domenica 29 giugno 2014

Uomini di troppo

 
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Nella sua seconda conferenza giapponese del 1966[1] Sartre ha affrontato la questione della funzione degli intellettuali. Anche in questo caso, il termine di paragone è lo specialista del sapere pratico. «Abbiamo definito l’intellettuale nella sua esistenza. Ora bisogna parlare della sua funzione. Ma ne ha una? È chiaro, in effetti, che nessuno gli ha dato l’incarico di esercitarla. […] Diciamo che egli si caratterizza come colui che non è stato incaricato da nessuno, il cui statuto non gli è stato conferito da alcuna autorità. È, in quanto tale, non il prodotto di qualche decisione – come sono i medici, i professori, ecc., in quanto agenti del potere - ma il mostruoso prodotto di società mostruose».[2] L’intellettuale non è dunque uno specialista del sapere pratico che abbia una qualche funzione definita nell’ambito della società ma è il risultato di una scelta, una sorta di impegno personale che costituisce una auto investitura.
Anche l’utilità sociale dell’intellettuale è completamente diversa da quella dello specialista del sapere pratico. «Nessuno lo reclama, nessuno lo riconosce […]; si può essere sensibili a quel che dice ma non alla sua esistenza: di una prescrizione dietetica e della sua spiegazione, si dirà con una sorta di fatuità: «È il mio medico che me lo ha detto», mentre se un’argomentazione dell’intellettuale ha fatto centro e se la gente la riprende, sarà presentata in sé senza rapporto con la prima persona che l’ha formulata. Sarà un ragionamento anonimo, presentato fin dall’inizio come ragionamento di tutti. L’intellettuale è soppresso dal modo stesso con cui si fa uso dei suoi prodotti».[3] Le argomentazioni degli intellettuali non sono dunque equiparabili a prestazioni professionali. Assomigliano piuttosto a idee che si diffondono presso l’opinione pubblica, al di fuori di ogni regola di mercato o di ogni criterio di utilità.
In sintesi, l’intellettuale è una figura irregolare, accidentale, che emerge dalle contraddizioni della società: «Così nessuno gli riconosce il minimo diritto né il minimo statuto. E, di fatto, la sua esistenza non è ammissibile poiché non ammette se stessa, dato che consiste semplicemente nella impossibilità di vivere come puro tecnico del sapere pratico nelle nostre società. Questa definizione fa dell’intellettuale il più sprovveduto degli uomini: non può certo far parte di un élite perché non dispone, in partenza, di alcun sapere e, di conseguenza, di alcun potere.»[4] In quanto intellettuale dunque non fa parte, a rigore di logica, della classe dominante, anche se è stato acculturato per conto della classe dominante ed è quindi, comunque, un portatore della ideologia dominante.
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Entrando maggiormente nel dettaglio, dunque, l’intellettuale dal punto di vista sociologico non può che essere uno sradicato. «La classe dominante lo ignora: non vuole conoscere in lui che il tecnico del sapere e il piccolo funzionario della sovrastruttura. Le classi svantaggiate non possono generarlo poiché egli non può nascere che dallo specialista della verità pratica, e tale specialista nasce dalle opzioni della classe dominante, cioè dalla parte del plusvalore che questa eroga per produrlo. Quanto alle classi medie - alle quali appartiene - benché alle origini soffrano delle stesse lacerazioni realizzando al loro interno la discordia tra la borghesia proletariato, le loro contraddizioni non sono vissute al livello del mito e del sapere, del particolarismo e dell’universalità: egli non può dunque aver ricevuto un mandato per esprimerle».[5] Il concetto spesso usato da Sartre di funzionario subalterno delle sovrastrutture è di origine gramsciana. Nei Quaderni del Carcere Gramsci scriveva: «Il rapporto tra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è «mediato», in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunto gli intellettuali sono i «funzionari». […] Gli intellettuali sono i «commessi» del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico […]».[6] A differenza di Gramsci, Sartre non ritiene tuttavia possibile che l’intellettuale possa essere organico alle classi svantaggiate, le quali non sarebbero in grado di generarlo. È anche chiaro che Sartre non ritiene che il partito politico possa svolgere una qualsiasi funzione di «intellettuale collettivo».
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L’auto investitura dell’intellettuale non nasce dal fatto oggettivo di essere uno specialista del sapere pratico bensì dalla problematizzazione della sua posizione. È la sua posizione sospesa che lo rende un indagatore. Nella sua indagine ha il vantaggio di usare la metodologia tipica del suo campo di specializzazione (e questo è il motivo per cui l’intellettuale non può che nascere sul terreno degli specialisti del sapere pratico). «Egli indaga dapprima su se stesso per trasformare in totalità armoniosa l’essere contradditorio che gli è stato attribuito. Ma non può essere questo il suo solo oggetto, poiché costui non pensa di trovare il suo segreto o di risolvere la contraddizione organica se non applicando alla società di cui è il prodotto, alla ideologia di quella società, alle strutture, alle opzioni, alla praxis, i metodi rigorosi che gli servono nella sua specialità di tecnico del sapere pratico: libertà di ricerca (e contestazione), rigore dell’indagine e delle prove, ricerca della verità […], universalità dei risultati acquisiti».[7] L’intellettuale dunque è depositario di un metodo che è stato appreso dalla cultura dominante e che, evidentemente, può essere trafugato e impiegato in modo alternativo.
Il tentativo dell’intellettuale di costruirsi come soggetto non contradditorio non può che implicare il coinvolgimento dell’intera situazione sociale in cui esso è coinvolto. La problematizzazione che l’intellettuale fa della propria posizione sociale implica il riconoscimento di un’interdipendenza tra l’intellettuale stesso e la sua società: «…bisogna che egli afferri se stesso nella società, in quanto suo prodotto e ciò può avvenire solo se egli studia la società nella sua globalità in quanto essa produce, a un certo momento, gli intellettuali. Da ciò un perpetuo rovesciamento: rinvio di se stesso al mondo e rinvio del mondo a sé […]. Egli non può, di fatto, considerare l’insieme sociale oggettivamente, poiché egli lo trova in se stesso come sua contraddizione fondamentale: ma non può attenersi a una semplice messa in discussione soggettiva di se stesso, poiché egli è di fatto inserito in una società definita che lo ha prodotto».[8] La rivendicazione del carattere sociale di ogni progetto di costruzione del soggetto è tipica dell’esistenzialismo sartriano.
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La problematizzazione che l’intellettuale fa di se stesso e del suo ruolo in rapporto alla sua società implica alcune conseguenze. Anzitutto nella ricerca personale compiuta dall’intellettuale, si impone il riconoscimento della situazione di interdipendenza tra il singolo e la situazione sociale in cui è inserito, motivo per cui all’intellettuale si impone l’adozione di un metodo dialettico. In secondo luogo occorre che egli si allontani dall’universalità astratta, cioè occorre che egli abbandoni l’atteggiamento intellettualistico e che si metta in gioco in prima persona, nella particolarità della situazione. «La vera ricerca intellettuale, se vuole liberare la verità dai miti che la offuscano, implica che l’indagine passi attraverso la singolarità dell’indagatore. Costui ha bisogno di situare se stesso nell’universo sociale per afferrare e distruggere, in sé e fuori di sé, i limiti che l’ideologia prescrive al sapere. È al livello della situazione che la dialettica dell’interiorizzazione e dell’esteriorizzazione può agire; il pensiero dell’intellettuale deve incessantemente ripiegarsi su di sé per affermare se stesso sempre come universalità singolare, cioè singolarizzato segretamente dai pregiudizi di classe inculcati fin dall’infanzia mentre crede di essersene sbarazzato e di aver raggiunto l’universale».[9]
La teoria dell’universale singolare è un tipico motivo conduttore dell’ontologia di Sartre e ha a che fare con la dottrina fondamentale del suo esistenzialismo per cui l’esistenza precede l’essenza. Solo a partire dalle singole situazioni dei singoli soggetti si può innestare un processo di universalizzazione. L’universalità già data è solo meramente illusoria e ideologica: l’universalità è sempre da fare, da costruire. «A questo punto l’intellettuale, senza cessare in virtù dei suoi prodotti di tecnico del sapere, del suo salario e del suo tenore di vita, di designarsi come piccolo - borghese selezionato, deve combattere la classe cui appartiene e che sotto l’influenza della classe dominante riproduce in lui, necessariamente, una ideologia borghese, pensieri e sentimenti piccolo - borghesi. L’intellettuale è quindi un tecnico dell’universale il quale si accorge che, nel suo campo, non esiste l’universalità bella e fatta, ma che essa è continuamente da fare».[10]
L’intellettuale quindi deve partire dalla sua situazione di soggetto ridotto a mezzo e privato del fine per riappropriarsi di una prassi autentica di costruzione di sé e di rideterminazione del suo rapporto con la società. In ciò deve rinunciare all’astrazione, vizio di cui peraltro spesso viene accusato. «…egli conduce la sua indagine a tutti i livelli e tenta di modificare se stesso nella sua sensibilità così come nei suoi pensieri. Ciò significa che vuol produrre, nella misura del possibile, in sé e negli altri, l’unità vera della persona, la riappropriazione da parte di ciascuno dei fini che sono imposti alla sua attività (e che, a quel punto, diventerebbero altri), la soppressione di tutte le alienazioni, la libertà reale del pensiero, per soppressione all’esterno degli interdetti sociali nati dalle strutture di classe, all’interno delle inibizioni e delle autocensure».[11]
L’impegno dell’intellettuale non può procedere in astratto anche e soprattutto perché l’ideologia che egli combatte (dentro di sé e fuori di sé) è in ogni istante attualizzata, concretizzata nell’evento. «Chiamo evento [événement] un fatto portatore di un’idea, cioè un universale singolare in quanto limita l’idea in esso contenuta, nella sua universalità, per mezzo della sua singolarità di fatto datato e localizzato, che ha luogo a un certo momento della storia nazionale, e che la riassume e totalizza in quanto ne è esso stesso il prodotto totalizzato. Ciò significa, in verità, che l’intellettuale viene a trovarsi costantemente sfidato dal concreto, e non può dare che una risposta concreta».[12] L’intellettuale deve dunque costantemente situare la propria opera non al livello delle astrazioni ma a quello degli eventi. È lì che si esercita la sua critica ed è lì che si gioca la sua capacità di una ricostruzione.
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Il nemico più diretto dell’intellettuale è il falso intellettuale, che Sartre assimila al «cane da guardia» di Nizan. I falsi intellettuali sono anch’essi specialisti del sapere pratico i quali «Assumono l’atteggiamento dell’intellettuale e cominciano come lui col contestare l’ideologia della classe dominante; ma è una contestazione truccata e costituita in tale maniera che si esaurisce da sola, dimostrando che l’ideologia dominante resiste a ogni contestazione; in altri termini, il falso intellettuale non dice no, come il vero; coltiva il «no ma…» oppure il «lo so bene, ma…»».[13] Gli intellettuali non possono che rispondere ai falsi intellettuali radicalizzando le loro posizioni. «Di fatto il radicalismo e l’impresa intellettuale non sono che una cosa sola».[14] Il falso intellettuale invece di procedere alla costruzione dell’universale stando correttamente dentro all’evento non fa altro che catapultare dentro all’evento un universale prefabbricato che così svolge soltanto una funzione ideologica. Per smontare questa mistificazione, l’unica arma è il radicalismo. «Il radicalismo intellettuale è dunque sempre spinto in avanti dalle argomentazioni e dagli atteggiamenti dei falsi intellettuali: nel dialogo dei falsi e veri intellettuali le argomentazioni riformiste e i loro risultati reali (lo statu quo) inducono necessariamente questi ultimi a diventare rivoluzionari; essi comprendono infatti che il riformismo è solo un discorso che ha il duplice vantaggio di servire la classe dominante permettendo ai tecnici del sapere pratico di prendere apparentemente una certa distanza dai loro datori di lavoro, cioè da quella stessa classe. Tutti coloro che sin da oggi assumono un punto di vista universalista sono rassicuranti: l’universale è fatto di falsi intellettuali. L’intellettuale vero – cioè colui che vede se stesso, nel malessere, come un mostro – preoccupa: l’universale umano è da fare».[15]
Mentre il falso intellettuale abbraccia il falso universalismo, per il vero intellettuale l’universale è sempre un progetto da realizzare. Per questo egli: «Opera affinché una universalità sociale sia possibile un giorno, quando tutti gli uomini saranno veramente liberi, uguali, fratelli, sicuro che quel giorno, ma non certo prima, l’intellettuale scomparirà e che gli uomini potranno conquistare il sapere pratico nella libertà che esige e senza contraddizione alcuna. Per ora indaga e si sbaglia continuamente, non possedendo altro filo conduttore che il suo rigore dialettico e il suo radicalismo».[16] Dunque l’intellettuale è inteso come un radicale che parte dalla sua situazione specifica per costruire una prassi di auto costruzione che è anche una prassi di liberazione di sé e degli altri.
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A questo punto si pone il problema di chi possano essere i compagni di strada dell’intellettuale. Da un lato «L’intellettuale è solo, perché nessuno gli ha conferito alcun mandato».[17] Ciò costituisce tuttavia per l’intellettuale una contraddizione poiché la sua stessa condizione gli imporrebbe un legame stretto con chiunque altro sia impegnato in un progetto di liberazione: «Ora […] egli non può liberarsi senza che gli altri si liberino contemporaneamente. […] Così l’intellettuale, cogliendo la sua propria contraddizione come l’espressione singolare delle contraddizioni oggettive, è solidale con ogni uomo che lotti per se stesso e per gli altri contro tali contraddizioni».[18]
L’instaurazione di un rapporto con gli altri è tuttavia assai complicato e denso di ostacoli. L’intellettuale è così immerso all’interno dell’ideologia dominante da cui è stato generato che ha bisogno di prendere le distanze in qualche modo. La sua cultura non può servirgli poiché falsifica costantemente il mondo. Allora l’unica soluzione è adottare il punto di vista della situazione degli svantaggiati. «Non si può concepire […] che l’intellettuale svolga il suo lavoro servendosi del semplice studio dell’ideologia che gli è stata inculcata […]. Di fatto è la sua ideologia. Essa si manifesta contemporaneamente come il suo modo di vita […] e come la sua Weltanschaaung, cioè come un paio di lenti filtranti che si è messo sul naso e attraverso cui guarda il mondo. La contraddizione di cui soffre è vissuta dapprima solo come sofferenza. Per guardarla bisognerebbe che egli potesse prendere le distanze da essa: ma non può fare tutto ciò senza aiuto. […] Egli non ha dunque che un mezzo per comprendere la società in cui vive: adottare nei suoi riguardi il punto di vista dei più svantaggiati».[19]
Chi sono costoro? Gli svantaggiati non sono l’universalità, bensì costituiscono un progetto di costruzione di un’universalità autentica. «Costoro non rappresentano l’universalità, che non esiste in nessun posto, ma l’immensa maggioranza; sono particolarizzati dall’oppressione e dallo sfruttamento, prodotti dei loro stessi prodotti, privati dei propri fini […] e ridotti a mezzi particolari della produzione, definiti dagli strumenti che essi producono ma dai quali si vedono assegnati i compiti. La lotta contro tale assurda particolarizzazione li conduce anche a mirare all’universalità […] ma a una universalità concreta di origine negativa: nata dalla liquidazione dei particolarismi e dall’avvento di una società senza classi».[20] Il punto di vista oggettivo degli svantaggiati, della loro situazione, è il solo punto di vista veramente radicale sulla società, quello che permette all’intellettuale stesso di cogliere la verità della propria posizione e di agire conseguentemente.
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Si tratta allora di capire come tutto ciò possa essere fatto concretamente. Non è possibile un semplice cambiamento della classe di riferimento. Non è possibile che l’intellettuale piccolo borghese diventi organico alla classe degli sfruttati. Anzitutto perché non esistono intellettuali organici alla classe degli sfruttati: «… le classi sfruttate non producono rappresentanti organici della loro intelligenza oggettiva. Un intellettuale organico del proletariato, è, finché non sarà fatta la rivoluzione, una contraddizione in adjecto; del resto, nascendo nelle classi che a causa della loro stessa situazione reclamano l’universale, non sarebbe, se egli potesse esistere, quel mostro che abbiamo descritto e che si definisce per mezzo della sua coscienza infelice».[21]
In secondo luogo non è possibile perché l’intellettuale verrebbe immediatamente percepito come un diverso, come un nemico: «... se riteniamo che l’intellettuale invece d’essere prodotto come tale, organicamente, dalle classi sfruttate, voglia comunque congiungersi a esse per assimilare la loro intelligenza oggettiva e per dare ai suoi metodi esatti dei principi formulati dal pensiero popolare, egli incontra subito a giusto titolo la diffidenza di coloro cui egli viene a proporre un’alleanza. Di fatto non può evitare che gli operai vedono in lui un membro delle classi medie, cioè delle classi che sono, per definizione, complici della borghesia. L’intellettuale è dunque separato, con una barriera, dagli uomini di cui egli vuole acquisire il punto di vista, che è quello della universalizzazione».[22]
Diventare organici è dunque un compito impossibile: «... per lottare contro il particolarismo dell’ideologia dominante, bisognerebbe assumere il punto di vista di coloro la cui esistenza condanna quell’ideologia. Ma per adottare quel punto di vista bisognerebbe non essere mai stati piccolo - borghesi poiché la nostra educazione ci ha infettati in partenza e fino al midollo. E siccome è la contraddizione dell’ideologia particolarizzante e del sapere universalizzante in un piccolo - borghese che produce l’intellettuale, bisognerebbe non essere intellettuale».[23]
A questo punto Sartre prende in esame la possibilità per l’intellettuale di farsi organico alla massa degli sfruttati entrando in un partito politico di massa. Ma anche questa soluzione non risolve il problema. «Entrare in un partito di massa - altra tentazione - non risolve il problema. La diffidenza resta; le discussioni sull’importanza degli intellettuali e dei teorici in seno al partito rinascono incessantemente. […] Dunque, se gli intellettuali piccolo - borghesi sono indotti dalle loro stesse contraddizioni a lavorare per le classi lavoratrici, essi le serviranno a loro rischio e pericolo, potranno esserne i teorici ma mai gli intellettuali organici e la loro contraddizione, sebbene chiarita e compresa, resterà tale sino alla fine: è quella la prova che essi non possono, come abbiamo visto, ricevere un mandato da nessuno».[24]
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Accertato dunque che l’intellettuale non può svolgere il ruolo di intellettuale organico, quale ruolo può giocare allora l’intellettuale senza mandato? La chiave della soluzione sta ancora nell’universale singolare, cioè nell’esigenza che sia l’intellettuale che le masse impostino la loro praxis a partire dalla loro situazione particolare.
«Le classi sfruttate, in effetti, non hanno bisogno di una ideologia ma di una verità pratica sulla società. In altre parole, non hanno alcun interesse alla rappresentazione mitica di se stesse; hanno bisogno di riconoscere il mondo per cambiarlo. Ciò significa al contempo che chiedono di essere situate […], di scoprire i propri fini organici e la praxis che permetterà loro di raggiungerli. In poche parole hanno bisogno del possesso della loro verità pratica; ciò significa che al contempo pretendono di cogliersi nella loro particolarità storica […] e nella loro lotta per la universalizzazione […]. Il rapporto dialettico fra l’una e l’altra esigenza è ciò che viene chiamato coscienza di classe. È dunque a questo livello che l’intellettuale può servire il popolo. Non ancora come tecnico del sapere universale, poiché egli è situato e poiché lo sono anche le classi «svantaggiate». Ma precisamente in quanto universale singolare, poiché la presa di coscienza, negli intellettuali, è il disvelamento del loro particolarismo di classe e del compito di universalità che lo contraddice: cioè del superamento della loro particolarità verso l’universalizzazione del particolare a partire da quel particolare. E siccome le classi lavoratrici vogliono cambiare il mondo a partire da ciò che sono e non ponendosi subito nell’universale, c’è parallelismo tra lo sforzo dell’intellettuale verso l’universalizzazione e il movimento delle classi lavoratrici».[25]
Dunque è soltanto da questo esile parallelismo che può svilupparsi il rapporto tra l’intellettuale e le masse dei diseredati, senza tuttavia che ci siano delle confusioni: l’intellettuale non potrà mai essere situato all’interno di tali classi. «[…] benché l’intellettuale non possa mai essere originariamente situato in tali classi, è bene che egli abbia preso coscienza del suo essere-situato, anche se a titolo di membro delle classi medie. E non si tratta, per lui, di rifiutare la sua situazione, ma di utilizzare l’esperienza che egli ne ha per situare le classi lavoratrici, proprio mentre le sue tecniche dell’universale gli permettono di chiarire, per quelle stesse classi, il loro sforzo verso l’universalizzazione».[26] Insomma, l’intellettuale, grazie ai suoi strumenti metodologici, dovrebbe riuscire a mettere in discussione la propria posizione particolare e ciò, in termini critici, potrebbe servire alle masse le quali sono intente nella medesima impresa ma dal loro punto di vista.
Il percorso parallelo è, tuttavia, sempre problematico e l’intellettuale deve stare in guardia e lottare continuamente contro l’ideologia risorgente. L’intellettuale deve esercitare un’autocritica ininterrotta, cioè «Egli deve costantemente conservare la consapevolezza di essere un piccolo-borghese in rotta con il suo ceto e di essere continuamente sollecitato a riprodurre le forme di pensiero della sua classe».[27] Inoltre deve praticare un’associazione concreta e senza riserve con l’azione delle classi sfruttate. L’intellettuale non deve tuttavia porsi alla testa dell’azione delle masse. «Non si tratta dunque, per l’intellettuale, di giudicare l’azione prima che sia cominciata, di spingere a intraprenderla o di regolarne i tempi. Ma al contrario, si tratta di prenderla in corsa, al suo livello di forza elementare […], di integrarsi, di parteciparvi fisicamente, di lasciarsi penetrare e di lasciarsi portare da essa, e soltanto allora […], di decifrare la sua natura e di chiarire il suo senso e la sua possibilità».[28] L’intellettuale sradicato può dunque essere, per le masse, solo un compagno di strada che fornisce un contributo critico a partire dalla sua stessa situazione: «È in quanto persona mai assimilata, persino esclusa durante l’azione violenta, è in quanto coscienza lacerata, impossibile da ricucire, che lo specialista dell’universale sarà al servizio del movimento dell’universalizzazione popolare: non sarà mai del tutto dentro […] né del tutto fuori […]. Bandito dalle classi privilegiate, sospetto alle classi sfruttate (a causa della cultura stessa che egli mette a loro disposizione), può iniziare il suo lavoro».[29]
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In concreto, il lavoro dell’intellettuale viene sintetizzato da Sartre in sei punti che si possono così riassumere: 1) lottare con le armi della critica contro la tendenza alla diffusione dell’ideologia nelle stesse classi popolari; 2) usare il proprio capitale di sapere fornito dalla classe dominante per far crescere la cultura popolare; 3) cercare di formare presso le classi sfruttate degli specialisti del sapere pratico che tendano – per quanto impossibile - a essere organici; 4) cercare di realizzare la finalità umanistica universalistica del proprio sapere per tutti nella lotta; 5) radicalizzare l’azione delle masse popolari, mostrando gli obiettivi lontani; 6) perseguire i fini storici delle masse contro ogni potere, compreso il potere politico che si esprime attraverso i partiti di massa e l’apparato della classe operaia.
L’intellettuale in particolare non può stare nel movimento senza mantenere il proprio ruolo critico, e ciò non può essere che fonte di problemi e contraddizioni. «… mettendosi al servizio del movimento popolare, bisogna che l’intellettuale osservi la disciplina, nel timore di indebolire l’organizzazione delle masse; ma poiché egli deve chiarire il rapporto pratico tra i mezzi e il fine, non deve mai cessare di esercitare la sua critica per conservare al fine il proprio significato fondamentale. […] Tutto quello che noi possiamo dire a tal riguardo è che è necessario che ci siano, nei partiti o nelle associazioni popolari, degli intellettuali associati al potere politico, la qual cosa rappresenta il massimo di disciplina e il minimo di critiche possibili; è necessario altresì che ci siano degli intellettuali al di fuori dei partiti, individualmente uniti ai movimenti, ma dal di fuori, cosa questa che rappresenta il minimo di disciplina e il massimo di critiche possibili».[30] In mezzo ci stanno tutte le sfumature, che possono determinare discussioni e conflitti tra gli stessi intellettuali tra i quali dovrà stabilirsi una «unità antagonistica», cioè dialettica.
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Il percorso parallelo tra gli intellettuali e i diseredati che Sartre ha delineato non è quindi risolutivo. L’intellettuale rischia costantemente di essere considerato come qualcosa di superfluo, un «uomo di troppo». «Resta il fatto che, anche così definito, egli non è incaricato da nessuno: sospetto agli occhi delle classi lavoratrici, traditore per le classi dominanti, rifiutando la sua classe senza mai potersene liberare del tutto, egli ritrova, modificate approfondite, le sue contraddizioni e fin nei partiti popolari; in questi partiti, se vi entra, si sente solidale ed escluso al tempo stesso poiché vi rimane in latente conflitto con il potere politico; ovunque inassimilabile. La sua stessa classe non ne vuole sapere di lui più di quanto lui non ne voglia sapere di essa, ma nessun’altra classe si apre per raccoglierlo. Come parlare, allora di una funzione dell’intellettuale: non è piuttosto un uomo di troppo, un prodotto mal riuscito delle classi medie, costretto dalle sue imperfezioni a vivere ai margini delle classi sfruttate senza mai congiungervisi? […] In un certo senso ciò è vero. E l’intellettuale lo sa molto bene. Non può domandare a nessuno di fondare di diritto la sua «funzione» […]. Ma a pensarci bene le sue contraddizioni sono quelle di ciascuno e della società tutta. I fini sono rubati a tutti, tutti sono mezzi di fini che sfuggono loro e sono fondamentalmente inumani, tutti sono combattuti e divisi tra il pensiero oggettivo e l’ideologia».[31] Si tratta di un uomo di troppo che tuttavia, in quanto universale singolare, è in grado di rispecchiare nella sua particolarità, il processo contradditorio verso la liberazione e l’universalizzazione: «L’intellettuale, per la sua stessa contraddizione – che diventa la sua funzione – è spinto per se stesso e di conseguenza per tutti, a prendere coscienza. In tal senso è sospetto a tutti poiché è in partenza contestatore, e dunque traditore in potenza ma, in un altro senso, egli arriva per tutti a questa consapevolezza».[32]
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Sartre ha ben presente che l’intellettuale, nella sua partecipazione al processo storico, si trova ad avere a che fare con il potere senza avere alcun potere. E ciò accade a maggior ragione se è inquadrato all’interno di un partito popolare. A differenza del professionista del sapere pratico «... l’intellettuale […] resta invece senza potere, anche se è legato alla direzione del partito. Questo legame, infatti, gli restituisce, a un altro livello, il suo carattere di funzionario subalterno delle sovrastrutture e, pur accettandolo per disciplina, deve contestarlo continuamente e mai smettere di disvelare il rapporto tra i mezzi scelti e i fini organici. In quanto tale, la sua funzione va dalla testimonianza al martirio: il potere, qualunque esso sia, vuole utilizzare gli intellettuali per la sua propaganda ma ne diffida ed è da loro che comincia sempre con le sue purghe. Non importa: finché l’intellettuale può scrivere e parlare, resta il difensore delle classi popolari contro l’egemonia della classe dominante e contro l’opportunismo dell’apparato popolare».[33] Il ruolo critico deve dunque avere sempre la preminenza e l’intellettuale deve evitare di farsi coinvolgere negli apparati di potere, sia della classe dominante sia dei partiti popolari, che spegnerebbero inevitabilmente ogni critica.  Come si vede, la gamma delle possibilità aperte include la testimonianza ma anche il martirio e il fantasma delle «purghe» aleggia sinistro.
L’intellettuale può anche cadere in disgrazia rispetto a quelle stesse masse che ha eletto a riferimento della propria azione: «… può darsi che le classi lavoratrici (sia perché il livello di vita è in rialzo, sia perché l’ideologia dominante resta potente, sia perché esse lo rendono responsabile dei loro insuccessi, sia perché hanno bisogno di una pausa) condannino la passata azione dell’intellettuale e lo lascino in preda alla sua solitudine. Ma tale solitudine è ciò che gli tocca in sorte, poiché nasce dalla sua contraddizione ed egli non se ne può liberare quando vive in simbiosi con le classi sfruttate, di cui non può essere l’intellettuale organico, e neanche può al momento dell’insuccesso abbandonare tale solitudine con una ritrattazione menzognera e vana, a meno che non passi dalla condizione di intellettuale a quella di falso intellettuale».[34]
Comunque vadano le cose, dunque, all’intellettuale non è mai concesso di deporre la sua coscienza infelice: «Di fatto, quando lavora con le classi sfruttate, tale apparente comunione non significa ch’egli abbia ragione e, nei momenti di riflusso, la sua solitudine quasi totale non significa che egli abbia avuto torto. In altri termini, il numero non ha nulla a che vedere con la questione. Il compito dell’intellettuale è di vivere la sua contraddizione per tutti e di superarla per tutti mediante il radicalismo […]».[35]
 
29/06/2014
 
                                                                                        Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
 
1985 Cohen-Solal, Annie
Sartre, Pantheon Books, New York. Tr. it.: Sartre, Il Saggiatore, Milano, 1986.
 
1975   Gramsci, Antonio
Quaderni del Carcere (a cura di Valentino Gerratana) 4 voll., Einaudi, Torino.
 
1972 Sartre, Jean-Paul
Plaidoyer pour les intellectuels, Éditions Gallimard, Paris. Tr. it.: Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma - Napoli, 1992. [1966]
 
1980 Sartre, Jean-Paul
L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique” (A cura di Franco Fergnani e Pier Aldo Rovatti), Il Saggiatore, Milano.
 
 
NOTE
 
[1] Secondo la biografia di Cohen-Solal, il viaggio di Sartre in Giappone avvenne a partire dal 18 settembre 1966. Ciò contrasta con la datazione del 1965 fornita in Sartre 1972 e Sartre 1980. Cfr. Cohen-Solal 1985: 476-477. Le tre conferenze sono state pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972. In Italia sono state pubblicate in Sartre 1980.
[2] Cfr. Sartre 1972: 68-69.
[3] Cfr. Sartre 1972: 69.
[4] Cfr. Sartre 1972: 69.
[5] Cfr. Sartre 1972: 68.
[6] Cfr. Gramsci 1975: 1518-1519.
[7] Cfr. Sartre 1972: 69-70.
[8] Cfr. Sartre 1972: 70.
[9] Cfr. Sartre 1972: 71-72.
[10] Cfr. Sartre 1972: 72.
[11] Cfr. Sartre 1972: 74.
[12] Cfr. Sartre 1972: 75-76.
[13] Cfr. Sartre 1972: 76.
[14] Cfr. Sartre 1972: 77.
[15] Cfr. Sartre 1972: 78.
[16] Cfr. Sartre 1972: 80.
[17] Cfr. Sartre 1972: 80.
[18] Cfr. Sartre 1972: 80.
[19] Cfr. Sartre 1972: 80-81.
[20] Cfr. Sartre 1972: 82.
[21] Cfr. Sartre 1972: 84.
[22] Cfr. Sartre 1972: 84.
[23] Cfr. Sartre 1972: 85.
[24] Cfr. Sartre 1972: 86.
[25] Cfr. Sartre 1972: 86-87.
[26] Cfr. Sartre 1972: 87-88.
[27] Cfr. Sartre 1972: 89.
[28] Cfr. Sartre 1972: 90.
[29] Cfr. Sartre 1972: 90-91.
[30] Cfr. Sartre 1972: 92.
[31] Cfr. Sartre 1972: 94.
[32] Cfr. Sartre 1972: 95.
[33] Cfr. Sartre 1972: 96.
[34] Cfr. Sartre 1972: 97.
[35] Cfr. Sartre 1972: 97.
 
 

giovedì 26 giugno 2014

Intellettuali fuori posto

 
 
SimoneSartre
 
In Giappone, nel 1966, Sartre (1905-1980) ha pronunciato tre conferenze riguardanti il ruolo degli intellettuali. Esse sono state poi raccolte e pubblicate nel 1972 in un volume dal titolo Plaidoyer pour les intellectuels.[1] In queste tre conferenze Sartre ha ripreso e sviluppato le tematiche già trattate in Che cos’è la letteratura, che risale invece al 1948. Le tre conferenze sono alquanto interessanti poiché espongono in maniera compiuta le convinzioni che indurranno Sartre, appena qualche anno dopo, a coinvolgersi nei movimenti del Sessantotto.
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  La prima conferenza si intitola Che cos’è un intellettuale? Essa aveva principalmente il compito di «definire l’intellettuale nella sua esistenza». In apertura Sartre fa una rassegna dei rimproveri che vengono solitamente rivolti agli intellettuali e, dopo una nutrita serie di esempi, giunge alla costatazione che quei rimproveri sono «ovunque gli stessi». Il denominatore comune a tutte le critiche sta nel fatto che l’intellettuale – secondo una formulazione divenuta famosa - è uno che si occupa di cose che non lo riguardano. Questa è la formulazione originaria: «È possibile, malgrado le contraddizioni, trovare un denominatore comune a tutte queste critiche? Sì: diciamo che a tutto è sotteso un rimprovero fondamentale: l’intellettuale è qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda e che ha la pretesa di contestare l’insieme delle verità ricevute e dei comportamenti che a queste si ispirano in nome di una concezione globale dell’uomo e della società - concezione oggi impossibile, dunque astratta e falsa - poiché le società in crescita si definiscono per via di una fortissima diversificazione delle forme di vita, delle funzioni sociali, dei problemi concreti».[2]
Sartre dunque, nella sua ricerca, adotta immediatamente una connotazione negativa dell’intellettuale, atta a evidenziare la sua posizione marginale o comunque non convenzionale. L’intellettuale è uno che con la sua stessa esistenza rompe le regole stabilite. Sartre fornisce anche un’analisi articolata circa le origini di questo tipo di considerazione, risalente secondo lui fin dai tempi dell’Affaire Dreyfus: «Ora, è pur vero che l’intellettuale è qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda. È così vero tutto ciò che, da noi, il termine «intellettuale» applicato alle persone è diventato popolare, con valenza negativa, al tempo dell’affaire Dreyfus. Per gli antidreyfusisti, l’assoluzione o la condanna del capitano riguardava i tribunali militari e, in definitiva, lo Stato Maggiore; i dreyfusisti, sostenendo l’innocenza dell’accusato, si ponevano al di fuori della loro competenza. Originariamente, dunque, l’insieme degli intellettuali appare come una varietà di uomini i quali hanno acquisito una qualche notorietà tramite lavori che rientrano nel campo delle opere dell’intelletto (scienze esatte, scienze applicate, medicina, letteratura, eccetera) e che abusano di questa notorietà per uscire dal loro campo e per criticare la società dei poteri costituiti in nome di una concezione globale dogmatica […] dell’uomo».[3]
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Se l’intellettuale è uno che esce indebitamente dal suo campo, si tratta allora di individuare come si siano instaurate le regole che definiscono il campo stesso delle competenze. Ciò ha evidentemente a che fare con la natura stessa dell’intellettuale. Il fatto che a livello di senso comune siano posti dei limiti alla competenza degli specialisti del sapere permette a Sartre di precisare con cura la differenza tra il professionista, l’esperto o il tecnico che dir si voglia, e l’intellettuale. Afferma Sartre, con estrema chiarezza, che «Se si vuole un esempio di questa concezione comune dell’intellettuale, dirò che non si potranno chiamare «intellettuali» quegli scienziati che lavorano alla fissione dell’atomo per perfezionare gli ordigni della guerra atomica: sono scienziati, ecco tutto. Ma se questi stessi scienziati, spaventati dalla potenza distruttrice dei congegni di cui proprio loro permettono la fabbricazione, si riuniscono e firmano un manifesto per mettere in guardia l’opinione pubblica circa l’uso della bomba atomica, allora diventano degli intellettuali. In effetti: 1) escono dalla loro competenza: una cosa è fabbricare una bomba, un’altra giudicarne l’impiego; 2) abusano della celebrità o della competenza che si riconosce loro per far violenza all’opinione pubblica, mascherando così l’abisso invalicabile che separa le loro conoscenze scientifiche dalla valutazione politica che costoro dànno, a partire da altri principi, sull’ordigno che creano e che regolano; 3) non condannano, in effetti, l’uso della bomba per aver constatato dei difetti tecnici, ma in nome di un contestabilissimo sistema di valori che prende come norma suprema la vita umana».[4] Fare l’intellettuale non è dunque per Sartre una categoria sociologica in senso stretto. Ha piuttosto a che fare con un certo tipo di pratica che, in un certo contesto, è considerata come una pratica del tutto anomala. Per capire gli intellettuali occorre capire come si siano affermate storicamente e socialmente queste pratiche anomale.
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Si tratta anzitutto di capire in cosa consista l’ambito di competenza che viene solitamente attribuito all’intellettuale e dal quale l’intellettuale stesso si appresterebbe colpevolmente ad uscire. L’idea di fondo di Sartre è che esista un dominio circoscritto di sapere pratico che ha lo scopo esplicito di modificare il mondo e che ha una legittimazione esclusivamente rispetto all’efficacia. Nelle società moderne la praxis viene realizzata attraverso la divisione del lavoro, proprio grazie alla quale viene generato il dominio dello specialista. In tal modo i fini restano patrimonio della classe dominante, mentre la scelta dei mezzi viene appaltata agli specialisti. «Questi tecnici del sapere pratico nel loro insieme non sono ancora degli intellettuali, ma è tra loro – e non altrove – che questi vengono reclutati».[5] 
Sartre si addentra in una ricostruzione storica della formazione degli ambiti di competenza degli specialisti e della possibilità della loro violazione. In termini storici, il chierico medievale – spiega Sartre – era un ideologo. Lo specialista del sapere pratico appare soltanto con lo sviluppo della borghesia mercantile come, ad esempio, nel caso di scienziati, ingegneri o contabili. Costoro nascono dalla e nella borghesia e sono perfettamente integrati con la loro classe. La loro funzione, in un primo momento, è tecnica e non ideologica. Solo alla fine del Seicento la borghesia si afferma come classe dominante e ha bisogno di elaborare una sua visione globale del mondo. Tale visione vien costruita non dai vecchi chierici ma proprio dagli specialisti del sapere pratico che diventano così ideologi, cioè philosophes: «I «philosophes», dunque non fanno altro che ciò che si rimprovera oggi agli intellettuali: utilizzano i loro metodi per uno scopo diverso da quello che i metodi stessi dovevano raggiungere, per costituire cioè un’ideologia borghese, fondata sullo scientismo meccanicistico e analitico. […] Di fatto gli aristocratici, all’epoca, rimproverano loro di immischiarsi in ciò che non li riguarda e anche i prelati. Ma non la borghesia. Il punto è che la loro ideologia non è tratta dal nulla: la classe borghese la produceva allo stato grezzo e diffuso nella e dalla sua stessa pratica mercantile; essa si rendeva conto di averne bisogno per prendere coscienza di se stessa attraverso segni e simboli; per dissolvere e spezzare le ideologie delle altre classi sociali. I «philosophes» appaiono dunque come degli intellettuali organici nel senso gramsciano del termine: nati dalla classe borghese, costoro vogliono esprimere lo spirito oggettivo di tale classe».[6] L’accordo organico deriva dal fatto che costoro sono intrinsecamente borghesi, coinvolti in prima persona nel movimento stesso di ascesa della borghesia. In questo caso, dunque, l’umanismo che si afferma è l’umanismo stesso della borghesia.
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Solo alla fine dell’Ottocento tuttavia i pronipoti dei philosophes sono diventati gli intellettuali. È cambiato il fatto che i nuovi specialisti del sapere pratico non sono più intrinsecamente borghesi, ma sono sempre più reclutati presso altre classi sociali, in qualità di  impiegati. Il loro numero e il loro reddito viene programmato sulla base dei bisogni della classe borghese dominante. La loro formazione tecnica e ideologica viene definita attraverso meccanismi di selezione: «Essa insegna loro a priori due ruoli: li rende contemporaneamente specialisti della ricerca e servitori dell’egemonia, cioè custodi della tradizione. Il secondo ruolo li trasforma – per impiegare un’espressione di Gramsci – in «funzionari delle sovrastrutture»; in quanto tali essi ricevono un certo potere, quello «di esercitare le funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico» […] Sono implicitamente incaricati di trasmettere i valori […] e di combattere, all’occasione, le argomentazioni e i valori di tutte le altre classi avvalendosi delle proprie conoscenze tecniche. Da questo punto di vista essi sono ora agenti di un particolarismo ideologico […] È da notare, a tale livello, che essi sono incaricati di occuparsi di ciò che non li riguarda. Tuttavia nessuno si sognerà di chiamarli intellettuali: questo perché costoro fanno passare abusivamente come leggi scientifiche ciò che di fatto è l’ideologia dominante».[7] Il particolarismo ideologico è ora dovuto al fatto che ora la borghesia non è più la classe universale, ma è diventata parte contro le altre parti insorgenti.
 
A ricoprire questi ruoli di impiegati che fungono da specialisti del sapere pratico vanno soprattutto i piccoli – borghesi. L’intellettuale nasce ora dal fatto che costui, che la classe dominante ha formato e definito come specialista del sapere pratico, soffre di un conflitto con la propria origine sociale, soffre – come dice Sartre – di una contraddizione intrinseca. La contraddizione deriva dal fatto che egli è educato come un umanista borghese, ma la sua stessa condizione di selezionato privilegiato racconta che l’umanesimo è una finzione ideologica. Inoltre la visione del mondo universalista di cui costui è portatore non può che scontrarsi con il particolarismo della classe borghese e con lo stesso particolarismo del suo ruolo. Scrive infatti Sartre: «Oggi, l’ideologia borghese – che ha impregnato, in partenza, i tecnici del sapere pratico per mezzo dell’educazione e dell’insegnamento umanistico – è in contraddizione con quest’altra parte costitutiva di loro stessi, la loro funzione di ricercatori, cioè il loro sapere, i loro metodi: ed è per questo che sono universalisti, poiché cercano conoscenze e pratiche universali. Ma se applicano i loro metodi nell’esame della classe dominante e della sua ideologia – che è anche la loro – non possono nascondersi che l’una e l’altra sono subdolamente particolaristiche. E, da allora, nelle loro stesse ricerche, scoprono l’alienazione, poiché essi sono i mezzi di quei fini che restano estranei e che è vietato mettere in discussione. Questa contraddizione non viene da costoro ma dalla stessa classe dominante».[8]
Insomma, i figli della piccola borghesia vengono educati a un umanesimo universalistico, ma questi, proprio applicando i principi che hanno appreso, non possono che riconoscere di vivere una condizione di alienazione, di disumanità, trovandosi a svolgere il ruolo di mezzi in una situazione in cui non è permesso loro di padroneggiare i fini. Secondariamente, l’operatività dello specialista ha in vista l’utile, ma in un quadro umanistico l’utile è generico sarebbe rivolto a tutti. Invece: «In molti casi, con la complicità del tecnico del sapere pratico gli strati sociali privilegiati rubano l’utilità sociale delle loro scoperte e la trasformano in utilità per la minoranza a spese della maggioranza».[9] Secondo Sartre questi meccanismi non sono poi così nascosti e invisibili: «Il potere non ignora che la realtà del tecnico è la contestazione permanente e reciproca dell’universale e del particolare, e che egli rappresenta, almeno in potenza, ciò che Hegel ha chiamato la «coscienza infelice». Quindi, il potere lo ritiene fortemente sospetto […] Così il ricercatore è al contempo indispensabile e sospetto agli occhi della classe dominante. Egli non può fare a meno di sentire e di interiorizzare quel sospetto e di trovarsi in partenza sospetto ai suoi stessi occhi».[10]
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A partire da questa situazione, che è insieme di ambiguità e di alienazione, lo specialista del sapere pratico ha due possibilità.  1) Può accettare di mettere l’universale al servizio del particolare, può dunque adeguarsi, può accettare il proprio ruolo e autocensurarsi. Sono quei casi in cui egli sarà spinto a dire «io faccio il mio mestiere», oppure «io non sono un intellettuale». 2) Oppure, così spiega Sartre: «Se egli constata il particolarismo della propria ideologia e non può esserne soddisfatto; se riconosce che ha interiorizzato il principio d’autorità come autocensura; se, per rifiutare il suo disagio e la sua mutilazione, è obbligato a mettere in discussione l’ideologia che lo ha formato; se rifiuta d’essere agente subalterno dell’egemonia e il mezzo di fini che ignora o che gli è proibito contestare, allora l’agente del sapere pratico diviene un mostro, cioè un intellettuale che si occupa di ciò che lo riguarda (prima facie, dei principi che guidano la sua vita ma, in ultima istanza, del suo posto all’interno della società) e  di cui gli altri dicono che si occupa di ciò che non lo riguarda».[11]
Ecco che la condizione oggettiva dello specialista del sapere pratico lo pone di fronte a una scelta che è esistenziale e soggettiva: «Insomma, ogni tecnico del sapere è intellettuale in potenza poiché è definito da una contraddizione che non è niente altro che la lotta permanente in lui della tecnica universalistica e dell’ideologia dominante. Ma non è per semplice decisione che un tecnico diventa intellettuale di fatto: ciò dipende dalla sua storia personale che ha potuto scatenare in lui la tensione che lo caratterizza; in ultima analisi l’insieme dei fattori che portano a termine la trasformazione è di ordine sociale». Così conclude Sartre la sua prima conferenza giapponese: «Prodotto di società lacerate, l’intellettuale è un loro testimone, poiché ne ha interiorizzato la lacerazione. È dunque un prodotto storico. In tal senso nessuna società può lamentarsi dei propri intellettuali senza autoaccusarsi, poiché non ha se non quelli che essa stessa produce».[12]
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È decisamente interessante l’uso che fa Sartre della nozione gramsciana di intellettuale organico. L’organicità sussiste soltanto quando l’intellettuale «si occupa di ciò che lo riguarda», cioè quando l’intellettuale proviene dalla stessa classe di cui elabora fini e mezzi. Quindi gli unici intellettuali organici che si ritrovano nella narrazione di Sartre sono i borghesi che fungono da intellettuali, nel momento in cui la loro stessa classe è in ascesa. In questa fase la borghesia è la classe universale e quindi l’universale di cui gli intellettuali borghesi sono portatori è perfettamente coerente. I philosophes dunque non sono alienati e non si trovano di fronte a drammatiche scelte esistenziali.
Con il trionfo della borghesia, la borghesia stessa perde la sua caratteristica di universalità e diventa classe dominante, diventa cioè classe parziale. I suoi interessi diventano interessi particolari, poiché di fronte alla borghesia si ergono ora altre classi che pretendono a loro volta di essere portatrici di un interesse universale. Le classi dominate che combattono contro il dominio borghese tuttavia non sono in grado di costruire un loro ceto di intellettuali. L’unica forma di intellettualità possibile che si realizza nella società contemporanea è quella alienata: le classi dominate forniscono il materiale umano e la borghesia fornisce l’ideologia universalistica, quella ideologia che la stessa borghesia ha tradito e che funge ormai solo da paravento al suo dominio. Così si creano le basi del dilemma e si creano i presupposti per la scelta impossibile dell’intellettuale. L’analisi sartriana è dunque sociologica ma anche e soprattutto di tipo esistenziale.
Quello che per Marx era il tradimento, ossia il passaggio dell’intellettuale borghese nelle fila del proletariato diventa in Sartre un dramma esistenziale non risolvibile.[13] Il nuovo Principe, l’intellettuale collettivo è considerato come impossibile. Per Gramsci era possibile contendere l’egemonia della borghesia sul terreno dell’universalismo. L’universalizzazione poteva appunto avvenire attraverso il nuovo Principe. Per Sartre l’unica universalizzazione possibile è quella che è stata prodotta all’interno della cultura borghese e che poi la borghesia stessa ha abbandonato. Insomma, la borghesia ha prodotto l’illuminismo e poi l’ha abbandonato, l’ha tradito. Paradossalmente gli intellettuali sono gli eredi intellettuali dell’universalismo borghese, ma che ora si trova in un corpo incoerente, nel corpo sociale del piccolo borghese subordinato. L’intellettuale piccolo borghese che fa la scelta di occuparsi di ciò che non lo riguarda è il figlio illegittimo della cultura borghese, ma l’unico figlio ripudiato che sia rimasto alla borghesia e che pertanto, come tale, non potrà mescolarsi impunemente con il proletariato. L’intellettuale dunque, dopo che ha preso coscienza, dopo che ha rifiutato la soluzione conformista, non potrà che essere fuori posto. La sua prassi effettiva non potrà che essere condizionata da questa sua collocazione.
 
25/06/2014
 
                                                                             Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
1972   Sartre, Jean-Paul
Plaidoyer pour les intellectuels, Éditions Gallimard, Paris.  Tr. it.: Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma - Napoli, 1992. [1966]
 
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Sartre 1972. Nella traduzione italiana viene riportata erroneamente come 1965. In realtà il viaggio in Giappone di Sartre è avvenuto nel 1966.
[2] Cfr. Sartre 1972: 45.
[3] Cfr. Sartre 1972: 45-46.
[4] Cfr. Sartre 1972: 46.
[5] Cfr. Sartre 1972: 49.
[6] Cfr. Sartre 1972: 54.
[7] Cfr. Sartre 1972: 56-57.
[8] Cfr. Sartre 1972: 59-60.
[9] Cfr. Sartre 1972: 62.
[10] Cfr. Sartre 1972: 63-64.
[11] Cfr. Sartre 1972: 64-65.
[12] Cfr. Sartre 1972: 67.
[13] Questo punto sarà trattato prossimamente, esaminando la seconda conferenza dedicata da Sartre alla funzione degli intellettuali.

venerdì 20 giugno 2014

Comunità immaginate

 
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Se si scorrono i principali dizionari di sociologia, si potrà costatare come al concetto di «nazione» sia sempre dedicato uno spazio assai limitato o, spesso, addirittura nullo. Eppure nazioni e Stati nazionali sono oggetti ben presenti nella nostra vita quotidiana e sono protagonisti della storia del mondo da un bel pezzo. È davvero difficile sostenere che simili oggetti non siano di natura sociale e non abbiano dunque a che fare con la sociologia. Il mancato riconoscimento è senz’altro dovuto al fatto che la «nazione» è un oggetto la cui natura è piuttosto strana, potendo essere considerato da un lato come un’idea astratta e dall’altro come un insieme concreto di individui. Non è poi ben chiaro, secondo le tradizionali suddivisioni disciplinari, se debba appartenere alla storiografia, alla storia delle idee, alla sociologia o alla politologia.
Oggetti del genere non sono insoliti nelle scienze sociali. Casi assai simili riguardano, ad esempio, i concetti di «classe», «giovani», «razza» o «genere». Per gli scopi della ricerca empirica le questioni teoriche di questo tipo, questioni, in effetti, assai difficili da risolvere, vengono di solito aggirate attraverso le  cosiddette definizioni operative, le quali, certo, sono utili poiché mettono in grado di ottenere dei risultati, di raccogliere per lo meno dei dati, ma non mettono certo in grado di chiarire la natura dell’oggetto con cui si ha a che fare. Da qualche tempo i sociologi hanno addirittura rinunciato a porsi delle domande circa la natura degli oggetti di cui si occupano, considerando questa pratica come una tipica debolezza dell’infanzia della loro disciplina, oppure come una pratica insopportabilmente troppo carica di teoria, in un’epoca in cui le «grandi narrazioni» sono, almeno nei riti e nelle mode accademiche, cadute in discredito.
Quelli cui abbiamo accennato sono problemi di ontologia sociale, cioè  problemi di definizione della natura degli oggetti che solitamente consideriamo come oggetti sociali. Non si tratta dunque di problemi gnoseologici, di conoscenza (per questo scopo può andar bene anche una definizione operativa), ma di problemi ontologici, cioè problemi di esistenza. Si tratta cioè di rispondere nello specifico alla domanda provocatoria di Quine «Che cosa c’è?». Ci si può sbarazzare della questione dichiarando che la sociologia non si occupa di ontologia ed è bene che non lo faccia, poiché i confini disciplinari non possono essere violati impunemente. È tuttavia interessante il fatto che, dal canto loro, i filosofi, dopo un lungo periodo di osservanza dei confini disciplinari, abbiano preso a interessarsi delle stesse questioni, abbiano cioè preso a riflettere con interessantissimi risultati intorno alla natura degli oggetti sociali. Ad esempio, il filosofo John Searle ha scritto un libro che si intitola «La costruzione della realtà sociale», seguito da un altro il cui titolo suona «Creare il mondo sociale». Maurizio Ferraris ha elaborato una teoria della documentalità che è di grandissimo interesse dal punto di vista di un’ontologia del mondo sociale.[1] È probabile che, nel prossimo futuro, i confini disciplinari tra filosofia e sociologia verranno attraversati più volte, in una direzione e nell’altra, permettendo di conseguire dei risultati che potrebbero indurre dei profondi cambiamenti da entrambe le parti.
 
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Allo scopo di saggiare le potenzialità degli sconfinamenti tra sociologia e ontologia, proveremo a entrare nel merito delle problematiche relative proprio a una ontologia della nazione. Gli studiosi che si sono occupati della nazione e che hanno cercato di indagare a fondo circa il suo significato hanno visto con disappunto il loro oggetto scivolar via dalle loro mani. Quando non hanno ripiegato su definizioni operative di comodo, sono stati spinti a conclusioni sconfortanti. Ad esempio, così si è espresso Seton – Watson: «Tutto quello che posso dire è che una nazione esiste quando un numero significativo di persone all’interno di una comunità si considera come costituente una nazione, o agisce come se ne costituisse una».[2] Altrettanto vaga e sconcertante per il suo minimalismo è la nota definizione/ boutade di Renan, secondo cui la nazione sarebbe «Il plebiscito di tutti i giorni».
Queste definizioni minimali registrano il sospetto che la nazione sia comunque un qualcosa che c’è solo in quanto viene creduto come tale da un certo numero di persone. Si tratta tuttavia di un qualcosa che, proprio in quanto viene creduto, è in grado di operare nella storia quasi come se fosse un attore, di produrre degli effetti impressionanti, di condizionare le vite di milioni di persone, quasi come se fosse un fenomeno fisico, un terremoto o un uragano. Come si fa dunque a concepire un oggetto che esista nelle menti delle persone ma che nello stesso tempo presenti una sua oggettività prepotente e vincolante? Queste definizioni inoltre alimentano il sospetto che la nazione sia qualcosa di artificialmente costruito, cosa che peraltro è stata più volte ribadita dagli studiosi. Ad esempio Gellner ha affermato radicalmente che: «Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza: piuttosto inventa le nazioni dove esse non esistono».[3] Anche Hobsbawm nel suo lavoro su L’invenzione della tradizione ha sostenuto posizioni assai simili, corredandole con una ampia e documentata casistica empirica. È come se gli individui costruissero qualcosa che poi si trovano di fronte come una potenza estranea, secondo il celebre modello della alienazione feuerbachiana.
 
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Lo studioso che ha manifestato la maggior consapevolezza intorno a questa problematica e che, in un certo senso, è stato abbastanza conseguente da trarre le inevitabili conclusioni, è stato Benedict Anderson, non un sociologo, si badi bene, ma un antropologo. Da questo punto di vista il suo volume Comunità immaginate costituisce un riferimento fondamentale.[4] La definizione di nazione proposta da Anderson è la seguente: «Si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né lì incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità».[5] Si noti che Anderson non aveva intenzione di produrre alcuna approfondita riflessione di ontologia sociale. Intendeva soltanto, nel capitolo iniziale del suo libro, offrire qualche ragionevole sostanza teorica ad alcune dettagliate indagini storiche ed empiriche circa i processi di formazione della nazione e circa il funzionamento dei nazionalismi.
Ciò che può farci capire la natura dell’oggetto in questione è che la nazione è una comunità che tuttavia non si basa su interazioni quotidiane faccia a faccia, come può capitare in un qualsiasi piccolo gruppo dotato di qualche stabilità. Non si basa proprio su alcun tipo di interazione, poiché i membri di una nazione sono per lo più tra loro dei perfetti sconosciuti. Gli appartenenti a una nazione per la maggior parte non si incontreranno mai di persona.[6] Il vincolo che li lega tra loro, che talvolta li costringe sensibilmente, è costituito da un’immagine che risiede nella mente di ciascuno. Solo in virtù di quell’immagine milioni di individui possono agire nella storia come fossero una nazione. In termine immagine è quanto mai generico, anche se è chiaro che Anderson intende «immagine mentale» e non certo immagine visiva. Una immagine mentale è però concepibile come una «idea», oppure come un «criterio». Si potrebbe anche intenderla come «simbolo», anche se lo stesso termine simbolo dovrebbe essere accuratamente definito. Si potrebbe ulteriormente aggiungere che questo tipo di entità (immagine, idea, criterio o simbolo) è comunemente caratterizzato da forti marcature di tipo emotivo.
 
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 La nazione dunque è un costrutto artificiale che è nello stesso tempo sociale e simbolico, ma che si presenta come qualcosa di eminentemente concreto. Che la nazione sia “inventata” – osserva Anderson - non equivale a dire che sia falsa o che costituisca un auto inganno, quanto piuttosto significa affermare che essa è un prodotto artificiale dell’immaginazione, della creatività degli individui. Ogni comunità appena più grande di un villaggio primordiale, dove tutti si conoscono, deve necessariamente essere costruita attraverso l’immaginazione. Si tratta dunque di un manufatto culturale dalla natura assai particolare, capace tuttavia di determinare le vite di milioni di persone. Ha osservato in proposito Anderson che: «…le grandi guerre di questo secolo sono straordinarie non tanto perché hanno permesso all’uomo di uccidere su una scala senza precedenti, quanto per il colossale numero di individui pronti a sacrificare le proprie vite».[7] Le nazioni dunque, secondo queste definizioni, nascono si sviluppano e agiscono grazie a una fabbrica dell’immaginazione.
Fuor di metafora, ci possiamo domandare come sia possibile produrre immagini, delle idee, dei criteri o simboli, di tipo omogeneo, in modo che questi possano essere, in un certo senso, distribuiti e ficcati nella mente, con relative marche emotive, di milioni di persone. La costruzione e la diffusione di simili manufatti non parte mai da zero. Sarebbe sbagliato pensare all’idea della nazione che esce dalla testa di una qualche Minerva. Occorre dunque fare riferimento a un apparato produttivo, il quale, nel caso della nazione, può essere diligentemente ricostruito ex post dallo storico antropologo. Anche qui, non c’è nulla di nuovo, sennonché occorre guardare cose vecchie, magari già risapute, con occhi decisamente nuovi.
 
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I produttori dei manufatti culturali che rendono possibile la nazione non possono che essere degli specialisti, quelli che siamo soliti chiamare «intellettuali». Ma ciò non basta, poiché occorre che ci siano delle condizioni di diffusione dei materiali immaginativi e simbolici. Queste condizioni si sono effettivamente realizzate in Occidente, grazie alla diffusione della stampa e alla (conseguente) diffusione dell’istruzione di massa. Non a caso, gli storici hanno individuato un fenomeno che hanno chiamato «nazionalizzazione delle masse» che è il processo attraverso il quale le masse sono state acculturate per quel che basta, in modo che potessero stare dentro a uno stato nazionale.[8]
La connessione tra la nascita della nazione e la stampa, è stata notata più volte dagli studiosi, anche se non è mai stata presa molto sul serio. Essa era già stata oggetto di una serie di studi da parte della scuola di Toronto. La Galassia Gutemberg di McLuhan ha spiegato abbondantemente, con dovizia di esempi, le varie interdipendenze tra la stampa e l’affermazione degli Stati nazionali.
Per quel che riguarda tutte queste connessioni, tra un nuovo ceto, gli intellettuali, alfieri della nazione, una nuova tecnologia (la stampa), la diffusione dell’istruzione e la formazione di un’opinione pubblica, non ha senso domandarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Non possiamo che riconoscere un’interazione virtuosa tra tutti questi elementi. È stata questa interazione virtuosa a consentire la replicazione, in milioni di menti, delle stesse idee, degli stessi simboli, delle stesse immagini, affinché uno sconosciuto contadino, di un’imprecisata regione, abbia cominciato a dire «io sono francese» oppure «io sono tedesco», oppure ancora «io sono polacco». Naturalmente non è stata una replicazione passiva, poiché lo sconosciuto contadino è andato a scuola, ha imparato una lingua nazionale, ha imparato una serie di narrazioni nazionali, ha letto certi romanzi, in Chiesa gli hanno raccontato certe storie, ha cominciato a seguire un certo calendario, a obbedire a certe leggi, a leggere gli avvisi e le gazzette, a viaggiare in treno, a fare il servizio militare. Ecco che i simboli prodotti dagli intellettuali sono diventati vita materiale, vita quotidiana, relazioni interpersonali, istituzioni, norme. Tutto ciò ha permesso al contadino di crescere come essere umano, di diventare un individuo, di diventare un cittadino, di essere più libero nei confronti della necessità, ma tutto ciò ha anche accresciuto i suoi legami e i suoi obblighi nei confronti di quel manufatto simbolico culturale che è la nazione. La nazione gli ha chiesto di pagare le tasse, di fare il servizio militare, di andare a morire in trincea. E lui ha detto di sì.
Naturalmente tra gli intellettuali e la nazione si è instaurato un processo di interazione reciproca. Gli intellettuali hanno contribuito a creare la nazione, ma le nazioni, diventate istituzioni, diventate cioè stati-nazione hanno a loro volta contribuito a moltiplicare un certo tipo di intellettuali (ad esempio attraverso l’istruzione pubblica) che hanno continuato a loro volta a nazionalizzare i cittadini.
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Accanto agli intellettuali e alla stampa, un altro fattore che ha avuto una grande importanza è stato senz’altro la lingua nazionale. Gli intellettuali cui abbiamo fatto riferimento sono in effetti stati i creatori e supporter delle letterature nazionali. La lingua nazionale è un altro di quegli oggetti dalla natura incerta che vivono nelle menti dei singoli individui, ma che si presentano come qualcosa di terribilmente oggettivo (Bourdieu direbbe che le lingue sono incorporate).
Noi individualmente siamo i portatori della lingua nazionale, ma essa ci appare come un oggetto indipendente: ha delle regole assai restrittive, occorre molto tempo per apprenderla, è facile distinguere chi la parla da chi non la parla, si possono fare delle guerre, a partire dalle lingue. Il fatto è che le lingue non sono solo idee, sono delle vere e proprie tranche di vita. Come ha osservato Anderson: «Anche se ogni lingua è assimilabile, per padroneggiarla una persona deve investire una porzione di vita. Ogni nuova conquista si soppesa contro l’abbreviarsi dei giorni. A limitare l’accesso alle lingue, non è la loro impervietà, ma la nostra mortalità, ed è questa la causa di una certa privacy di ogni lingua».[9] La lingua nazionale, il costrutto simbolico che ci permette di immaginare la nazione cui apparteniamo, abbisogna di una lunga pratica, una lunga consuetudine. Abbisogna di un’incorporazione costante. È un processo faticoso che s’inscrive indelebilmente nelle nostre strutture cerebrali. La lingua madre diventa parte rilevante dell’identità personale di un individuo. Naturalmente poi una lingua nazionale si incorpora in una serie enorme di manufatti, come libri, biblioteche, archivi, giornali, fino alle insegne dei negozi, ai nomi delle città e dei paesi, ai nomi delle strade. Il prodotto simbolico diventa così oggettività sociale e oggettività materiale.
 
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Un altro elemento immaginativo/ simbolico che ha contribuito alla costruzione della nazione è costituito dalla sincronizzazione del tempo. Il passaggio da un tempo puramente soggettivo, ancorato alle esperienze locali,  a un tempo oggettivo valido per una ampia comunità di sconosciuti (Anderson lo ha chiamato tempo omogeneo) è un processo lento che è avvenuto attraverso i secoli, grazie a strumenti come i calendari e gli orologi. Anche in proposito, nulla di nuovo. Possiamo citare lo studio di Le Goff sul Tempo della Chiesa e tempo del mercante, oppure gli studi di Zerubavel sull’oggettivazione del tempo nella vita sociale.[10]
Affinché la comunità immaginata possa agire storicamente occorre una certa contemporaneità, una certa percezione di simultaneità e questa può essere realizzata solo attraverso le tecnologie comuni di sincronizzazione della vita sociale, in cui i sistemi di informazione e le comunicazioni hanno grande importanza. Il tempo omogeneo non può che essere immaginato, ma nello stesso tempo esso è tremendamente reale nelle sue conseguenze. Carlo Magno, per fare la guerra ai suoi vicini doveva aspettare il raduno di primavera, mentre i tempi della mobilitazione degli eserciti, nell’ordine di pochi giorni, hanno giocato un ruolo importante nello scatenamento della Grande guerra. Oggi, i tempi di reazione sono ancora più contenuti.
 
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 Gli studiosi della nazione spesso si sono concentrati sulla costruzione delle narrazioni fondative, anch’esse in gran parte opera degli intellettuali. Oppure, più recentemente, sulla costruzione di un parco di memorie comuni che vengono costantemente celebrate. Per brevità non ci addentreremo in questo tipo di argomenti, che comunque sono stati adeguatamente trattati da molti studiosi.[11] A sostegno di tutto ciò, Renan ha asserito che: «... l’essenza di una nazione è che tutti gli individui abbiano molte cose in comune, e anche che tutti abbiano dimenticato parecchie cose».[12] Non stiamo a riprendere poi il tema ampiamente trattato dagli studiosi  del ruolo svolto dalla costruzione della tradizione nell’ambito del nazionalismo.
 
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Anderson molto acutamente dopo aver definito le nazioni come comunità immaginate, andando alla ricerca della loro genesi, si è posto il problema – non nuovo – del rapporto tra le nazioni e le religioni. C’è una corrente di pensiero che ha interpretato le nazioni come delle religioni laiche. I nazionalismi non sarebbero altro se non la prosecuzione sul terreno laico dei fondamentalismi religiosi.
Le narrazioni religiose, al di là del loro contenuto specifico, che può essere anche molto vario, svolgono anch’esse la funzione di determinare la costituzione di comunità immaginate, ovvero di uno spazio sociale simbolico. Il Dio delle varie religioni è spesso un creatore, un progenitore, un ordinatore. Le religioni determinano immediatamente il gruppo dei fedeli in opposizione al resto del mondo. Le religioni si sono sempre riferite a gruppi particolari, mai a tutta l’umanità. Solo piuttosto tardi alcune religioni hanno preteso di riferirsi a tutta l’umanità. In Grecia ogni città aveva le sue divinità, anche se queste potevano essere trans-cittadine e riferirsi a un’area culturale più ampia di una città (più o meno come, nel cristianesimo, ogni città ha il suo santo protettore; ci possono essere tante diverse Madonne, legate a località diverse). Le guerre di conquista nel mondo antico comportavano la conquista delle divinità degli avversari. Gli ebrei facevano dei veri e propri contratti con la loro divinità. Ciascuno dei popoli nomadi viaggiava con le proprie divinità. Solo con lo stanziamento le divinità hanno cominciato ad abitare in certi luoghi ben definiti.
Ben prima della nazione, quindi, milioni d’individui si sono immaginati come appartenenti alla medesima comunità religiosa, grazie al lavoro di produzione simbolica di intellettuali di vario genere (sacerdoti, profeti, sciamani) con l’ausilio di lingue sacre e di particolari tecniche di memorizzazione e diffusione. Alcune religioni hanno svolto questa funzione di immaginazione della comunità religiosa attraverso l’uso della scrittura, attraverso la metafora del libro rivelato o ispirato, scritto - non dimentichiamolo - in una certa lingua, quella che diventerà la lingua comune del libro sacro, che è poi spesso l’antesignana della lingua nazionale.[13]
 
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Oggetti come la nazione sono dunque delle istituzioni artificiali che hanno una forma particolare di esistenza: esistono solo in quanto sono credute da un numero molto elevato di individui, ma proprio perché credute esse hanno la forza prepotente dell’oggettività: non è la stessa oggettività di un oggetto del mondo fisico, ma nella società umana si presenta con altrettanta cogenza. Questo tipo di oggetti è stato teorizzato esplicitamente nella filosofia di Searle.[14] Appartengono a questo tipo di oggetti cose estremamente diverse tra loro che hanno in comune il fatto di far dipendere il loro essere dalla intenzionalità di molti soggetti. Leggermente diversa è l’impostazione di Ferraris,[15] che fa dipendere la possibilità di costruire questi tipi di entità istituzionali dalla produzione di documentazioni di qualche tipo.
Rimandiamo a un altro intervento l’esame delle teorie di Searle e di Ferraris, concludendo con questa citazione di Searle in merito al rapporto tra ontologia e scienze sociali:  «… Che implicazioni ha questa descrizione, ammesso che ne abbia, nell’attuale ricerca delle scienze sociali? Penso che la risposta più breve sia che non ne ho davvero idea. […] quando ho tenuto una lezione su questi argomenti in memoria di Pierre Bourdieu a Parigi uno dei partecipanti, un sociologo americano specializzato nella sociologia dei sindacati, mi ha detto che il suo lavoro iniziava dove finiva il mio. Ho inteso che volesse dirmi che non gli è necessario conoscere i fondamenti ontologici dei sindacati. […] L’idea che penso avesse era che, come il geologo può studiare i movimenti delle placche tettoniche senza sapere dettagli della fisica atomica, così lui può studiare le dinamiche dei sindacati senza capire dettagli dell’ontologia sociale. In questo potrebbe aver ragione. Il mio istinto però mi dice che è sempre una buona idea capire le questioni di fondazione. Per me è molto più plausibile pensare che la comprensione dell’ontologia fondamentale di ogni disciplina approfondirà la comprensione degli argomenti all’interno di quella disciplina».[16]  Noi, se non si fosse ancor capito, siamo d’accordo con Searle.
 
                                                                                           Giuseppe Rinaldi
 
20/06/2014
 
 
 
OPERE CITATE
 
 
1983   Anderson, Benedict
Imagined Comunities, Verso, London.  Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
 
2009   Ferraris, Maurizio
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Bari.
 
1983   Hobsbawm, Eric J.  &  Ranger, Terence   (a cura di)
The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge.  Tr. it.: L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1994.
 
2008   Rinaldi, Giuseppe
Storia e Memoria, in Ziruolo, Luciana   (a cura di), I Luoghi, la Storia, la Memoria, LeMani, Genova.
 
1995   Searle, John R.
The Construction of Social Reality, Free Press, Chicago.  Tr. it.: La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006.
 
2010   Searle, John R.
Making the Social World: The Structure of Human Civilization, Oxford University Press, Inc., New York.  Tr. it.: Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
 
1981   Zerubavel, Eviatar
Hidden Rhythms. Schedules and Calendars in Social Life, University of Chicago Press, Chicago, Illinois, USA.  Tr. it.: Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, Il Mulino, Bologna, 1985.
 
2003   Zerubavel, Eviatar
Time Maps. Collective Memory and the Social Shape of the Past, University of Chicago Press, Chicago, Illinois, USA.  Tr. it.: Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, Il Mulino, Bologna, 2005.
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Searle 1995 e Searle 2010. Cfr. anche Ferraris 2009.
[2] Citato in Anderson  1983: 25.
[3] Cfr. Anderson 1983: 25.
[4] Cfr. Anderson 1983.
[5] Cfr. Anderson 1983: 25.
[6] Gli insiemi matematici si possono definire per elencazione, elencandone tutti gli elementi uno ad uno, oppure per definizione, enunciando semplicemente una regola che permetta di stabilire l’appartenenza o meno all’insieme. Ebbene, mentre nelle relazioni amicali gli individui della nostra comunità sono conosciuti uno ad uno per elencazione, nel caso della nazione ciascuno di noi dispone al più di una serie di regole per definire se colui che incontra appartiene o non appartiene.
[7] Cfr. Anderson 1983: 147.
[8] Uso il concetto di nazionalizzazione delle masse in termini generali, e non in senso specifico, come fa qualcuno, riferendolo solo ai totalitarismi. Seguendo Mosse, la nazionalizzazione delle masse non è avvenuta solo nei regimi totalitari. 
[9] Cfr. Anderson 1983: 150.
[10] Cfr. Zerubavel 1981 e Zerubavel 2003.
[11] Sulla questione della memoria mi permetto di segnalare il mio saggio in Rinaldi 2008.
[12] Cfr. Anderson 1983: 25.
[13] Si pensi alla riesumazione dell’ebraico da parte di Israele, oppure al fatto che nella umma islamica, la lingua coranica, non effettivamente parlata da nessuna parte, costituisce il cemento culturale, al di là delle profonde diversità antropologiche dei vari popoli che aderiscono alla religione musulmana.
[14] Si vedano i già citati Searle 1995 e Searle 2010.
[15] Si veda il già citato Ferraris 2009.
[16] Cfr. Searle 2010: 267-268.