domenica 17 novembre 2013

Mal comune, mezzo gaudio

alfabetizzazione 
Saranno ormai passati quasi due mesi da quando tutti i giornali nazionali hanno riportato, con qualche accenno scandalistico e, comunque, con molta preoccupazione, alcune notizie drammatiche circa il livello medio di alfabetizzazione degli italiani.[1] Se n’è parlato per un paio di giorni. Qualcuno ricorderà anche che il ministro Giovannini venne in proposito rimbrottato dai sindacati per avere incautamente fatto alcune dichiarazioni circa la bassa competitività, a livello internazionale, della nostra mano d’opera. Poi più nulla. I nostri giornali si sono riempiti dei tira e molla sul governo, di «Cosa ha detto Grillo sul suo blog», di cosa ha detto la Cancellieri al telefono, delle vicende del cagnolino Dudù, delle disquisizioni su come fare a trovare qualche miliardo per non pagare l’IMU, del quasi fallimento dell’Alitalia, della vendita dell’Inter agli indonesiani, delle lotte a coltello dentro al PD in vista del Congresso. Evidentemente sono proprio queste le cose che contano e l’alfabetizzazione può attendere.
Le notizie allarmanti provenivano da un recentissimo rapporto OCSE che contiene i risultati dell’indagine OECD Skills Outlook sulle abilità della popolazione adulta.[2] L’indagine è stata condotta in circa una ventina di paesi dell’OCSE e comprende anche molti paesi europei. Si tratta di un’indagine che vedrà prossimamente l’estensione anche ad altri paesi. I vari campioni nazionali riguardavano la popolazione adulta compresa tra i 16 e i 65 anni e la rilevazione riguardava essenzialmente le abilità connesse all’alfabetizzazione linguistica e matematica, cui si aggiungeva anche un set di abilità legate all’impiego delle nuove tecnologie. Non si tratta dunque di un’indagine riguardante i livelli di apprendimento dei giovani, oppure il rendimento delle istituzioni scolastiche dei vari paesi, com’è ad esempio la più nota indagine PISA (che peraltro ha visto spesso l’Italia collocata nelle fasce più basse di rendimento). Si tratta di un’indagine sulle competenze dell’intera popolazione per così dire “attiva”.
L’indagine è particolarmente interessante rispetto al nostro Paese perché coloro che nel 2012 (anno cui si riferiscono i dati) avevano 16 anni sono nati nel 1996, e sono cresciuti nel ventennio berlusconiano, altrimenti noto come “Seconda Repubblica”, mentre coloro che avevano 65 anni sono nati nel 1947 o giù di lì e sono coloro che hanno alimentato la generazione del Sessantotto. Si tratta dunque di una popolazione che non ha conosciuto gli eventi più tragici della nostra storia recente, che non ha conosciuto la guerra e la ricostruzione. Si tratta di un complesso di generazioni che hanno vissuto il boom economico degli anni Sessanta e il graduale sviluppo, nel nostro Paese, della società dei consumi e della cultura di massa. Insomma, queste generazioni sono vissute in un clima considerato come di relativo benessere, di cambiamento e di modernizzazione. Va ricordato che la generazione dei nati tra il 1947 e il 1950 è la generazione di coloro che hanno letto La scuola di Barbiana di Don Milani, di coloro che hanno vissuto il Sessantotto e che hanno saputo porre con forza il tema del diritto allo studio e della riforma della scuola. Questa ricerca dunque permette di misurare un importante aspetto del capitale umano che è stato costruito nel nostro Paese, proprio a partire dalla generazione del Sessantotto, fino a coinvolgere tutte le generazioni successive.
Ebbene, i risultati sono davvero sconfortanti. Per farla breve, il nostro Paese si è collocato all’ultimo posto nella graduatoria delle abilità linguistiche e al penultimo posto nelle abilità matematiche (per tacere del resto – non intendo entrare nel dettaglio del rapporto).[3] Per comodità del lettore, ho riportato i due grafici particolarmente più significativi che non sono stati gran che ripresi dalla stampa, forse per vergogna, forse perché molti dei nostri concittadini non li saprebbero neppure interpretare.
Come si può vedere nei due grafici, l’Italia e la Spagna comunque sono sempre le ultime. La Spagna ci batte nelle abilità linguistiche e noi li battiamo nelle abilità matematiche, ma siamo sostanzialmente allo stesso livello. In compenso a entrambe piace da matti giocare al pallone. È davvero molto interessante, in termini comparativi, che tra i 23 paesi considerati nell’indagine al primo posto si sia sempre classificato il Giappone. In Italia, si veda il grafico relativo alle abilità linguistiche, un terzo soltanto della popolazione è sopra la media internazionale mentre in Giappone questo accade per i due terzi. Cos’ha il Giappone che noi non abbiamo? Si ricorderà che il Giappone è stato nostro alleato nella Seconda guerra mondiale, che è uscito dalla guerra distrutto e occupato, più o meno come l’Italia. La Germania, anch’essa distrutta, occupata e divisa, si trova intorno ai rendimenti medi (occorre considerare la riunificazione e la disparità tra Est e Ovest). Noi siamo gli ultimi. È forte la tentazione di concludere che se fossimo stati occupati in modo più massiccio e più a lungo dalle potenze vincitrici forse ci saremmo meglio alfabetizzati. Si tratta di una boutade, ma nemmeno troppo. È noto che gli anglo americani hanno provveduto a defascistizzare la nostra scuola e a introdurre alcune riforme urgenti, suscitando le ire dei nostri conservatori. Poi la scuola italiana è caduta nelle mani dei partiti e della Chiesa cattolica.[4]
L’esame delle due tabelle (nel rapporto ci sono centinaia di tabelle altrettanto stimolanti) suggerisce una marea di considerazioni. Pur non essendo questo il luogo per fare delle ipotesi esplicative, tuttavia non facciamo troppa fatica a intravvedere, tra le possibili cause della distribuzione nella graduatoria dei vari paesi, oltre ai diversi retaggi storici e culturali (i paesi cattolici sono sistematicamente agli ultimi posti) l’influenza del fattore delle diseguaglianze interne (gli USA non hanno in generale una buona posizione) e del fattore del capitale sociale (paesi come la Finlandia, la Norvegia o l’Olanda che dispongono notoriamente di un marcato capitale sociale sono ai primi posti).
Rispetto agli effetti del Sessantotto, poiché l’indagine coinvolge la generazione del Sessantotto e quelle successive, non posso fare altro che riprendere un brano del mio precedente articolo: «Nel Sessantotto, sull’onda di Don Milani e della contestazione, c’era stata una rivendicazione di diritto allo studio che aveva ottenuto importanti successi: l’apertura a tutti dell’Università, l’innalzamento della scolarità, la scuola per gli adulti. Contemporaneamente c’era stata l’esplosione del mercato della cultura di massa (libri tascabili, riviste, musica, cinema, media). Insomma, sembrava che gli italiani fossero tutti destinati a diventare degli intellettuali, dei raffinati consumatori di cultura. Invece ci possiamo accorgere solo oggi che quella generazione (i padri/ le madri dei giovani di oggi), se ha innalzato mediamente il livello dei propri titoli di studio, a causa forse di una trasmissione culturale troppo affrettata non ha saputo acquisire un’autentica dimensione culturale, si è accontentata di un’infarinatura superficiale che è ben presto svanita, di fronte al degrado delle relazioni e delle conversazioni, di fronte alle TV, di fronte agli insuccessi e alle delusioni della vita quotidiana. Non basta il diploma o la laurea per cambiare abitudini culturali radicate da generazioni. Nonostante gli sforzi di cambiamento, ciascuno è stato risucchiato verso i tratti culturali tipici del proprio milieu sociale. Il degrado culturale, come una specie di forza di gravità o come una sorta di entropia ha così fatto sentire alla lunga i suoi effetti. La maggior parte dei padri non aveva 500 libri in casa e non ha fatto granché per procurarseli. E i figli di oggi non sono da meno».[5]
Quanto alle conseguenze di questa situazione, le abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Nel nostro paese la popolazione legge poco e capisce poco quel che legge.[6] La gran parte dell’informazione passa attraverso la televisione, la quale è nelle mani di Berlusconi per la parte privata e sempre di Berlusconi o di qualcuno dei suoi servants per la parte pubblica. La televisione stabilisce l’agenda politica, stabilisce di cosa ci si deve occupare, stabilisce la priorità dei problemi, determina le intenzioni di voto. Siamo una delle popolazioni con la memoria più corta, ci dimentichiamo facilmente e siamo pronti sempre ad assolvere tutti. In cambio chiediamo soltanto che ci sia permesso occuparci dei fatti nostri senza dovere mai rendere conto a nessuno. Ci preoccupiamo di denigrare e spolpare sistematicamente le istituzioni, salvo poi invocare l’intervento delle istituzioni quando siamo nei guai. Andiamo a votare con lo stesso acume con cui andiamo al supermercato a fare incetta di porcherie che danneggiano la nostra salute. Non siamo stati capaci di assicurare, nonostante le sue pessime prestazioni, un ricambio della classe politica. Abbiamo avuto dei ministri della cultura e dell’istruzione che erano delle barzellette, stiamo dissipando e distruggendo il patrimonio artistico e ambientale. Abbiamo biblioteche che non hanno i fondi per comprare i libri e scuole che cadono in testa agli studenti. I genitori degli studenti di solito sono pronti alla rissa per difendere individualmente i loro pargoli, ma non vedono le aule sporche, le strutture cadenti, la mancanza di spazi, i tagli e le inefficienze della scuola. E gli studenti? Qualche sciopero rituale all’inizio dell’anno, tanto per fare qualche giorno di vacanza, per fare un po’ di confusione, e poi via come prima e più di prima. Ci sono anche loro nella statistica dell’OCSE. Tralascio qui per brevità e per carità di patria le conseguenze dei bassi livelli di alfabetizzazione sull’innovazione e sullo sviluppo economico (argomenti che sono ampiamente trattati nel rapporto OCSE).
Di fronte a risultati come quelli presentati dal rapporto OCSE (assicuro il lettore che il rapporto è pieno di altri dati da brivido per noi italiani) come si dovrebbe comportare un Paese degno di questo nome? Quando sul finire degli anni Cinquanta l’Unione Sovietica mise in orbita il primo satellite artificiale, negli Stati Uniti si ebbe un vero e proprio shock, si scatenarono dibattiti a non finire, e si diede subito mano a un piano di riforme nel campo dell’istruzione che diede luogo anche a importanti ricadute di tipo scientifico. Nel nostro Paese invece non solo non si sono registrati shock di alcun genere, non solo non è stato avviato alcun dibattito, ma tutti hanno continuato il loro chiacchiericcio inconcludente come se niente fosse. I sindacati se la sono presa con le dichiarazioni di Giovannini (lui il rapporto almeno lo aveva letto, i sindacati evidentemente no).
Una domanda s’impone. Siamo alla vigilia di importanti trasformazioni politiche. Il PD farà il suo Congresso, il PdL o Forza Italia è sull’orlo di una svolta rilevante. Si è formato recentemente un partito o movimento che vorrebbe mettere in riga tutti gli altri partiti, considerati vecchi e corrotti. Qualcuno conosce quali urgenti misure e quali riforme complessive del nostro sistema scolastico e dell’educazione degli adulti i vari PD, M5S, PdL-Forza Italia abbiano in mente di realizzare nel nostro Paese, allo scopo di risalire almeno di qualche posizione nella classifica dell’OCSE? Continueremo a occuparci del blog di Grillo, delle dichiarazioni di D’Alema contro Renzi, di Cancellieri, di IMU e del barboncino Dudù?
 
17/11/2013
Giuseppe Rinaldi
 
 
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OPERE CITATE
 
2013 OECD
OECD Skills Outlook 2013: First Results from the Survey of Adult Skills, OECD Publishing. (http://dx.doi.org/10.1787/9789264204256-en).
 
2011 Luzzatto, Sergio
Il Crocifisso di Stato, Einaudi, Torino.
 
1991 Scoppola, Pietro
La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Il Mulino, Bologna.
 
 
NOTE
 
[1] Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul giornale online Città Futura. Questa è una versione pressoché identica, con qualche lieve correzione. Su questi temi sono già intervenuto con il post I più furbi di tutti.
[2] Cfr. OECD, 2013. Il rapporto, in lingua inglese, può essere scaricato tramite Internet (vedi l’indirizzo in bibliografia).
[3] A questo punto mi aspetto le solite contumelie circa l’inattendibilità delle ricerche internazionali a campione che non sarebbero in grado di cogliere la differenza tra la nostra profonda formazione umanistica e l’arida cultura pragmatica servita nelle scuole anglosassoni. Oltre che somari, anche i paraocchi!
[4] Chi volesse convincersi della questione può consultare il sempre ottimo Scoppola (1991) e il tragicomico Luzzatto (2011).
[5] Cfr. Giuseppe Rinaldi, I più furbi di tutti, citato. L’accenno ai 500 libri si riferisce a una ricerca internazionale che ha fissato in 500 il numero minimo dei libri in casa necessari per compensare lo svantaggio culturale delle famiglie.
[6] De Mauro, non più di qualche anno fa, ha presentato dati agghiaccianti in proposito.

lunedì 4 novembre 2013

Movimenti logici e manfrine dialettiche

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Come ho sostenuto nell’articolo Contraddizioni del terzo tipo,[1] ritengo che Marx abbia sempre fatto uso di un’ontologia essenzialistica di derivazione aristotelico – scolastica e che questo dato di fatto sia in grado di spiegare la maggior parte delle anomalie del suo pensiero, soprattutto quegli aspetti che l’hanno messo in costante collisione con il metodo scientifico (in qualsiasi modo quest’ultimo si voglia intendere). Allo scopo di illustrare l’efficacia esplicativa di questa tesi prenderò dettagliatamente in esame poche pagine dello scritto marxiano Sulla questione ebraica, pubblicato nel 1844 sugli Annali franco – tedeschi. Il fatto che si tratti di uno dei pochi scritti giovanili effettivamente pubblicati da Marx ha il vantaggio di poter considerare le posizioni ivi espresse come posizioni ufficiali e non come semplici appunti di lavoro. La data dello scritto, inoltre, dal punto di vista della biografia marxiana, si colloca appena dopo il famoso «capovolgimento» della filosofia hegeliana; si tratta dunque di un momento di rilievo per comprendere se qualcosa è davvero cambiato e che cosa sia effettivamente cambiato.  
Si tratta di una lunga recensione a due articoli di Bruno Bauer che avevano trattato dello stesso argomento. Il mio scopo non è tanto quello di approfondire le posizioni di Marx circa la questione ebraica, posizioni comunque del tutto sorprendenti e un po’ raccapriccianti per il lettore odierno, quanto quello di mostrare l’ontologia essenzialista al lavoro e le sue poco desiderabili conseguenze. Prima di procedere vale la pena tuttavia di rammentare in quali termini si poneva, nella Germania del 1840 - 1844, la questione dell’emancipazione degli ebrei. Siamo ancora in piena Restaurazione e la Germania continua a essere costituita da una miriade di realtà politiche semi indipendenti, unite nella Confederazione tedesca. In questo contesto di estrema arretratezza, anche in seguito all’impulso politico culturale derivante dalla Rivoluzione francese si discuteva dell’opportunità di concedere agli ebrei gli stessi diritti dei comuni cittadini.[2]
La parte della recensione marxiana che esamineremo in dettaglio è quella conclusiva e si riferisce, in particolare, all’articolo di Bauer «La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi».[3] Date le sue posizioni ateistiche, Bauer suggeriva una ridefinizione dell’emancipazione degli ebrei che implicava il superamento della religione stessa. Proprio per questo si domandava, nel suo articolo, se ebrei e cristiani fossero ugualmente in grado di compiere il passo dell’abbandono della propria fede, per poi emanciparsi in quanto cittadini di uno Stato laico. Marx nella sua recensione non pare molto interessato alle tesi di Bauer,[4] sembra piuttosto interessato, dal suo punto di vista, a definire in maniera del tutto originale i termini della questione stessa dell’emancipazione. Insomma, sembra che anche allora ci fosse il vizio di dire, una volta sì e una no, che «In realtà, il problema è un altro!».
La domanda che Marx si poneva, proprio nelle ultime pagine della sua recensione, in contrasto con Bauer, è se la questione dell’emancipazione ebraica[5] dovesse essere considerata come una questione meramente di tipo religioso oppure come una questione d’altro genere. Il problema posto da Marx ci pare oggi di una vacuità assoluta. È abbastanza ovvio per il nostro senso comune che la questione dell’emancipazione vada considerata come una questione eminentemente politica. Era proprio sul terreno politico che si stavano muovendo le prime realizzazioni dell’emancipazione. Dietro allo sforzo di Marx invece c’era l’intento di definire ex novo nientemeno quale fosse «l’essenza dell’emancipazione». Nella parte precedente della recensione Marx, volendo sottolineare la propria differenza di vedute con Bauer, aveva infatti concluso: «Agli ebrei non diciamo dunque con Bauer: voi non potete essere emancipati politicamente senza emanciparvi radicalmente dall’ebraismo. Piuttosto diciamo loro: poiché potete essere emancipati politicamente senza abbandonare completamente e coerentemente l’ebraismo, per questo l’emancipazione politica stessa non è l’emancipazione umana. Se voi ebrei volete essere emancipati politicamente, senza emanciparvi umanamente, il limite e la contraddizione non stanno solo in voi, ma nell’essenza e nella categoria dell’emancipazione politica». Dunque, secondo Marx, era la stessa emancipazione politica che doveva essere messa in discussione.
 Messosi alla ricerca della vera essenza dell’emancipazione, Marx sviluppa la questione ritenendo di dover definire, invero perigliosamente per i nostri gusti attuali, quale sia la vera essenza dell’ebreo. Se l’essenza dell’ebreo fosse banalmente religiosa, allora l’emancipazione dell’ebreo dovrebbe essere di tipo religioso. Sennò dovrebbe trattarsi di qualcos’altro ed è chiaro che Marx ha in mente, fin dall’inizio, che debba trattarsi di qualcos’altro. Mentre «Bauer considera l’essenza ideale e astratta dell’ebreo, la sua religione, come la sua intera essenza», per cogliere correttamente l’essenza dell’ebreo, Marx è convinto che occorra spostare l’attenzione ben oltre il fatto religioso. Infatti, continua Marx, «Consideriamo il reale ebreo mondano, e non l’ebreo del shabbat, come fa Bauer, ma l’ebreo di tutti i giorni. Cerchiamo il segreto dell’ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto della religione nell’ebreo reale. Qual è il fondamento mondano dell’ebraismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il mercanteggiare. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Ebbene! L’emancipazione dal mercanteggiamento e dal denaro, dunque dall’ebraismo pratico e reale, sarebbe l’auto emancipazione della nostra epoca».[6]
Secondo Marx, dunque, il metodo per cogliere l’essenza dell’ebreo non sta nel considerare ciò che appare al senso comune (l’ebreo del shabbat) ma sta nel considerare ciò che l’ebreo è realmente, ossia la sua base materiale, ciò che socialmente contraddistingue l’ebreo rispetto – si presume – a coloro che non sono ebrei. Si tratta dunque dell’ebreo reale, qualificato come l’ebreo di tutti i giorni. Ebbene, l’essenza caratteristica dell’ebreo di tutti i giorni sarebbe – sempre secondo Marx - il bisogno pratico, l’egoismo, che si traduce nel mercanteggiare e nel denaro. La ricerca di un’ipotetica essenza allargata dell’ebreo non comporta, come si vede, il ricorso ad alcuna osservazione empirica, ad alcun dato statistico, ad alcuna casistica specifica. Marx è sicuro che i suoi lettori ritengano ovvio che, una volta evocati, la propensione pratica, l’egoismo e il denaro siano elementi necessari caratteristici dell’essenza dell’ebreo. Finalmente il segreto è stato svelato e abbiamo così la sensazione di avere colto la vera realtà dell’ebreo, una verità nascosta sotto le prosaiche apparenze superficiali. Un passo avanti della coscienza nella lotta contro le illusioni fenomenistiche.
Il metodo seguito da Marx comporta semplicemente di carpire un segreto non immediatamente evidente attraverso un procedimento del tutto speculativo. Abbiamo qui un perfetto esempio di un’ontologia, tipica della scolastica hegelo marxiana, che considera ciascun ente come un insieme di apparenza ed essenza. Per convincersi che dietro alla cosa apparente c’è un segreto, basta esibire una rivelazione. Basta riconoscere che qualcosa non è quello che sembra, che c’è dell’altro, che magari questo altro è molto diverso da quel che ci si aspetterebbe.[7] Dietro l’apparenza c’è l’essenza e una volta individuata l’essenza, possiamo sostenere che proprio l’essenza è causa dell’apparenza, nel senso della causa formale. Questo è aristotelismo puro. Questo modo di procedere è assai caratteristico di Marx e diventerà uno dei tratti distintivi del materialismo storico. Rispetto alla questione specifica trattata, si adombra qui che la religione sia, come si dirà più tardi, una sovrastruttura derivata e che quel che conta veramente sia invece la struttura (cioè quel che è socialmente l’ebreo).
Una volta acquisito in termini speculativi che la vera essenza dell’ebreo non è la sua coscienza religiosa bensì la sua natura egoistica e meramente pratica, si può a questo punto considerare l’ebreo, a tutti gli effetti, come un egoista e trattarlo di conseguenza. Se la vera natura dell’ebreo non è religiosa ma è di tipo sociale, il trattamento che si deve praticare nei suoi confronti non può che essere di tipo sociale. Marx dichiara infatti che l’essenza egoistica dell’ebraismo è un «elemento antisociale». Antisociale è qui inteso nel senso di contrapposto alla socialità che, secondo Marx, sarebbe una caratteristica essenziale della specie umana (anche la specie umana ha la sua brava essenza che può essere tranquillamente colta come un dato speculativo evidente).[8] Si profila dunque, dentro all’ebreo, una contraddizione ontologica tra la sua essenza sociale in quanto membro della specie umana e la sua essenza egoistica, in quanto membro del particolarismo ebraico. Detto aristotelicamente in altri termini, la differenza specifica dell’ebreo rispetto alla specie umana è il suo particolarismo egoistico. Se il vero obiettivo è quello dell’emancipazione umana (Marx lo dà per scontato) è chiaro che lo specifico dell’ebreo non può avere alcun riconoscimento, rappresenta anzi un ostacolo. L’ebreo è dunque un’essenza fuori posto, intrinsecamente contradditoria: egli dovrebbe, in quanto umano, avere un’essenza sociale e invece ha, in quanto ebreo, un’essenza particolare egoistica. È appena il caso di ricordare che gli enti fuori posto sono instabili, sono quelli che, aristotelicamente, hanno mutato o sono in prospettiva di mutare la loro essenza, sono cioè la sede possibile di un movimento logico.
A questo punto si può introdurre che «l’auto emancipazione della nostra epoca», cioè l’attuazione o realizzazione compiuta dell’essenza sociale della specie umana, consiste nel liberarsi del particolarismo egoistico, dunque nel liberarsi dell’ebreo. Marx probabilmente non vuole disfarsi fisicamente degli ebrei – almeno non lo dice – ma vorrebbe disfarsi della loro essenza particolaristica, vorrebbe disfarsi cioè proprio dell’ebreo di tutti i giorni. Infatti egli conclude alla lettera che «L’emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l’emancipazione dell’umanità dall’ebraismo».[9]
Giunto a questo punto il lettore non può esimersi dal provare un lieve giramento di testa, un vero e proprio capogiro speculativo. Insomma, si stava affrontando il problema dell’emancipazione degli ebrei nei termini di una concessione dei diritti civili e politici e ora, dopo un paio di pagine, ci troviamo a concludere, intanto, che è l’umanità a doversi emancipare e non gli ebrei e, poi, che l’umanità deve emanciparsi proprio dall’ebraismo.
Ci si può domandare se questa manfrina speculativa possa avere qualche risvolto effettivamente pratico,  possa cioè avere un minimo di realismo in termini di una politica di riforme. Abbiamo capito in generale che gli ebrei che domandano l’emancipazione fanno la domanda sbagliata. Essi invece dovrebbero intanto: 1) comprendere che la loro religione è solo l’astratto riflesso della loro condizione materiale e dunque rinunciare ipso facto alla loro religione illusoria. 2) Comprendere che la loro condizione materiale è egoistica e dunque contraria all’essenza sociale della specie umana; essi dovrebbero di conseguenza rinunciare al denaro, all’egoismo, alle loro attività economiche, sopprimendo così la loro stessa condizione materiale. 3) A questo punto gli ebrei si ritroverebbero semplicemente umani tra gli umani (avendo perso la loro differenza specifica si ritroverebbero come enti generici) e potrebbero così condividere, con tutti gli altri umani, la loro raggiunta condizione di emancipazione. Molto chiaro, molto pratico e, soprattutto, molto fattibile.
Ma non basta. Dopo l’enunciazione di questa suggestiva teoria, Marx ci fa sapere, con un vero coup de théâtre, che le cose non stanno proprio così, che l’emancipazione degli ebrei è in verità superflua, poiché è già avvenuta, anche se nessuno se ne era ancora accorto. Infatti secondo Marx «L’ebreo si è già emancipato in modo ebraico». Da questo punto in poi abbiamo lo sviluppo di una singolare ricostruzione che sembra apparentemente una ricostruzione storica. Si tratta invece di una ricostruzione del tutto speculativa, una modalità narrativa di cui è piena la filosofia hegeliana della storia. Il ragionamento apparentemente non fa una grinza. Se è vero l’assunto che l’essenza dell’ebreo è l’egoismo, il denaro (il successo pratico) e se è vero che l’emancipazione è la realizzazione della propria essenza, l’ebreo in realtà si è già emancipato, poiché esso ha contagiato i cristiani con la sua stessa essenza particolaristica, per cui i cristiani sono diventati essenzialmente ebrei. «Non si tratta di un fatto sporadico. L’ebreo si è emancipato in modo ebraico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma anche perché il denaro, con lui o senza di lui, è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell’ebreo è diventato lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei».[10] La società civile atomizzata ed egoistica dove prevalgono le relazioni di mercato non è altro che la realizzazione o l’attuazione (in termini aristotelici) dell’essenza dell’ebraismo. Nella società civile, infatti: «Il denaro è l’essenza, estraniata dall’uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l’adora».
Come si può costatare, le essenze vanno e vengono con estrema facilità. Insomma, gli ebrei avrebbero trasmesso la loro stessa essenza ai cristiani, come in una sorta di contagio.[11] Siamo così indotti a prendere per buono, come fosse una grande scoperta, un nuovo disvelamento: oggi cristiani ed ebrei sembrano entità diverse, ma hanno invece la stessa essenza. Non pare proprio potersi sostenere che si tratti di una metafora: l’equivalenza in termini di essenza tra ebrei e cristiani è esplicitamente enunciata e sostenuta.
La conclusione più ampia che Marx vuol suggerire è che l’intera società civile (in quanto scissa dalla società politica)[12] non è essenzialmente altro che ebraismo. «Poiché l’essenza reale dell’ebreo si è universalmente realizzata e mondanizzata nella società civile, la società civile non poteva convincere l’ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è appunto nient’altro che la concezione ideale del bisogno pratico. L’essenza dell’ebreo odierno la troviamo dunque non soltanto nel Pentateuco o nel Talmud, ma nella società odierna, non come essenza astratta ma come essenza sommamente empirica, non solo come limitatezza dell’ebreo, ma come limitatezza ebraica della società».[13] Quindi gli ebrei discriminati che chiedevano l’emancipazione non avevano capito che avevano già vinto la loro battaglia. Le numerose e gravi discriminazioni empiriche di cui gli ebrei andavano oggetto erano da considerarsi evidentemente come discriminazioni apparenti, elementi del tutto accidentali non degne di nota rispetto a come stanno in realtà le cose.
Naturalmente, la manipolazione essenzialistica del discorso permette di fare delle previsioni storico - sociali apodittiche, mescolando fatti possibili e implicazioni logiche, senza troppo riguardo alla coerenza. La previsione implica anche l’adozione di un tono profetico. Marx afferma così a conclusione: «Non appena la società riuscirà a sopprimere l’essenza empirica dell’ebraismo, il mercato e i suoi presupposti, l’ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto, perché la base soggettiva dell’ebraismo, il bisogno pratico, si umanizzerà, perché sarà superato il conflitto tra l’esistenza individuale sensibile e l’esistenza di genere dell’uomo. L’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dall’ebraismo».[14] Prima si dice che l’essenza dell’ebraismo è ormai diventata l’essenza della società civile borghese. Questa stessa società civile borghese dovrebbe però sopprimere l’essenza empirica dell’ebraismo, cioè dovrebbe sopprimere se stessa. In tal modo verrebbe superata la scissione tra la società civile e la società politica permettendo così l’autentica emancipazione umana. Anche qui abbiamo la contraddizione ontologica, abbiamo una cosa che «è e non è»: la società civile è l’essenza empirica dell’ebraismo, ma è anche, nello stesso tempo, il suo superamento, cioè la sua soppressione, in termini di passaggio a qualcos’altro. Il cambiamento sociale è dunque concepito come un movimento logico di essenze, guidato dalla finalità, dalla forma finale (in questo caso dallo scopo finale dell’emancipazione dell’ente generico).
Il giovane Marx scrive cose come queste a ventisei anni, nel 1844.[15] Secondo un’autorevole interpretazione,[16] questo testo però non dovrebbe esser considerato come un testo marxiano a tutti gli effetti. Infatti ci troveremmo soltanto alla vigilia della cosiddetta «rottura epistemologica» che avrebbe avuto l’effetto di separare il periodo umanistico giovanile di Marx dal periodo scientifico della maturità. La rottura sarebbe stata consumata nel 1845 con le famose «Tesi su Feuerbach». In realtà, com’è stato ormai ampiamente accertato,[17] la rottura epistemologica sarà più apparente che effettiva e Marx continuerà a ragionare in termini essenzialistici. Marx non parlerà più dell’ente generico (ritenuto ora troppo feuerbachiano) ma comincerà a parlare del comunismo, inteso ora come «il movimento che toglie la situazione esistente». Movimento logico, naturalmente.
 
4/11/2013
 
       Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
2004   Marx, Karl
Sulla questione ebraica, in Tomba, Massimiliano   (a cura di), Bruno Bauer, Karl Marx. La questione ebraica, Manifestolibri, Roma. [1844]
 
2004   Bauer, Bruno
La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi, in Tomba, Massimiliano (a cura di), Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, Manifestolibri, Roma. [1843]
 
 
NOTE
 
[1] L’articolo si trova sul Blog Finestre Rotte.
[2] Riporto per comodità del lettore, per fornire qualche elemento informativo in più, la sintesi della questione riportata nel relativo articolo dell’edizione italiana di Wikipedia: «Nel XVIII secolo si assistette in Germania ad un ampio dibattito intellettuale intorno alla questione ebraica, vale a dire sull’emancipazione politica degli ebrei. I cittadini francesi di religione ebraica, infatti, avevano ottenuto per primi in Europa l’uguaglianza dei diritti il 28 settembre 1791 con un’apposita legge e, in età napoleonica, con l’occupazione ed il governo francese di gran parte degli Stati tedeschi preunitari, si pose anche in Germania la questione della loro emancipazione. Nel regno di Westfalia venne promulgato nel gennaio del 1808 un decreto che stabiliva l’assoluta uguaglianza politica degli ebrei. Questa riforma servì successivamente da modello per analoghe iniziative legislative nel Baden e soprattutto in Prussia, dove l’11 marzo 1812 venne pubblicato un editto relativo alle condizioni civili degli ebrei. Con la caduta di Napoleone si assistette tuttavia ad un rallentamento di questo processo: solo gli Stati di Sassonia-Weimar, Assia-Kassel e Württemberg procederanno sulla via dell’emancipazione mentre nella Germania meridionale verrà bloccato e altrove si restaurerà addirittura lo status quo medievale. A partire dagli anni quaranta del secolo gli ideali liberali di emancipazione riacquisteranno però vigore e molte voci si leveranno a reclamare l’uguaglianza dei diritti per gli ebrei di Germania».
[3] Cfr. Bauer 2004.
[4] Nel 1844 avviene la rottura tra Bauer e Marx, proprio sulla questione del comunismo. La rottura indurrà poi Marx e Engels ad attaccare Bauer nell’Ideologia tedesca.
[5] Naturalmente Marx gioca sul termine “emancipazione”. Occorre ricordare che all’epoca in cui scrive Marx, il dibattito sull’emancipazione era ben noto. Alcuni Stati avevano provveduto a concedere l’emancipazione. In altre realtà politiche vi erano dibattiti e rivendicazioni di emancipazione. Comunemente l’emancipazione aveva il significato di concedere agli ebrei una serie di diritti civili e politici, al pari dei comuni cittadini, qualunque fosse il regime politico.
[6] Cfr. K. Marx, 2004: 201.
[7] Questo modo di procedere è tipico dell’impostazione filosofica di Bauer, che ha avuto una notevole influenza su Marx. Esso è tipico, più in generale, anche delle cosiddette filosofie del disvelamento, altrimenti note come filosofie del sospetto. Queste infatti hanno tutte la stessa origine nell’essenzialismo. Solo l’essenza può non essere immediatamente individuabile, può essere nascosta e può tuttavia, in certi casi, rivelarsi. Nel fenomenismo invece non ci può essere alcuna rivelazione. Il fenomenismo è odiato proprio perché esclude la possibilità di rivelazioni (il ché è ancora considerato dai nostri metafisici come il massimo della volgarità).
[8] In questo periodo (<1844) Marx fa ampio uso della nozione di essenza generica (Gattungswesen) e di concetti analoghi, variamente tradotti come specie umana, essenza umana, ente specifico, ente generico e simili. Gli stessi termini sono usati da Bauer e da Feuerbach e hanno origine nel metodo trasformativo dello stesso Feuerbach. Si riferiscono tutti all’essenza della specie umana. L’umanità come specie prende il posto dello Spirito hegeliano, ma continua a essere considerata, in tutto e per tutto, come una forma aristotelica. Infatti, si parla tranquillamente di perdita dell’essenza della specie, di estraneazione dalla specie, di attuazione dell’umanità (in termini di passaggio dalla potenza all’atto), delle potenzialità non attuate della specie umana, ecc… L’essenza generica rappresenta così le potenzialità (la causa efficiente) ma anche la causa finale. Essa rappresenta l’ente ontologicamente contradditorio, scisso, alienato che, proprio per le sue contraddizioni interne, va soggetto a un movimento logico di trasformazione della propria essenza. La conoscenza speculativa di questi movimenti logici rappresenterebbe la nuova scienza sociale.
[9] Cfr. K. Marx, 2004: 201-202.
[10] Marx 2004: 202.
[11] Almeno la trasmissione del peccato originale avveniva di padre in figlio attraverso la generazione. Qui siamo in presenza di una specie di epidemia dello Spirito.
[12] Si veda la famosa teoria della scissione tra società civile e società politica, condivisa anche e soprattutto da Hegel.
[13] Marx 2004: 206.
[14] Marx, 2004: 206. Ci permettiamo di segnalare che l’espressione “essenza empirica” costituisce una vera e propria contraddizione in termini.
[15] Vengono i brividi a pensare che appena tre o quattro anni dopo scriverà il Manifesto del Partito Comunista.
[16] Mi riferisco ad Althusser.
[17] Mi occuperò successivamente di questo argomento.