venerdì 29 gennaio 2016

Il voto del silenzio

Dialoghi con Sofia 21
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Non stiamo parlando del silenzio cui erano tenuti certi monaci. Stiamo parlando del silenzio nello spazio pubblico, comportamento che si sta imponendo come soluzione ormai ineludibile per chi abbia ancora mantenuto un minimo di rispetto di sé e abbia nel frattempo compreso quale sia ormai la condizione miserevole della comunicazione pubblica.
 Non che non ci sia più niente da dire. Ci sarebbe molto da dire. Il fatto è che non c’è più nessuno che ascolta. O, meglio, puoi trovare infinite persone che ti ascoltano, ma poi passano ad ascoltare qualcos’altro, e poi altro ancora, con il risultato che il tuo dire è destituito di qualsiasi efficacia. Il tuo dire si mescola con qualsiasi altra cosa e diventa rumore. Ogni ascolto viene omogeneizzato e sterilizzato. Il giorno dopo, tutti dimenticano quello che è stato detto e si tratterebbe di ricominciare da  capo.  Tutti s’illudono di comunicare, tutti comunicano intensivamente, ma la comunicazione ha perso qualsiasi tipo di efficacia. Questo significa, molto semplicemente, che la comunicazione pubblica non ha più alcun effetto di cambiamento sulle persone.
Il punto di vista del dire è sempre una parte. Per avere un punto di vista, per avere qualcosa da dire, bisogna stare da una parte. Un autentico dire non è mai un dire ecumenico. Il pubblico odierno, la massa dei destinatari della comunicazione, crede di aver capito che tutte le parti si equivalgono, che è più comodo stare al di fuori delle parti, piuttosto che stare dentro a una qualche parte; oppure che è sempre meglio stare da qualche altra parte. La ragione fondamentale è che parteggiare non produce più alcun effetto. I pochi che ancora parteggiano, sono percepiti come i gladiatori nell’arena che si scontrano per  arcani motivi che sfuggono al buon senso. Che possono essere degni di uno sguardo divertito al più, prima di volgersi e cambiare canale.
La convinzione generalizzata ormai è che qualsiasi cosa si comunichi pubblicamente, le nostre vite e quelle degli altri non cambieranno. Se cambieranno – e possono senz’altro cambiare, anzi i rischi sono sempre più grandi - questo avverrà per motivi diversi. La comunicazione non cambia nulla. La comunicazione sarà sempre più accessoria riempitiva e ininfluente. Ciò non ha nulla a che fare con l’efficacia strumentale di certa comunicazione, come la pubblicità o la comunicazione politico mediatica che è anzi in aumento. Comunicazione autentica e comunicazione strumentale stanno tra loro in ragione inversa.
Per comunicare autenticamente bisogna stare dentro a una comunità di discorso. Oggi nessuno più s’impegna a stare dentro a una comunità di discorso. Scegliere una comunità di discorso è ritenuto una limitazione. Meglio stare dentro una molteplicità di comunità di discorso, ma così finisce che non c’è più discorso sufficiente ad alimentare nessuna comunità. Può darsi che da qualche parte sopravviva qualche comunità di discorso autentica, ma si tratta di animali in via di estinzione.
Il mondo sociale è pieno di equilibristi che stanno dappertutto e, contemporaneamente, non stanno da nessuna parte. Ombre che parlano da sole o parlano con altre ombre che fanno finta di parlare con ombre uguali a loro. Il comunicatore mordi e fuggi è quello che non si fa mai catturare, quello che c’è e non c’è, quello che non prende mai posizione o prende quelle posizioni che “non impegnano”.  Quello che non è disposto a impiegare più di un certo tempo ristretto, perché ha già un altro impegno da un’altra parte. In simili situazioni, ogni richiamo all’autenticità, alla chiarificazione, alla coerenza, alla lealtà non ha alcun senso. È decisamente il tempo delle menzogne, della stupidità e delle stronzate. Il tempo dei traditori di tutte le parole e di tutte le cause.
Atti comunicativi sempre più brevi, sempre più indipendenti gli uni dagli altri e, dunque, incoerenti e sempre meno impegnativi. Unico imperativo: stare a galla sulla scorta di presenze che assomigliano ad assenze, sulla base di messaggi e messaggini che non devono contare più di tanto. Tutte facce di circostanza. Austin scriveva che «Dire è fare». Oggi forse non lo scriverebbe più, o comunque dovrebbe fare molte precisazioni. Oggi, dire è un modo assoluto per non fare. Un non fare istituzionalizzato e generalizzato che sta distruggendo lo spazio del discorso pubblico.
In un quadro del genere, qualsiasi tipo d’impegno approfondito e duraturo diventa impossibile. Gli unici impegni duraturi che manteniamo sono quelli che la struttura sociale ci impone, gli impegni estrinseci, i quali sono lì e non si possono evitare. Spesso però cerchiamo di evadere anche questi. Spesso in modo fraudolento. Per questo sogniamo continuamente una società che ci imponga meno impegni, in modo da permetterci di continuare a galleggiare tra le infinite comunicazioni non significative, nel non essere momentaneo del cambiamento di canale.
Un destino inevitabile dell’Occidente? Lo spettro della tecnica? Colpa dei soliti media? Un complotto dei tecnocrati di Bruxelles? No. È colpa di quello che siamo diventati, o meglio, colpa di quello che non siamo mai stati capaci di diventare. E qui non posso che ripetermi. Il mondo sociale odierno è ormai tutto strapieno di veri e propri relitti umani. Progetti di vita mal fatti che non si sono mai realizzati, che si sono ritualizzati, che sono rientrati, che non hanno più alcuna speranza. Furbetti che hanno trovato il modo di realizzarsi a spese degli altri. Doppio e triplo giochisti. Anime vendute per un piatto di lenticchie. Oppure, più semplicemente, ignoranti come capre che riescono a mantenersi gloriosamente ignoranti nel secolo della più grande disponibilità di conoscenze a buon mercato. I relitti umani non possono che galleggiare, senza verso, senza direzione, cozzando un po’ qua e un po’ là, perdendo pezzi, blaterando, logorandosi nell’attesa del disfacimento nel marciume.  Diversi di loro sono anche contenti e orgogliosi di quello che sono e di quello che fanno e del fulgido contributo che continuano a dare al consorzio umano.
In una simile situazione, per chi, in questo nuovo mondo, viva la condizione dello straniero e abbia ancora un barlume di coscienza, non resta che il voto del silenzio. Ritirare ogni speranza che la comunicazione, il rigore, l’impegno, la verità, la lealtà possano in qualche modo incidere, che ci sia qualcuno là fuori che ha bisogno di un messaggio autentico, che ci sia qualcuno che non è meramente interessato alla auto referenzialità, a mettere sulla scena il proprio piccolo ego, a fuggire dalle proprie responsabilità, qualcuno disposto a fermarsi ad ascoltare.
Il voto del silenzio è solo la presa d’atto definitiva di un’avvenuta mutazione antropologica, dell’invasione dei relitti umani, quasi come in una fiction di quart’ordine. Si tratta di una catastrofe che non era affatto inevitabile, che abbiamo reso possibile con la nostra ignavia, con le nostre insufficienze, con la nostra incapacità di mettere in comune proprio il discorso autentico. Il silenzio pubblico è senz’altro doloroso e autolesionistico, ma è l’unico strumento attraverso cui volgersi via dal mondo fasullo per costruire e mantenere vivo uno spazio di discorso dentro se stessi, entro il quale cercare di conservare e sviluppare quello che vale, oltre ogni mordi e fuggi comunicativo, oltre di ogni galleggiamento estemporaneo, oltre ogni piccolo o grande mercato.
Questo significa certamente mettersi in rotta con il proprio tempo. Ma ci sono tempi che non meritano altro.
 
29/01/2016
Giuseppe Rinaldi