lunedì 28 settembre 2015

Trascendentalismo e ontologia

ontologia-image[1]
1. Il termine[1] ontologia è stato coniato all’incirca nel Seicento. Sul piano della storia della filosofia si tratta dunque di un termine relativamente recente, anche se, all’inizio, è stato usato per indicare concetti vecchi. Da quel momento l’ontologia ha vissuto una breve stagione e, dopo Kant, è stata praticamente dimenticata o, piuttosto, assimilata alla metafisica. A tutt’oggi tra i due concetti esiste una gran confusione e le sovrapposizioni tra metafisica e ontologia sono all’ordine del giorno. Queste sovrapposizioni hanno, tra l’altro, favorito, da parte degli storici della filosofia, l’attribuzione di un’ontologia ad autori della filosofia antica o medievale, senza sentirsi in dovere di precisare che costoro sarebbero stati ontologi a loro insaputa.[2] Del resto anche Aristotele è stato considerato, di fatto, un metafisico a sua insaputa.
 
2. Il dizionario di filosofia che da noi va per la maggiore, l’Abbagnano – Fornero,[3] registra questa strana situazione che è sopravvenuta, dedicando all’ontologia poco più di una colonna (neanche una pagina intera). Nel breve articolo, firmato da Fornero, sono fornite due accezioni fondamentali del termine. Secondo la prima, l’ontologia sarebbe «La dottrina dell’essere e delle sue forme»; secondo l’altra, si sostiene che, dopo Wolff e Kant «il termine è stato usato, per lo più, come sinonimo di metafisica». È vero che nel resto dell’articolo si forniscono maggiori delucidazioni e precisazioni, ma il tutto resta davvero assai misero e riduttivo. A sentire l’Abbagnano – Fornero sembrerebbe dunque che non ci sia un futuro per l’ontologia.
 
3. Intanto, se ci concentriamo per un attimo sulla prima definizione, non possiamo che rimarcare la solita tendenza nostrana a pasticciare con l’essere, dovuta al fatto che, nella lingua italiana, il participio presente del verbo essere è poco o nulla usato (anzi, si può dire che non esiste). Fornero avrebbe dovuto dire in realtà “La dottrina dell’ente e delle sue forme”. In effetti, il termine corretto è poi recuperato nel resto dell’articolo asserendo che, all’inizio del Seicento, quella che era chiamata metafisica (di derivazione aristotelica) fu divisa in due sezioni: a) un’ontologia o metaphysica generalis, che aveva il compito di studiare l’ente in quanto ente; b) una metaphysica specialis, che aveva il compito di studiare Dio. Si aggiunge poi che quest’ultima, per opera di Wolff, fu ulteriormente suddivisa in cosmologia generale, psicologia razionale e teologia naturale.[4] Quindi l’ontologia dovrebbe studiare l’essere ma poi evidentemente finisce per accontentarsi dell’ente in quanto ente.
La seconda parte della definizione rileva che «il termine è stato usato, per lo più, come sinonimo di metafisica». La cosa è senz’altro vera in termini di descrizione dei fatti, lo è assai meno in termini di diritto, poiché l’uso di metafisica finisce invariabilmente per suggerire che ci si stia occupando della metaphysica specialis, ai danni della metaphysica generalis, la quale ha invece, ha un campo assai più ampio e d’interesse assai più generale (soprattutto se si ritiene che essa debba occuparsi dell’ente anziché dell’essere). Insomma, si tratta di un’implicita ma impropria valutazione dell’importanza dell’oggetto che viene surrettiziamente mantenuta in sottofondo. Così tutti sono contenti.
 
4. Vediamo meglio il significato del termine. Ontologia, s’è detto, è un neologismo seicentesco e come tale è stato ricavato artificiosamente dal greco antico. In greco antico la nozione di essere era espressa con il verbo eimíμί] cioè il verbo “sono”. Il termine eimí è la prima persona singolare del presente indicativo, che è comunemente usata per denominare il verbo stesso. Di particolare interesse per la letteratura filosofica è la forma esti [στι], cioè la terza persona singolare del presente indicativo. L’infinito presente di eimí è eînai [εναι]. Il participio presente di genere neutro è ón [ν]. Con la sostantivazione, esso diventa tò ón. Poiché esso è declinabile rispetto al genere, avremo il participio presente maschile ōn [ν] e quello femminile oûsa [οσα]. Il participio greco è poi ulteriormente declinabile secondo i vari casi. Nella declinazione del participio di eimí ci interessa qui il genitivo óntōs che è quello che è entrato nel termine composto ontologia.
Il participio presente del verbo essere in italiano semplicemente non c’è. Dovrebbe essere qualcosa come essente, oppure sente, ente o stante. La cosa è sempre stata ben nota. Il problema era stato da tempo affrontato e aggiustato nel corso della scolastica medievale, ancora in latino, quando si sentì l’esigenza di marcare la distinzione tra il participio presente e l’infinito presente. Nacque così la storica distinzione tra ente e essere (pur legata a problematiche filosofiche assai specifiche). Quindi, come minimo, il significato corretto di ontologia è «discorso dell’ente» e non dell’essere. In inglese, dove l’uso del participio presente del verbo essere è più vivo che mai, si ritiene che l’ontologia abbia a che fare con lo studio del being e non di un davvero improbabile «to be». Pensando a Parmenide, se dico «l’ente è e non può non essere» dico una cosa, se invece dico «l’essere è e non può non essere» ne dico un’altra o, comunque, ingenero un bel po’ di confusione.
Questa banale questione terminologica ha tuttavia il potere di allargare o restringere drasticamente il campo d’azione associato all’ontologia: se pensiamo retrospettivamente, i filosofi dei quali si può dire che si siano occupati dell’“essere” in senso stretto, come s’intende nella tradizione italica, non sono poi molti, mentre sono davvero molti quelli che si sono occupati dell’ente o degli enti (mettendo il termine al plurale, il campo si allarga ancor di più). C’è qualche filosofo che non si sia pronunciato, implicitamente o esplicitamente, circa la natura degli enti? Secondo quest’accezione, Talete, per quel po’ che ne sappiamo, doveva essere stato senz’altro un ontologo.
 
5. La storia dell’ontologia è stata recentemente ricostruita nel volume omonimo curato da Maurizio Ferraris.[5] Il primo uso consapevole del neologismo ontologia risalirebbe alla Ontosofia di Clauberg nella edizione del 1664. Così spiega Kobau: «L’uso del neologismo – va sottolineato – ha qui un valore sostanziale, che non si ritrova negli esempi precedenti, dove ci si limitava ad assegnare una denominazione retoricamente più efficace a discipline già consegnate tutte dalla tradizione. Clauberg, infatti, già variando i titoli delle riedizioni della sua Ontosofia, tiene presto a sottolineare che tale disciplina è impropriamente denominata metafisica: rispetto a questo nome, il neologismo vale a sottolineare come il suo oggetto non sia l’universo esaminato in una prospettiva transfisica, o oltrefisica, o altrimenti “astratta”, bensì l’ente inteso nel suo senso più generale, considerabile tuttavia sotto tre diverse prospettive. Si parla di ente, innanzitutto, in quanto semplicemente pensabile, ma poi, più precisamente, in quanto è un “qualcosa” (a cui si oppone il “nulla”); e, infine, nel senso più ristretto, in quanto equivale alla “cosa (res)” che “esiste di per sé”, ovvero è inteso come sostanza (cui si oppongono gli accidenti)».[6] E precisa inoltre: «L’ontosofia di Clauberg è, dunque, parecchio diversa dalla scienza dell’ente ovvero dalla metafisica generale della tradizione scolastica: semmai, Clauberg – pur ritenendo della tradizione scolastica i contenuti che sceglie di salvare – riprende il nome nuovo di ontologia per denominare qualcosa di altrettanto nuovo rispetto alla tradizione, ossia un sistema metafisico (e latamente enciclopedico) di impianto cartesiano».[7]
Il massimo sviluppo dell’ontologia così intesa – in questa fase pionieristica si avrà con l’Ontologia di Wolff del 1729, che comprende la nuova sistematizzazione che è citata nel dizionario e di cui abbiamo già detto. Wolff ebbe grande influenza su diverse generazioni di studiosi. Da Wolff prese le mosse anche Kant.
 
6. Tuttavia, come si è visto anche dalla nostra breve ricognizione dell’Abbagnano – Fornero, ben presto il termine ontologia fu messo da parte o, comunque il suo specifico contenuto fu dileguato e sottoposto a varie peripezie. La responsabilità fondamentale di questa prematura emarginazione dell’ontologia è imputabile alla diffusione della filosofia kantiana. O, meglio, alla cosiddetta svolta trascendentale della filosofia kantiana. Questa è almeno la tesi sostenuta con argomentazioni piuttosto convincenti da Ferraris e dai suoi collaboratori.[8]
La questione ontologica dibattuta tra Seicento e Settecento, che aveva dato motivo per la costruzione del neologismo stesso, verteva intorno alla problematica, certo non nuova, relativa alla natura degli enti: «Quali tipi di enti ci sono?». Per citare lo stesso problema con un’espressione assai più recente: «Che cosa c’è?».[9] In quel periodo si assisteva alla contrapposizione tra empiristi e razionalisti che, nella nostra tradizione storiografica, è stata spesso considerata come un dibattito di tipo epistemologico, cioè un dibattito intorno ai meccanismi della conoscenza. In realtà possiamo ben dire, col senno di poi, sulla scorta dei ragionamenti sviluppati poc’anzi, che si trattasse di un dibattito di tipo ontologico. Anche Berkeley, Locke e Hume, sotto questo rispetto, sarebbero da considerarsi come degli ontologi, interessati a discutere intorno a «Che cosa c’è?». Certo, le loro tesi erano provocatorie e distruttrici di tutta una tradizione, poiché sostenevano, in modo più o meno accentuato, che esse est percipi. La tradizione empirista non ha così sentito il bisogno di coniare e utilizzare un termine come “ontologia” poiché la teoria empirista sembrava aver lasciato alle spalle proprio l’ente in quanto ente della tradizione scolastica.
La generazione del neologismo e la sua repentina sparizione sono avvenuti dunque prevalentemente sul terreno della corrente razionalistica. La sparizione dell’ontologia come specifico settore d’indagine sembra sia dovuta alla svolta trascendentale kantiana, la quale, con la sua rivoluzione copernicana, ha di fatto ridotto l’ontologia a gnoseologia trascendentale. La mossa kantiana è stata quella di accogliere in modo paradossale la tesi degli empiristi, tanto da vanificarla: la realtà è così diventata una rappresentazione del soggetto o, meglio ancora, in prospettiva un prodotto del soggetto. Da allora in poi il compito della filosofia non avrebbe più dovuto essere quello di indagare su «Che cosa c’è?» ma di indagare le forme (categorie, schemi) attraverso cui la mente del soggetto produce quel che appare (il fenomeno o rappresentazione). Si tratta insomma di studiare la logica della macchina mentale soggettiva più che il suo prodotto. La “scienza” è così tutta incentrata a enumerare le categorie della mente e gli oggetti della realtà ne sono soltanto una pallida conseguenza. L’ontologia è diventava così del tutto inutile o superflua.
Questa mossa ha dato vita al cosiddetto idealismo trascendentale kantiano e a tutti i suoi sviluppi successivi. Ma soprattutto ha cambiato radicalmente la nozione stessa di realtà, la quale ora veniva ripartita in diversi domini i cui rapporti reciproci apparivano fin dall’inizio problematici: a) il dominio delle formae mentis, che diventerà il vero oggetto della “scienza” filosofica; b) il dominio del fenomeno (rappresentazione, apparenza) che una volta fondato in base alle forme trascendentali verrà lasciato alle singole scienze e c) il dominio della cosa in sé (inconoscibile sul piano fisico, ma costituibile in ambito morale).
La filosofia continentale sarà pesantemente segnata, fino ad oggi, da questa ripartizione (e da questa conseguente nozione, invero alquanto bizzarra, di realtà). La definizione delle forme trascendentali, la considerazione della realtà come fenomeno[10] e la questione della cosa in sé genereranno una montagna di problemi e faranno scorrere fiumi di inchiostro. È un dato di fatto che una serie di problematiche, successivamente assai diffuse nella filosofia continentale, come il nichilismo, il relativismo, l’assolutismo, il volontarismo sono tutte intimamente legate alla svolta trascendentale (e, infatti, non hanno avuto storicamente alcun corrispettivo nelle filosofie che non sono state influenzate dalla svolta trascendentale stessa).
 
7. Ferraris ritiene che gli ultimi due secoli della filosofia continentale siano stati dominati dal trascendentalismo e che le difficoltà nelle quali si dibatte oggi la filosofia continentale (testimoniate dalla deriva postmoderna) siano determinate proprio da questa scelta di fondo. Secondo Ferraris, la filosofia continentale degli ultimi due secoli sarebbe stata dominata dalla fallacia trascendentale, che consiste nella sistematica riduzione dell’ontologia a gnoseologia trascendentale. Occorre allora tornare ad ammettere che ci sia una realtà indipendente dalla mente o dallo Spirito, che è pur sempre una mind. Questo significa in gran parte ritornare a una nozione precategoriale di esperienza immediata, prima di qualunque “scienza” kantianamente prodotta dall’intelletto.
Afferma Ferraris: «A mio parere, […], il colpevole è Kant, e il reato è più semplice, consistendo per l’appunto nella confusione tra ciò che sappiamo delle cose e il fatto che le cose ci siano. […] Il nocciolo della fallacia consiste, infatti, nel pensare che la scienza costituisca un’esperienza più raffinata, e che l’esperienza sia una scienza in potenza».[11] E ancora: «Per quanto riguarda il problema della teoria dell’esperienza, il primo gesto è riconoscere quei caratteri nativi dell’esperienza che sono irriducibili alla scienza, e in particolare il fatto di essere inemendabile e in larga parte impermeabile all’azione degli schemi concettuali. Questa circostanza, ben lungi dal depotenziare la scienza, ne costituisce il vero fondamento: si ha scienza quando si ha scienza di qualcosa, e non autoreferenza di schemi concettuali. D’altra parte, riconoscere un’esperienza indipendente dalla scienza ci permette anche di risolvere il problema, altrimenti insolubile, del fatto che possiamo avere un rapporto soddisfacente con il mondo anche con conoscenze molto modeste, o addirittura sbagliate».[12]
Il trascendentalismo ha vincolato le nostre conoscenze (e gli oggetti della conoscenza) agli schemi della mente o alle funzioni del linguaggio, cioè ai limiti del soggetto. Per questo è stata messa da parte l’ontologia. Si tratta dunque di relegare gli schemi e le categorie in secondo piano e di tornare a rispondere alla domanda «Che cosa c’è?» che è la domanda tipica dell’ontologia. Si tratta di analizzare la natura degli oggetti e produrre innanzitutto dei cataloghi, delle descrizioni. Anche perché così si potrebbe scoprire la possibilità di “oggetti” che le consunte categorie trascendentali non potevano ammettere.
«C’è qualcosa lì fuori, anzi, il mondo è pieno di oggetti che non si risolvono semplicemente nel linguaggio, ci sono fatti che non si dissolvono nelle interpretazioni. Ed è qui che il percorso filosofico si imbatte nello stesso problema dell’informatica, ossia nella necessità, non tanto di una fondazione (che non sempre è possibile e in molti casi non è neppure necessaria o auspicabile) ma piuttosto di una classificazione e di una organizzazione del mondo e dei suoi oggetti. Di fronte a questa esigenza, che era stata spesso trascurata dalla filosofia del Novecento, si scoprono due cose interessanti sebbene ovvie, e cioè, in primo luogo, che non si può classificare e organizzare se si muove da presupposti scettici, sicché un assunto realistico è indispensabile se non altro per ragioni pragmatiche. In secondo luogo, si scopre che se non ci pensiamo noi a classificare, altri lo faranno per noi, e non è detto che i risultati saranno poi soddisfacenti».[13]
La categorie entro cui si può suddividere la realtà sono generate dagli oggetti e non risiedono a priori dentro ai soggetti: «Se la koiné postmoderna asseriva che nulla esiste al di fuori degli schemi concettuali, il ritorno dell’ontologia consiste proprio nell’affermare che il mondo ha le sue regole e le fa osservare. Dopo due secoli di primato dei soggetti e degli schemi concettuali, […], l’iniziativa ritorna agli oggetti e alle categorie che essi stessi generano. Insomma, Aristotele si rifà vivo dopo Kant».[14]
 
8. I limiti del trascendentalismo in effetti non sono difficili da mostrare e nei contributi di Ferraris questo lavoro critico è stato svolto con grande accuratezza e dettaglio.[15] Meno facile è rendersi conto delle conseguenze di una piena assunzione di una critica radicale al trascendentalismo. Proviamo a prendere in esame due o tre conseguenze ad ampio spettro della svolta trascendentale sulla cosiddetta filosofia continentale.
In primo luogo, il trascendentalismo ha portato strutturalmente con sé lo scetticismo nei confronti del mondo esterno (e dunque l’ostilità preconcetta contro la conoscenza sensoriale). Kant, con la sua svolta, riteneva di avere messo sotto controllo lo scetticismo humiano ma ha prodotto, dopo di lui, forme di scetticismo nei confronti del mondo esterno ancora più gravi e generalizzate.[16]
In secondo luogo, il trascendentalismo (in tutti quei casi in cui si ammette una pluralità di soggetti) ha portato facilmente con sé il relativismo. La parentela del trascendentalismo col relativismo è davvero assai stretta. Il relativismo, semplicemente ammette che ci siano diversi (molteplici, addirittura infiniti) centri produttivi, ognuno legittimato a produrre la realtà a suo modo. In un mondo dove ogni singolo Io/ Soggetto produce, ad esempio, i suoi ricordi personali, non ci sarebbe davvero nulla da eccepire. Ma quando ogni singolo Io pretende di produrre le sue regole morali (senza tener conto del resto) si comincia a eccepire qualcosa. Se poi ogni singolo io pretende di produrre da sé le sue “conoscenze”, allora ogni credenza può pretendere di diventare scienza.
In terzo luogo, se si ritiene che ci sia un Io/ Soggetto sovra individuale, allora questo sarà dotato di forme universali che s’impongono a tutti i singoli individui, avremo cioè dei sistemi assolutistici o totalitari. Gli esempi più classici sono costituiti dallo Spirito, dal popolo, dalla razza o dalla classe che sovrastano i singoli. Anche la volontà schopenhaueriana in fin dei conti è assolutistica. In tutti questi sistemi abbiamo cioè la produzione di un’oggettività condivisa (Hegel è il classico esempio, il singolo non può sfuggire allo Spirito hegeliano) che però è di fatto arbitraria, poiché dipende dalle categorie che sono state attribuite dal filosofo alla Totalità.[17] Se la Totalità è considerata, per definizione, dialettica, allora tutto sarà visto e praticato in termini di dialettica. Se la Totalità è divina, allora tutto sarà divino, se la Totalità è volontà, allora tutto sarà effetto della volontà, e così via.
Lo scetticismo, il relativismo e l’assolutismo (totalitarismo o fondamentalismo che dir si voglia) sono dunque solo due facce opposte degli esiti del trascendentalismo, cioè sono tutte manifestazioni analoghe della tracotanza dell’Io trascendentale, come è stata realizzata, storicamente, nelle varie filosofie trascendentali, come Io individuale o Io totale considerati come entità produttrici e/ creatrici. Solo per quest’ultima differenza di dettaglio nella filosofia continentale si sono avuti due filoni che si è preteso fossero in opposizione: il filone del sistema (Hegel, Marx) e il filone anti sistema (Kierkegaard, Nietzsche,…). Sono stati raccontati come la battaglia tra l’individualità e il sistema. In realtà si era sempre all’interno del trascendentalismo.
 
 9. Alla sua nascita, il trascendentalismo non aveva spiccati pregiudizi antiscientifici, anche se il mondo esterno era già considerato come una rappresentazione e veniva postulato un primato della ragion pratica. Kant aveva accordato la sua analitica delle forme della mente con i risultati della scienza newtoniana, per cui era stato possibile determinare, come conseguenza, un’ontologia del mondo fisico che era, di fatto, costituita dai principi dell’intelletto puro. La vita di quest’ontologia di seconda mano fu tuttavia assai precaria, sia perché la scienza della natura venne a trovarsi alquanto sacrificata dentro le strettoie delle categorie kantiane, sia perché, nelle filosofie trascendentali e idealiste che seguirono Kant, si prese a elaborare una gran varietà di analoghi sistemi. Questi nuovi sistemi, dato anche il clima romantico in cui erano stati elaborati, non mantennero più alcuna cura nel raccordarsi con i risultati delle scienze della natura (si veda ad esempio la stupida polemica anti newtoniana di Hegel). Le filosofie trascendentali persero così ogni rapporto con la scienza galileiana, pretesero di ignorarla, di condizionarla o addirittura di sottometterla. La tendenza è chiarissima in Hegel, ma anche e soprattutto in Marx, il cui materialismo “hegeliano” è prettamente antiscientifico e antitecnologico. La metafisica di Schopenhauer è del tutto indifferente rispetto ai risultati della scienza galileiana, che sono assunti con un atteggiamento puramente strumentale. Ancor peggio è la posizione di Nietzsche, il quale ha cominciato a suggerire che qualunque tipo di logos costituisca, per ciò stesso, una forma di decadenza e di ottundimento degli spiriti vitali.
Se si vuol un esempio della pervicacia antiscientifica del trascendentalismo lo si può ritrovare nella fenomenologia husserliana, senz’altro il sistema filosofico continentale più distante dal kant – hegelismo. Ebbene, ne La crisi delle scienze europee, scritto peraltro in un periodo di fiorentissimo sviluppo scientifico, vengono ribaditi tutti i pregiudizi nei confronti della scienza galileiana e si tenta di porla sotto la fondazione della filosofia trascendentale. Heidegger, dal canto suo, rappresenterà la sintesi di tutte queste tendenze, in piena consonanza del resto con gli hegelo - marxiani Lukács, Horkheimer e Adorno.
Il fatto è che le analisi deduttive delle categorie della mente prodotte dagli idealisti, dai fenomenologi o dai neo kantiani mal si accordavano con i risultati rivoluzionari della scienza galileiana del primo novecento. Le varie analitiche divennero sempre più confuse e difficili da sostenere, tanto da determinare la lunga crisi delle filosofie sistematiche. Nel caso di Marx e di pressoché tutti i suoi seguaci, è la dialettica a costituire l’elemento logico categoriale che governa la realtà storico sociale (e per qualcuno dei suoi seguaci anche il mondo fisico). La nozione della Totalità sostituisce abbondantemente lo Spirito o l’Io trascendentale
 
10. L’introduzione da parte di Ferraris della cosiddetta fallacia trascendentale, di cui s’è detto, si presta a rilevare il permanere nella filosofia continentale di una seconda fallacia – che pur essendo molto antica è stata conservata e riprodotta inconsapevolmente dal trascendentalismo. Mi riferisco a una fallacia che può essere definita come fallacia scolastico - essenzialista. Vediamo brevemente di che si tratta.
La tradizione trascendentale, accettando il principio per cui sono le categorie della mente (in inglese, mind traduce anche Spirito) a conformare o a produrre la realtà fenomenica, è rimasta schiava del linguaggio platonico aristotelico scolastico che da sempre era stato usato per descrivere quelle stesse categorie. È risaputo che le categorie kantiane (per ammissione stessa di Kant) risalgono addirittura alla logica aristotelica. Il termine stesso “trascendentale” risale ai trascendentali di Tommaso d’Aquino.[18] Gira e rigira, pur cambiando talvolta la terminologia, le formae mentis sono sempre le stesse: idee, essenze, sostanze, identità, concetti, contraddizioni, cause, potenze, attuazioni e poche altre cose. Basta scorrere l’indice della Scienza della logica[19] hegeliana e si troverà un bel riassunto della filosofia platonico aristotelico scolastica condito con qualche concessione al vitalismo romantico. Secondo i trascendentalisti la realtà (il mondo come ci appare) è ordinata, filtrata, informata da questi schemi o categorie assunti a priori. Quando qualcosa non rientra, la forza dello schema è tale da costringerlo o da escluderlo. Se non c’è niente che corrisponda allo schema supposto, ebbene, lo si inventa di sana pianta. È lo spirito di sistema, la contemplazione dell’ordine che risiede nella mind e che quindi si proietta all’esterno. Quest’operazione d’incasellamento viene applicata – violando ovviamente le rigorose ma deboli distinzioni kantiane – alla totalità della realtà, dal mondo fisico e biologico, al mondo sociale, alla storia, all’arte, al mondo morale, alla religione, perfino alla filosofia stessa. L’inglobamento del tempo storico (del mutamento) ha implicato perfino l’accettazione della contraddizione.[20] Il sistema di Schopenhauer è leggermente diverso da quello degli idealismi, ma è ugualmente dominato dal trascendentalismo e dallo spirito di sistema (tanto che il suo autore, dopo averlo prodotto in giovane età – mal copiando Kant a man bassa – si è dedicato soltanto al suo perfezionamento). Anche le filosofie antisistema, come quelle di Kierkegaard e di Nietzsche (e poi di Heidegger) hanno combattuto le loro battaglie contro i sistemi (e contro la scienza galileiana) usando comunque sempre gli stessi arnesi del linguaggio platonico aristotelico scolastico.
Manco a dirlo, l’arnese tradizionale più utilizzato è stato l’essenzialismo. Intendo qui l’essenzialismo scolastico, non la teoria delle proprietà essenziali di cui si parla in filosofia analitica. Le filosofie che promanano dal trascendentalismo non possono che essere essenzialiste in senso scolastico, poiché qualsiasi oggetto (inteso in senso lato) non può che essere, in qualche modo, sintesi di un elemento essenziale trascendentale (ideale, mentale, categorico, formale, comunque sia definito) e di un qualche elemento empirico. Quando non è sintesi allora è un degrado dell’essenza (il non io, l’alterità, l’antitesi,…). Anche nel “materialista” Marx, l’alienazione è la perdita dell’essenza umana e l’emancipazione è il recupero dell’essenza umana; oppure l’essenza della merce è il lavoro, e così via. Anche Husserl, la cui filosofia è fondata sul trascendentalismo, ha fatto ampio uso delle essenze. Anche Heidegger – pur pasticciando alquanto – ha mantenuto la differenza tra essenza (cioè l’essere) e esistenza[21] – del resto conosceva alquanto la filosofia scolastica.
Le essenze che popolano la mind dei trascendentalisti godono per definizione di proprietà ontologiche privilegiate che non sono possedute dagli oggetti dell’esperienza bruta, dalle brute individualità: le essenze sono le matrici delle cose, costituiscono la vera natura di ciò che è artistico, costituiscono i protagonisti della storia come le classi o i popoli, definiscono le istituzioni umane, sono il fondamento delle religioni, sono la vera realtà del soggetto individuale o di quello sovra individuale, e così via. Quando le essenze non siano così evidenziate, allora resta la loro nostalgia, il senso della perdita, della separazione, della loro sparizione, come nelle filosofie anti sistematiche, esistenziali o nel cosiddetto pensiero negativo.
 
11. Grazie alla critica di Ferraris al trascendentalismo, oggi siamo anche in grado di comprendere assai meglio, sul piano storiografico, come il trascendentalismo abbia contribuito a produrre la nozione dell’inconscio. Non sto parlando qui dell’inconscio in senso specifico (freudiano, junghiano, lacaniano e simili) ma della generica nozione di inconscio che ha popolato molta filosofia ottocentesca e novecentesca.
In precedenza si aveva, ovviamente, la nozione di un’individualità suddivisa e lacerata, si pensi al platonismo o al cristianesimo e alla sua nozione del male. Il trascendentalismo tuttavia ha fatto di più, ha messo al centro il soggetto, la sua mind, e l’ha dotato di una serie di meccanismi formali assai elaborati che sono in grado di operare implacabilmente, spesso al di là della consapevolezza soggettiva, e che necessitano di una analitica per essere esplicitati. All’inizio questi meccanismi interni erano quelli di tipo logico ereditati dall’aristotelismo, ma le filosofie romantiche hanno delogicizzato questa mind e ne hanno fatto una specie di principio vitalistico o volontaristico, talvolta anche illogico o irrazionale. Dunque ogni individuo si è trovato al proprio interno un altro da sé, un principio di vita / volontà di cui poteva non avere piena padronanza. Si è avanzata dunque la possibilità che una parte del soggetto potesse possedere dei desideri, dei contenuti culturali o simbolici, elementi linguistici. Spesso nella cultura romantica tutto ciò poteva essere definito come il lato oscuro, oppure come il doppio di sé.
Sul piano filosofico non va dimenticato che anche le filosofie trascendentali sistematiche hanno dato il loro contributo. Si pensi soltanto alla filosofia della storia di Hegel, da cui emerge che la storia dell’umanità è guidata da una specie di processo inconscio (ci riferiamo alla nota astuzia della Ragione) che può essere compreso solo dopo, attraverso un’analisi. Il contributo maggiore alla nozione dell’inconscio è stato tuttavia dato dalle filosofie anti sistematiche come quelle di Schopenhauer o Nietzsche.
Tutto ciò conferisce nuova luce alle cosiddette filosofie del sospetto che, secondo Ricoeur, accomunerebbero Marx, Nietzsche e Freud. Nell’idea di sospetto è intrinseca una dicotomia tra apparenza e realtà autentica. Ora, si può legittimamente asserire che le dottrine concernenti la coppia concettuale apparenza/ realtà autentica siano ben più antiche (basti pensare a Platone, ma anche a Eraclito). Tuttavia, con la svolta trascendentale, questa dicotomia è stata posta dentro agli individui. In superficie sta la rappresentazione, in profondità sta la verità, una verità che va ricostruita con un’analitica. Dunque, non una rivelazione che giunge dall’esterno, come nelle teologie tradizionali, ma una rivelazione cui si può accedere scavando nell’interno.[22]
Di conseguenza le oggettive limitazioni del soggetto (che possono essere anche assai diverse da cultura a cultura, da società a società) sono interpretate come dovute a una spaccatura interna tra una rappresentazione illusoria di sé e una essenza veritiera nascosta. Questa essenza veritiera nascosta è spesso stata anche presa in considerazione nella spiegazione dei fenomeni artistici e della creatività. Se tutto ciò è vero, allora potremmo anche accusare il trascendentalismo di una fallacia del sospetto.
 
12. Come si esce dalla fallacia trascendentale che, come abbiamo visto, ha portato con sé anche la fallacia essenzialista (e probabilmente anche una fallacia del sospetto)? Come s’è visto, la fallacia trascendentale (e quelle che l’accompagnano) riguarda strutturalmente la filosofia continentale degli ultimi due secoli e corrisponde ormai addirittura a un modo tipico di pensare, a uno stile filosofico. La filosofia empirista del Settecento e dell’Ottocento si è tenuta per lo più lontana dal trascendentalismo e quindi anche dalle sue fallacie. Lo stesso si può dire per la filosofia analitica che comunque è in gran parte una filiazione dell’empirismo. Indubbiamente chi intenda rifiutare la fallacia trascendentale non può oggi che guardare con interesse alla filosofia analitica.
La filosofia analitica è sempre stata caratterizzata da un rifiuto delle assunzioni metafisiche e quindi è sempre stata diffidente nei confronti dell’impiego a man bassa delle categorie o forme trascendentali. Nello stesso modo ha sempre rifiutato l’essenzialismo scolastico e la nozione di inconscio. D’altro canto la filosofia analitica oggi è ben lungi dal costituire un blocco compatto come la filosofia continentale, è piuttosto un ambito d’indagine molto pluralistico, tenuto insieme da alcuni elementi metodologici di fondo e da un certo stile d’indagine. Si può dire che ci siano molte filosofie analitiche.
L’obiezione comunemente rivolta ai filosofi analitici è quella di costituire un ambito di discorso astruso, tecnicistico e sterile. Questi difetti ci sono senz’altro, ma ormai la filosofia analitica ha conseguito un cumulo di risultati che sono diventati imprescindibili per chiunque intenda la filosofia come un campo aperto di ricerca e non solo il luogo delle dispute ideologiche.
La filosofia analitica in più non ha alcun pregiudizio strutturale nei confronti dei risultati della scienza galileiana, per cui si sta assistendo sempre più a un’interazione feconda tra i due campi (quell’interazione che sul continente è venuta meno subito dopo Kant). Gli imponenti sviluppi delle scienze cognitive sono legate anche a un’interazione del mondo della ricerca con la filosofia analitica. Per di più, per quel che ci interessa, negli ultimi decenni, nell’ambito analitico, c’è stata una significativa ripresa delle problematiche relative all’ontologia e anche alla metafisica, le quali sono trattate però secondo lo stile analitico.
È chiaro che l’attuale situazione di profonda crisi del panorama filosofico continentale non può che comportare la possibilità di un’apertura e di un confronto con la tradizione analitica, la quale può portare un notevole contributo in termini di chiarificazione delle questioni. D’altro canto le desiecta membra della filosofia continentale possono offrire alla filosofia analitica un ampliamento di prospettiva, sia nella direzione di questioni che concernono il senso comune sia nella direzione di questioni di ordine più generale, legate alla ontologia e alla metafisica. A favore di una ripresa del dialogo tra questi due stili filosofici si è recentemente pronunciata Franca D’Agostini.[23]
 
13. Secondo D’Agostini peraltro, l’attuale battaglia intorno al realismo, l’unica novità nel piatto panorama filosofico del nostro Paese,[24] rischia di risultare una questione periferica e ancora debitrice di una attenzione indebita nei confronti della degenerazione postmoderna. Il rischio in effetti, avendo preso coscienza della fallacia trascendentale, è quello di portare il dibattito indietro di due secoli, di tornare a Locke e a Hume, ed è in fondo quel che fa Ferraris quando propone il suo divertente esperimento della ciabatta.[25] In realtà non ha senso tornare indietro, anche perché la filosofia analitica ha nel frattempo accumulato molti importanti risultati.
Ma non solo per questo. I recenti sviluppi della ricerca scientifica stanno ponendo una dura sfida alla filosofia che sarà vinta solo da quelle correnti che meglio sapranno meglio raccordarsi con i nuovi risultati. Gli sviluppi delle neuroscienze e delle scienze cognitive negli ultimi due o tre decenni stanno assestando la botta finale alla filosofia trascendentale così com’è stata praticata negli ultimi due secoli.[26] Il dualismo tra materia e forma (e tutti quelli analoghi) sono ormai impossibili da sostenere nei termini tradizionali. Per quel che riguarda il mind-body problem i dualisti sono rimasti veramente in pochi ed è probabile che le prossime scoperte ne ridurranno ancora ulteriormente la schiera.
Se ci sono schemi o categorie questi non potranno che essere legati al funzionamento del cervello e quindi dovranno essere direttamente o indirettamente indagabili dalle neuroscienze (e non saranno mai più un prodotto di strategie analitiche in senso kantiano, cioè non saranno più decisi dai filosofi). Continuare a mettere un Io trascendentale accanto a un Io empirico non potrà che rivelarsi come un inutile e patetico doppione volto a salvare un’improbabile nozione di anima.
Le neuroscienze stanno apportando chiarificazioni decisive in campi che fino a ieri erano terreno di caccia della filosofia trascendentale. Si veda ad esempio quel che si è acquisito sulle nozioni di coscienza e di inconscio.[27] Si veda quel che si è acquisito per quel che riguarda un settore come la matematica[28]. Le nostre valutazioni e addirittura il nostro comportamento morale sono stati chiariti dalla psicologia sperimentale.[29] Anche in settori come quelli della creatività artistica le neuroscienze hanno mostrato di avere molto da dire.
Un altro campo estremamente interessante e promettente è legato allo studio della mente degli animali. È sempre più chiaro che non ci sono salti, che l’uomo si trova in diretta continuità con gli altri viventi. Se ci sono schemi, questi sono biologici e connaturati alla specie. Come gli animali manifestano forme di credenza, così gli umani hanno un cervello predisposto a credere. Ormai è piuttosto avanti l’antropologia cognitiva della religione che è in grado di spiegare l’universale diffusione della religione e delle credenze.
Se tutto questo è vero, ciò significa che il linguaggio, la ragione, la logica, la matematica, l’ontologia, la metafisica dovranno, in prospettiva, essere analizzate e collocate in un contesto evolutivo. Non è lontano il tempo in cui avremo un’ontologia e una metafisica evolutive (la cosa non piacerà agli heideggeriani, ma se ne faranno una ragione).
 
14. Di fronte a questi sviluppi, la filosofia analitica risulta essere la meno dogmatica, la più pluralista, la più aperta al dibattito, all’indagine e al confronto con i nuovi risultati delle scienze. Gli analitici non hanno alcuna difficoltà a ragionare con cose come i qualia, i mondi possibili o come le logiche para consistenti, con lo stesso atteggiamento con cui i fisici teorici discutono delle vibrazioni del vuoto. Ai continentali impenitenti lasciamo volentieri l’angoscia, le deiezioni, il declino dell’Occidente, la fine della metafisica, la dialettica e la dialettica dell’illuminismo, la Totalità, la reificazione, il pensiero negativo, il nichilismo, le fondazioni trascendentali, l’eclisse della ragione, l’inconscio, l’occultamento dell’essere, l’evento, il pensiero liquido e quant’altro.
 
Giuseppe Rinaldi
15/09/2015
 
 
 
OPERE CITATE
 
1998 Abbagnano, Nicola
Dizionario di filosofia (Terza edizione, aggiornata e ampliata da Giovanni Fornero), UTET, Torino.
 
2013 D’Agostini, Franca
Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino.
 
2010 Damasio, Antonio R.
Self Comes to Mind. Constructing the Conscious Brain, Pantheon Books, New York.
 
1997 Dehaene, Stanislas
La bosse des Maths, Odile Jacob, Paris. Tr. it.: Il pallino della matematica. Scoprire il genio dei numeri che è in noi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
 
2014 Dehaene, Stanislas
Consciousness and the Brain. Deciphering How the Brain codes Our Thoughts, Viking Penguin Inc.. Tr. it.: Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
 
2004 Ferraris, Maurizio
Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.
 
2008 Ferraris, Maurizio (a cura di)
Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano.
 
2012 Ferraris, Maurizio
Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari.
 
2006 Hauser, Marc D.
Moral Minds. How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Ecco. Tr. it.: Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Il Saggiatore, Milano, 2007.
 
2011 Kahneman, Daniel
Thinking, Fast and Slow, Penguin. Tr. it.: Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, 2012.
 
 
 
NOTE
 
[1] Questo scritto è composto soprattutto da una serie di appunti e riflessioni, non è definitivo e non è destinato a una qualche pubblicazione esterna; ha soprattutto la funzione di articolare un programma di lavoro per ulteriori approfondimenti.
[2] Secondo la vulgata, Parmenide sarebbe stato il primo filosofo a occuparsi di ontologia.
[3] Cfr. Abbagnano 1998.
[4] Cfr. Abbagnano 1998: 779.
[5] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008.
[6] Cfr. Kobau in Ferraris (a cura di) 2008: 112-113.
[7] Cfr. Kobau in Ferraris (a cura di) 2008: 115.
[8] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008.
[9] Il riferimento è a un noto articolo di Quine.
[10] Si badi che nella tradizione empirista l’uso del termine fenomeno aveva immediatamente un taglio polemico nei confronti di coloro che si attardavano a concentrarsi sulle cose in sé, giudicate ora di nessun interesse. Nella tradizione kantiana, avendo egli ammesso la cosa in sé, il fenomeno assume la connotazione di una mera apparenza.
[11] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 16-17.
[12] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 19.
[13] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 9.
[14] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 12.
[15] Si veda soprattutto Ferraris 2004.
[16] Lo scetticismo humiano derivava dall’eliminazione radicale delle categorie innate nella mente del soggetto per lasciare spazio all’elemento sensoriale. Lo scetticismo prodotto dal trascendentalismo deriva invece dalla proliferazione delle categorie nella mente del soggetto che si sovrappongono al mondo esterno o addirittura pretendono di generare il mondo esterno.
[17] È curioso che il singolo – che è parte della sua totalità – possieda le categorie per conoscere la struttura della totalità: la pretesa di Hegel filosofo di avere rappresentato lo Spirito nella sua mente (nella sua filosofia) è davvero curiosa e comunque finisce per avere un analogo nei platonici che ritenevano di poter ripetere l’iperuranio nella loro mente (attraverso la dialettica).
[18] Per Tommaso, secondo la dottrina dell’analogia dell’essere, i trascendentali sono le proprietà essenziali che sono possedute in primis da Dio e che Dio condivide, seppure con gradi diversi, con tutte le sue creature. Queste proprietà sono tre e sono uno, vero e buono. Dio dunque sarebbe l’Essere (uno), la Verità e il Bene.
[19] Si noti che, dopo Kant, nella tradizione continentale, il termine “Scienza” viene applicato alle categorie della mente (spirito compreso) piuttosto che al mondo empirico.
[20] Su questo punto, si veda il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[21] So bene che Heidegger parla di essere, ma nel suo sistema l’essere ha lo stesso ruolo che in altre filosofie ha l’essenza. Heidegger talvolta usa anche il termine essenza ma lo usa in modo assolutamente non univoco. Nel suo sistema c’è posto per una sola essenza (l’essere) e tutto il resto è apparenza resa possibile dall’essere.  Questo perché tutto quel che sta nel mondo fenomenico è apparenza precategoriale. Così l’essenza viene per lo più assimilata all’essere.
[22] Anche in Marx il culmine della rivelazione si ha scavando dentro alla natura della merce.
[23] Cfr. D’Agostini 2013.
[24] Si veda Ferraris 2012 e il dibattito che ne è seguito.
[25] Cfr. Ferraris 2004.
[26] Si veda sempre Ferraris 2004.
[27] Si veda ad esempio Damasio 2010 e Dehaene 2014.
[28] Si veda Dehaene 1997.
[29] Si veda ad esempio Kahneman 2011, oppure Hauser 2006.
 

domenica 13 settembre 2015

Nietzsche tra individuazione e individualità

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1. Sicuramente[1] Nietzsche non è stato un costruttore di sistemi come alcuni suoi predecessori. La sua ontologia più nota, quella della volontà di potenza, che è anche in un certo senso il suo punto di arrivo, è costruita intorno a elementi o entità che sono, in un certo senso, individuali (anche se ciò non contribuisce a fare di lui un filosofo dell’individualità nello stesso senso di un Locke o di un Mill). Nonostante molte delle sue speculazioni filosofiche abbiano ruotato intorno alla questione dell’individualità, nelle sue opere non si trova alcuna riflessione esplicita su questo tema. Spesso Nietzsche è stato addirittura considerato come il teorico del flusso eracliteo, della continua trasformazione, e vari interpreti hanno negato che nella sua filosofia ci sia spazio per qualcosa come l’individualità.
Al contrario, ha affermato Nabais che: «Contrary to this view, I want to show that Nietzsche does have a theory of individuation. The development of Nietzsche’s work over a 17-year period represents a positive search for an adequate conception of the individual».[2] Il saggio di Nabais cui stiamo facendo riferimento è davvero prezioso poiché permette di gettare nuova luce sulla questione del rapporto tra la filosofia di Nietzsche e la questione dell’individualità. Questo anche perché una certa vulgata ha fatto di Nietzsche il difensore strenuo dell’individuo nei confronti di qualunque sovrapposizione o sistema. Una specie di profeta dell’anarchismo, d’individualista rivoluzionario o giù di lì. Ma anche un demolitore della stessa nozione di individualità. Vedremo in chiusura in che senso ciò possa avere qualche fondamento.
 
2. Per chiarire opportunamente la questione, seguendo da vicino le argomentazioni di Nabais, è opportuno distinguere almeno due periodi nello sviluppo filosofico di Nietzsche. Avremo un primo periodo, fino al 1885, in cui egli si ritrova principalmente sotto l’influenza delle teorie di Schopenhauer, e un secondo periodo successivo, che ruota intorno alla nozione della volontà di potenza, nel quale egli cerca di superare alcuni limiti o paradossi della fase precedente. La definizione del primo periodo proposta da Nabais ci pare tuttavia fin troppo ampia e noi avremmo preferito qualche ulteriore suddivisione, per apprezzare in pieno gli sviluppi del pensiero di Nietzsche, soprattutto in relazione a quello di Schopenhauer. Nabais ne tiene ovviamente conto, anche se ha evitato di sovraccaricare la sua periodizzazione.
 
3. La tesi di Nabais ruota intorno al fatto che Schopenhauer avrebbe lasciato in eredità al giovane Nietzsche un pasticcio irrisolto relativo alla teoria dell’individualità, un pasticcio che non ha avuto gravi ripercussioni sulla teoria di Schopenhauer, ma che può diventare davvero assai problematico appena ci si allontani dalla sua dottrina. È noto del resto che Schopenhauer non curava troppo la coerenza interna delle sue teorie, fatto dovuto forse alla sua considerazione della filosofia come attività espressiva, artistico – letteraria.
Il motivo conduttore principale della dottrina schopenhaueriana dell’individualità è noto anche agli studenti liceali. La volontà schopenhaueriana, erede della cosa in sé kantiana, è rigorosamente una ed è collocata al di là dello spazio e del tempo. Essa si manifesta anzitutto nella molteplicità delle idee, anch’esse in un certo senso eterne e immutabili, e poi finalmente, grazie alle forme trascendentali dello spazio, del tempo e della causalità (anche queste mere eredità kantiane), si manifesta nel complesso dei fenomeni, cioè nei singoli individui. Schopenhauer ha chiamato principium individuationis questo processo di generazione dei singoli individui. Com’è noto tuttavia, il fenomeno, l’individuazione nello spazio e nel tempo, per Schopenhauer, non è la vera realtà; essa altro non è che rappresentazione o, se si vuole, mera illusione. La vera realtà è la volontà noumenica. La conseguenza di questa teoria è che anche gli individui generati dall’individuazione vanno considerati come un’illusione. L’esito finale della filosofia schopenhaueriana sarà proprio quello di riconoscere il carattere illusorio delle rappresentazioni e addirittura di giungere a sopprimere le rappresentazioni stesse. Gli individui sono una manifestazione della volontà, ma questi, poiché determinano soltanto un ciclo del dolore, dovranno alla fine essere soppressi.
 
4. Questa almeno è una parte della storia. Quella più nota. La parte meno nota della storia – che serve tuttavia a meglio comprenderla – ha ancora radici nella filosofia di Kant, cui Schopenhauer si era abbondantemente ispirato. Kant, nella Critica della ragion pura discute una questione assai specifica ma densa di conseguenze circa il tema che ci interessa. Essa riguarda i confini tra il mondo fenomenico e il mondo morale o mondo noumenico. L’uomo, nella filosofia di Kant, com’è noto, si ritrova in entrambi i mondi: in quanto immerso nel mondo fenomenico, esso è soggetto alle leggi della natura e in particolare alle leggi della causalità. Noi diremmo che nel mondo fenomenico l’uomo è condizionato. D’altro canto, l’uomo abita anche nel mondo morale, che per Kant notoriamente è noumenico, ovvero extra fenomenico e incondizionato. In campo morale dovrebbe essere l’uomo a determinare il dover essere. Il problema che si pone Kant è come sia possibile che lo stesso uomo sia, contemporaneamente, soggetto alla causalità dentro al mondo fenomenico e, nello stesso tempo, autonomo legislatore e produttore della legge morale nel mondo noumenico.
Kant si era tolto dall’impiccio distinguendo tra due tipi di carattere della persona: un carattere empirico, corrispondente alle azioni causali, ai condizionamenti che l’individuo subisce nel mondo fenomenico in cui abita e, d’altro canto, un carattere intelligibile corrispondente ai requisiti implicati dalla legge morale. Si poteva così presumere che il carattere intelligibile potesse sopravanzare o comunque influenzare il carattere empirico nella determinazione del comportamento.
Tutto ciò poteva funzionare nel momento in cui si manteneva una netta distinzione tra fenomeno e noumeno. Com’è noto, questa distinzione venne invece completamente eliminata da Schopenhauer, con esiti imprevedibili. Il momento fenomenico divenne quindi la rappresentazione, l’apparenza, mentre il momento noumenico divenne la volontà. Quindi, il carattere intelligibile (la volontà) si trovava ora a determinare l’apparenza in tutto e per tutto. Il singolo individuo non aveva più da realizzare alcun compito morale universale, bensì doveva realizzare il suo preciso carattere intelligibile, che era quello determinato dalla volontà. Così nel sistema di Schopenhauer l’individuo non era più il libero interprete della legge morale (come in Kant) bensì l’esecutore di un destino che la volontà noumenica aveva prescritto per lui. La volontà determinava il destino fenomenico e l’individuo non poteva sottrarsi.
Ciò dava così origine al ciclo della sofferenza e del dolore, cui ci si poteva sottrarre solo eliminando la fonte della volontà stessa e quindi eliminando anche l’individualità. Il percorso della liberazione secondo Schopenhauer altro non era se non una progressiva soppressione della individualità, in tutti i sensi.
 
5. Ma vediamo meglio la questione. Nell’individuazione, secondo Schopenhauer, le piante e gli animali, come individui, corrispondono esattamente all’idea della loro specie. Questo perché c’è un’unica idea per ogni specie, poiché tutti gli individui della stessa specie hanno esattamente lo stesso comportamento. Ciò non vale per gli umani, ove Schopenhauer riconosce che i singoli individui siano entità uniche, assai diverse tra loro. Ciò significa che ogni singolo individuo umano è “la manifestazione di un’idea”, ovvero esso è strettamente determinato in tutte le sue caratteristiche individuali dalla volontà stessa. Ne consegue allora che, all’interno del singolo individuo, si abbia la distinzione tra il carattere intelligibile (identificato con l’idea stessa del singolo individuo) e il carattere empirico, che corrisponde all’agire dell’uomo nel mondo fenomenico in risposta ai meccanismi della ragion sufficiente. Il carattere intelligibile quindi diventa l’idea di un singolo individuo, una specie di predisposizione, di modello ideale di noi stessi, che portiamo in noi fin dalla nascita e che è espressione immediata della volontà. Nella nostra vita empirica altro non facciamo che comprendere sempre meglio il nostro carattere e tentare di realizzarlo.[3] Il destino di ciascun individuo è dunque già scritto nel suo carattere intelligibile, cioè nell’impulso di fondo che lo governa. Si tratta dunque, come ognun vede, di una concezione fortemente deterministica, nella quale all’individualità, comunque sia concepita, non resta alcuna libertà.
Il fatto che talvolta ci sentiamo responsabili delle nostre azioni (come in Kant) è dunque una pura illusione e non ha a che fare con la libertà. Ci sentiamo responsabili proprio perché noi siamo la volontà intera che ci muove e quindi vogliamo la realizzazione completa del nostro carattere. Così ha spiegato questo punto G. Invernizzi: «La dottrina della libertà trascendentale spiega il senso di responsabilità che ciascuno prova in sé. Posto che la volontà è per intero in ogni individuo, ovvero che ogni individuo è per intero la volontà, se ne deduce che l’atto (fuori dal tempo) che costituisce il carattere intelligibile, oltre ad essere libe­ro, può essere considerato come compiuto da ogni individuo: come per Pla­tone, cui Schopenhauer si richiama, ognuno è dunque responsabile moral­mente del proprio carattere, che si esplica poi con inflessibile necessità nel mondo fenomenico. Questa teoria è sintetizzata nella formula operari sequi­tur esse. L’agire (fenomenico) dell’individuo dipende dal suo essere transfeno­menico, il quale però, a ben vedere, è esso stesso un agire. Questa soluzione appare a Schopenhauer in grado di coniugare libertà e necessità in un modo rispettoso dell’esperienza. Inoltre essa rende l’uomo moralmente responsabi­le, in quanto creatore di se stesso, cosa che non avviene se si presenta l’uomo come la creatura di un’entità superiore».[4]
Dunque la responsabilità morale individuale (su cui era fondata l’intera etica kantiana) diventa ora soltanto la realizzazione completa della volontà, cioè del carattere intelligibile, che tuttavia non deriva dalle scelte individuali bensì dal destino che ciascuno ha ricevuto. È chiaro che quest’onnipotenza del noumeno determina l’esito finale stesso della filosofia schopenhaueriana e il destino negativo dell’individuo.
 
6. Nella filosofia di Schopenhauer, quindi, nel momento in cui ciascun individuo uomo, deterministicamente, altro non potesse fare se non realizzare per intero il proprio carattere (la volontà che è in lui) non si avrebbe alcun margine per sfuggire alla volontà. Gli uomini altro non sarebbero se non burattini nelle mani della volontà. Tuttavia secondo Schopenhauer – e qui ci spostiamo su un terreno più noto - è possibile non tanto costruire positivamente un altro diverso carattere, quanto sottrarsi all’imperativo della realizzazione del proprio carattere. Ciò può avvenire soltanto attraverso lo sviluppo della consapevolezza (ovvero attraverso la filosofia). Spiega Schopenhauer: «Ma la chiave per comporre queste contraddizioni consiste in ciò, che lo stato in cui il carattere è sottratto al potere dei motivi non proviene immediatamente dalla volontà, bensì da un mutato modo di conoscere. Finché cioè la conoscenza non è altra che quella prigioniera del principium indivi­duationis, che segue senz’altro il principio di ragione, anche la forza dei motivi è irresistibile; ma quando il principium individuationis viene trapassato, le idee, anzi l’essenza delle cose in sé, come la stessa volontà presente in tutto, vengono conosciute direttamente, e da questa conoscenza scaturisce un quietivo generale del volere; allora i singoli motivi divengono inefficaci, perché il tipo di conoscenza ad essi corrispondente è oscurato e scalzato da uno tutto diverso. È vero quindi che il carattere non può mai mutare parzialmente e deve invece di volta in volta esplicare, con la consequenzialità di una legge di natura, la volontà, di cui è nel suo complesso il fenomeno; ma proprio questo complesso, il carattere medesimo, può essere del tutto soppresso dal suddetto mutamento della conoscenza».[5]
L’unica manifestazione di libertà del volere concessa all’uomo sta appunto nel sottrarsi ai motivi che, attraverso il nostro carattere, pesano su ciascuno di noi. Dice Schopenhauer che: «Essa subentra solo quando la volontà, pervenuta alla conoscenza della propria essenza in sé, ne riceve un quietivo, venendo in tal modo appunto sottratta all’azione dei motivi, che opera nel dominio di un altro tipo di conoscenza, i cui oggetti sono soltanto fenomeni. La possibilità della libertà che così si manifesta è il più grande privilegio dell’uomo, all’animale esso mancherà in eterno, perché ne è condizione la facoltà riflessiva della ragione, che consente di abbracciare con lo sguardo l’insieme della vita, indipendentemente dall’impressione del presente. L’animale non ha alcuna possibilità di libertà, come neanche ha la possibilità di una scelta vera e propria, cioè meditata, dopo un perfetto conflitto dei motivi, che dovrebbero essere a tal fine rappresentazioni astratte».[6]
Insomma, qualora l’individuo riesca a conoscere (attraverso la filosofia) la sua condizione illusoria e qualora comprenda fino in fondo i meccanismi attraverso cui la volontà lo condiziona, allora l’uomo può riuscire a sottrarsi ai condizionamenti della volontà; può, nel linguaggio di Schopenhauer, trasformare i motivi in quietivi, aprendo così la strada della liberazione che tuttavia implica anche la soppressione dell’individualità.
 
7. La teoria schopenhaueriana dell’identità personale risulta dunque alquanto problematica. Da un lato, gli individui in genere sono tali solo ed esclusivamente sulla base dell’individuazione, cioè della moltiplicazione della loro singola idea nello spazio e nel tempo. Tutti i gatti sono copie illusorie dell’unica idea del gatto. Il gatto A si distingue dal gatto B solo per la sua collocazione nello spazio e nel tempo, secondo la ragion sufficiente.
D’altro canto, però, nel caso degli umani, ogni singolo individuo umano corrisponde a un’idea specifica prodotta dalla volontà, cioè al suo carattere intelligibile. Come c’è l’idea del gatto, così c’è l’idea di Tizio, di Caio e di Sempronio. Gli individui umani possiedono dunque un complesso distintivo di particolarità sul piano ideale che non sono semplicemente dovute all’individuazione secondo la ragion sufficiente. Caio ha un carattere intelligibile diverso da quello di Tizio. Questo specifico carattere rappresenta la meta, il destino già previsto, che Caio è spinto a realizzare dalla sua stessa volontà. L’essere umano singolo dunque è duplice, è anzitutto un individuo ideale vincolato al proprio destino caratteriale, diverso dagli altri, e poi è anche la sua individuazione illusoria nello spazio e nel tempo. Ciascun carattere empirico tuttavia è spinto a seguire il proprio impulso vitale, realizzare cioè il proprio carattere intelligibile. La volontà e l’illusione devono in altri termini incontrarsi nella vita del singolo.
La differenza tra l’uomo e gli altri animali e piante sta nel fatto che per gli animali c’è un unico destino previsto dalla specie. Per gli uomini invece, ciascun uomo ha già il suo destino atemporale, previsto dal suo specifico carattere intelligibile. Dunque ogni singolo uomo ha il proprio impulso noumenico determinato dal carattere intelligibile che lo contraddistingue. Tutti gli individui umani sono dunque diversi, per quanto asserviti al loro specifico destino.
L’identità umana individuale, in un certo senso, non ci appartiene del tutto, essa viene progressivamente scoperta e realizzata. Il singolo uomo individualizzato si trova dunque originariamente nello spazio e nel tempo, ma, alla stregua dell’animale, non conosce chi veramente è. Cioè non conosce il proprio destino, cioè non conosce il suo carattere intelligibile. Allora bisogna che l’individuo intraprenda un processo di scoperta, di riconoscimento di quello che già è (cioè, di cosa vuole la volontà che è in lui). Ciò può avvenire soltanto lasciandosi agire, cioè lasciando che il modello, che è già in lui, affiori, si perfezioni e si affermi, quale che sia. La scoperta e la realizzazione del proprio carattere equivale alla realizzazione dell’opera d’arte, poiché è pur sempre un recupero dell’idea che avviene mentre ci si trova nel flusso della ragion sufficiente. La tragedia peraltro insegna che ciascuno va inconsapevolmente incontro al suo destino, ciascuno cioè scopre il suo destino.
Come si vede, la mossa azzardata di Schopenhauer di sopprimere la differenza tra noumeno e fenomeno nella filosofia kantiana, tra l’altro, ha avuto il risultato di trasferire il determinismo dal mondo della natura al mondo morale e di sottoporre il mondo morale a una totalità arbitraria e irrazionale come la volontà. L’individuo diventa così il terreno d’azione di una volontà che esso non ha scelto, diventa il protagonista di una vita illusoria e dolorosa, per cui non gli resta che sopprimersi in quanto individuo, attraverso le pratiche ascetiche ampiamente descritte da Schopenhauer stesso.
 
8. Quella che abbiamo sintetizzato era la gabbia teorica nella quale era imprigionato il giovane Nietzsche rispetto alla questione dell’individualità, più o meno all’epoca del suo primo approccio alla filosofia del Maestro. Com’è noto, Nietzsche non seguirà Schopenhauer nel tentativo di trasformare i motivi in quietivi. Per Nietzsche , contra Schopenhauer, occorreva accettare il dolore come parte della vita, occorreva addirittura volere il proprio destino. Che egli non abbia del tutto seguito la prospettiva del Maestro non gli ha tuttavia fornito ipso facto una nuova teoria dell’individualità. A lungo egli continuerà a mantenere il dualismo tra noumeno e fenomeno e ancor più a lungo continuerà a mantenere la nozione di un’individuazione illusoria nell’ambito della ragion sufficiente. Una nuova teoria – che poi culminerà nella volontà di potenza – si farà strada poco per volta, nel progressivo distanziarsi dal Maestro, anche se poi rimarrà incompiuta per le note complicazioni dell’ultima fase della biografia di Nietzsche.
9. Nei suoi primi lavori Nietzsche adotta in pieno la prospettiva metafisica schopenhaueriana, con tutte le sue incongruenze relative alla questione della individualità. Così ha affermato Nabais: «The works of Nietzsche’s rst period (1872–6) are profoundly marked by this paradox of individuality of Schopenhauer’s metaphysics: they adopt the fundamental distinction between the thing-in-itself and the phenomenon, in much the same way as Schopenhauer, in his fashion (constituting it as the paradigm for a series of oppositions – one/multiple, essence/existence, reality/appearance), had taken it over from Kant».[7] Tuttavia – sempre seguendo Nabais - Nietzsche non è semplicemente un ripetitore di Schopenhauer e fin dalle prime opere si scorge il tentativo di differenziarsi dal Maestro e di trovare un qualche fondamento per l’esistenza empirica individuale.
Come afferma Nabais: «Nietzsche does not follow Schopenhauer in proposing a process of ascetic negation of the individual will but endeavors to justify the plane of appearance itself, and, therefore, the empirical existence of each individual. If the Dionysian ecstasy represents the state of ascetic fusion with the “primal One” (das Ur-Eine), which, as Schopenhauer had said, is attained through the disinterested contemplation of the Whole beyond all individual motivation, that same ecstasy is nonetheless counterbalanced by the gure of Apollo, “the magnicent divine image [Götterbild] of the principium individuationis,” as Nietzsche signicantly calls him, who represents the endeavor, through apology for the forms of appearance and dream, to justify the individualized character of human existence. For Nietzsche, the mystery of Greek tragedy lies in the presence within it of that tension between the One, manifested in mystic union with the universe in the Dionysiac delirium, and the multiple, embodied in the characters’ struggle for the heroic afrmation of their individuality».[8]
Sono questi i temi presenti ne La nascita della tragedia (di cui qui si dà per scontata la conoscenza da parte del lettore).
 
10. Un momento di netta differenziazione di Nietzsche nei confronti delle teorie schopenhaueriane si ha a partire dal 1878. Con Umano troppo umano, egli tende ad abbandonare la prospettiva dualistica noumeno/ fenomeno che era implicita nel sistema schopenhaueriano. Sparisce (o vien lasciata nello sfondo) dunque la cosa in sé e l’unico mondo effettivo diventa quello della rappresentazione fenomenica. Nietzsche comincia dunque ad ammettere che c’è un solo piano di realtà e che ci sono soltanto individui.
Il fatto è che Nietzsche continua a considerare l’unico piano di realtà che gli è rimasto, cioè la rappresentazione, esattamente nello stesso modo in cui l’aveva definita Schopenhauer, cioè come il regno della ragion sufficiente. L’eliminazione del principio noumenico getta così l’individuo umano completamente all’interno della rappresentazione e lo assoggetta completamente alle leggi della causalità (si ricordi che spazio, tempo e causalità erano le categorie schopenhaueriane della rappresentazione). Si passa quindi dal determinismo rigido della cosa in sé sul mondo della rappresentazione a un altro determinismo, altrettanto rigido, all’interno del mondo della rappresentazione.
Spiega in proposito Nabais: «The concept of the individual occupies a key position in Nietzsche’s works of this period. Nietzsche attempts to determine the historical conditions which permitted the appearance of sovereign individuals who fight for their own individuality, in accordance with the model which he discovers in Italy’s “Renaissance man.” […] However, this autonomy of representation compromises the basis of the individuality of each singular being. In fact, to reject the possibility of an unconditioned world constituting the principle of intelligibility of the empirical world means to deprive individuality of the status of an immutable law underlying both the identity of each individual in time and the very internal principle of individual differentiation. On the strict level of representation, the individuality of human action is necessarily diluted by the empirical constraints of a given life-history. Nietzsche goes so far as to argue that the biographical sequence of each individual’s life is determined across the long chain of empirical causality […]. On the level of representation, any internal law of action disappears. The individual can no longer live according to his own law, can no longer be himself. The only law that remains is that which governs the multiplicity of individual life-histories: the principle of causality which mechanically determines all events within the “wheel of the world” on the basis of their position in the order of simultaneity and succession».[9]
La conseguenza di questa situazione è che non esiste più alcuna possibilità di un’individualità interna, di un destino, di un carattere intelligibile da realizzare. L’individualità è ora completamente un prodotto meccanico che proviene dall’esterno, in diretta conseguenza della sparizione della cosa in sé, e per di più le caratteristiche di illusorietà e di esteriorità della rappresentazione, in cui Nietzsche continua fermamente a credere, impediscono qualsiasi generazione di un principio sostitutivo. Quindi ora qualsiasi progetto di l’individualità diventa un compito davvero impossibile.
Ha osservato in proposito Nabais: « He now sees individuality as a model to be constructed and realized by each individual […]. Nonetheless, this conception of individuality is clearly incompatible with Nietzsche’s reduction of all reality to the level of representation, which is governed by mechanical causality. […] Nietzsche, inverting Schopenhauer’s position and guided by the project of justifying individuality within empirical individuation itself, saves the forms of representation by converting them into the sole real plane. However, he thus reduces individuality to an appearance, a mere representation made of itself by an “ego” petried within the causal chain of events in time. Nietzsche is still the prey of Schopenhauer’s metaphysics, even in the form in which he rejects it».[10]
 
11. È chiaro così che la fondazione di una qualche individualità in base alla mera esteriorità delle leggi causali (cosa che sarebbe stata, per così dire, un mero disastroso “capovolgimento” di Schopenhauer) non poteva che essere destinata a fallire. Il fatto di restare fermamente ancorato al mondo della rappresentazione fornisce a Nietzsche un feroce apparato critico atto per demolire ogni pretesa rappresentazione dell’individualità (e dei valori), ma non gli fornisce alcun aggancio per la costruzione di un nuovo modello d’individualità. Queste considerazioni permettono di comprendere a fondo come la cosiddetta “fase illuministica” di Nietzsche non fosse affatto effettivamente illuministica e si basasse invece su un assunto metafisico schopenhaueriano e cioè sulla convinzione pregiudiziale dell’illusorietà del mondo.[11] Nietzsche sa già che tutto è illusorio e perciò ha buon gioco a “mostrare” questa illusorietà a proposito di qualsiasi questione. Evviva il filosofo del sospetto! È, questo, il meccanismo tipico del pensiero esistenzialista per cui, avendo perduto l’essenza, non resta che mostrare l’ignominia dell’esistenza.[12]
 
12. Nietzsche permane per alcuni anni su queste posizioni, cioè, detto in soldoni, continua a rifiutare una parte del sistema di Schopenhauer (la cosa in sé) continuando tuttavia disastrosamente a mantenere l’altra (la rappresentazione). I primi segni di un cambiamento di posizione si scorgono nel 1881. Afferma in proposito Nabais: «Nietzsche’s first attempt to resolve this aporia – this tension between individuality without individuation and individuation without individuality – takes the form of the idea of eternal recurrence».[13] L’eterno ritorno dell’identico costituirebbe dunque una tappa del cammino di Nietzsche volto a superare la gabbia in cui la metafisica di Schopenhauer lo aveva confinato, suo malgrado. Sull’eterno ritorno nicciano sono stati scritti fiumi di parole. Nietzsche in effetti non è del tutto chiaro in proposito. Tuttavia la chiave interpretativa che stiamo sviluppando permette abbastanza agevolmente di comprenderne il senso (o, se si preferisce, di decifrarne con relativa sicurezza almeno uno dei molteplici sensi).
Il mondo della rappresentazione bruta (caratterizzato dallo spazio, tempo e causalità) in cui Nietzsche si era confinato, aveva la caratteristica di rinviare all’infinito, in avanti e indietro, la catena delle cause e degli effetti che agivano sui destini dei singoli individui. L’individuo era rimasto soltanto un effetto. In una simile situazione, ogni individualità dotata di qualche fondamento interno, di qualche autonomia o di qualche permanenza era ormai divenuta del tutto impossibile. Ogni evento individuale non poteva che risultare spietatamente come il frutto irripetibile di una cieca catena causale. Nietzsche, insomma, stava imparando a sue spese come il determinismo assoluto potesse trasformarsi in cieca casualità e quindi come l’individualità potesse diventare priva di ogni fondamento e consistenza.
 L’eterno ritorno, in questo contesto, ha la funzione di ripristinare qualcosa di simile al carattere intelligibile (cioè l’idea di una specifica individualità) senza però fare riferimento al noumeno, alla volontà o alla cosa in sé, che ormai erano stati esclusi (e collocati essi stessi tra le illusioni).Questo sostituto del carattere intelligibile si colloca ora dentro alla rappresentazione stessa e si fonda su una caratteristica della stessa ragion sufficiente. L’argomentazione di Nietzsche in proposito è, invero, debolissima ma serve perfettamente al suo impellente bisogno del momento. Gli eventi sul piano spazio temporale sarebbero in numero finito, per cui in un tempo infinito, questi non possono che ripetersi.[14] Un evento che si ripete, pur nel flusso continuo, acquisisce una sua permanenza oltre il tempo, una sua stabilità, una sua eternità. Il carattere intelligibile così riemerge, non più paracadutato dall’esterno ma ora proveniente da dentro la rappresentazione stessa. La ripetizione assicura una qualche stabilità, pur nel flusso continuo.
 Come afferma Nabais: «The idea of the eternal recurrence of all events now makes it possible to conceive the basis of the individuality of each individual in a form which is innovative and, at the same time, the locus of a terrible paradox».[15] Così spiega ulteriormente: «The access of each individual to his individuality no longer happens through the mediation of a subtraction from his empirical conditions as a means of becoming a transparent expression of an atemporal law; nor does it occur through the pursuit of an individual model constituting a sublime form. Individuality is no longer conceived as residing either on the hither side of each individual’s empirical existence, or beyond it: it is in it, and merges with it in an absolute fashion in each moment. To accede to one’s individuality – offered as it is in each moment to each individual as an original given, conferred on him eternally in an immanent fashion – is to reply in the affirmative to the question: “Do you want this once more, and also for innumerable times?”».[16]
Peraltro, una simile soluzione non era nuova nella storia della filosofia: essa si ritrova già, seppure in una forma grezza, nella fisica stoica, ove si sostiene la teoria dei mondi che si succedono sempre uguali, poiché sono retti dal logos. In fondo Nietzsche sta cercando un logos che possa fungere da principio esplicativo.
Così commenta Nabais: «The notion of eternal recurrence finds Nietzsche extracting the most radical consequences possible from his “anti-metaphysical” decision to remain on the plane of representation, refusing the categories of “reason,” “beginning,” or “finality.” Returning eternally on themselves, spatio-temporal relations have become self-subsistent, conferring on themselves, in circular fashion, sufficient reason for the fact that they are what they are rather than something else. In this universe, then, each individual partakes of the privilege of being able to display his raison d’être in the fact of existing in a particular space and at a particular time. Nonetheless, the idea of eternal recurrence still requires a complement: it needs to be doubled by an internal perspective on the individuality of each individual. It was precisely such a perspective that Nietzsche attained from 1885 onwards, with the elaboration of the theory of the will to power».[17]
 
13. L’eterno ritorno comunque non elimina l’universale dipendenza di tutto dalla catena causale e dallo spazio tempo. Semplicemente conferisce una individualità (fondata sull’ipotesi dell’eternità della ripetizione)[18] a ciascun elemento che venga a determinarsi nel continuum causale e spazio temporale. Tuttavia ciò non basta, poiché si ritornerebbe alla situazione dell’universale determinismo e quindi agli opposti atteggiamenti dell’amor fati oppure del quietivo di Schopenhauer.[19] L’individuo che ne deriva, comunque, continua a non avere nulla di libero, nulla di soggettivamente articolato.
Si noti che il mondo della rappresentazione ,entro il quale avvengono tutte queste cose, non è il mondo della natura che veniva raccontato dalla fisica dell’Ottocento, bensì il mondo come veniva raccontato dalle categorie kant-schopenhaueriane, il mondo della Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Se Nietzsche avesse accettato la visione della fisica del suo tempo avrebbe potuto cominciare a occuparsi di fisiologia, di teorie della percezione, di rapporti tra fisico e psichico e simili.[20]
L’eterno ritorno, peraltro frutto di un’intuizione più che di una solida argomentazione, può al più alimentare un atteggiamento di amor fati, ma lascia le cose esattamente come stanno, lascia l’individuo disperso all’interno della rappresentazione. Nietzsche a questo punto cercherà di costruire una nuova teoria dell’individualità con le poche risorse concettuali che gli erano rimaste, dopo la potatura del pensiero negativo, cioè dopo la denuncia della generale illusorietà di tutta la realtà. Egli si trova ora così di fronte all’esigenza di introdurre qualche elemento di libertà o almeno di spontaneità e di spiegare la costituzione delle identità complesse, come le identità personali.
 
14. Nel 1885 Nietzsche ha cominciato a lavorare attorno al progetto della volontà di potenza e, con ciò, ha tentato di svolgere un successivo passo avanti verso lo sviluppo di una teoria dell’individualità. Ciò tuttavia ha comportato una ripresa della metafisica e un nuovo ricorso all’intuizione per individuare qualche tipo di entità essenziale che potesse costituire un principio fondativo ed esplicativo di ordine generale. La novità essenziale di questo nuovo corso è che il principio fondativo è ora cercato all’interno e nel profondo di ciò che è individuale.
Così ha osservato Nabais: «The main innovation represented by the theory of the will to power is Nietzsche’s abandonment of the plane of representation as the sole means of access to the real. It follows that his principal target is now the mechanistic view of the world – precisely because of its rejection of meta-empirical categories of any kind. […] He radically inverts his perspective on the interpretation of the real, abandoning the decision to reject any “intuition” beyond the plane of representation. It is now precisely the internal, that which escapes all representation, which has to become the explicative principle of observable external relations. All movements, all phenomena or laws, will now have to be seen as a manifestation, as a “symptom” of processes of which they are merely an expression».[21]
 Andando ora alla ricerca di qualche tipo di substrato elementare che potesse fungere da essenza e quindi anche da elemento individuale, Nietzsche rifiuta caparbiamente sia le unità elementari della fisica, sia le diverse unità elementari che erano state proposte dalle filosofie precedenti, come atomi, monadi, e così via. Al loro posto Nietzsche pone dei quanti di potenza, delle entità dinamiche energetiche e vitali. Spiega Nabais in questo modo: «To the notion of “atom” or “thing” he now opposes a conception of the “dynamic quanta”: “no things remain but dynamic quanta, in a relation of tension to all other dynamic quanta: their essence lies in their relation to all other quanta, in their ‘effect’ upon the same” […]. The essence of these ultimate units is action – an action in which it is impossible to distinguish the agent from the action’s effects, since it invariably takes place inside a structure made up of a multiplicity of elements, themselves also active, which simultaneously occupy, in relation to each other, the positions of object and obstacle. To these “dynamic quanta” Nietzsche gives the name of the will to power: they are the primal element of the universe, its homogeneous dynamic, the sea of forces out of which individuation arises».[22]
È abbastanza chiaro, dalla sintesi di Nabais, come Nietzsche cerchi di evitare accuratamente gli scogli opposti del materialismo meccanicistico e dell’idealismo (anche se non è certo stato il primo ad avere questa bella ambizione). La sua posizione è sicuramente una specie di pluralismo di tipo naturalistico i cui elementi (i quanta, impulsi, drive,…) sono qualcosa di analogo all’energia e all’attività. Essa comporta ora il rifiuto del meccanicismo della ragion sufficiente e implica l’accettazione di una forma di energetismo, di un nuovo principio dinamico che tuttavia è disegnato sempre sulla falsariga delle precedenti filosofie romantiche della natura. La terminologia usata da Nietzsche, in effetti, sembra ricalcare solo in apparenza quella della fisica del suo tempo, nei cui confronti egli continua a sferrare attacchi polemici.
Parallelamente allo sviluppo di questa nuova concezione relativa alle sostanze elementari, si ha la persistenza dell’accusa di illusione nei confronti della individualità soggettiva come questa è esperita nella vita quotidiana. Solo scardinando l’illusione del soggetto, di un’unità del soggetto, si può giungere a esplicitare il meccanismo energetico plurale che regge tutti i fenomeni vitali: «Everything that happens in us is in itself something other».[23] Nabais prosegue poco oltre: «What Nietzsche essentially denounces in this imaginary notion of the “individual” is the presupposition of unity. To this he opposes the idea of the individual as a plurality, as “a plurality of animated beings which, partly struggling with one another, partly integrating and subordinating one another, in the affirmation of their individuality, also involuntarily affirm the whole”».[24] La dicotomia noumeno / fenomeno così si riproduce ora all’interno del singolo individuo uomo: la consapevolezza soggettiva che abbiamo di noi stessi è pura illusione, pura rappresentazione, mentre l’autentica realtà vitale è quel something other che ci determina, senza che ce ne accorgiamo.
 
15. Il processo di individuazione (di generazione degli individui) avviene ora grazie al dinamismo della massa dei quanta, delle volontà di potenza. Spiega Nabais: «Within the universe of force there exists an essential continuity between all its forms, which enables a process of continual metamorphosis of one into another. However, this continuum cannot be an undifferentiated whole. Nietzsche conceives it at all moments as exhibiting variations in intensity, with at least two orders of potency (when force accumulates at one point, it dissolves at another). These variations in potency presuppose the existence of points or singularities that constitute both poles of condensation and principles of differentiation; in Nietzsche’s words: “Mere variations of power could not feel themselves to be such: there must be present something that wants to grow and interprets the value of whatever else wants to grow”. […]What is this “something which wants to grow,” this minimum element of the universe of force? […] Nietzsche denes it in terms of two key determinations: the will to growth, and an interpreting being».[25]
Spiega ulteriormente Nabais: «The minimum elements that make up the totality of the movement of force, and form the internal principle of its differentiation, are conceived on the basis of four determinations: (a) they are differently located; (b) they exist in a relation of tension with all the other elements; (c) they struggle to achieve their own growth; and (d) they interpret systems of difference in terms of their own value. The main innovation here is to conceive individuality as the principle of differentiation of force, and thence of the process of constitution of individuals as “systems-of-life.” If individuation precedes differentiation as of right, then individuation itself must be constituted by individuals endowed with individuality – with an internal quality which enables them to interpret variations in potency and construct them as oppositions. It is thanks to the existence in the universe of a multiplicity of individualized singularities, each with its own individuality, that it is possible to create differences, establish relations of tension between dynamic quanta, and constitute individuals as organic totalities».[26]
Circa la natura di questi elementi, Nietzsche sembra alquanto oscillare tra una definizione estrinseca, che vede i singoli elementi come il puro prodotto delle relazioni in cui sono coinvolti, e una definizione intrinseca, che vede invece i singoli elementi come dotati di qualità loro proprie che fanno valere nel conflitto con gli altri elementi. In questo caso i singoli elementi sarebbero dotati di peculiarità loro proprie e quindi sarebbero non solo individuati ma anche individualizzati.
Questo ultimo Nietzsche presenta quindi un’ambiguità di fondo tra il primato dell’elemento (con il rischio di sconfinare in una sorta di atomismo) e il primato della relazione (con il rischio di dissolvere il carattere individuale delle entità). Queste difficoltà non sono davvero nuove nella storia della filosofia, basti pensare alla dottrina agostiniana della Trinità.
Secondo Nabais: «While not systematic in its scope the solution adopted to deal with the antinomy concerning the ontological status of relation entails: (1) dening all dynamic relations as essentially perspectivist; (2) afrming the superiority of the internal dynamism of each singularity vis-à-vis its external relations». Il risultato è che: «The concept of perspective indicates the basic principle of the physics of the will to power: an individual is not something primordially functional but something absolutely spontaneous. Any transformation of power occurring within an individual is the result of his perspective, of his internal activity. The global shifts in power within the force field or system in which that individual operates are an expression, or “symptom,” of that activity, and not the reverse. As Nietzsche puts it, “the force within is infinitely superior; much that looks like external influence is merely its adaptation from within”».[27]
Le caratteristiche sistematiche di questa visione che Nietzsche è andato elaborando, senza riuscire per altro a concludere in maniera convincente, sono state accuratamente ricostruite in Richardson 1996.[28]
 
16. Il progetto di costruzione di una teoria dell’individualità nella filosofia di Nietzsche si rivela così un progetto impossibile, non perché Nietzsche rispecchiasse la crisi della società borghese - come ha sostenuto qualcuno - ma per la gabbia metafisica ereditata, di cui egli non riesce a disfarsi completamente, nonostante i suoi lodevoli tentativi. La maldestra semplificazione della filosofia kantiana operata da Schopenhauer avrebbe richiesto non un capovolgimento ma un deciso abbandono, con un conseguente cambio di campo. Nietzsche dunque non esce mai dalla prospettiva metafisica, neppure nel suo periodo intermedio, nel quale egli pare ne prenda maggiormente le distanze.
Nel primo periodo subisce fortemente l’influenza della dicotomia noumeno/ fenomeno di Schopenhauer, all’interno della quale una teoria dell’individualità risulta assai difficoltosa. Nel secondo periodo, il periodo “illuministico”, egli è impegnato sul piano della “rappresentazione”, quasi come se fosse diventato un fenomenista, ma non riesce mai a diventarlo compiutamente, perché continua a considerare il fenomeno sempre secondo la vecchia prospettiva, cioè continua a far riferimento alla coppia noumeno/ fenomeno, pur con un pezzo mancante.
Alla fine, dopo l’eterno ritorno, non gli resta altro che tornare a costruire una metafisica che tuttavia porta con sé tutti i veti, le recinzioni, i paletti costruiti nelle fasi precedenti. A questo punto, l’unico posto dove si poteva nascondere il noumeno (o la cosa in sé) sono i quanta, i drive, gli impulsi energetici della volontà di potenza. Chiaramente Nietzsche non poteva più recuperare l’idea kantiana del soggetto morale (che ormai considerava come illusoria); d’altro canto non era neanche più possibile recuperare qualcosa che fosse simile al carattere intelligibile di Schopenhauer, per cui egli deve ora fare a meno di una idea di individuo dotata di qualche strutturazione o compiutezza. Il soggetto illuministico kantiano viene così ridotto a un campo di battaglia di forze oscure, cioè viene ridotto a un mero sintomo dei conflitti e delle gerarchie che si instaurano tra i quanta, tra i will to power.
La strada finale scelta da Nietzsche è ancora tutta dentro al vitalismo o all’energetismo romantico, dentro alla scia della volontà schopenhaueriana: forse l’unica autentica novità – che avrà importanti ripercussioni successive – sarà quella di postulare una attività pre-soggettiva da parte di entità che sono dotate di direzione e di forza, ma che sono destinate per lo più ad agire inconsciamente. L’individuo allora si appresterà a diventare, appunto, un sintomo di forze oscure nascoste nei meandri della psiche. Nascerà così quella torbida visione che accompagnerà la cultura europea per più di un secolo, di un individuo menomato, privo di consapevolezza, spinto dagli impulsi, incapace di controllarsi.[29] L’individualità mancata, derivante dal fallimento teorico della filosofia nicciana, sarà considerata come un’accurata descrizione empirica delle individualità della società di massa. È stata proprio questa la visione del soggetto che è diventata assai popolare nella cultura di massa del secondo Novecento. Nietzsche sarebbe senz’altro rabbrividito se avesse potuto immaginare che la sua filosofia avrebbe contribuito a sviluppare un sostituto ideologico di quella religione che egli tanto aborriva. Sviluppatosi come critica radicale della rappresentazione, il sistema di Nietzsche sarebbe diventato così uno degli elementi portanti di una rappresentazione ideologica vecchia e sorpassata.
 
Giuseppe Rinaldi
10/09/2015
 
 
OPERE CITATE
 
2006 Nabais, Nuno
The Individual and Individuality in Nietzsche, in Ansell Pearson, Keith (a cura di), A Companion to Nietzsche, Blackwell Publishing Ltd, Oxford, UK.
 
1996 Richardson, John
Nietzsche’s System, Oxford University Press, Inc., New York - Oxford.
 
2002 Schopenhauer, Arthur
Il mondo come volontà e rappresentazione (a cura di Sossio Giametta), Rizzoli, Milano. [1819]
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Questo saggio si basa fondamentalmente sulla lettura e sul commento di Nabais 2006.
[2] Cfr. Nabais 2006: 76. Come già spiegato, evito di tradurre perché questi saggi, per ora, non sono destinati al pubblico, avendo io smesso di collaborare con la rivista Città Futura.
[3] Questa concezione potrebbe essere considerata simile a quella degli antichi stoici, se non fosse che gli stoici pensavano a una ragione universale, un ordine universale, mentre Schopenhauer invoca i capricci di una volontà assolutamente disordinata.
[4] Cfr. G. Invernizzi, in P. Rossi, A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, vol. 5, pp. 318-319.
[5] Cfr. Schopenhauer 2002 [1819], § 70  p. 696 (trad. Giametta).
[6] Cfr. Schopenhauer 2002 [1819], § 70  p. 696 (trad. Giametta).
[7] Cfr. Nabais 2006: 78.
[8] Cfr. Nabais 2006: 79.
[9] Cfr. Nabais 2006: 81.
[10] Cfr. Nabais 2006: 82.
[11] Tutto ciò, tra l’altro, dimostra, se ce ne fosse ancora stato bisogno, che il cosiddetto “pensiero negativo” tanto negativo non è, poiché, comunque, si basa su un assunto metafisico.
[12] Su questo punto, vedi il mio articolo Il pensiero continentale nell’«Isola che non c’è», su questo stesso blog Finestrerotte.
[13] Cfr. Nabais 2006: 82.
[14] Questo modo di ragionare è stato inventato, per quel che ne so, da Platone, con la figura della «immagine mobile dell’eterno». Comunque, che gli eventi siano finiti e che il tempo sia infinito valgono al più come intuizioni e Nietzsche non ne dà alcuna giustificazione.
[15] Cfr. Nabais 2006: 83.
[16] Cfr. Nabais 2006: 84. La citazione, notissima, è di Nietzsche.
[17] Cfr. Nabais 2006: 85.
[18] Nietzsche pensa che un assurdo reiterato per l’eternità diventi, per ciò stesso, qualcosa di sensato.
[19] Che l’amor fati costituisca esattamente l’opposto del quietivo schopenhaueriano è stato invero poco notato.
[20] Il primo laboratorio di psicologia sperimentale fu realizzato a Lipsia nel 1879 da Wundt.
[21] Cfr. Nabais 2006: 85-86.
[22] Cfr. Nabais 2006: 88.
[23] Cfr. Nabais 2006: 87. L’espressione è citata da Nietzsche.
[24] Cfr. Nabais 2006: 87. La citazione virgolettata è di Nietzsche.
[25] Cfr. Nabais 2006: 88.
[26] Cfr. Nabais 2006: 88-89.
[27] Cfr. Nabais 2006: 92. La citazione virgolettata è da Nietzsche.
[28] Mi sono occupato della ricostruzione di Richardson in un altro articolo Nietzsche e la metafisica, pubblicato su questo blog Finestrerotte.
[29] La famosa proposizione freudiana secondo la quale la psicoanalisi avrebbe assestato un duro colpo al narcisismo dell’uomo, dopo quello di Copernico e quello di Darwin, è profondamente sbagliata. I primi due hanno prodotto risultati scientifici, mentre il terzo ha prodotto – Freud poteva ancora illudersi – un complesso di discutibili proposizioni derivanti da una corrente filosofica oscurantista, pessimista e misantropica.