mercoledì 30 dicembre 2015

Trascendentalia I

trascendentalia
1. La letteratura[1] su Kant è vastissima. Tuttavia spesso è assai dispersiva e rivolta ad approfondire un’interminabile serie di dettagli. Si tratta senz’altro di legittime investigazioni e disquisizioni, le quali tuttavia, in termini di risultati, non pare abbiano gran che contribuito a un’interpretazione complessiva fondata e condivisa di Kant. Come ha sostenuto Plantinga,[2] ci sono ancora, in effetti, tanti “Kant” quante sono le prospettive filosofiche a partire dalle quali si legge Kant. Come a dire che Kant finisce ancor oggi per essere un luogo divisivo, di proiezione, piuttosto che di ricostruzione sulla scorta dei testi e dei documenti. A ciò va aggiunto che, a dispetto della sua fama e degli indici rigorosi delle sue opere, Kant non sempre è coerente e talvolta il suo pensiero è piuttosto contorto e oscuro. Se a ciò aggiungiamo la presenza – soprattutto nel nostro Paese – di una vulgata storico filosofica alquanto dogmatica e ripetitiva, accade così che aspetti decisivi della filosofia di Kant siano poco considerati e che, a dispetto della posizione monumentale che gli viene attribuita nella storia della filosofia, la sua collocazione effettiva sia ben lungi dall’essere chiarita.
Questa situazione vale soprattutto per la CRP, l’opera più caratteristica di Kant, quella che l’ha reso celebre e che ha avuto senz’altro il maggior peso nella storia della filosofia. Essa è tuttavia anche l’opera più complessa e problematica. Alla luce di queste considerazioni, si cercherà, in quel che segue, di elaborare alcune linee interpretative della CRP che colgano il senso complessivo dell’impresa kantiana, che mettano in grado di individuare quello che è il Kant più “probabile”, quello che serve per comprendere la sua effettiva posizione nella storia della filosofia e per comprendere il rapporto che ancora oggi possiamo intrattenere con il suo pensiero e con il suo lascito che, col passar del tempo, appare sempre più problematico.
 
2. Certo, alcune minime acquisizioni sono ormai consolidate. Limitandoci alla CRP, sono indubbiamente chiari, in Kant, il tentativo di criticare sia le posizioni humeane sia la metafisica alla Wolff che era di pretta derivazione scolastica. Altrettanto chiare sono le sollecitazioni provenienti dagli avanzamenti della fisica e, dunque, l’esigenza di trovare comunque un raccordo positivo con la fisica newtoniana. Ancora, è abbastanza chiara l’esigenza metodologica, che può essere fatta risalire a Locke[3] ma anche a Cartesio, che ha spinto Kant a incentrare i propri sforzi intorno ai meccanismi della conoscenza. Occorre tener presente che siamo in un periodo in cui non era ancora stato ufficializzato alcun netto distacco tra scienza e filosofia, un periodo in cui Kant poteva ancora immaginare e auspicare una metafisica futura capace di presentarsi come scienza. Egli, accademicamente parlando, poteva poi occuparsi di tutto lo scibile umano, dalla formazione delle galassie, all’etica, alla geografia, all’esistenza di Dio e alla questione della vita dopo la morte, fino al bello e al sublime. Abbiamo dunque un Kant epistemologo ma anche metafisico. Sono questi i due aspetti dell’opera di Kant che vanno continuamente soggetti a una difficile tensione interpretativa e che sono però entrambi fondamentali per comprendere la CRP.
 
3. Se queste linee generali hanno un qualche fondamento, la CRP dovrebbe essere correttamente collocata nel quadro delle numerose ricerche, sviluppatesi tra Seicento e Settecento, che avrebbero inteso definire un metodo valido per conseguire qualsiasi tipo di conoscenza. Si tratterebbe cioè della ricerca di una sorta di teoria universale della conoscenza, adatta sia per la scienza sia per la filosofia.[4] Questa tendenza derivava principalmente dalla lunga e progressiva crisi della metafisica scolastica, alla quale tuttavia furono date risposte piuttosto diverse in Francia, in Inghilterra e in Germania.  La particolarità comune di tutte queste risposte è stata proprio quella di aver collocato in primo piano il problema del metodo e di avere conseguentemente relegato in secondo piano ogni discorso intorno alla natura delle cose, cioè ogni discorso di metafisica generale o di ontologia. Questa svolta si era resa necessaria in seguito alla sempre più evidente insostenibilità del linguaggio scolastico nel render conto dei nuovi fatti che le discipline empiriche stavano acquisendo. Così è avvenuto che, proprio in questo periodo, la teoria della conoscenza abbia preso un netto sopravvento sulla neonata ontologia.[5] Quest’ultima non sparirà del tutto ma sarà inglobata dentro la teoria della conoscenza in una situazione di dipendenza. Sarà ora la gnoseologia a fare le funzioni dell’ontologia. La tendenza è già abbastanza palese, oltre che in Cartesio, in Locke e proseguirà fino a Kant e oltre.
In termini di differenze esplicite tra i vari orientamenti seguiti alla crisi della metafisica scolastica, mentre sull’asse Locke – Hume è stato drasticamente criticato, e abbandonato, il tradizionale linguaggio della metafisica, sull’asse Cartesio – Kant c’è stata sì l’ambizione della critica della metafisica, ma anche quella di un suo rinnovamento, di una sua rifondazione che doveva esser guadagnata proprio attraverso una fondazione metodologica. È evidente che si tratta di due nozioni di metodo piuttosto diverse. Mentre nel primo caso il metodo è considerato come uno strumento, nel secondo caso il metodo diventa un elemento di fondazione. Insomma, nel secondo caso la metafisica ha dovuto chiedere aiuto alla teoria della conoscenza per poter risolvere momentaneamente la propria crisi e continuare a percorrere la sua strada.
Pur partendo da un complesso di problemi e di esigenze comuni, i due principali progetti filosofici seguiti alla crisi della scolastica saranno dunque destinati a divergere alquanto. In particolare, sull’asse Cartesio - Kant avremo, pur sotto nuova forma, un vero e proprio ritorno della metafisica che, almeno negli sviluppo della filosofia continentale, avrà dirette e gravi conseguenze riscontrabili ancora fino ai giorni nostri.
 
4. Uno dei luoghi comuni della vulgata storico filosofica più diffusa è che Kant fosse un filosofo anti metafisico, che avesse definitivamente criticato la metafisica e che, quindi, tutto quel che è venuto dopo di lui debba essere considerato come post metafisica. Il progetto di Kant in realtà non era tanto quello di abolire la metafisica, quanto di fondarla su basi certe, di elaborare una metafisica futura che fosse in grado di presentarsi come scienza.[6] Nell’opera di Kant, infatti, si possono distinguere due significati di “metafisica”, un significato negativo e un significato positivo. Solitamente gli interpreti hanno prestato maggiore attenzione al significato negativo, soprattutto con riferimento a quanto è contenuto nella Dialettica trascendentale. In realtà Kant, in tutta la sua opera, ha mostrato di condividere, anche e soprattutto, un significato positivo di metafisica, secondo il quale essa avrebbe dovuto essere completamente rifondata, avrebbe dovuto essere rinnovata come scienza e avrebbe per giunta avuto a sua disposizione un campo di indagine assai specifico, avrebbe cioè dovuto occuparsi dei principi a priori della conoscenza e dell’esperienza. In questo senso, la filosofia trascendentale o, se si preferisce, l’idealismo trascendentale, avrebbe dovuto costituire una nuova metafisica emendata dai difetti di quella vecchia.
Per comprendere bene le trasformazioni della metafisica in questo periodo, è bene ricordare che, all’epoca di Kant, la metafisica era comunemente suddivisa in due grandi settori: la metafisica generale e le metafisiche speciali. Kant, nella CRP ha criticato le metafisiche speciali, quelle che si occupavano, ormai tradizionalmente, dell’Anima, del Mondo e di Dio ma ha ripreso completamente e sviluppato su basi nuove, in termini di teoria della conoscenza, la metafisica generale (quella che si occupava della fondazione dell’ente in quanto ente).[7] La CRP è dunque principalmente un’opera di metafisica e come tale va considerata.
 
5. La chiave della nuova metafisica kantiana sembra tuttavia palesemente ruotare non più intorno a una qualche teoria dell’ente, bensì attorno alla logica. Del resto Kant teneva una cattedra proprio di “logica e metafisica”. È dunque lecito domandarsi: perché proprio la logica? Sullo sfondo del progetto kantiano di rinnovamento della metafisica sta senz’altro il modello dell’Organon aristotelico il quale, pur non facendo parte effettiva della scienza, ne costituiva, appunto, una propedeutica. Insomma, Kant va alla ricerca di un nuovo complesso di regole logiche generali per il conseguimento della conoscenza che potessero anche preludere all’instaurazione di una nuova metafisica in quanto scienza.  Mentre sull’asse Locke – Hume la logica tradizionale era stata piuttosto indebolita e relativizzata a favore del metodo sperimentale, sull’asse Cartesio – Kant l’unico strumento disponibile, onde evitare le stesse conclusioni degli empiristi, era proprio la logica tradizionale, che doveva però essere ripresa, ristrutturata e, anzi, rimessa al centro della riflessione filosofica. Questa tendenza a una nuova sistematizzazione della logica è evidente in tutto il corso del razionalismo seicentesco e settecentesco, dall’etica dimostrata ordine geometrico di Spinoza, fino alla natura logica delle monadi leibniziane. Lambert aveva pubblicato un suo Nuovo Organo nel 1764. Seguendo questa tendenza logo-centrica, la logica trascendentale kantiana rappresenterà un autentico elemento di successo, grazie al suo espediente di togliere definitivamente alla logica tradizionale il suo carattere di strumento e di collocare la nuova logica nel cuore stesso dell’esperienza o, se si preferisce, della realtà. La logica diventa dunque l’impalcatura profonda della realtà. In termini generali, tutto ciò può essere considerato come un ritorno a Platone e quindi una sconfessione di Aristotele. Dopo secoli di Aristotelismo variamente declinato, il lógos tornerà così costituire l’architettura del mondo. La nuova logica trascendentale verrà così inevitabilmente ad assolvere ad alcune funzioni svolte in precedenza dalla metafisica e dall’ontologia, in particolare la funzione della fondazione dell’ens.[8]
 
6. Se questo è vero, allora occorre modificare una certa immagine diffusa della CRP. Spesso si è sostenuto che la CRP sarebbe stata, secondo lo stesso Kant, espressione di una filosofia critica, volta a definire i limiti e le possibilità della ragione, quasi come se si trattasse di un’impresa minimalista di stampo libertario e pluralistico. Il fatto paradossale è invece che, nella CRP, la ragione (l’elemento logico per eccellenza), pur riflettendo sui suoi limiti, è posta proprio al centro del mondo, non soltanto in senso metodologico ma in senso metafisico e ontologico. Con tutto il suo parlare di limiti, la CRP non può che essere considerata, in effetti, come una manifestazione di illimitata presunzione della ragione.
Bisognerà allora riconoscere, una volta per tutte, che la vera filosofia critica che ha riflettuto autenticamente sui limiti della ragione e della natura umana era quella che si era ritrovata sull’asse Locke – Hume.[9] Bisogna provare a leggere contemporaneamente, e a confrontare punto per punto, la CRP e, ad esempio, le Ricerche di Hume, per capire da che parte si trovasse il senso del limite e dove invece la presunzione. Si trattava dunque ormai di due mondi culturali decisamente diversi che si contendevano due opposte definizioni della ragione e che dunque conferiranno all’illuminismo una certa natura contradditoria,[10] cosa che del resto gli è stata spesso rimproverata.
Tutto ciò si ritrova chiaramente nelle conseguenze. Mentre l’autentica filosofia critica darà origine agli sviluppi dell’individualità moderna e contemporanea, all’affermazione del metodo sperimentale, dall’altro canto l’esaltazione della ragione intesa come Ragione, messa al centro del mondo in termini ontologici, darà origine a una varietà di fondamentalismi a sfondo essenzialistico che continueranno a perpetuare, sotto nuove forme, una vecchia visione del mondo, strutturalmente conservatrice anche quando si farà sostenitrice di innovazioni e rivoluzioni. Un orientamento autenticamente critico e pluralista riuscirà a diffondersi solo sulle sponde dell’Atlantico, patria di due rivoluzioni politico-sociali precoci come quella inglese e quella americana.  La tendenza più conservatrice avrà invece la meglio sul continente (nonostante la Rivoluzione francese) e continuerà ad annidarsi ancora per secoli nelle filosofie della vecchia Europa.
 
7. L’intento di usare la logica per costruire ex novo una metodologia universale della conoscenza è stata dichiarata abbastanza espressamente da Kant stesso, nelle diverse sue introduzioni alla CRP. La stessa struttura dell’opera la caratterizza come un trattato di logica e/o di metodologia. È un fatto che la denominazione di “logica” sia stata data alla parte decisamente più ampia dell’opera, dove si parla diffusamente della conoscenza sensoriale, della conoscenza intellettuale e della conoscenza razionale. L’opera termina poi con una serie di riflessioni proprio sul metodo.
Rispetto ai trattati di logica tradizionali la CRP è andata tuttavia ben oltre i confini della disciplina e ha così provveduto ad ampliarne notevolmente il campo d’azione. Il risultato di questo ampliamento è stato l’inaugurazione della nuova logica trascendentale che finiva per inglobare la metaphysica generalis, ossia la parte fondazionale della metafisica.[11] L’ibrido tra logica e metafisica generale è stato indubbiamente reso possibile dall’attribuzione, alla logica, delle proprietà fondazionali della metafisica. L’ens della metafisica tradizionale (comunque fosse definito) è diventato ora il lógos, cioè un soggetto di natura logica con tutte le sue articolazioni logiche interne. È questo l’autentico significato della cosiddetta Rivoluzione copernicana.
In altri termini, allo scopo di risolvere il principale intoppo che impediva ogni accettabile fondazione di una nuova metafisica come scienza, la CRP ha dovuto adottare un’ardita innovazione - decisamente metafisica anch’essa - la quale ha così trasformato quello che poteva essere un trattato di logica nella cosiddetta filosofia trascendentale. Si trattava dunque di un’operazione che, sotto la parvenza di un’estrema modestia, di un confinamento metodologico, nascondeva tuttavia una sostanziale ambizione fondazionale[12] ancor più radicale di quella scolastica seppure apparentemente più moderata.
 
8. Il concetto di “trascendentale” sembra dunque il termine chiave dell’impresa della CRP (e forse dell’intera filosofia kantiana). È questo il concetto che avrebbe dovuto fare la differenza tra la tradizionale logica e la nuova e più fondamentale logica trascendentale.[13] Stupisce abbastanza il fatto che la maggioranza dei commentatori abbia dato per scontato che “trascendentale” sia un termine inventato da Kant o che, comunque, abbia acquistato un suo significato specifico solo ed esclusivamente nell’ambito dell’opera kantiana. Questa convinzione ha così indotto a ritenere che la questione dei trascendentali, dibattuta per almeno quattro secoli nel corso dello sviluppo della filosofia medievale, fosse del tutto inutile per comprendere il senso dell’impresa kantiana. Al più è stato accettato che Kant avesse scelto questo termine in base a una qualche vaga analogia tra la sua teoria della conoscenza[14] e la filosofia tradizionale. Le cose, in effetti, non stanno proprio così.
 
9. I “trascendentali” erano così detti, nel medioevo, perché qualificavano in modo unitario le proprietà o i modi fondamentali dell’ens, sia in senso gnoseologico sia in senso ontologico. Essi erano così denominati perché andavano oltre (cioè “trascendevano”) le tradizionali categorie[15] di matrice aristotelica. Dunque i trascendentali garantivano la stabilità dell’ens e la stessa possibilità di conoscerlo, esprimevano l’architettura razionale di base della realtà intera. L’intelletto coglieva anzitutto l’ens e le sue caratteristiche generali e poi, attraverso le categorie, poteva differenziare le conoscenze, più o meno secondo quanto Aristotele aveva prescritto. Nella filosofia medievale, i trascendentali avevano dunque un compito fondazionale, rappresentavano contemporaneamente la fondazione dell’ens e la fondazione della sua conoscibilità. Per questo essi dovevano stare ugualmente dentro le cose e dentro la mente.
 
10. Il dibattito sui trascendentali era stato senz’altro molto intenso all’interno della scolastica. Aertsen ha sostenuto addirittura che l’elemento caratteristico dell’intera filosofia medievale sia stato proprio costituito dalla questione dei trascendentali. L’ultima grande sintesi in merito fu quella tentata dal Suárez. L’opera del Suárez ebbe peraltro ampia diffusione, non solo negli ambienti cattolici ma anche in quelli protestanti. Con la crisi della scolastica, le stesse tematiche filosofiche che per secoli erano state relative ai trascendentali, che erano cioè le tematiche attinenti alla metaphysica generalis, avevano dato origine (soprattutto in ambito tedesco) a una nuova disciplina che aveva trovato il nome di ontologia. Proprio in questo contesto, logica e ontologia continuarono a combinarsi e a sovrapporsi nel tentativo di ridefinire la vecchia questione della fondazione dell’ente in quanto ente. Tra i contemporanei di Kant, il termine “trascendentale” era stato così recuperato nell’ambito ontologico ed era così ormai diventato equivalente a “fondativo” o “fondazionale”. L’ontologia, che mirava all’individuazione delle proprietà fondamentali dell’ens, mirava proprio a ciò che, per secoli, era stato oggetto delle disquisizioni intorno ai trascendentali. Tutti i più importanti manuali dell’epoca di logica, metafisica o ontologia (le denominazioni disciplinari erano alquanto frastagliate e ondivaghe) proponevano le loro definizioni dell’ens e delle sue proprietà fondamentali.[16]
 
11. Andando oltre le astrusità di linguaggio dell’epoca e le consuetudini interpretative delle vulgate nostrane, possiamo così presumere che quando Kant parla di una “logica trascendentale” egli intenda una “logica fondazionale” (che sarebbe poi, di fatto, un’ontologia), nella quale si studiano gli elementi logici che sarebbero in grado di conferire una struttura logico razionale all’esperienza, garantendone così l’intelligibilità. Come ognun vede, si tratta nient’altro che di una continuazione sotto nuove vesti della vecchia questione. Se si rilegge la CRP avendo chiara in mente questa definizione, molte delle sue astrusità si dissolvono.
Spesso, nella vulgata storico filosofica nostrana, si sostiene che “trascendentale” per Kant volesse dire “formale”,[17] ma questa scelta interpretativa tende piuttosto a sterilizzare il sospetto di una interpretazione sostanziale dei trascendentali e non coglie appieno il ruolo che Kant assegnava alla sua nuova logica nella costituzione dell’esperienza stessa. Non si tratta qui, aristotelicamente, della forma del gatto o del cavallo, bensì del conferimento di una configurazione generale di base all’esperienza. Cioè, si tratta proprio della funzione che i medievali attribuivano ai loro trascendentali.   In Kant, nella CRP, non si tratta solo di conferire una qualche forma a una materia preesistente, si tratta di spiegare come “sia possibile l’esperienza dell’oggetto”, il che è lo stesso di “determinare la realtà dell’oggetto”. Gli elementi della “logica trascendentale” stabiliscono/ producono le proprietà determinanti dell’oggetto, senza le quali l’oggetto cadrebbe fuori da ogni esperienza possibile.
 
12. È stato peraltro anche rilevato come Kant, nella CRP, abbia spesso usato il termine “trascendentale” in modo non univoco. Il fatto non è casuale e diventa del tutto ovvio se si adotta la nostra interpretazione. Nella CRP, i significati più ricorrenti di “trascendentale” sono due: a) anzitutto “trascendentale” è la qualificazione della scienza che si occupa dei principi a priori che costituiscono l’esperienza; b) in subordine, trascendentali diventano anche gli oggetti di questa scienza e quindi gli stessi elementi a priori. Quest’ultimo significato ovviamente è un recupero di soppiatto del carattere fondativo che era tipico dei trascendentali scolastici.
Entrambi i significati sono compatibili con la sottolineatura del nuovo tipo di logica introdotto da Kant che non doveva limitarsi a essere strumento (organon) bensì doveva diventare architettura profonda dell’esperienza stessa, se si preferisce regola dell’esperienza.    
 
13. Possiamo ora intendere con miglior chiarezza il rapporto tra i vecchi e i nuovi trascendentali. Nella sua ricerca di un antidoto contro il cosiddetto scetticismo humeano,[18] cioè per fondare la possibilità di giudizi sintetici e a-priori, Kant aveva bisogno di individuare una serie di caratteristiche basilari e comuni dell’ens che potessero essere imposte a tutte le conoscenze sintetiche.[19] Cioè, aveva bisogno di individuare dei nuovi trascendentali che svolgessero lo stesso mestiere fondativo di quelli vecchi. Nel linguaggio di Kant, si dovevano dunque cercare le condizioni di uniformità (universalità e necessità) cui doveva sottostare qualsiasi conoscenza.
Questo progetto, che, come ognun vede, aveva comunque ancora un taglio tipicamente scolastico, andava però ora incontro a una nutrita serie di difficoltà. L’imponente sviluppo della conoscenza empirica, avvenuto tra Seicento e Settecento, aveva comportato la demolizione della tradizionale teoria qualitativa delle forme/ categorie che resisteva fin da Aristotele. Era ormai del tutto evidente che gli eventuali nuovi trascendentali non potevano più esser cercati nell’ens inteso come oggetto, il quale dopo Locke e Hume era diventato un vero e proprio buco nero.[20] L’unica soluzione che restava era quella di andare a collocare i nuovi trascendentali esclusivamente nell’ens inteso come soggetto, facendo in modo che il soggetto ne fosse l’esclusivo depositario e che, quindi, fosse lo stesso soggetto a imporre le regole generali della conoscenza all’oggetto, tanto da costituire l’oggetto stesso.
Col senno di poi, possiamo oggi renderci conto che questa via di fuga è stata indirettamente facilitata dal fatto storico inconfutabile che, nella storia della cultura occidentale, si è avuto per primo un ampio sviluppo delle scienze della natura, che ha spazzato via dalla natura le categorie scolastiche, prima di tutto la sostanza, mentre le scienze cognitive erano ancora di là da venire. Così l’unico luogo dove ancora avrebbero potuto sopravvivere le categorie scolastiche era proprio quello del soggetto che, all’epoca, era ancora una terra misteriosa, buona per tutti gli usi. Così il soggetto si è popolato dei nuovi trascendentali che hanno poi resistito per due secoli nella filosofia continentale. Solo ora la rivoluzione delle scienze cognitive sta rendendo del tutto inutili le infrastrutture trascendentali del soggetto. Se ci sono degli schemi, questi sono schemi del cervello che saranno studiati con la scienza sperimentale.
Al tempo di Kant, l’unico modo di salvare la vecchia ontologia (cioè la metaphysica generalis) era dunque quello di sfoltirla alquanto, cioè ridurla all’essenziale, e di collocarla dentro il soggetto. Ne sarebbe derivata, come s’è detto, una nuova filosofia apparentemente incentrata sul metodo della conoscenza che però avrebbe celato dentro di sé un’ontologia bella e buona.
 
14. Questo inglobamento dell’ontologia nella teoria della conoscenza porterà una serie di conseguenze di notevole rilievo. Tutti gli “oggetti” che sarebbero stati conosciuti (cioè tutta la realtà come esperita) sarebbero stati costituiti in modo duplice, da un a-priori fondativo di provenienza mentale (cioè una componente logico / ontologica) e, eventualmente, da un elemento sintetico proveniente da un qualche altrove, non più identificabile (cioè dal buco nero). Questa strana dualità dell’oggetto di esperienza, naturalmente, non poteva essere accertata in termini di esperienza, ma doveva essere creduta o ritenuta tale come risultato di un’analisi di tipo trascendentale. Ciò darà origine al vezzo filosofico fondamentale degli ultimi due secoli e cioè a quell’abitudine a considerare che qualcosa non sia quel che sembra ma sia in realtà sempre qualcos’altro. Ci siamo già occupati, in altra sede, delle filosofie del sospetto.
Quello adottato da Kant era comunque l’unico escamotage possibile per la produzione di giudizi che fossero insieme sintetici e a priori,[21] secondo il requisito stesso posto dal programma kantiano. La stessa impostazione data originariamente al problema restringeva dunque piuttosto drasticamente le possibilità di soluzione e Kant ha avuto il merito, se non altro, di andare fino in fondo, fino alle estreme conseguenze.
 Secondo lo schema medievale, nell’oggetto si aveva qualcosa come: [trascendentalia[22] + categorie ] + [trascendentalia + materia]. Questo perché, per assunzione, gli stessi trascendentalia stavano sia nella mente sia nelle cose. Ora, nella CRP invece abbiamo: [trascendentalia (comprendenti le categorie)] + [materia (che però diventa “cosa in sé”)]. I due schemi teoretici sono abbastanza analoghi, ma le conseguenze – come si vedrà – saranno notevolmente diverse.
Secondo lo schema medievale i trascendentalia – che erano comuni alla mente e alle cose – fungevano da fondamento della realtà e della conoscenza. Costituivano i principi primi, elementari, dati per scontati, da cui tutto il resto poteva essere derivato. Secondo Kant invece, i trascendentalia si trovavano ora solo più nella mente e – di fatto – restavano soltanto più loro a svolgere il ruolo dei principi primi e cioè a costituire e mantenere i tratti stabili dell’ens. I nuovi principi primi, stando nel soggetto, potevano essere applicati a qualunque cosa (come vedremo, anche al soggetto stesso) ma nello stesso tempo non disturbavano le scoperte della scienza empirica (almeno di quella del tempo). Il prezzo da pagare sarà tuttavia piuttosto caro.
 
15. Una volta operata la scelta di fondo che abbiamo descritto, si apriva effettivamente la possibilità di una nuova filosofia trascendentale. Si trattava solo più di mostrare come fosse possibile conoscere esaurientemente i nuovi trascendentalia alla luce di questa nuova funzione fondativa e costitutiva loro assegnata e alla luce di questa loro collocazione esclusivamente mentale. Non si trattava più di individuare ciò che fosse comune alla mente e al mondo esterno, quanto di conoscere ciò che la mente proiettava nel mondo esterno.  Invece di studiare la realtà, si trattava di studiare i costituenti elementari della mente che servivano per produrre la realtà e che diventavano, essi stessi, realtà.
A questo nuovo compito nella CRP provvedeva la dottrina degli elementi che, in assoluto, rappresenta la quasi totalità dell’opera. Per individuare gli elementi in maniera certa era tuttavia necessario disporre di un procedimento, cioè avere un metodo e questo non poteva che essere individuato in analogia al procedimento cartesiano delle Meditazioni metafisiche.[23] La conoscenza precisa dei nuovi trascendentalia sarebbe dunque stata guadagnata attraverso un procedimento analitico introspettivo.[24] La cosa davvero notevole era che ora la ragione, in un certo senso, provvedeva a sdoppiarsi e prendeva se stessa come oggetto (una sorta di introspezione logica volta a ispezionare e descrivere il funzionamento stesso della mente nella sua attività “produttiva” dell’esperienza). Mentre l’introspezione psicologica era già stata da tempo screditata, Kant pensava ora che fosse possibile una introspezione logica, meglio ancora, una introspezione logico-trascendentale che potesse costituire una nuova scienza.
 
16. C’era però in agguato una grave conseguenza indesiderata di tipo epistemologico sulla quale Kant non aveva evidentemente concentrato la dovuta attenzione. Adottando il suo nuovo quadro di riferimento, non era più possibile alcuna teoria della verità come corrispondenza. La verità diventava un prodotto (parziale o totale non è qui rilevante) dei trascendentalia stessi, i quali ne garantivano così il fondamento. Nello stesso tempo essi entravano per di più a far parte della nozione stessa di verità, nella stessa costituzione dell’ente vero (inteso come esperienza o realtà esperita). Abbiamo, in altri termini, una logicizzazione dell’ens,[25] una nuova centralità dell’elemento logico che ora costituisce intrinsecamente l’esperienza. Per questo Kant definì, del tutto coerentemente, la sua stessa posizione come idealismo trascendentale, differenziandola da quella di Berkeley.[26]
La vecchia teoria della verità come corrispondenza non era eliminata del tutto, ma era ora inglobata e relegata all’interno della rappresentazione empirica ove, però, il soggetto trovava esattamente quel che vi aveva messo, oltre alle verità sintetiche che comunque non potevano che conformarsi a quanto il soggetto stesso aveva già istituito a-priori. I principi sintetici dell’intelletto puro ci restituiscono, in effetti, l’esperienza così come questa è stata già configurata dai trascendentalia. Si tratta di un gigantesco meccanismo tautologico volto a garantire il monopolio del soggetto, cioè degli elementi logici, nella produzione stessa dell’esperienza. Il soggetto logico diventa fondativo dell’esperienza, ma anche un componente dell’esperienza stessa.[27]
Con questa trasformazione, e qui sta la conseguenza più grave, la teoria della verità come corrispondenza si apprestava a essere sostituita da una teoria della verità come auto rispecchiamento del soggetto (teoria che, se è ancora parziale in Kant, diverrà completa nei suoi successori idealisti). L’auto rispecchiamento del soggetto implica che la verità risieda ultimativamente dentro al soggetto stesso e che venga replicata parzialmente o totalmente nell’oggetto. Implica dunque che il soggetto non abbia più, di fronte a sé, una realtà effettivamente diversa da sé, un mondo oggettivo con cui rapportarsi, da cui ricevere per lo meno qualche limitazione.[28] Implica piuttosto che abbia a che fare con una copia speculare di sé di cui può anche non essere del tutto consapevole.[29] Di fronte a questi mondi rispecchiati, che sono sempre mondi del soggetto, non avrebbe senso alcuna scienza sperimentale, sarà sufficiente l’applicazione di un’analitica del soggetto.[30] La filosofia continentale si svilupperà d’ora in poi proprio in quanto analitica del soggetto e di tutti i suoi derivati. Intorno a quest’auto rispecchiamento del soggetto e alle varie analitiche del soggetto ruoteranno, ahimè, i successivi due secoli della storia della filosofia continentale. Tuttavia, a differenza della logica tradizionale, che ha trovato una sua precisa sistemazione disciplinare, la logica trascendentale ha prodotto una serie di narrazioni, non diverse dai sogni della metafisica, che si sono intrecciate, superate, combattute, ma che non hanno trovato alcuna base comune, neanche metodologica. Una situazione peggiore della metaphysica specialis, tanto criticata al suo tempo da Kant.
 
Giuseppe Rinaldi
27/11/2015
30/12/2015 (rev.)
 
 
ABBREVIAZIONI
 
CRP = Critica della Ragion Pura
 
 
OPERE CITATE
 
2004   Ferraris, Maurizio
Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.
 
2008   Ferraris, Maurizio   (a cura di)
Storia dell'ontologia, Bompiani, Milano.
 
1972 Plantinga, Theodore
The Real Meaning of Kant, http://www.plantinga.ca/p/YAM.HTM
 
1999   Wolff, Christian
Metafisica tedesca (a cura di raffaele Ciafardone), Rusconi Libri, Milano. [1719]
 
 
NOTE
 
[1] Quest’articolo è nato in seguito all’esigenza di mettere in discussione alcuni assunti di base della cosiddetta filosofia continentale che solitamente sono dati per scontati, soprattutto nelle vulgate circolanti nel nostro Paese. L’ipotesi che è stata assunta è che l’intera filosofia continentale altro non sia se non una variegata filiazione della filosofia trascendentale inaugurata da Kant con la CRP. A ciò si sono aggiunte alcune fondamentali sollecitazioni contenute in Ferraris 2004 e Ferraris 2008. L’articolo si chiama Trascendentalia I perché (forse) potrebbe avere un seguito.
[2] Cfr. Plantinga 1972.
[3] La pubblicazione del Discorso di Cartesio è del 1637. La pubblicazione dei Saggi lockiani è del 1690. Hume aveva pubblicato nel 1739 il Trattato sulla natura umana senza molto successo e poi, una decina di anni dopo, le Ricerche sull’intelletto umano nel 1748. Kant progetta la CRP nel decennio precedente al 1781. La seconda edizione è del 1787. La questione della possibilità e dei limiti della conoscenza umana era ormai dibattuta da più di un secolo.
[4] Tale ad esempio era il programma che stava già dietro al Discorso sul metodo di Descartes. Dovrebbe essere subito evidente che un simile progetto andava ben oltre i limiti oggi comunemente imposti a qualsiasi epistemologia.
[5] L’ontologia era all’epoca una disciplina di nuovo conio, sebbene legata a tutti gli sviluppi filosofici precedenti nell’ambito della scolastica. Vedi Ferraris 2008.
[6] La cosa è evidente anche nel titolo dei suoi Prolegomeni. I filosofi trascendentali successivi a Kant continueranno a usare l’epiteto di scienza per indicare la metafisica.
[7] Su questo punto si veda Ferraris 2008.
[8] Uso questo termine al posto del troppo consumato e ormai inutile “essere”.  In inglese sarebbe un banale being.
[9] Si ricordi che, dal punto di vista del contesto storico – sociale, la filosofia di Locke è figlia indiretta della Gloriosa rivoluzione, sviluppatosi con successo un secolo prima della Rivoluzione francese.
[10] Nel dibattito odierno sulla modernità ci si è pronunciati spesso pro o contro l’illuminismo, senza tener conto che nell’illuminismo si sono combattute (almeno) due concezioni decisamente opposte della ragione.
[11] Su queste trasformazioni di campo, vedi Ferraris 2004.
[12] Sarà proprio quest’ambizione fondazionale a produrre quello sviluppo delle filosofie trascendentali che condurrà, un secolo dopo, alla costatazione del fallimento e dunque a tutte le problematiche legate al nichilismo. Chi piange sull’assenza di fondamento è perché non ha fatto altro che cercare fondamenti. Il difetto sta nel manico.
[13] Kant, nelle sue Lezioni di logica distingue accuratamente i due concetti della logica formale e della logica trascendentale.
[14] In effetti, se si considera Kant soprattutto come filosofo della conoscenza, ogni suo riferimento ai trascendentali medievali non può che suonare come estraneo e incomprensibile.
[15] Non perché avessero a che fare con la trascendenza divina. L’ens era il primo conosciuto, proprio perché era immediato ed elementare. Si poteva anche non sapere nulla di Dio, ma la mente umana poteva accedere alla conoscenza solo attraverso i trascendentali.
[16] Tipico è in questo senso Wolff 1999.
[17] Si parla di “forme pure” per sottolineare che non si trattava di nulla di sostanziale. Come se “trascendentale” avesse a che fare con qualcosa di non esistente. In effetti, nella CRP la esistenza sembra sparita del tutto: le forme pure trascendentali di per sé non hanno alcuna esistenza separata, l’esperienza è una rappresentazione, cioè una esistenza indebolita, mentre del noumeno si può solo presumere.
[18] Un’altra bufala della vulgata storiografica che va per la maggiore dipinge Hume come un nichilista e Kant come un salvatore dal tracollo scettico. In realtà Hume era colui che effettivamente aveva preso sul serio il discorso sui limiti della ragione. Il nichilismo invece sarà il tardo e amaro frutto proprio dei nipotini di Kant.
[19] I giudizi sintetici erano quelli che allargavano le nostre conoscenze con elementi nuovi.
[20] Detto più seriamente, tecnicamente la vecchia nozione della sostanza era diventata del tutto inutilizzabile.
[21] Lo spostamento del centro di gravità dall’oggetto al soggetto era stato un effetto delle teorie di Locke e Hume sulla sensibilità. Ma i due empiristi si erano ben guardati dal fare del soggetto il centro del mondo. Kant accetta lo spostamento d’accento verso il soggetto (non c’era altro da fare) e però fa del soggetto il centro del mondo (il co-produttore di tutte le rappresentazioni) riempendolo di intuizioni pure e di concetti puri.
[22] Uso questo termine per riassumere gli elementi trascendentali che compaiono nella CRP. Segnatamente le intuizioni, gli schemi, le categorie, l’Io penso, i principi e le idee. Va ricordato che Kant usa il termine “trascendentale” almeno in due modi diversi, riferendosi alla disciplina che studia un determinato oggetto e all’oggetto studiato.
[23] Che era, guarda caso, anch’esso un procedimento intriso di filosofia scolastica.
[24] È decisamente curioso che Tommaso d’Aquino definisse come analitico il procedimento di individuazione dei suoi trascendentali.
[25] Assai analoga a quella già tentata da Leibniz.
[26] In Italia, soprattutto per effetto del neokantismo, ma anche per mettere in evidenza una supposta novità radicale dell’idealismo tedesco, si preferisce chiamare criticismo la filosofia di Kant. In realtà la sua corretta definizione è quella di idealismo trascendentale. L’idealismo distanziandosi da Kant ha cercato così in un certo senso di occultare il suo peccato originale.
[27] Nella metodologia sperimentale si ritiene che quando lo strumento di osservazione altera l’oggetto osservato non si possa avere alcun tipo di conoscenza valida (si finisce per conoscere quello che lo strumento immette nell’oggetto). Per chi voglia divertirsi, si può fare un parallelo con i dibattiti – assai più seri – che hanno avuto luogo in fisica nella prima metà del secolo scorso a proposito del principio d’indeterminazione.
[28] Il tema dei limiti del soggetto è stato spesso richiamato nell’attuale dibattito intorno alla crisi del postmoderno e al nuovo realismo.
[29] Il mondo esterno o il mondo interno potranno così essere magari considerati come delle proiezioni inconsce del soggetto.
[30] Basti pensare alle molteplici analitiche che si sono succedute: le analitiche esistenziali, l’analitica freudiana, l’analitica fenomenologica. Neanche Foucault sfugge all’ombra dell’analitica. Neanche Marx. La stessa Fenomenologia dello Spirito di Hegel può essere configurata come un’analitica.
 

La cipolla di Kant

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1. L’andamento[1] del discorso kantiano nell’estetica trascendentale è molto schematico, riassuntivo e stranamente erratico. Le sue argomentazioni sono piene di accenni e poi di precisazioni; alcuni termini sono definiti, ma molti altri sono dati per scontati. Molto è lasciato in sospeso, affidato al non detto. Si tratta senz’altro di uno strano modo di cominciare, per un filosofo che è famoso per avere riflettuto criticamente sull’uso della ragione.
Il caso più tipico di questa situazione si ha in B 33 - B 36,[2] passi che costituiscono le prime pagine dell’estetica trascendentale. Sono passi fondamentali poiché stabiliscono i presupposti della Rivoluzione copernicana kantiana. Costituiscono anche il fondamento stesso dell’intera CRP. In quel che segue, ne faremo una lettura analitica, con particolare attenzione alle definizioni, alle questioni interpretative e ai problemi irrisolti. Nella prima parte ci occuperemo anzitutto di fare una ricognizione, comunque abbastanza elencativa e pedestre, dei concetti chiave usati da Kant per trattare della sensibilità. Nella seconda parte svilupperemo soprattutto alcune considerazioni critiche sull’impianto generale della teoria kantiana della sensibilità.
 
2. Prendiamo ora anzitutto in esame i termini e le definizioni usate da Kant nella trattazione della sensibilità. Abbiamo in primo luogo l’oggetto (Gegenstand[3]). Kant, fedele alla sua scelta di non occuparsi di questioni ontologiche e di seguire la falsariga epistemologica di Locke e di Hume, in B 33 assume come punto di partenza l’oggetto empirico.[4] Non dice però cosa sia effettivamente l’oggetto. Il requisito minimo sufficiente che egli richiede è che l’oggetto sia dato. Questa condizione è indubbiamente ancora quanto mai generica e sembra avere principalmente la funzione di fissare apparentemente un punto di partenza nell’esperienza comune.
2.1. Affinché possa essere conosciuto da noi, secondo Kant, occorre che l’oggetto produca,[5] in qualche modo, una qualche modificazione nel nostro “animo”.[6] Parrebbe così che l’oggetto sia da considerarsi come attivo soprattutto, per coerenza con la convinzione che il corrispettivo dell’oggetto attivo sia costituito da una nostra capacità di ricevere gli effetti dell’oggetto (recettività). Il fatto che l’oggetto sia attivo e la sensibilità sia passiva corrisponde peraltro a un antico schema della teoria della conoscenza che risale almeno ad Aristotele. Poiché manca totalmente una teoria dell’oggetto è inutile domandarsi cosa significhi un’attività dell’oggetto, anche se questa indeterminatezza avrà conseguenze piuttosto gravi.
2.2. La definizione iniziale dell’oggetto sarebbe dunque di tipo fenomenico e l’estetica kantiana sembrerebbe così prendere le mosse dall’esperienza. Tuttavia il carattere sintetico scelto per la trattazione ha indotto l’Autore ad affastellare in poche pagine una serie di ulteriori definizioni che sono ben lungi dal seguire il filo espositivo dell’esperienza. L’analisi trascendentale che Kant vorrebbe praticare sembra autorizzare il dispiegamento di elementi dalla natura veramente assai variegata o financo indeterminata.
 
3. La sensibilità (Sinnlichkeit) è la facoltà che presiede a regolare e organizzare la nostra recettività. Essa, secondo Kant, riceve dall’oggetto delle sensazioni disordinate e, grazie all’applicazione di una forma ordinata, produce intuizioni empiriche. Questa definizione tuttavia è nostra, perché in Kant tutto ciò non si trova detto con uno straccio di chiarezza. Vediamo qualche considerazione sulla questione.
3.1. Curiosamente, Kant, nelle sue definizioni a proposito della sensibilità, mette maggiormente l’accento sulla cosa per lui meno importante e cioè sul fatto che la sensibilità sarebbe la facoltà, o la capacità, che noi possediamo, di ricevere l’attività dell’oggetto, cioè le sensazioni. La cosa per lui più importante, e cioè la presenza nella sensibilità delle intuizioni pure, è lasciata in sottofondo ed enunciata abbastanza en passant. Definisce dunque Kant che la nostra sensibilità riceve le rappresentazioni «mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti», cioè, presumibilmente, che essa riceve sensazioni. Insomma, la sensibilità è ricettiva e riceve sensazioni dall’oggetto. Sembra di leggere Hume.
3.2. Sennonché la pagina è infarcita di altre osservazioni che riguardano le intuizioni. Kant dice, in B 33: «… gli oggetti ci sono dati per mezzo della sensibilità ed essa soltanto ci fornisce intuizioni». Appena prima aveva detto che il modo con cui una conoscenza qualsiasi si riferisce immediatamente agli oggetti è l’intuizione. Emerge così, affannosamente, come nella sensibilità ci siano contemporaneamente sensazioni e intuizioni e che, tra queste, intercorra una qualche differenza, che tuttavia non è enunciata esplicitamente. La pagina comunque è decisamente poco chiara, tanto da far sospettare un’esplicita volontà dell’autore.
3.3. La versione interpretativa cui è sospinto il lettore è che la facoltà della sensibilità riceva in ingresso, dall’oggetto attivo, le sensazioni, le quali modificano il nostro animo. E che però poi ci fornisca, come risultati o come prodotti, in uscita, delle configurazioni che si chiamano intuizioni empiriche, le quali sarebbero poi lo strumento di ogni riferimento all’oggetto che noi possiamo fare (anche attraverso l’intelletto). Oltre alle sensazioni provenienti dall’oggetto attivo, io posso dunque avere, nel mio animo, un gran numero d’intuizioni, ad esempio il tavolo intuito, il gatto intuito, il triangolo intuito, e così via, e posso riferirmi a loro immediatamente. Queste intuizioni così presentate sembrerebbero dei contenuti mentali, in realtà sono gli oggetti reali, esistenti, della nostra esperienza, che si trovano dentro e fuori di noi
Le sensazioni sono dunque in ingresso, come effetto degli oggetti, le intuizioni empiriche sono in uscita, come possibilità che abbiamo di riferirci immediatamente agli oggetti, tramite l’intelletto. Evidentemente non si tratta della stessa cosa e Kant si guarda bene dal dirlo. Solo nella pagina successiva emerge che la differenza tra sensazioni e intuizioni empiriche è dovuta alla presenza, nella sensibilità, delle forme pure organizzatrici delle sensazioni che saranno poi chiamate intuizioni pure. In che rapporti stiano tra loro sensazioni, intuizioni pure e intuizioni empiriche non è esplicitamente chiarito (vedi oltre).
3.4. A proposito della facoltà della sensibilità si pone il problema della sua attività o passività. Gli interpreti generalmente sostengono che la sensibilità sia passiva. Kant mette costantemente in contrasto la sensibilità passiva con l’intelletto che sarebbe invece spontaneo e attivo. Va osservato che, in generale, è assai difficile ritenere che una facoltà possa essere passiva, poiché l’idea stessa di facoltà implica il fatto di essere in grado di fare o produrre qualcosa. Secondo Kant tuttavia la sensibilità dovrebbe ricevere in input le sensazioni e produrre, in output, le intuizioni empiriche essendo però, per definizione, completamente passiva. Davvero difficile da credere, a meno che non si giochi con le parole.
 
4. La sensazione (Empfindung) che si ritrova nella sensibilità è definita esplicitamente da Kant come un effetto dell’oggetto. È senz’altro il primo effetto dell’attività dell’oggetto d’esperienza, quello dunque più vicino alla fonte, il tramite tra la fonte e noi. In B 34 si dice: «L’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi veniamo affetti dall’oggetto stesso, è la sensazione».[7] Kant della sensazione dice soltanto che è un effetto dell’oggetto e nient’altro. L’uso del termine “effetto” lascia comunque intendere che tra l’oggetto e la sensazione ci sia un rapporto di causa ed effetto. La cosa è del tutto ammessa nel sistema kantiano ma solo se l’oggetto e la sensazione sono fenomenici. Ci sono vari sospetti tuttavia che la sensazione, come tale, non possa essere fenomenica. Se lo fosse, infatti, non sarebbe più sensazione, bensì intuizione empirica. Questo è un primo grave indizio di circolarità di tutta la faccenda (vedi oltre).
4.1. Si potrebbe ritenere che la sensazione passi in qualche modo attraverso i sensi, oppure che sia un effetto dei sensi, ma Kant evita accuratamente di trattare dell’apparato sensoriale (problema che aveva invece affascinato Cartesio). Non è detto nulla neanche circa la relazione tra l’apparato sensoriale e la facoltà della sensibilità. Quel che gli interessa evidentemente è il percorso in generale dell’informazione e le sue metamorfosi. È probabile che qualsiasi discussione sul rapporto tra sensazioni e apparato sensoriale avrebbe decisamente ostacolato il tipo di analisi trascendentale che Kant intendeva portare innanzi.
4.2. Un elemento fondamentale, che non è espressamente enunciato ma che è detto di sfuggita, è che le sensazioni (ricevute / prodotte dall’oggetto) sono, secondo Kant, grezze e disordinate e dunque avrebbero bisogno di essere «poste in una determinata forma» (B 34).[8] Si noti che questo disordine delle sensazioni è un assunto teorico dato per scontato che non è per definizione empiricamente sperimentabile; nel sistema di Kant, infatti, possiamo sperimentare le sensazioni solo dopo che sono state ordinate. In assenza di qualsiasi accenno all’apparato sensoriale siamo indotti ad assumere il disordine originario della sensazione facendo riferimento ai nostri pregiudizi. Nella tradizione empirista, facendo appello all’esperienza, le sensazioni sono assai più ricche e vive delle idee. Le idee sono invece considerate come riassunti o addirittura come ombre delle sensazioni. Per Kant vale evidentemente il contrario, ma la questione non viene neppure posta. La strategia di Kant continua a mescolare appelli all’evidenza dell’esperienza e assunzioni teoriche che non possono in alcun modo essere sperimentate.
4.3. Solo se accettiamo a) che la sensazione proviene in qualche modo dall’oggetto attivo[9] e b) che è priva di ordine, allora il momento successivo deve diventare, lecitamente, quello del conferimento di un ordine (cioè di una forma) che non provenga dall’oggetto ma risieda da qualche altra parte e cioè nella facoltà della sensibilità stessa. Infatti, sappiamo che, nel sistema di Kant, solo grazie al conferimento di un ordine, la sensazione grezza potrà diventare finalmente intuizione empirica (vedi).
Anche se Kant non lo dice chiaramente, parrebbe dunque che la sensazione, pur non essendo empirica, sia distinguibile dall’intuizione e, soprattutto, che nel processo venga logicamente prima di essa.[10] La sensazione dovrebbe essere considerata come ciò (forse) che è ricevuto in ingresso dal lato dell’oggetto (e forse dei sensi, seppur ignorati da Kant), mentre l’intuizione empirica potrebbe essere considerata come ciò che viene elaborato dalla sensibilità e messo in uscita, dal lato del soggetto, per tutti gli usi successivi. A rigore, dunque, la sensazione dovrebbe costituire la materia grezza su cui lavora la sensibilità per produrre le intuizioni empiriche, che sono invece prodotti elaborati e ben ordinati. Pare questo il miglior resoconto possibile di quel che Kant enuncia confusamente a proposito della sensazione.
4.4. Anche così, la natura della sensazione resta tuttavia pur sempre problematica. Si tratta di un elemento di cui sappiamo principalmente che è disordinato e che tuttavia proviene in termini causali da qualcosa come l’oggetto empirico. La sensazione come tale inoltre, non essendo ancora stata elaborata, cioè messa in ordine, non sarebbe di per sé compiutamente “sensibile”, cioè non potrebbe essere rappresentata, allo stato grezzo, dalla sensibilità stessa. Infatti la sensazione non è in alcun modo un contenuto elaborato e rifinito della sensibilità, ne rappresenta al più la materia. La sensazione grezza in sé sarebbe così del tutto sconosciuta sul piano dell’esperienza. Insomma, la sensazione grezza dovrebbe essere una cosa che c’è e non c’è. Una cosa che sta in un limbo che non è più l’oggetto empirico ma che non è ancora un’intuizione empirica.
 
5. L’intuizione (Anschauung) è decisamente, per un complesso di motivi strutturali, una delle entità più problematiche e sfuggenti dell’Estetica trascendentale. Ne è tuttavia il concetto più importante ed è davvero irritante il fatto che Kant ne tratti per accenni, in modo poco sistematico, con continue aggiunte e precisazioni, tanto da costringere il lettore a una continua fatica interpretativa.
5.1. Anzitutto dobbiamo segnalare che intorno a questo termine c’è un grave problema di traduzione. Alla lettera, Anschauung vorrebbe dire “modo di vedere”. Dunque, quella che i nostri traduttori chiamano “intuizione” sarebbe piuttosto una visione dell’oggetto, una prospettiva, forse meglio di tutto, una veduta. Sarebbe accettabile anche il nostro termine immagine, se inteso in senso ampio e non solo visivo. Il termine Anschauung usato da Kant non c’entra proprio niente con quel che normalmente s’intende con il termine intuizione. In tedesco, infatti, l’intuizione come cosa, come oggetto,[11] si dice Eingebung; oppure l’intuizione intesa come facoltà (il nostro intuito) si dice Intuition. Per questo i nostri traduttori, facendo le acrobazie, tentano di suggerire che l’intuizione è un modo (senza però mettere neanche uno straccio di nota in merito – anche tra i traduttori ci sono delle vulgate che si trasmettono e di cui s’è persa la memoria d’origine). L’effetto è di rendere il testo ancor più oscuro. C’è una ragione storica per questo travisamento, ma non è qui il caso di divagare più di tanto. Il travisamento c’è e basta.
Se avessimo il coraggio di sostituire il termine fuorviante con uno più adatto (ad esempio quello di “immagine”), avremmo un panorama diverso. Avremmo una narrazione secondo cui nella facoltà della sensibilità stanno delle immagini pure (lo spazio e il tempo); la sensibilità dal canto suo produrrebbe delle immagini empiriche che corrisponderebbero a: (sensazione grezza + immagini pure). L’immagine empirica generica sarebbe allora detta fenomeno immaginato/ riprodotto e non ancora pensato. Purtroppo l’uso di “intuizione” è dilagato (anche in inglese c’è esattamente lo stesso problema) per cui non possiamo fare altro che rassegnarci.[12]
5.2. La definizione esplicita del termine intuizione, subito presentata da Kant in B 33, non chiarisce gran che. L’intuizione sarebbe un modo (nel senso di una vista, un’immagine, come s’è detto) con cui una conoscenza si riferisce immediatamente all’oggetto. Dobbiamo così pensare che la sensazione prodotta in noi dall’oggetto attivo, essendo come sappiamo grezza e disordinata, non produca nulla di compiuto rispetto all’oggetto. L’intuizione (nel senso di vista, prospettiva o immagine) sarebbe invece la prima “fotografia” dotata di senso compiuto dell’oggetto (escludendo ovviamente qualsiasi operazione intellettuale).
5.3. Kant non spiega chiaramente la differenza tra la sensazione grezza e l’immagine compiuta dell’oggetto. Occorre fare parecchia fatica per districarsi tra cose mezze dette e cose non dette, o dette nei posti più strani. L’immagine compiuta dell’oggetto è in realtà, secondo Kant, il risultato di una lavorazione. Il termine più corretto, più conclusivo, più vicino al prodotto finale della sensibilità è quello di intuizione empirica. L’intuizione empirica allora è la prima rappresentazione compiuta dell’oggetto che abbia un suo senso e che dunque possa riferirsi immediatamente all’oggetto. Ciò pur essendo la sensazione più prossima all’oggetto empirico in quanto direttamente proveniente da esso. Scopriremo solo a fatica che l’intuizione empirica è in realtà l’oggetto (vedi oltre).
In B 34 si fornisce la seguente definizione di intuizione che è tuttavia riduttiva, fino al limite di dover essere considerata errata: «L’intuizione che si riferisce all’oggetto mediante una sensazione, dicesi empirica». Si tratta di una definizione incompleta e quindi fuorviante poiché non segnala che nell’intuizione empirica è già intervenuta l’intuizione pura ed è già in essa compresa. Per capire bene la questione, occorre confrontare B 34 con quanto sostenuto da Kant in B 36. Concludendo, in una definizione di intuizione empirica Kant avrebbe forse dovuto dire qualcosa di simile: “Dicesi empirica l’intuizione che si riferisce immediatamente all’oggetto, cioè lo costituisce, usando come materia le sensazioni grezze e come forma le intuizioni pure”.[13] Kant tuttavia non lo dice chiaramente. Nell’intuizione empirica, concludiamo noi, si realizza dunque la prima sintesi a priori della CRP, solo la prima di molte altre che verranno.
5.4. Nell’intuizione empirica si fondono dunque il disordine ipotetico delle sensazioni grezze con l’ordine delle forme pure (chiamate intuizioni pure). Da questa fusione nasce il risultato, ossia proprio l’intuizione empirica. La tesi fondamentale dell’estetica trascendentale può dunque essere così formulata: intuizione empirica dell’oggetto empirico = [sensazioni grezze + intuizioni pure]. L’intuizione empirica del gatto Tom è uguale alla sommatoria delle sensazioni grezze e disordinate che ricevo da lui - senza peraltro che io ne abbia alcuna chiarezza e consapevolezza - (ad es. colore, pelo, coda, zampe, “miao - miao” e quant’altro), le quali però sono messe in ordine soltanto grazie alle mie intuizioni pure. Per quel che ne sappiamo del sistema kantiano, l’intuizione empirica del gatto Tom coincide tuttavia con il gatto Tom esistente. Le intuizioni empiriche costituiscono i fenomeni della nostra esperienza. Un attimo fa ci occupavamo di conoscenza e ora scopriamo che la conoscenza, in realtà, produce l’esperienza stessa che ci accingiamo a conoscere. Si tratta di un clamoroso circolo vizioso.
5.5. Onde impedire la moltiplicazione in senso numerico del gatto Tom, andrebbe aggiunto che le mie intuizioni pure, che stanno nella mia sensibilità, sono uguali a quelle degli altri umani, operano esattamente nello stesso modo e i prodotti, ahimè non sappiamo come, si sovrappongono nello stesso esemplare empirico, per cui, finalmente, chiunque può condividere con me l’intuizione empirica del gatto Tom.[14] In altri termini, la facoltà della sensibilità (con le relative intuizioni pure) dovrebbe essere assolutamente uguale in tutti gli “animi”, i quali opererebbero in parallelo per produrre tutti la medesima esperienza. Questo è un esempio di dove possono condurre le elucubrazioni trascendentali. Su quale base si può affermare che la facoltà della sensibilità sia uguale in tutti i soggetti e operi allo stesso modo? Le casistiche empiriche, piuttosto impressionanti, di funzionamenti assai diversi della sensibilità da un individuo all’altro sono del tutto ignorate. Kant se la caverebbe dicendo che in tutti gli “animi” ci sono le stesse forme pure.
5.6. Poiché in generale la sensibilità è considerata passiva da Kant, l’intuizione empirica generata dovrebbe dunque assomigliare a un’impressione, una stampa che viene esercitata in me dall’oggetto. Tuttavia s’è detto che le sensazioni grezze devono essere ordinate dalle intuizioni pure. Non è del tutto chiaro se le intuizioni pure che mettono in ordine il disordine sono passive o attive. Ciò sarà fonte di grande ambiguità e di facili stravolgimenti. Torneremo sulla questione.
5.7. Ma l’intuizione non è anche una facoltà? L’intuizione empirica è il risultato della sensibilità (come s’è detto, è l’immagine, la prospettiva, il modo di vedere un oggetto) e quindi non è mai confondibile con la facoltà della sensibilità (anche se lo stesso Kant e la cattiva traduzione hanno contribuito ad alimentare la confusione). C’è però in Kant stesso e in parecchi commentatori la tendenza a trattare l’intuizione anche come una facoltà. L’intuizione, ambiguamente, vien trattata ora come una facoltà (o un modo), al posto della sensibilità, ora come un risultato della facoltà stessa. Se dico «l’intuizione del tavolo» intendo, in italiano, l’atto intuitivo mediante cui avrò come risultato «l’intuizione del tavolo», cioè il tavolo intuito. Il primo sembrerebbe attivo, il secondo passivo. In realtà sappiamo che la stessa sensibilità non dovrebbe essere attiva. Men che mai le intuizioni empiriche, che sono i contenuti della sensibilità, dovrebbero essere attivi. Se le intuizioni empiriche sono delle Anschaaung non dovrebbero essere attive.
L’elasticità semantica segnalata deriva dal fatto, ahimè, che Kant ha altrove disquisito dell’intelletto come facoltà discorsiva e della sensibilità come facoltà intuitiva (qui la qualificazione di intuitiva ha che fare con l’immediatezza, in ossequio al linguaggio scolastico). Così la confusione tra l’atto intuitivo e il prodotto intuito si è insediata permanentemente in tutta la CRP.
5.8. Il problema dell’eventuale attribuzione di un’attività alle intuizioni empiriche è dovuta alla loro duplice natura. La questione non è peregrina e ha risvolti relativi alla natura non ben precisata delle sensazioni e delle intuizioni pure. Non si può semplicemente sostenere che le intuizioni pure vengano semplicemente aggiunte alle sensazioni grezze (come invece, sul piano sensoriale, io posso aggiungere una macchia nera sul muso al gatto Tom intuito). Mettere in ordine le sensazioni grezze non dovrebbe comportare banalmente solo l’aggiunta di due nuove sensazioni (lo spazio e il tempo), dovrebbe comportare invece un’elaborazione. Per cui le intuizioni pure dovrebbero avere una natura diversa rispetto alle sensazioni grezze. Dovrebbero contenere l’ordine, o la capacità di ordinare. L’ordine è qualcosa che si fa o una cosa che si aggiunge? Si noti che il termine forma usato da Kant è compatibile con entrambi i significati. Di tutto ciò nulla si dice.[15] Un’interpretazione assai caritatevole asserisce che le intuizioni pure sarebbero delle regole. Torneremo su questo assunto.
5.9. Kant non chiarisce granché neanche la distinzione tra intuizione empirica e fenomeno. Sono o non sono la stessa cosa? In questo caso almeno pare ci sia un’interpretazione accettabile, anche se non è detta esplicitamente. Si usa “intuizione empirica” quando ci si riferisca a ciascuna delle singole intuizioni numericamente plurime: avremo il gatto Tom intuito, il tavolo intuito, avremo capre e cavoli intuiti e quant’altro. Sono tutte singole intuizioni empiriche (singole immagini, viste). Quando invece ci si voglia riferire a una generica intuizione empirica, allora si usa fenomeno. Quando si vogliano individuare i componenti generici del fenomeno, allora si userà materia (al posto delle sensazioni grezze) e forma (al posto delle intuizioni pure). Così si può finalmente capire cosa vuol dire Kant ove dice in B 34.4 che: «L’oggetto indeterminato d’una intuizione empirica prende il nome di fenomeno».
 
6. Il fenomeno (Erscheinung = apparenza, apparizione, visione) è il prodotto finale della facoltà della sensibilità, soltanto però, come s’è detto, quando sia considerato in termini generici. Quando è considerato in termini specifici si deve parlare di intuizione empirica (vedi). In B 34.4 abbiamo la definizione di Kant che corrisponde a questa interpretazione: «L’oggetto indeterminato d’una intuizione empirica prende il nome di fenomeno».
Nel fenomeno sono già congiunti la materia e la forma. Infatti, in B 34.6 e segg. il fenomeno è oggetto di una distinzione interna tra una materia e una forma. Tuttavia secondo Kant si può operare questa distinzione/ separazione soltanto in termini trascendentali.
Kant ogni tanto parla anche di rappresentazioni. Sembra tuttavia abbastanza accertato che questo per lui sia un termine generico e non abbia, in questo contesto, alcun bisogno di una definizione specifica. Ci sarebbero anche delle rappresentazioni pure (B 34.15) che tuttavia (forse) possiamo assimilare alle intuizioni pure.
 
7. Quelli che abbiamo finora presentato e discusso sono i concetti fondamentali che Kant impiegherà nella sua estetica trascendentale. Ora che abbiamo conseguito qualche miglior chiarezza sui termini e sulle definizioni (anche se molti punti oscuri sono rimasti), possiamo cercare di comprendere meglio come funzioni, secondo Kant, la facoltà della sensibilità. Diciamo pure che si tratta di una ricostruzione perché Kant un quadro compiuto non lo fornisce proprio.
Ci è sembrato di poter individuare un certo numero di passaggi che portano al risultato finale che sarebbe costituito, come s’è visto, dall’intuizione empirica o, se si preferisce, dal fenomeno. Si tratta di passaggi logici, che tuttavia, in certi casi, hanno anche un senso temporale (anche se per Kant il tempo dovrebbe stare solo nel fenomeno!). Questi passaggi poi non è chiaro dove stiano esattamente. Quale sia cioè la loro localizzazione. Dire che stanno “nella sensibilità” è assai vago, come pure dire che stanno nel soggetto, oppure, come traduce Gentile, che stanno nello spirito. I sensi non sono neanche considerati. Mente è un termine che con Kant è difficile da usare, anche se nelle traduzioni in inglese s’impiega comunemente mind. Dire come fa Kant che stanno nell’animo (Gemüt) è poi vaghissimo.
Il procedimento che Kant ha in mente, comunque, sembra il seguente:
 
0 – Oggetto empirico
1 – Attività dell’oggetto dato
2 - Sensazione grezza
3 – Intuizione empirica (con dentro 3.1 sensazione grezza + 3.2 intuizioni pure).
4 – Fenomeno. Corrisponde all’intuizione empirica, quando questa sia considerata in generale. In tal caso, la 4.1 materia del fenomeno corrisponde alle sensazioni grezze, mentre la 4.2 forma del fenomeno corrisponde alle intuizioni pure.
 
È bene precisare subito che il passo 4 è solo un doppione del passo 3. Mentre l’intuizione empirica rappresenta l’oggetto particolare, il fenomeno è, infatti, una specie di denominazione generica delle stesse intuizioni empiriche.
Occorre anche precisare che, in generale, la sensibilità non andrebbe isolata dall’attività dell’intelletto. È quasi un luogo comune della CRP la frase di Kant, in B 75, secondo cui «I pensieri senza contenuto sono vuoti. Le intuizioni senza concetti sono cieche». In questo contesto tuttavia non ci interessano i collegamenti tra le intuizioni empiriche e i concetti puri. Siamo particolarmente interessati a questioni di fondazione e quindi al processo di formazione delle intuizioni empiriche.
 Nei prossimi paragrafi prenderemo in esame alcune delle questioni particolarmente problematiche che emergono dalla ricostruzione della teoria kantiana della sensibilità che abbiamo tentato di fare.
 
8. Anche così schematizzato, il funzionamento della facoltà della sensibilità non è scevro da difficoltà interpretative. Anzi, si può dire che le difficoltà interpretative aumentino non appena si cerchi di ottenere una visione d’insieme. Le maggiori difficoltà riguardano ovviamente i passaggi o-2. Nonostante le definizioni tentate da Kant, non è assolutamente chiaro che cosa sia l’oggetto, come l’oggetto possa avere un’attività produttrice di sensazioni grezze e cosa siano le sensazioni grezze stesse. Alcuni problemi sono già stati segnalati nelle definizioni, ma ora li riprenderemo alla luce dello schema generale tracciato.
8.1. Prendiamo anzitutto in considerazione quel che precede (logicamente e/o temporalmente) il punto 3, cioè quel che precede l’intuizione empirica. Sono i passi che spiegano la costituzione dell’elemento più rilevante di tutta l’estetica. Per la comprensione del processo è essenziale chiarire meglio quale sia la natura dell’oggetto, dell’attività dell’oggetto e della sensazione grezza che è, come s’è detto, un effetto dell’oggetto.
La maggior difficoltà in assoluto che si incontra riguarda il fatto che, nel sistema kantiano, i passi 0 e 3 coincidono. Sono cioè esattamente la stessa cosa! La conoscenza kantiana dell’oggetto è quindi un processo assolutamente circolare. Se c’è un oggetto che agisce sulla mia sensibilità producendo un flusso di sensazioni grezze, quest’oggetto – nel sistema di Kant - deve già essere un’intuizione empirica. Sennò non potrebbe fare alcunché, almeno nel mondo dell’esperienza. Quella che nel linguaggio comune chiamiamo attività di qualche oggetto nella nostra esperienza (il sole mi scalda, la pioggia cade, il gatto Tom mi graffia) è già intuizione empirica. Tom non potrebbe graffiarmi se io e lui non condividessimo già lo spazio e il tempo[16]. Quelle che nella nostra esperienza chiamiamo comunemente “sensazioni” (sento dolce, vedo rosso, è rugoso al tatto, Tom ha un baffo rotto, sento una puntura di spillo) non possono essere le sensazioni grezze, sono già esperienze, sono già tutte intuizioni empiriche. Insomma, tutto quel che accade a livello di esperienza non può che essere, kantianamente, intuizione empirica in senso particolare, o fenomeno in senso generale. Siamo al livello di quel tale che aveva scoperto, con grande sorpresa, di parlare in prosa.
8.2. Fintanto che gli eventi si situano nel mondo dell’apparenza fenomenica, ci sono oggetti che mandano sensazioni e altri che le ricevono, ma rimaniamo sempre nel mondo dell’apparenza, siamo prigionieri nel mondo dell’apparenza. Tutta la merce circolante è apparenza fenomenica. La narrazione trascendentale deve spiegare allora come sia possibile che ci sia un’altra realtà, che stia al di là dell’apparenza o sotto il limite dell’apparenza. E, soprattutto, come sia possibile l’andirivieni tra questi due mondi. Il problema specifico di Kant è che, per sorreggere il suo sistema trascendentale, nella sensibilità deve comparire (pur non potendo farlo) una sensazione grezza, disordinata, cioè una sensazione che non è ancora spazio temporale, o che non ce la fa ancora a esserlo.
 8.3. Una soluzione possibile, seppur assai macchinosa, è che la sensibilità – pur ospitando le forme pure al proprio interno (finora è un’ipotesi) – le faccia intervenire solo in uscita e non in entrata. La sensibilità in entrata, cosa di cui non possiamo accorgerci, sarebbe limitata e riceverebbe dall’oggetto empirico solo la materia (cioè un’informazione grezza, disarticolata). Si noti che, in tal modo, la sensibilità periferica tratterebbe l’oggetto empirico come se fosse fuori dal tempo e dallo spazio, cioè come se fosse una cosa in sé. Come se la sensibilità periferica non fosse in grado di accedere al livello dell’ordine spaziale e temporale. Poi le forme pure che abitano la sensibilità sarebbero unite alla materia grezza e così, finalmente, avremmo l’intuizione empirica, cioè l’esperienza (passo 3).
Secondo questa versione, per esemplificare, lo spillo empirico che sento pungermi il dito nella mia esperienza fenomenica, in realtà a livello di sensazione grezza, non è localizzato da nessuna parte e la puntura non ha nessuna durata precisa, non ha un inizio e una fine. Solo dopo che le forme si sono unite alla materia grezza io posso allora localizzare, posso sentire la puntura e posso rendermi conto (col concorso dell’intelletto) che ho ricevuto una puntura sul dito. Insomma, la forma non è trasmessa per via sensibile, poiché già risiede nella sensibilità del soggetto. L’unica cosa che viene trasmessa, a livello della sensibilità, è la materia (cui il soggetto poi applica le sue forme). Noi però, per definizione, non abbiamo modo di accertare questa trasmissione della sola materia. Può darsi che la sensibilità funzioni così, ma Kant non lo dice.
8.4. Tutto ciò vale rispetto alla sensazione grezza. Kant postula tuttavia anche un oggetto empirico attivo che è quello che produce la sensazione grezza. In che senso dobbiamo intendere l’attività produttiva dell’oggetto empirico? Qui ritroviamo gli stessi problemi. L’attività dell’oggetto empirico può, a questo punto, collocarsi a due diversi livelli di realtà: a) l’oggetto empirico può essere attivo – come s’è visto - a livello d’intuizione empirica (e quindi il tutto resterebbe al livello dell’apparenza, del fenomeno); b) oppure si può ipotizzare un altro tipo di attività - vogliamo dire un’attività parallela? - che abbia effetti che stanno al di là dell’apparenza o al di sotto dell’apparenza.[17] Per quanto ciò possa essere assurdo, l’oggetto empirico kantiano dovrebbe produrre quelle sensazioni grezze (la materia) che non riescono ancora a giungere alla soglia dell’apparenza fenomenica e che perciò sono disordinate, mancano di un ordine nello spazio e nel tempo, come s’è visto nel paragrafo precedente.
Se l’effetto dell’oggetto empirico sta sotto la soglia dell’apparenza, io che sto nell’apparenza non lo posso cogliere, se non dopo che l’ho fatto rientrare nel mondo dell’apparenza, appiccicandogli lo spazio e il tempo. Ma dopo che è entrato nel mondo dell’apparenza, l’altro mondo sub limine, il circuito della materia in sé, scompare, anzi, non si può neppur dire che ci sia mai stato, e ci sarà solo Kant che cercherà di spiegarmi, in termini trascendentali, come l’intuizione empirica (il fenomeno) sia legittimamente un prodotto della sensazione grezza e delle forme pure. Qui si manifesta in pieno una certa tendenza della filosofia continentale a sostenere che una cosa non è quel che sembra ma è in realtà qualcos’altro. Possiamo parlare di «filosofia del sospetto».
 
9. Passiamo ora a esaminare il punto 3 dello schema, ove nuovamente ritroveremo la questione della circolarità. L’intuizione empirica per Kant, è l’unica cosa che esiste effettivamente. Proviamo allora a descrivere quel che avviene nel punto 3, cioè quel che avviene nel mondo dell’esperienza reale. In fondo per Kant, l’intuizione empirica è la realtà singolare.[18] La realtà generica è il fenomeno. Quel che esiste a questo stadio può essere così descritto: «Ora davanti e dentro a me, che sono il soggetto, si dà la mia l’intuizione empirica dell’oggetto. Il che equivale a dire che davanti e dentro a me ora c’è (esiste) l’oggetto (ordinato nel tempo e nello spazio) che io posso manipolare, esperire, eventualmente pensare».
Questa sarebbe la descrizione dell’esperienza reale del soggetto. Si noti che è assolutamente uguale a quanto descriverebbe il senso comune. Il fatto è che in questa situazione non c’è alcun aggancio che permetta di accedere al livello trascendentale (tranne la narrativa trascendentale, cui si può credere o meno e che, come s’è visto è ampiamente contradditoria, oltre che imprecisa e contorta). In questa situazione, infatti, non c’è alcuna distinzione tra l’oggetto empirico e l’intuizione empirica. Il punto 0 e il punto 3 diventano esattamente la stessa cosa. D’altro canto i punti 1 e 2 sono, per definizione, inaccessibili dal mondo dell’esperienza e di loro si può dir qualcosa solo attraverso la narrazione trascendentale a forza di esposizioni e deduzioni. Dentro il passo 3 stanno poi le forme pure (3.2) che, è bene ricordare, non sono banalmente sensazioni come le altre e che non provengono dall’oggetto ma dalla sensibilità stessa. Ebbene, anche le forme pure in quanto tali sarebbero inaccessibili al soggetto.[19] L’apparenza fenomenica sarebbe così costituita, a sua insaputa, da meccanismi che non possono che restare celati e ignoti. Si tratta di una specie di logica inconscia, ricostruita per via analitica, cui dovremmo credere poiché sarebbe giustificata dalla narrazione trascendentale kantiana.
Insomma, ci troviamo continuamente di fronte al paradosso che ciò che dovrebbe avallare e giustificare la narrazione trascendentale abbisogna a sua volta di una narrazione trascendentale. La filosofia trascendentale sta chiusa, ahimè, in un circolo vizioso autoreferenziale. Del resto, su questa strada, sarà Hegel a fare l’elogio della circolarità.
 
10. Passiamo ora a qualche ulteriore riflessione a proposito delle forme pure (punto 3.2 dello schema). La distinzione tra materia e forma è presentata per la prima volta a proposito del fenomeno in B 34, dove si dice che la forma è: «…ciò in cui le sensazioni soltanto si ordinano e possono esser poste in una determinata forma».[20] La forma è dunque ciò che conferisce una forma. Quasi lapalissiano.
Emerge qui tuttavia un elemento che Kant dà evidentemente per scontato ma che è tuttavia un assunto fondamentale: il fatto che l’oggetto empirico produca solo delle sensazioni non ordinate e che l’ordine debba essergli imposto da qualche altra fonte. Solo a questo punto Kant prova a giustificare la natura formale e non empirica dell’ordine imposto alle sensazioni grezze. Kant asserisce anzitutto, quasi en passant, un’argomentazione fondamentale della sua costruzione e cioè che se la forma deve ordinare le sensazioni grezze, intanto non può essere essa stessa una sensazione.[21] Su questa base possiamo almeno affermare con certezza che le forme della sensibilità (quelle che saranno poi indicate come spazio e tempo) non sono sensazioni.[22]
Secondariamente, secondo Kant, le forme ordinatrici devono preesistere, devono precedere le sensazioni grezze prive di ordine. Soltanto in base alla necessaria preesistenza della forma, Kant asserisce che le forme debbono essere a–priori, mentre la materia può essere a-posteriori (cioè sempre nuova, ipoteticamente infinita). Non è chiarissimo cosa voglia dire preesistenza delle forme. Un’analogia adeguata potrebbe forse essere quella di un recipiente vuoto, un recettore, in attesa di essere riempito da qualcosa che assumerà la forma stessa del recipiente.[23] Kant forse vuol dire che le forme sono una caratteristica costitutiva stabile e permanente dell’animo. E comunque, se sono preesistenti, si conferma che le forme sono separabili dal resto in termini di distinctio realis.
 
11. È abbastanza chiaro che tutto il sistema kantiano della sensibilità si regge sullo strano elemento a doppia faccia che è l’intuizione empirica, dove avviene, al livello infimo delle facoltà, la prima sintesi a priori. L’intuizione empirica è una, ma dentro ci sono due cose. È una e bina! Tra la forma e la materia kantiane, per usare il linguaggio della scolastica, non c’è solo una distinzione di ragione, bensì c’è una distinzione reale.[24] Kant dice esplicitamente che le forme sono separabili dal resto. In B 34 si dice che la forma «[…] deve pertanto poter essere considerata separatamente da ogni sensazione». L’affermazione è importantissima perché attesta la separabilità effettiva della componente formale la quale si ritrova nel fenomeno, ma non ha origine nell’oggetto, ma nella sensibilità del soggetto.
La separabilità delle intuizioni pure dalle sensazioni grezze sembra comprovare che Kant, in fondo, condivida una concezione additiva dei due componenti dell’intuizione empirica (o, in generale, del fenomeno). La cosa però è piuttosto contradditoria, poiché così facendo si suggerisce che gli addenda siano dello stesso tipo, mentre altrove si sostiene che siano di tipo diverso. Come possa avvenire il magico incontro tra la sensazione grezza e le intuizioni pure, dato che sono di tipi diversi sembra destinato a restare alquanto misterioso. Si noti che noi sappiamo che sono di tipi diversi, ma Kant non ha ben chiarito quale sia la natura dell’una e delle altre.
 
12. A questo punto, dovremmo domandarci quale sia la natura effettiva delle forme kantiane. Si noti che l’intera Dottrina degli elementi è completamente volta a identificare le forme più svariate (intuizioni, schemi, concetti, principi, idee) senza mai dichiarare esplicitamente cosa sia una forma. Qualcuno sostiene che la cosa fosse del tutto chiara nella comunità filosofica cui Kant si rivolgeva, ma pare proprio, da varie testimonianze e aneddoti, che non fosse così. Una riprova della scarsa chiarezza originaria circa la natura delle forme kantiane è costituita dal fatto che i filosofi dopo Kant ne hanno dato le interpretazioni più varie. Del resto anche noi, modestamente, su tre pagine di Kant siamo riusciti a scriverne una quindicina delle nostre, restando ancora con una marea di punti interrogativi.
C’è spazio, a proposito della natura delle forme kantiane, per almeno un’altra quindicina di pagine da consacrare a un altro articolo o a un’altra serie di articoli. Sulla natura delle forme kantiane mi limito a una citazione di seconda mano che però è davvero interessante: «In response to Fichte’s work Kant very forcefully made the point that a metaphysics is included in his system of transcendental philosophy and that he had worked out such a metaphysics himself in the Critique of Pure Reason».[25]
 
13. Nelle poche pagine che abbiamo analizzato, Kant, per quanto, come s’è visto, in modo piuttosto traballante, presenta i fondamenti della sua nuova scienza, l’estetica trascendentale e chiarisce il suo programma di lavoro.
Ritenendo di avere mostrato come l’intuizione empirica abbia bisogno necessariamente dell’intuizione pura, in B 35, Kant dichiara che l’estetica trascendentale è la «scienza di tutti i principi a priori della sensibilità». Questo significa che lo studio specifico delle varie intuizioni empiriche vien lasciato alle singole scienze della natura. Il filosofo invece, nell’ottica di una metafisica in quanto scienza, potrà ora dedicarsi a questa nuova scienza dei principi a priori. Del resto Kant ritiene di avere mostrato l’esistenza[26] di un nuovo campo d’indagine – i principi a priori della sensibilità. Un campo d’indagine che è stato, per modo di dire, creato dal nulla, proprio attraverso la narrazione trascendentale, poiché prima proprio non esisteva.
In B 36, dopo aver fornito le varie definizioni, alquanto approssimative, come s’è visto, Kant enuncia il programma di lavoro dell’estetica trascendentale. Esso prevede di separare, anzitutto, la sensibilità dall’intelletto «[…]affinché non rimanga altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, da questa separeremo ulteriormente tutto ciò che appartiene alla sensazione, onde null’altro rimanga se non l’intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, ossia l’unica cosa che la sensibilità possa fornire a priori». Da ciò si desume, finalmente, quel che avevamo sospettato, cioè che nell’intuizione empirica siano già presenti e operanti le forme a priori della sensibilità. Si desume che la sensazione (che non può mai essere a priori) sia solo una parte dell’intuizione empirica. In effetti, in linee generali, ciò che è empirico (cioè sperimentabile) dovrebbe avere già una forma nello spazio e nel tempo. Si suggerisce anche – come si è già detto – che tutte le componenti del fenomeno siano additive e si possano comporre e scomporre, più o meno come le foglie di una cipolla. La strategia analitica della nuova scienza sembra, appunto, proprio quella che si usa con la cipolla, cioè si tratta di continuare a togliere quel che non serve, di continuare a sfogliare, finché non resta quel che interessa, il nucleo, cioè le forme pure della sensibilità.
 
14. Il proseguimento dell’impresa dell’estetica trascendentale ha una qualche giustificazione solo se si ritiene fondato quanto finora è stato sostenuto da Kant, esplicitamente o, soprattutto, implicitamente. Kant ha giocato tutta la CRP su queste poche confuse paginette. Apparentemente la sua strategia espositiva sembra quella di un Locke o di uno Hume. Esclude qualsiasi discorso ontologico riguardante l’oggetto, il corpo e gli organi di senso. Dice il meno possibile (o forse il minimo indispensabile) della facoltà della sensibilità. Solleva un gran polverone sull’intuizione empirica che è la nozione cruciale, ove si promuove la teoria per cui le sensazioni grezze hanno bisogno di un ordine che non può che provenire dalla stessa facoltà della sensibilità. La vera bomba nascosta nelle paginette che abbiamo esaminato, e che sarà tosto esplicitata, è che le forme pure della sensibilità, che sono state introdotte come generiche forme, come istanze d’ordine nei confronti delle anarchiche sensazioni grezze, sono poi nientemeno che lo spazio e il tempo.
Spazio e tempo, in termini operativi, erano senz’altro gli elementi portanti della fisica del tempo. Potevano sembrare quanto di più lontano dall’essere considerate delle entità logiche. Kant del resto aveva separato nettamente la sensibilità dall’intelletto. In realtà, spazio e tempo erano anche due categorie aristoteliche e avevano il loro bravo risvolto logico. Considerazioni di tipo logico a proposito dello spazio e del tempo erano già comparse nella filosofia tedesca e Kant le conosceva bene. Il fatto di aver collocato lo spazio e il tempo dentro alla sensibilità, dentro a una facoltà dell’animo che si trovava al gradino infimo, e di averli tuttavia fatti agire in maniera logica (il conferimento di ordine), è stata comunque la mossa fondamentale. Una volta accettate queste quasi innocenti premesse, tutto il resto sarebbe rimasto in piedi da solo, quasi per miracolo. Questo è forse il motivo per cui l’estetica doveva andar via veloce e le premesse-capestro dovevano essere possibilmente celate, mascherate, non riconoscibili immediatamente.
 
15. Se le premesse del sistema kantiano della CRP sono così arbitrarie, deboli e confuse - come abbiamo potuto costatare in questa nostra seppur affrettata lettura di un campione di poche pagine - perché mai egli ricopre, ancor oggi, un posto così rilevante nella storia della filosofia? Perché chiunque si occupi di filosofia non può fare a meno di conoscere approfonditamente Kant? Perché studiare Kant è ancora oggi assolutamente necessario? C’è una sola risposta plausibile. Perché i filosofi che sono venuti dopo Kant (i cosiddetti filosofi continentali) hanno perseverato nell’errore di Kant, anzi l’hanno moltiplicato e ingigantito, tanto da avere completamente dimenticato le deboli e confuse premesse iniziali. Conoscere Kant è effettivamente indispensabile perché senza di lui, senza il suo peccato originale, consumato nel giardino dell’estetica, non si riuscirebbero a intendere due secoli di (piuttosto vacui) dibattiti filosofici. Soprattutto, non si riuscirebbe a capire perché mai i filosofi continentali continuino ancor oggi ostinatamente a sfogliare la cipolla.
 
Giuseppe Rinaldi
30/12/2015
 
 
OPERE CITATE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
 
2006 Bird, Graham
The Revolutionary Kant. A Commentary on the Critique of Pure Reason, Open Court Publishing Company, La Salle, Illinois.
 
2000 Caygill, Howard
A Kant Dictionary, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.
 
1995 Falkenstein, Lorne
Kant’s Intuitionism. A Commentary on Transcendental Aesthetic, University of Toronto Press, Toronto.
 
2005 Holzhey, Helmut & Mudroch, Vilem
Historical Dictionary of Kant and Kantianism, The Scarecrow Press, Inc., Lanham.
 
1995 Kant, Immanuel
Critica della ragione pura (a cura di Giorgio Colli), Adelphi, Milano. [1781/ 1787]
 
1996 Kant, Immanuel
Critica della ragion pura (a cura di Pietro Chiodi), TEA, Milano. [1781/ 1787]
 
1998 Kant, Immanuel
Critique of Pure Reason (Translated and Edited by Paul Guyer and Allen W. Wood ), Cambridge University Press. [1781/ 1787]
 
2004 Kant, Immanuel
Critica della ragion pura (A cura di Costantino Esposito), Bompiani, Milano. [1781/ 1787]
 
1978 Smyth, Richard A.
Forms of Intuition. An Historical Introduction to the Transcendental Aesthetic, Martinus Nijhoff, The Hague.
 
2015 Thorpe, Lucas
The Kant Dictionary, Bloomsbury, London-New York.
 
 
 
ABBREVIAZIONI
 
CRP = Critica della ragion pura
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Quest’articolo contiene una serie di materiali di lavoro incentrati intorno a una lettura approfondita delle pagine B 33 – B 36 della CRP. Lo scopo era di evidenziare le argomentazioni prodotte da Kant nella fondazione della sua filosofia trascendentale. Trattandosi di una materia alquanto ostica è stato fatto il possibile per rendere chiara l’esposizione. La natura di materiali di lavoro ha tuttavia fatto sì che siano rimaste nel testo diverse ripetizioni e lungaggini delle quali l’Autore si scusa con gli improbabili lettori.
[2] I riferimenti si basano su Kant 1996, cioè sulla traduzione Chiodi. Quando fossero usate altre traduzioni, ciò sarà esplicitamente segnalato.
[3] Kant usa tre termini per riferirsi all’oggetto: Ding, Gegenstand e Object. A parte l’uso di Ding che qui non ci interessa, secondo il Lessico curato da Esposito in Kant 2004, Gegenstand e Object sarebbero da Kant usati in maniera intercambiabile. Secondo Caygill 2000 sarebbero invece usati in maniera differente. Gegenstand sarebbe usato per riferirsi all’oggetto di esperienza non pensato. Object sarebbe invece l’oggetto di esperienza pensato dall’intelletto.
[4] Diversi commentatori ritengono, non senza qualche fondamento, che l’oggetto di cui si parla in B 33 sia in realtà la cosa in sé. Non ci è sembrato il caso di seguire questa interpretazione, che porterebbe a una serie di gravi contraddizioni all’interno dello stesso discorso kantiano. Del resto anche la nostra scelta non va via liscia. Riprenderemo il discorso più avanti.
[5] Esposito traduce con “produrre”. Chiodi traduce con “agire”.
[6] Così traduce Chiodi. Gentile & Lombardo Radice traducono con spirito. Guyer & Wood usano mind.
[7] Trad. Esposito.
[8] Su questa base si può anche ritenere che la sensazione di cui si è parlato in B 33, essendo priva di forma non sia percepibile.
[9] Una sensazione che così com’è non è sperimentabile da noi (che dobbiamo credere su basi teoriche).
[10] Se non ci fosse la priorità almeno logica della sensazione rispetto alla intuizione, le intuizioni potrebbero inventarsi qualsiasi cosa e non avrebbero alcun limite.
[11] Ad esempio, quando si dice “hai avuto una preziosa intuizione”.
[12] Data la brevità della vita, non abbiamo nessuna voglia di imparare il tedesco e di metterci a leggere e a commentare Kant in tedesco.
[13] Se usassimo “immagine” al posto di “intuizione”, allora la definizione suonerebbe più o meno in questo modo:  “Dicesi empirica l’immagine che si riferisce immediatamente all’oggetto, usando come materia le sensazioni grezze e come forma le immagini pure”.
[14] A rigor di logica, ciascun soggetto avrebbe la sua intuizione empirica del gatto Tom. Le molteplici intuizioni empiriche verrebbero tuttavia a coincidere, per cui diversi soggetti dovrebbero concludere che esiste un solo gatto Tom. La cosa è vagamente leibniziana.
[15] In Aristotele, la forma era indubbiamente più importante della materia. Kant parla della “forma” del tempo e dello spazio e non semplicemente di “sensazioni” dello spazio e del tempo! L’uso del termine forma portava un certo carico semantico.
[16] Ciò solleva qualche problema circa le intuizioni pure che dovrebbero essere presenti nella sensibilità di Tom, che non è un umano.
[17] È lo stesso problema, a rovescio, che ha la volontà di Schopenhauer ad agire nello spazio e nel tempo.
[18] Sebbene sia difficile dire dove comincia una cosa e ne finisce un’altra!
[19] Kant ha affermato altrove che la nostra intuizione empirica dello spazio non è pura ma è sintetica.
[20] Kant propone un’immagine che è visiva. Ricorda vagamente il Demiurgo platonico. La forma è una specie di recipiente che deve ricevere qualcosa.
[21] Questa è oltretutto una vecchissima osservazione che risale ad Anassagora e che Kant doveva conoscere piuttosto bene. Anassagora diceva che l’intelletto doveva essere di natura diversa dagli oggetti che provvedeva a ordinare.
[22] Kant sosterrà altrove che la sensazione dello spazio che abbiamo (nella nostra esperienza) è sintetica (e dunque non coincide con la forma pura dello spazio).
[23] Si noti tuttavia che l’analogia ha per forza di cose una forte connotazione spazio temporale che la rende in effetti inapplicabile alle forme che sono fuori dallo spazio e dal tempo.
[24] Banalmente, due cose sono realmente distinte quando l’una può stare senza l’altra. La riprova che le intuizioni pure possono stare senza le sensazioni grezze si ha nella trattazione kantiana della matematica. Spazio e tempo sono delle Anschaaung pure, sono qualcosa di separabile che può fondare qualcos’altro.
[25] Cfr. Smyth 1978: 1.
[26] Il termine “esistenza” va inteso in senso trascendentale, cioè come legittimità, sulla base della narrazione trascendentale.