martedì 4 dicembre 2012

Il tacchino sul tetto (2.0)

 











 

1. Non era Crozza, ma proprio lui, Luigi Bersani, quello che di fronte a milioni di spettatori ansiosi di capire le differenze tra i candidati delle primarie del centro sinistra se ne usciva con un’amletica domanda, del tutto inedita nel panorama politico, che suonava così: «È meglio avere un passerotto in mano o un tacchino sul tetto?». Dopo il primo sconcerto, il significato minimalista del motto deve esser sembrato abbastanza chiaro a tutti, anche se non del tutto nuovo. Si tratta infatti di un significato già profondamente espresso nella tradizione popolare secondo la quale sarebbe «Meglio un uovo oggi che una gallina domani», oppure, ancora, «Chi si contenta, gode». Ma anche la favola della «volpe e l’uva» potrebbe essere utilmente invocata.[1] Il motto è tipicamente improntato allo stile minimalista di Bersani, ben lontano dal «facci sognare» che forse avrebbero desiderato molti dei suoi fan. Ma anche Vendola non ha scherzato quanto a minimalismo se, per schierarsi dalla parte del segretario del PD, dopo il primo turno, gli è bastato sentire un po’ di «profumo di sinistra». Mentre una volta erano gli estremisti che volevano tutto, adesso a fare i massimalisti sono i libdem alla Renzi.

2. In contrasto con un avvio terribilmente difficoltoso, il bilancio delle primarie del centro sinistra – come hanno scritto molti autorevoli commentatori – è senz’altro positivo. Ci permettiamo tuttavia di aggiungere che il positivo sta tutto e soltanto dalla parte degli elettori. Si è dimostrato nei fatti che in Italia ci sono più di tre milioni di elettori che – con le procedure complicate seguite per la registrazione e il voto, compreso il pagamento dell’obolo – sono stati disposti a investire del tempo, a informarsi, a discutere, a organizzarsi sul territorio, a scegliere tra le alternative proposte attraverso un metodo democratico come quello della conta delle teste. Si tratta di un numero di elettori impegnati che va ben oltre l’asfittico gruppo degli iscritti, dei professionisti della politica, degli addetti ai lavori dei partiti della coalizione.[2] Si deve ammettere poi che con queste primarie, i partiti della coalizione hanno effettivamente mostrato di voler operare una qualche cessione di potere verso gli elettori più informati e consapevoli. E gli elettori hanno risposto, ben oltre alle aspettative dei minimalisti che forse avevano maturato la sensazione di avere qualcosa da farsi perdonare.

3. Questi tre milioni di elettori impegnati equivalgono pienamente a tre milioni di iscritti a un partito che non c’è, di cui il Paese avrebbe un forte bisogno. Un centro sinistra intelligente (parlo di PD, SEL, gli amici di Tabacci, i socialisti e quant’altri) all’indomani di questa prova dovrebbe annunciare la costituzione di un partito unico (o di una federazione se si preferisce) e proporre ai tre milioni di votanti di entrare nel nuovo partito come iscritti, riservando al prossimo congresso un autentico rinnovamento della linea politica e del ceto dirigente. Potrebbe essere l’occasione per fare finalmente quella fondazione di un partito democratico inclusivo che il PD ha storicamente mancato. Ma una simile operazione, ci rendiamo conto, pur essendo del tutto logica e razionale, non può che essere puramente teorica, di scuola, completamente fuori dall’orizzonte degli attuali dirigenti di centro sinistra. Per rendersene conto, bastava sentire le dichiarazioni di D’Alema e di Rosy Bindi, la sera stessa del secondo turno. Insomma, c’è il grosso rischio – come accaduto in passato – che anche questa volta la domanda politica del popolo del centro sinistra non trovi una risposta adeguata e vada a incagliarsi nei bilancini degli egoismi di potere.

4. Se il bilancio è stato positivo dal punto di vista degli elettori, è invece alquanto problematico dall’altra parte, cioè dalla parte dell’offerta politica. Il problema principale è che – come recitano i classici del pensiero politico – nella democrazia bisogna che gli elettori siano messi di fronte a delle autentiche alternative. Se le alternative tra le quali si è chiamati a scegliere non sono effettive, allora il gioco democratico è solo apparente. Ci s’illude di esercitare il potere di scegliere, ma in effetti non si sceglie affatto. Ridotto all’osso, il problema della scelta è alquanto elementare, anche se foriero di qualche complicazione. Quando si deve scegliere tra diversi elementi e i criteri di scelta sono più di uno, non è detto che si trovi un elemento che soddisfi tutti i criteri. Se dobbiamo scegliere un’auto, magari un certo modello ci va bene per il volume del bagagliaio, per la cilindrata, per le finiture, ma può non andarci bene per i consumi, per il costo del bollo, per l’estetica della carrozzeria. Potremmo girare e rigirare ma, se siamo appena un po’ choosy, potremmo continuare a non trovare un modello adatto alle nostre esigenze. Alla fine, o si rinuncia, oppure si sceglie il meno peggio. Questa è proprio la situazione di fronte alla quale si sono trovati molti elettori nello scegliere tra i cosiddetti Fantastici 5. L’entusiasmo per l’elevato numero di votanti non dovrebbe far dimenticare che comunque ci sono molti che non hanno trovato quello che cercavano e sono rimasti a casa e che molti di quelli che sono andati a votare si sono turati il naso e hanno finito per scegliere il meno peggio.[3] Così si spiega come mai le primarie sono state un successo ma nel popolo della sinistra ci sono molti scontenti.

5. Per capire le ragioni dello scontento bisognerebbe entrare nel merito dei criteri di scelta di cui si diceva poc’anzi. In un confronto come quello cui abbiamo assistito, finalizzato a scegliere il candidato alla carica di presidente del consiglio, sono almeno due i macro elementi che sono sottoposti alla valutazione degli elettori: le qualità personali e i contenuti dei programmi.

Per quel che riguarda le qualità personali, possiamo immaginare di prendere in considerazione aspetti come la competenza disciplinare in materie connesse all’attività governo (economia, finanza, diritto,…), la capacità di guidare una squadra (di scegliere con criteri di merito i collaboratori, di avere in mente una agenda precisa, di saper operare avendo mira la rapidità, l’efficacia e l’efficienza,…), la capacità di analisi dei problemi e di elaborazione delle soluzioni, la condivisione di principi di etica pubblica (quali il disinteresse, la trasparenza, la verità,…) e la capacità di comunicare con chiarezza; inoltre possiamo aggiungere un elevato profilo istituzionale (la capacità di non essere di parte, ma di impersonare l’istituzione che si andrà a rappresentare) e l’autorevolezza in campo nazionale e internazionale.

Per quanto concerne invece i contenuti del programma, possiamo immaginare di prendere in considerazione delle qualità come il possesso di una strategia chiara e organica per portare il Paese fuori dalla crisi e la capacità di aggregare un’ampia gamma di forze attorno alla propria strategia. Possiamo considerare anche la capacità di individuare i problemi veri e di mantenere un atteggiamento realistico, rifiutando la retorica e la demagogia. Possiamo ancora aggiungere la capacità di scegliere tenendo conto di una prospettiva generale e delle conseguenze future, oppure la flessibilità necessaria a tener conto delle situazioni e dei rapporti di forza. Potremmo considerare anche la capacità di dire no, di combattere gli interessi particolari, i corpi separati e di difendere le istituzioni. In più, sempre per quel che concerne i contenuti, ci si attenderebbe non solo lunghi elenchi scomposti di ricette e ricettine, il lungo elenco degli esempi[4] di «cosa farei nei primi cento giorni», oppure la linea del Piave dei punti imprescindibili, ma l’adesione a un’impostazione di fondo organica, riconoscibile, a una cultura politica esplicita, magari declinata in modo nuovo ed originale, insomma, una linea politica.[5]

Ebbene, esaminati alla luce di simili criteri, i Fantastici 5 ci appariranno davvero poco fantastici, sarebbero ridotti, insomma, per dirla alla Bersani, a «quello che passa la mutua». Dopo vent’anni di Berlusconi, con tutto il tempo che abbiamo avuto, si poteva sperare di mettere in campo qualche candidato in cui ci si potesse identificare fino in fondo, magari un gruppo di candidati tra cui ci si trovasse nella condizione di avere l’imbarazzo della scelta. E invece no. Ai Fantastici 5 potremmo attribuire al massimo un 6+ o un 6 meno-meno. La democrazia è fatta anche di sogni, non solo di sfigati che tanto sono contenti di avere acchiappato il passerotto, perché intanto al tacchino hanno già rinunciato.

6. C’è qualcuno poi che si è detto entusiasta del tipo di dibattito, molto all’americana, scelto dagli organizzatori. Certo anche la forma ha la sua importanza per cui non sottovalutiamo, ad esempio, il confronto con i tempi rigorosamente conteggiati, non sottovalutiamo il rilievo giustamente dato alle regole e al loro rispetto; non sottovalutiamo neppure un certo fair play dei candidati, nonostante qualche inevitabile caduta. Non sottovalutiamo l’evento delle piazze che si sono riempite per ascoltare i candidati. Ma il dibattito cui abbiamo assistito è stato indubbiamente caratterizzato dalla scarsa sostanza e dai davvero troppi artifizi retorici e comunicativi.

Per quel che riguarda la scarsa sostanza, abbiamo assistito a una noiosa sequela di attacchi personali, di tatticismi di vario genere, con polemiche e smentite, che speso hanno rischiato di sopravanzare i contenuti. Quando si è parlato di contenuti, questi sono stati ridotti poco più che a slogan pubblicitari, a una montagna di esempi, alla proclamazione di principi irrinunciabili, a innumerevoli tormentoni con cui ciascun candidato ha cercato di solleticare il proprio presumibile elettorato. Gli applausi sono arrivati a raffica sull’onda degli argomenti più graditi al pubblico, più popolari, appunto. Nella retorica antica si chiamavano luoghi comuni. Se la cultura politica del centro sinistra è oggi ridotta a evocare in modo teatrale delle dicotomie elementari come bombardieri si/ bombardieri no; Fornero sì/ Fornero no; Marchionne si/ Marchionne no; banche sì/ banche no; TAV si/ TAV no, rottamazione si/ rottamazione no, vien quasi da rimpiangere i partiti e il personale politico della Prima repubblica.

7. Nella Prima repubblica si capiva che i candidati qualche libro in proprio lo avevano letto, i partiti avevano ancora qualche relazione con gli intellettuali, con l’editoria, con i centri di ricerca, con le teorie economiche, con gli orientamenti politici e culturali diffusi. Magari prima di decidere la linea su qualche problema si facevano anche dei convegni di studio. Oggi i candidati si circondano dei guru della comunicazione, sfornano discorsi precotti costruiti dallo staff, twittano - cioè si esercitano a concentrare il loro pensiero in 140 caratteri, citano a memoria statistiche mal digerite, rinviano continuamente alle pagine del loro sito, citano improbabili personaggi come fonti di ispirazione. E poi fanno tanti, tanti esempi (“perché non c’è tempo per dire tutto”), fanno battute e raccontano barzellette come i comici della TV. E ottengono una marea di appalusi. Credevamo che questa ultra semplificazione del discorso politico fosse soprattutto una caratteristica di Berlusconi, invece bisogna concludere che siamo definitivamente entrati nell’epoca della politica senza cultura. È vero che la partecipazione fa bene alla democrazia, ma anche un po’ più di cultura male non farebbe.

Una diagnosi decente circa le cause della crisi internazionale non l’abbiamo sentita da nessuno, e neanche una diagnosi decente delle cause della crisi italiana. E che dire di una strategia convincente per ridurre il nostro debito pubblico e di una strategia per rimettere in piedi l’industria italiana? Abbiamo sentito però molte invettive contro Marchionne. Discorsi chiari su dove si prenderanno le risorse per il welfare promesso da tutti non li ha fatti nessuno. Discorsi chiari sull’Europa non li ha fatti nessuno, come pure nessuno ha detto qualcosa di serio sulla politica estera. Anche sulla questione della riforma fiscale del riequilibrio fiscale territoriale (il problema che ha alimentato le fortune del leghismo) nessuno ha detto niente. E della laicità? Estremamente carenti, per non dire reticenti, sono stati i candidati sulla questione delle alleanze. Già, meglio aspettare la legge elettorale.

8. Purtroppo una parte consistente della contesa è stata occupata dai problemi interni del PD. Era inevitabile, date le premesse, ma non è detto che questa sia stata la parte più entusiasmante per gli elettori. La contrapposizione tra Renzi e Bersani indubbiamente ha messo in luce la contrapposizione – da un lato - tra le correnti che vengono da lontano, dalla DC e dal PCI della Prima repubblica e che continuano a intendere la politica come il gioco delle alleanze tra coloro che dispongono di pacchetti di voti proporzionali e – dall’altro lato - le nuove correnti (anche queste sono parecchie e litigiose) di coloro che sono nati dopo, che vorrebbero un confronto sui programmi rivolto a tutti gli elettori, dove si vince o si perde in termini maggioritari.[6]

Da questo punto di vista, la vittoria di Bersani, l’usato sicuro, rappresenta la vittoria dei sopravvissuti della Prima repubblica (non a caso con l’appoggio di Vendola, non a caso a favore del finanziamento pubblico dei partiti). Rappresenta anche quanto vi è di più lontano dalla generica domanda di nuova politica che viene dal Paese, quanto vi è di più lontano dalla domanda politica che è espressa dal M5S e dal rifiuto espresso da quella quasi metà di elettori che nei sondaggi continuano a dichiararsi astensionisti. È alquanto esplicativo che Bersani abbia preso molti più voti nelle zone più arretrate del paese e abbia preso meno voti nelle zone più avanzate (questa tendenza non è una mia invenzione, ma risulta abbastanza nettamente da un’elaborazione dell’Istituto Cattaneo).

9. Un’ultima notazione marginale, ma abbastanza significativa, del clima da Prima repubblica che sembra essere risorto e la seguente. In tutta questa profusione di correttezza democratica, di appello ai principi, di etica pubblica sparsa un po’ ovunque, la compagna Camusso ha sentito il richiamo della foresta, l’irrefrenabile bisogno di fare l’endorsement contro Renzi, affermando che una vittoria di Renzi non farebbe bene al mondo del lavoro. Si vede che i lavoratori, quando diventano cittadini e vanno a votare, non sono più capaci di pensare con la loro testa e hanno bisogno del promemoria. In un periodo in cui un altro illustre sindacalista della CISL e un altrettanto illustre sindacalista dei lavoratori cattolici stanno mettendo su un partito politico, viene da pensare che nel nostro Paese oggi la vecchia cinghia di trasmissione abbia ripreso a girare, ma al contrario.

10. Al di là delle ragioni di soddisfazione o insoddisfazione, su cui si può ampiamente questionare, ci si può comunque domandare se cambierà qualcosa dopo queste primarie. Per quel che concerne il posizionamento politico del PD e della Coalizione nello spazio politico, cambierà ben poco. Tranne un effetto alone positivo dovuto alla maggiore evidenza che i renziani hanno acquisito nel PD, Bersani non prenderà quei voti a destra che avrebbe potuto prendere Renzi, ma non prenderà neppure quelli dell’antipolitica – perché è comunque identificato con la vecchia politica. Quindi sarà costretto a fare proprio quello che inconsciamente ha sempre desiderato, trattare con Casini & Co. (con il serio rischio di non essere lui a fare il capo del governo). I sondaggi – per effetto di tutto quel che è successo nel panorama politico italiano (compresa l’implosione totale del PdL) – hanno dato una crescita del PD di 3-4 punti percentuali. Storicamente intorno al 25%, ora il PD viene infatti accreditato intorno al 29-30%. Le statistiche recentissime, per effetto della maggiore visibilità ottenuta nella settimana delle primarie, si spingono al 33-34%. Si vedrà se nelle prossime settimane questo livello sarà mantenuto. Non va dimenticato che nello stesso periodo l’IDV ha perso più o meno la stessa percentuale che il PD sta guadagnando. Com’è noto, i sondaggi presentano le percentuali solo rispetto a coloro che esprimono una intenzione di voto e trascurano gli astenuti. Non sembra che le primarie siano riuscite a fare breccia negli astenuti, e questo è l’aspetto più preoccupante. Incerti, astenuti e bianche oscillano, poniamo, intorno al 45 %. Facendo le proporzioni, il 30% del 55% corrisponde al 16,5%. Ci si può consolare perché gli altri ne hanno di meno, ma se con tutto quel che è successo in Italia il partito più solido riesce ad avere il consenso solo del 16,5% del corpo elettorale, ci deve pur essere qualcosa che non funziona. Poniamo pure che il PD e SEL in coalizione possano raggiungere il 40%, questo risultato, in una condizione di astensione del 45%, corrisponderebbe al 22% dell’elettorato. Un po’ poco per rappresentare il Paese.

11. Stante l’attuale posizionamento elettorale, alle elezioni, la coalizione tra PD e SEL riuscirà difficilmente ad avere la maggioranza per governare (a meno di qualche nuova sconvolgente legge elettorale). Ciò determinerà l’esigenza di fare una coalizione con il Centro (qualsiasi configurazione questo assuma). A questo punto, posto che il 90% del programma del futuro governo è già predeterminato per i condizionamenti esterni della UE e per la gravità della nostra la situazione economica e finanziaria, che fine faranno gli slogan, i punti irrinunciabili, le più significative differenze tra i Fantastici 5 intorno a cui si è appassionato il popolo del centro sinistra? Che fine farà il profumo di sinistra di Vendola? Che fine farà la tanto discussa agenda di governo alternativa a quella di Monti? Che fine farà la rottamazione dei dinosauri politici superstiti della Prima repubblica?  Insomma, nonostante la lodevole mobilitazione di tre milioni e passa di elettori, il tacchino è destinato a restare sul tetto e anche il passerotto non sembra tanto commestibile. Peccato che ciò costituisca non solo un problema per il PD ma un serio problema per tutto il Paese.

 

Giuseppe Rinaldi (4/12/2012 – 6/07/2021 rev.)

 


NOTE

[1] Dotti filologi del bersanese assicurano che ci sia un proverbio tedesco analogo, che però suona, forse più correttamente, «Meglio un passerotto in mano che un piccione sul tetto».

[2] È vero, come è stato ripetutamente ricordato, che i militanti dei partiti del centro sinistra hanno dato un contributo importante con il loro lavoro organizzativo. Tuttavia il loro impegno, moralmente parlando, viene dopo quello degli elettori. Le primarie sono degli elettori, non di chi le organizza. Se le primarie fossero fatte per legge, come sarebbe giusto, ci penserebbe lo Stato a organizzarle.

[3] Del resto, il doppio turno è proprio connesso all’intento di permettere a una parte di elettori, di scegliere il meno peggio.

[4] Ho sempre spiegato ai miei allievi che si tende a fare esempi quando mancano i concetti.

[5] Ci sono dei primi ministri che hanno inventato delle prospettive politiche che, nel bene o nel male, hanno fatto epoca, come Clinton, la Tatcher, Blair, Reagan, Mitterand. Volendo, si può ammettere che anche il berlusconismo abbia avuto una propria caratterizzazione epocale. Perché a sinistra ci dobbiamo sempre accontentare di gente che al più riesce a fare del bricolage?

[6] In questo contesto, trovo veramente straordinaria (per l’analfabetismo politico che dimostra) l’accusa mossa a Renzi di voler raccogliere consensi tra l’elettorato del centro destra; e dove si dovrebbero prendere altrimenti i voti, in un sistema maggioritario?