, si trova spesso radicalmente in opposizione con le culture politiche assai diversificate e con le burocrazie (dirigenti e militanti) sia dei partiti parlamentari che dei partitini extraparlamentari. Entrambe poi queste due aree, che già si oppongono tra loro, si trovano in opposizione (o in un rapporto di vera e propria estraneità) con la galassia dei centri sociali e dell’autonomia, la base movimentista, anarcoide e pre-politica che vuole vivere e gridare il proprio dissenso esistenziale, spesso affascinata dalle filosofie nichiliste e dai guru postmoderni. Sono almeno tre mondi difficilmente conciliabili che rischiano di continuare a riprodursi e di riprodurre le loro inconciliabili differenze identitarie. Non esiste per ora un dizionario che sia in grado di mettere in comunicazione questi mondi. Forse non hanno alcuna voglia di essere messi in comunicazione. Magari non ne sentono proprio alcun bisogno.
 
9/07/2014
                                                                                         Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
 
TESTI CITATI
 
2013   Barca, Fabrizio
Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di governo, documento on-line.
 
2014   Paolo Flores d’Arcais,
Per la critica dei risultati elettorali, in MicroMega 4/2014.
 
 
 
NOTE
[1] La coalizione si è presentata in occasione delle recenti elezioni europee (maggio 2014).
[2] Cfr. Barca 2013.
[3] La lista ha ricevuto l'appoggio, tra gli altri, di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Carlo Freccero, Michele Serra, Furio Colombo, Fausto Bertinotti e Luciano Canfora. In seguito hanno sostenuto la lista anche Carlin Petrini, Nicola Piovani, Rita Borsellino, Vauro Senesi, Sergio Staino, Leo Gullotta, Valerio Mastandrea, Gino Strada e Sabina Guzzanti, Andrea Scanzi.
[4] Cfr. Paolo Flores d’Arcais 2014: 12-13.
[5] Dal punto di vista organizzativo abbiamo 1) ampie aree di opinione (“il manifesto”, oppure la rivista MicroMega); 2) organizzazioni single issue (movimenti referendari, il movimento per l’Acqua, i NoTav); 3) movimenti generalisti non strutturati (Occupy, Se non ora quando e simili); 4) movimenti dei centri sociali e simili (CSA, CSOA); 5) partiti vari parlamentari (SEL, Rifondazione, PdCI, Italia dei Valori e simili) e cartelli elettorali temporanei di partiti (Rivoluzione Civile, Lista Tsipras); 6) piccoli partiti extraparlamentari della tradizione marxista (PMLI, Lotta Comunista, PCdL); 7) organizzazioni extra-parlamentari semi clandestine (gruppi anarchici, black block e simili); 8) organizzazioni sindacali (tipicamente la FIOM, ma anche i COBAS). L’elenco è sicuramente incompleto.
[6] Secondo questa concezione, quando fossero soddisfatti i bisogni degli esseri umani questi diventerebbero buoni, mansueti, socievoli. La devianza è frutto della mancata soddisfazione dei bisogni. Insomma la devianza è il prodotto di una società malata.
[7] Molti di costoro tuttavia non disdegnano di ricevere finanziamenti pubblici, di essere eletti e di ricoprire cariche pubbliche.
[8] La cosa divertente è che mentre da un lato si continua a ripetere il mantra dell’ineluttabile fine di sovranità degli Stati nazionali, dall’altro si propone la politica economica keynesiana, cioè una politica economica che implica la piena sovranità degli Stati. Ma la coerenza spesso è un optional.