venerdì 7 ottobre 2011

Questo non è un Paese per l'etica. Obbiezioni e risposte












 

1. In un recente articolo[1] riguardante il codice etico per i candidati proponevo, seppure in maniera abbozzata, un’analisi della generale odierna tendenza verso la definizione di sempre nuove norme e garanzie, capaci di porre un argine ai rischi diffusi cui il singolo è sempre più esposto nell’ambito delle sue interazioni sociali. Sottolineavo il fatto che la definizione di norme e garanzie tende a produrre artificialmente un quadro di maggior fiducia che può migliorare la vita sociale a vantaggio di tutti. All’interno di questa tendenza collocavo la crescente diffusione, negli ultimi decenni, dei codici etici nell’ambito della politica, sia all’interno delle istituzioni, sia all’interno dei partiti, sia nel rapporto tra gli elettori e i candidati.

Ben lungi dall’essere, la mia, un’analisi acriticamente ottimistica, intravedevo tuttavia, accanto ai rischi fin troppo ovvi di strumentalizzazioni, la possibilità di un uso positivo dei codici etici in campo politico. Affermavo che “Spesso, questi codici non prevedono organi di controllo e sanzioni che possano essere comminate. Sono manifestazioni di buona volontà, talvolta si riducono a operazioni d’immagine. Da questo punto di vista poterebbero semplicemente essere considerati come parte della chiacchiera globale. Tuttavia questi codici, a lungo andare, se presi sul serio, possono avere dei risvolti positivi. Intanto servono a stabilire pubblicamente quali siano i parametri del mondo possibile che gli elettori considerano preferibili. In altri termini possono aiutare l’elettore a definire i requisiti di qualità del prodotto politico che dovrebbe aspettarsi. Servono a stabilire una comune opinione, di carattere universale, che diventa per ciò stesso difficile, per chi abbia delle tentazioni, trasgredire apertamente. Insomma, servono a individuare e confinare certi comportamenti deleteri e a costringerli, per lo meno, alla clandestinità. Una volta che abbiano raggiunto un consenso ampio di pubblico, questi codici possono poi anche trovare una definizione normativa più rigorosa e ufficiale e possono anche, quindi, giungere ad avere degli organi di controllo e delle sanzioni. […] Insomma, da un primo vincolo di tipo morale, si può passare a vincoli sempre più stringenti in termini normativi.”

Concludevo che “… sarebbe un errore considerare con sufficienza questa tendenza all’esplicitazione dei principi etici ispiratori alla base dei programmi elettorali dei vari candidati e alla stipulazione di codici di comportamento, o di patti, con gli elettori. Certo, può essere usata dai candidati come fumo negli occhi, ma può anche essere usata in termini costruttivi, dai movimenti partecipativi, per migliorare la qualità della politica.”

2. A proposito delle mie tesi ho ricevuto svariate obbiezioni, di cui ringrazio sinceramente gli autori,[2] che meritano senz’altro di essere riprese e considerate con la massima attenzione. Ciò vale anche se non riesco a scacciare l’impressione che i discorsi relativi all’etica, presso il nostro pubblico di sinistra che si ritiene molto disincantato, vengono accolti con un qualche fastidio e vengono inevitabilmente collocati nella categoria del moralismo. Nell’accezione comune, i moralisti sono ingenui, perché non tengono conto di quale sia la vera natura umana, e presuntuosi, perché pretendono di dettare le regole. Ma passiamo alle obbiezioni.

3. La prima obbiezione, senz’altro fondata, riguarda la genericità degli impegni previsti dai codici etici, la mancanza di precise definizioni delle fattispecie giuridiche, l’assenza di sanzioni e di relativi organismi di controllo. In sostanza, senza una precisa individuazione della specificità dei comportamenti e senza l’individuazione di procedure sanzionatorie efficaci, tutti i bei discorsi sui codici etici si ridurrebbero a un mero flatus vocis, con l’aggravante dell’ingenuità da parte di quelli che vi ricorrono. Il ragionamento non fa una grinza. Va tuttavia osservato che non tutti i codici etici sono generici. Ad esempio, la Raccomandazione del Consiglio europeo[3] è molto particolareggiata. Il codice etico interno dell’IDV è estremamente dettagliato e prevede minuziosamente i comportamenti, le sanzioni e gli organi di controllo. È chiaro che il livello di definizione di questi documenti dipende anche dall’uso che se ne fa, se si tratta di fare una raccomandazione, se si tratta di regolare la vita interna di un partito, se si tratta di stabilire un patto tra gli eletti e gli elettori oppure, ancora, se si tratta di fare delle domande ai candidati circa il loro futuro comportamento, qualora fossero eletti. Va inoltre osservato che spesso si è assistito a un processo di passaggio dalla formulazione di documenti vaghi e generici verso documenti sempre più strutturati, precisi, con sanzioni e organi di controllo sempre meglio definiti. Anche i documenti più vaghi possono dunque essere considerati come indicatori di una tendenza verso lo sviluppo di una maggiore sensibilità normativa sulle questioni scottanti. Possiamo così intravedere una positiva dialettica tra la crescita di una nuova consapevolezza politica e la conseguente elaborazione di norme nuove ed efficaci.

4. Una seconda obiezione riguarda la fattibilità di un controllo da parte dei cittadini direttamente interessati. Dicevo nell’articolo citato: “È del tutto possibile conferire a dei Comitati indipendenti di cittadini il compito di controllare l’effettivo andamento dell’attività di governo e di segnalare, al pubblico e ai mezzi d’informazione, le eventuali violazioni delle promesse elettorali e dei codici etici condivisi.” In queste righe è ahimè contenuta una parola sensibile (“indipendenti”) che scatena la suscettibilità della gente di sinistra. Se c’è un pregiudizio che circola è che nessuno è veramente indipendente, tutti sono sempre soltanto di parte. Coloro – come il sottoscritto - che ritengono sia possibile ricorrere a organismi indipendenti sono degli ingenui, oppure sono decisamente in cattiva fede.[4] Dalla diffidenza nei confronti degli organismi indipendenti discende che sarebbe difficilissimo trovare qualcuno in grado di mettere in piedi un organismo di controllo. In realtà, quando si parla di Comitati indipendenti non si sostiene che coloro che ne fanno parte non dovrebbero professare soggettivamente alcuna opinione. Si sostiene che questi Comitati dovrebbero operare con metodologie precise, trasparenti e intersoggettive. Un esempio può essere il famoso Osservatorio di Pavia che rileva la diffusione della comunicazione politica sui mezzi di informazione. Il problema non è se quelli dell’osservatorio sono di destra o di sinistra, chi li paga, perché lo fanno, a chi giova, e così via; il problema è se utilizzano dei metodi di rilevazione e analisi attendibili. Ho già citato, nello scorso articolo, il caso del Contratto con gli italiani di Berlusconi. Ebbene, c’è chi è andato a esaminare, dati alla mano, se è vero o non è vero che Berlusconi ha onorato il suo contratto con gli italiani. Tutto questo si può fare indipendentemente dagli orientamenti politici soggettivi, esplicitando con chiarezza il metodo che si intende seguire (in questo caso è il metodo che garantisce l’indipendenza). Viene da osservare ancora che, nel nostro Paese, non siamo in generale abituati alla presenza di organi indipendenti di controllo. Del resto, il modo in cui, nel nostro Paese, viene trattata la magistratura, che costituisce l’organo indipendente di controllo per eccellenza, la dice lunga sui nostri ritardi.

5. Una terza obiezione, di carattere piuttosto radicale, rileva che l’opinione pubblica è altrettanto poco sensibile all’etica degli stessi politici che essa dovrebbe monitorare. Più in generale, sarebbe un’ingenuità aspettarsi un’opinione pubblica sana in una situazione in cui la politica è corrotta. L’opinione pubblica è, realisticamente, lo specchio della politica e viceversa. L’immagine che ne deriva è quella del serpente che si morde la coda, per cui, volendo cambiare le cose, non si sa da quale punto cominciare. Tralascio il dibattito - che sarebbe assai interessante - circa il rapporto tra l’opinione pubblica del nostro paese e la nostra classe politica, e cioè se è proprio vero che classe politica e opinione pubblica si rispecchino sempre fedelmente. Circa l’obbiezione generale, mi limito a osservare che l’opinione pubblica non va considerata come un dato di fatto, ma come un prodotto di precise operazioni culturali. L’opinione pubblica può essere più o meno informata, più o meno matura, più o meno responsabile. L’attività di controllo degli elettori sui propri eletti è sicuramente un’attività che, seppure in piccolissima parte, è in grado di far maturare l’opinione pubblica stessa. L’esercizio dell’opinione pubblica rappresenta un antidoto efficace alla manipolazione dell’opinione pubblica.

6. Una quarta obbiezione concerne che i codici etici, lungi dall’essere eminentemente di tipo procedurale, finiscono inevitabilmente per tirare in ballo degli specifici contenuti e, dunque, per costituire degli elementi programmatici che possono essere accolti o rifiutati sulla base di considerazioni politiche. Un esempio tipico può essere quello delle cosiddette “quote rosa”. L’eguaglianza di genere nella distribuzione delle candidature può essere considerato, secondo una certa logica, un fatto positivo, mentre, secondo un’altra logica, può essere considerato come una sciocchezza del politically correct. La garanzia antimafia che un candidato può fornire ai propri elettori è senz’altro legata a un implicito programma antimafia su cui, a parole, sono tutti d’accordo, ma su cui possono esserci delle differenze sostanziali. Oppure, le garanzie di rispetto del patrimonio ambientale possono essere considerate, da un lato, come principi doverosi di difesa di un bene comune e, dall’altro, come ostacoli allo sviluppo economico (ne sa qualcosa il compagno Soru). Non ci troveremmo dunque a scrivere dei codici etici, ma a scrivere dei veri e propri programmi politici, del tutto questionabili. L’osservazione è senz’altro pertinente: un conto sono i codici etici che dovrebbero regolare gli aspetti più procedurali della politica e un conto sono i programmi che, in un certo senso possono essere considerati come la lista della spesa, dove i singoli elementi possono essere messi o tolti a seconda della varietà degli orientamenti politici. Non c’è una ricetta precisa per distinguere il programma dal codice etico. Il codice etico tende a far parte del programma, e viceversa. Come regola approssimativa, si può affermare che nel codice etico ci dovrebbe stare tutto quello che ci possiamo attendere da un partito o da un candidato, indipendentemente dai loro specifici programmi. In questo modo si comprende come il ragionamento sul codice etico possa avere anche una funzione di aggregazione dello stesso mondo politico intorno ad alcuni princìpi condivisi. È chiaro comunque che alcune regole etiche generali possono immediatamente fare a pugni con certi elementi programmatici, oppure con gli interessi profondi di certi candidati o di certi partiti (i candidati di un partito che abbia come obiettivo fondamentale quello di occupare le poltrone difficilmente prometteranno ai loro elettori di dimettersi, qualora fossero sottoposti a indagine).

7. Una quinta obiezione, di ordine più generale, può essere sintetizzata dal motto “Sarebbe bello ma non è realistico”. In sostanza si rileva che tutta questa materia (maturazione dell’opinione pubblica, controlli, codici etici, impegni, garanzie, fiducia) appartiene a un mondo possibile, alquanto desiderabile, che tuttavia in effetti non esiste. Si tratta dunque di un’accusa di eccessiva astrattezza, di eccessivo ottimismo, di possedere una visione del mondo alla Pangloss. Un modo per dire che la politica deve stare coi piedi per terra, deve confrontarsi con la realtà così com’è e non con la realtà come la vorremmo. Certo, non si può che concordare con chi reclama che i progetti politici tengano conto della realtà effettuale. Non si può tuttavia concordare quando, sull’altare della realtà effettuale, viene sacrificato qualunque progetto che voglia cambiare le cose. È singolare poi che questa obbiezione provenga soprattutto da quelli che si pongono l’obiettivo di cambiare le cose.

8. Ci dovremmo allora domandare specificatamente di quanta astrattezza abbiamo bisogno, quanta astrattezza possiamo sopportare, qual è lo scarto ottimale tra gli ideali e la realtà. Mi pare che nella cultura politica della sinistra (il sottoscritto non fa eccezione) sia presente un che di schizofrenico che induce, da un lato, a un realismo machiavellico secondo il quale gli esseri umani sarebbero guidati, nelle loro scelte, principalmente dai loro istinti e dai loro interessi personali, e, dall’altro, a una mirabile utopia in cui, senza nessuna costrizione, spontaneamente gli stessi individui di prima dovrebbero cooperare, perseguire l’interesse comune, sacrificarsi per la comunità, lottare per la libertà e l’eguaglianza. Non si capisce mai quale sia la magica bacchetta capace di trasformare un feroce individualista in un altruista impegnato.  Quest’opposizione tra il male generalizzato e il bene puro è senz’altro alla radice di molti mali della sinistra, da un lato, di tutti gli accomodamenti squallidi che conosciamo bene (interessi personali, lotte di potere, spaccature, scissioni) e, dall’altro, di quella continua chiacchiera retorica sui grandi principi, sui grandi ideali. Gli accomodamenti squallidi sono la merce quotidiana, mentre i grandi ideali rappresentano il sol dell’avvenire. Diceva Merton che, nella scienza, le teorie di medio raggio sono le migliori. Ciò vale anche per il rapporto tra gli ideali e la realtà.

9. Concludendo, si tratta dunque di obbiezioni senz’altro fondate ma, allo stesso tempo, di obiezioni non fondamentali. La vera obiezione fondamentale che ho potuto cogliere è quella che ho percepito nel sottofondo di molti discorsi, sebbene mai compiutamente esplicitata, e cioè l’estraneità, se si vuole, lo scetticismo, da parte della cultura politica della sinistra, nei confronti dell’etica e nei confronti delle sue applicazioni pratiche. Mi par di cogliere gli echi lontani della convinzione, entro cui molti di noi hanno avuto la loro educazione politica, che l’etica sia, tutto sommato, una sovrastruttura e che quindi sia profondamente sbagliato portarla al centro del discorso politico. Secondo questa prospettiva, il discorso politico deve occuparsi fondamentalmente di due cose, della dimensione economica e della dimensione del potere. Tutto resto non conta. Peccato che queste concezioni - oltre ad avere costantemente fallito - mostrino oggi tutti i loro limiti di fronte alla riflessione contemporanea intorno alla società e alle istituzioni. Secondo la filosofia analitica e secondo la linguistica, una promessa, un impegno, una sottoscrizione sono atti illocutori[5] attraverso cui si definiscono le istituzioni stesse, dalle più semplici alle più complesse. Le istituzioni, se esistono, esistono soltanto nella testa dei singoli individui. Se sono solide, lo sono soltanto perché sono credute da una moltitudine di persone. Non possiamo continuare a essere scettici e a prendere le distanze nei confronti dei fondamenti delle istituzioni e poi lamentarci del fatto che le istituzioni non funzionano.

 

Giuseppe Rinaldi (7/10/2011 – rev. 03/07/2021)

 

NOTE

 

[1] L’articolo Un etica per la politica si trova nell’archivio di Città Futura e sul blog Finestrerotte.

[2] Il fatto di ricevere, ogni tanto, delle obbiezioni rafforza la convinzione che pubblicare le proprie opinioni non sia del tutto privo di senso.

[3] L’articolo relativo si trova nell’archivio di Città Futura e sul blog Finestrerotte.

[4] Argomenti di questo genere sono stati levati costantemente dagli insegnanti contro tutti i tipi di controllo e di misurazione di rendimento del lavoro scolastico. Gli insegnanti sarebbero disposti a farsi controllare, se i controllori fossero al di sopra di ogni sospetto; poiché non ci sono controllori al di sopra di ogni sospetto, allora è meglio non farsi controllare.

[5] Si tratta cioè di enunciati che realizzano di per sé ciò che dichiarano, che realizzano immediatamente il proprio contenuto.