mercoledì 6 giugno 2018

E le sinistre stanno a guardare II

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1. Dato il totale ribaltamento della situazione politica, avvenuto in pochi giorni, non possiamo esimerci dal ritornare sul nostro tema. La prima parte di questo articolo era stata scritta alla luce del fallimento delle consultazioni di Conte, del conseguente incarico a Cottarelli e delle nuove elezioni imminenti. Ora, dopo la giravolta di Salvini – Di Maio, abbiamo invece un governo politico e pare sia del tutto scongiurato il rischio di tornare a nuove elezioni. Pare anche lievemente contenuto il rischio di una volata al rialzo dello spread. Così nei prossimi giorni vedremo all’azione il governo Conte, cosiddetto «governo del cambiamento». Vedremo anche in azione le relative opposizioni, di destra e di sinistra. Quel che è accaduto negli ultimi giorni costituisce indubbiamente una novità di un certo rilievo che, assieme all’inatteso e clamoroso risultato elettorale del 4 marzo, resterà senz’altro a segnare una svolta nella storia politica del nostro Paese, più o meno come è rimasto il ribaltone del 1994. Non a caso diversi politici e cronisti si sono affannati a parlare – seppure un po’ a sproposito dal punto di vista tecnico – dell’inizio di una Terza Repubblica.  

2. Al tavolo delle trattative tra Lega e M5S per la formazione del nuovo governo è nata una formula politica decisamente originale, insieme di tipo sovranista, populista e anti establishment. Al proprio interno ha un’ampia gamma di posizioni talvolta anche contradditorie e inconciliabili ma è tuttavia tenuta insieme dal programma di governo, un elenco di cose da fare ricavato dai programmi di due formazioni che si erano presentate in conflitto tra loro alle elezioni. Questa nuova formula politica lascia al di fuori la destra tradizionale (FdI e FI) e le sinistre tradizionali (PD e LeU). Lascia fuori, cioè, coloro che hanno alternativamente governato a partire dalla svolta del sistema politico italiano nel 1994. È vero che la Lega in passato ha governato con Berlusconi, ma la Lega di oggi è indubbiamente un partito decisamente diverso. La nuova coalizione di fatto tra Lega e M5S (anche se i grillini non vogliono che si parli di coalizione) rappresenta dunque la emarginazione – forse definitiva -  delle due principali forze politiche che hanno governato il Paese nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica.

3. In generale, quel che spiega questo repentino mutamento è – oggi lo si vede con estrema chiarezza - lo scarsissimo rendimento del sistema politico in tutto il lungo periodo dal 1994 a oggi. In parole povere, l’incapacità delle formazioni che si sono avvicendate al governo e all’opposizione di fornire risposte efficaci alle domande dell’elettorato e, più in generale, ai problemi del Paese. Com’è noto, l’effetto più visibile di questa persistente inefficacia del sistema politico è stato lo sviluppo davvero bipartisan di una vasta corrente di antipolitica che è andata via via crescendo nel Paese. La nuova Lega di Salvini e il giovane M5S hanno saputo catalizzare tutti gli scontenti - spesso scontenti a ragion veduta, anche se spesso per motivazioni eterogenee, quando non completamente opposte. Una catalisi davvero difficile, tanto che l’esercito degli scontenti ha dovuto, in una prima fase, confluire in due formazioni politiche diverse e in aspra concorrenza tra loro e, solo in un secondo tempo, produrre poi, a tavolino, un patto di governo del tutto pragmatico. Insomma, nel patto di governo tra Lega e M5S c’è la schiuma della rabbia contro tutto e tutti, banche, immigrati, Europa, Euro, Fornero, Jobs Act, tassazione, disoccupazione e così via. Quando il sistema politico non è in grado di risolvere decentemente i problemi, gli scontenti si accumulano e alla fine in un modo o nell’altro si coalizzano. Non si sostiene qui che la destra e la sinistra tradizionali fossero uguali. Si sostiene, soltanto e semplicemente, che si sono mostrate inadeguate e hanno deluso un po’ tutti. Ci diranno gli storici per quali motivi profondi le destre e le sinistre della Seconda Repubblica si siano limitate a occupare il potere e non abbiano combinato nulla di produttivo per il Paese. Ciò ha a che fare senz’altro con il carattere autoreferenziale ed estrattivo del ceto politico che è nato in seguito alla crisi delle ideologie e delle culture politiche della Prima Repubblica. Non possiamo tuttavia occuparci qui di questa questione.

4. Gli studiosi e gli analisti sostengono in genere che l’affermazione dell’odierno populismo, per lo meno in tutto l’Occidente, sia dovuto alla mobilitazione degli scontenti della globalizzazione. Anche se è assai vaga, questa formula può essere accolta se allo scontento generico per la globalizzazione aggiungiamo – nel nostro caso - lo scontento specifico che il basso rendimento del sistema politico italiano della Seconda Repubblica. Questo basso rendimento si è espresso in innumerevoli modalità: ha fatto miriadi di promesse mai mantenute, ha lasciato incancrenire vecchi problemi, non ha apportato alcuna innovazione, ha sciupato occasioni che erano da cogliere al volo, oppure ha apportato innovazioni avventate che hanno seminato più problemi che altro, ha coltivato sterili battaglie ideologiche, ha prodotto mezzi disastri che hanno danneggiato i singoli e che poi hanno dovuto essere ripagati dalla collettività. Non ultimo, ha favorito l’insediamento di un personale politico di scarsa qualità e fondamentalmente incompetente.

Se questo è vero, quel che è avvenuto in questi giorni è solo il risultato finale, il compimento ultimo di una frattura che era operante da tempo e a cui né la destra né la sinistra della Seconda Repubblica hanno saputo porre rimedio. Ora la frattura tra il nuovo blocco appena nato e il mondo politico precedente è davvero netta e le speranze di ricondurre le due nuove formazioni nell’alveo consueto della politica sono davvero poche. I nuovi populisti non si fermeranno finché non avranno sperimentato tutte le loro ricette, cioè finché non avranno eliminato tutti gli oggetti negativi della loro ira. Quella gialloverde ha i connotati di una rivolta contro la politica che viene da lontano e che né Berlusconi né Renzi hanno saputo contrastare. Va ricordato ovviamente che entrambi hanno cominciato le loro rispettive carriere fomentando essi stessi una rivolta contro l’assetto politico più tradizionale, ma ora un’analoga e più radicale rivolta li sta mettendo da parte. Con una lieve differenza, che Di Maio ha rifiutato seccamente l’alleanza con Berlusconi, mentre avrebbe accettato quella con il PD.

5. L’originalità della situazione italiana non sta tanto nella nuova Lega sovranista, della quale esiste una copia quasi perfetta in Francia, quanto nella formazione e nella crescita rapidissima del M5S che ha dato voce, in questi anni, più che altro al disagio di ampie aree di elettorato collocate sia a destra che a sinistra. Un elettorato certamente composito ed eterogeneo ma accomunato dall’indignazione, dall’urgenza dei problemi e dal costante e quotidiano scontro col muro di gomma dell’amministrazione e della politica. Questa diversa natura dei due populismi li aveva fatti evolvere del tutto separatamente. Mancava soltanto a costoro – per diventare maggioranza di governo – la tecnica del patto di coalizione e questa l’hanno trovata nell’esempio (che è invece un esempio di politica classica) del patto di governo tedesco tra SPD e CDU. Non è azzardato affermare che Lega e M5S abbiano scoperto le loro affinità (e messo da parte le loro differenze, che pure ci sono) al tavolo delle trattative per il programma di governo, con il tempo e lo spazio messo a disposizione da Mattarella e – si dice – con l’aiutino di Steve Bannon, l’ex consigliere di Trump. Così, invece di una Große Koalition tra due partiti classici abbiamo avuto la lista della spesa, il programma dei sovranisti populisti anti establishment che pare stia mettendo d’accordo non solo i due contractor ma anche buona parte degli italiani.

6. In questi giorni molti commentatori, decisamente ottimisti, facendo forse buon viso a cattivo gioco, si sono spinti a prevedere che la coalizione della nuova Lega e del M5S, di fronte alla prova del governo, sarà costretta a confrontarsi con la realtà e che quindi dovrà metter da parte gli slogan. In altri termini, prevedono che la coalizione finirà ben presto per istituzionalizzarsi. Entrati nel salotto della politica verranno ben presto assimilati dai costumi della politica corrente – diventeranno cioè anche loro protagonisti proprio di quella politica dal basso rendimento che aveva scatenato le loro stesse proteste. Insomma, la politica non può che essere quella che è (quella che non rende nulla e fa disastri) e quando si entra dentro al sistema non si può che perdere qualsiasi carattere rivoluzionario, eversivo  o anche solo alternativo o innovativo.

Questi commentatori trascurano, a nostro giudizio, il fatto che l’unificazione di fatto del populismo sovranista anti establishment che è avvenuta oggi in Italia non significa il semplice avvento di un governo di destra.  Non si tratta solo di un pastiche parlamentare temporaneo cui ci aveva abituato il vecchio sistema proporzionale.  Parafrasando il Grillo di qualche tempo fa, si potrebbe dire che questo è l’avvento di un non governo. Del resto loro hanno anche un non statuto. Il fatto è che il populismo sovranista non ha alcun interesse a governare effettivamente. Perché nella quotidianità del governo nascono effettivamente le difficoltà, ci si scontra con problemi reali, nascono le insoddisfazioni, si spengono inevitabilmente gli entusiasmi e calano i consensi. Per un movimento, governare significa, in altri termini, istituzionalizzarsi. E istituzionalizzarsi significa scomparire. Questo è il motivo fondamentale per cui Salvini è stato riluttate fino all’ultimo. In effetti forse avrebbe guadagnato assai di più da un’altra campagna elettorale. Un sondaggio di Pagnoncelli effettuato tra il 30 e 31/5 dà il partito di Salvini al 28,5%.

7. Il populismo, più che a governare, è costretto alla mobilitazione continua e al continuo rialzo della posta. Non a caso, la Lega in questi giorni sta proponendo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Il populismo è costretto ad alimentare continuamente l’illusione collettiva che tiene insieme i suoi eterogenei aderenti. I leader populisti sono i primi a dover credere nella stessa illusione collettiva che propongono quotidianamente ai loro seguaci. I leader populisti che non credono fino in fondo alla loro retorica finiscono per essere inefficaci (su questo aspetto Berlusconi è stato un maestro).  Le conseguenze di questo carattere possono essere anche molto gravi. Il populismo sovranista dunque è condannato a vivere e a far vivere i propri seguaci entro una prospettiva di mobilitazione continua che è tipicamente irrealistica e che non tiene alcun conto dei dati di fatto. Ebbene, una simile prospettiva politica, una volta al governo, potrebbe portare a errori clamorosi, a imprese disastrose, a decisioni avventate e dannose i cui costi potrebbero riversarsi sulla collettività per decenni (del resto la tanto contestata legge Fornero è un prodotto indiretto dei disastri analoghi del berlusconismo). È questo un altro modo per dire che gli irresponsabili sono giunti legittimamente nei palazzi del potere e che oggi non abbiamo alcuno strumento per fermarli. Potrebbero doversene andare solo in seguito a una catastrofe provocata da loro stessi, ma comunque ne pagheremmo nuovamente, tutti, le conseguenze, come ai tempi della caduta di Berlusconi nel 2011. Di fronte a questo nuovo tipo di avversario, l’opposizione «senza sconti» di Martina non sarà che un misero Aventino.

8. Coloro che, di fronte alla formazione del governo Conte, dovrebbero aver invece tirato un bel respiro di sollievo sono i leader delle sinistre – in primo luogo i leader del PD. Come ho ampiamente argomentato nel mio articolo precedente, un’ulteriore consultazione elettorale a luglio o settembre – entro il quadro politico attuale – avrebbe condotto a un disastro elettorale definitivo delle sinistre. Paradossalmente, la giravolta di Salvini ha salvato le sinistre dal loro destino, peraltro ancora non scongiurato, di diventare del tutto irrilevanti, numericamente e politicamente. Così, mentre Di Maio e Salvini agiteranno convulsamente in tutto il Paese e in Europa la loro mobilitazione continua di carattere sfascista, LeU potrà decidere con calma il proprio destino associativo e le proprie alchimie ideologiche. Così il PD potrà decidere di fare un Congresso e di eleggere eventualmente un altro segretario al posto di Renzi (visto che è ancora lui il segretario di fatto). Così finalmente potremo sapere dal braintrust del PD «perché abbiamo perso le elezioni» e «cosa dobbiamo fare per vincere la prossima volta». Nel mentre, entrambe le sinistre potranno esercitarsi a fare la famosa «opposizione senza sconti» di cui Martina proclama la potenza, tutte le volte che gli danno sei secondi in TV.

9. Molti articoli di commento che si leggono in questi giorni a proposito del PD sono ricchi di consigli su come fare a non sparire, come fare a risollevarsi, come fare a rimettere in piedi un’alternativa politica al governo Conte. Un buon esempio di questa letteratura è l’articolo Il leader che serve al futuro PD di Piero Ignazi su La Repubblica del 2/6/2018. Altri articoli di trovano, sempre ad esempio, su L’Espresso del 3/6/ 2018, tra i quali uno degno di nota di Marco Damilano. Noi stessi abbiamo in passato profuso sulla questione una montagna di analisi e di consigli, mai ascoltati. Beninteso, chi scrive non è così megalomane da ritenere che al PD importi qualcosa dei propri consigli. Il fatto è però che quel che ci sarebbe da fare per rimettere in piedi il PD nelle sue linee generali è abbastanza ovvio a chiunque – anche a un modesto e spassionato osservatore esterno com’è chi scrive. Il guaio è che il PD riesce sempre a fare quel che non è ovvio, a farsi del male – e a trascinare nella comune rovina tutto il resto. Saremmo tentati di dire che obiettivamente, il PD è diventato un attrezzo ingombrante, inutile e financo pericoloso. Forse sarebbe davvero il caso di scioglierlo e ricominciare da capo, azzerando tutto.

10. L’analisi che abbiamo condotto in apertura implica, inesorabilmente, che il PD della XVII legislatura sia stato, di fatto, un esempio – questo almeno devono aver pensato gli elettori – di cattivo rendimento della politica, insieme al partito di Berlusconi, l’altro grande sconfitto alle elezioni. Qui sta la questione e qui sta, forse, il motivo per cui il PD non ci ha ancora spiegato «perché abbiamo perso le elezioni».

Dal punto di vista del PD (cioè, della sua dirigenza) gli ultimi due governi (Renzi e Gentiloni) sarebbero stati quanto di meglio era possibile, soprattutto se confrontati con i precedenti governi berlusconiani. In effetti l’attivismo di Renzi ha prodotto una montagna di iniziative - molte delle quali magari anche sensate e necessarie, almeno dal punto di vista di chi scrive. La cosa tuttavia non ha funzionato affatto con gli elettori. La convinzione nella profonda bontà del proprio operato di governo (nonostante segnali allarmanti come le continue sconfitte nelle elezioni  locali e nel referendum e nonostante i sondaggi inequivocabilmente sempre più negativi) era tuttavia così forte che la campagna elettorale del PD è consistita sostanzialmente nello sbandieramento dei successi dei due governi precedenti e nella determinazione a continuare nello stesso modo. Nel suo intervento da Fazio, Renzi ha ribadito di avere avuto ragione anche sulla questione del referendum istituzionale, che pure è stato sonoramente bocciato dagli elettori. Insomma, il partito (o il leader) ha sempre ragione, sono gli elettori che si sbagliano.

11. Mentre l’esercito degli scontenti (certo, l’abbiamo già ricordato, scontenti per i motivi più diversi e anche contradditori) stava crescendo a vista d’occhio, il PD continuava a compiacersi per i propri successi di governo, ridisegnava le istituzioni, distribuiva ottanta euro di qua e di là, citava le cifre statistiche nel campo del sostegno alle imprese, dell’occupazione, dei rapporti con l’Europa e dell’immigrazione. Ebbene, se andiamo a vedere, nel programma che ha suggellato l’alleanza populista sovranista in Italia – il programma che, di fatto, ha vinto le elezioni - ci stanno quasi tutte misure contro la politica dei due governi PD: contro la legge Fornero (che non è del governo PD ma che il PD ha sostenuto), contro la politica delle banche, contro la TAV, contro il Jobs Act, contro la “buona scuola”, contro l’obbligo delle vaccinazioni, perfino contro il reddito di inclusione – che poi è una brutta copia del reddito di cittadinanza grillino. Tutto questo significa – minimamente – una sola cosa: il PD negli ultimi cinque anni ha progressivamente perso il polso della situazione, ha perso i rapporti con il Paese, sia con il Nord (da cui il successo leghista) sia con il Sud (da cui il successo grillino). E anche con il Centro, visto che ha perso anche a casa propria, cioè nelle aree tradizionalmente di sinistra. E non sono bastati i proclami del tipo «Dobbiamo riprendere il rapporto con la nostra gente» perché anche coloro che hanno impazzato su quella linea hanno ugualmente perso.

12. Quel che emerge da questi elementari spezzoni di analisi è il ritratto di un partito sempre più autoreferenziale e sempre più separato dalla società civile che intenderebbe rappresentare. Sempre più incapace di fare i conti con la realtà e di produrre un’offerta politica innovativa e adeguata. A livello nazionale, nella appena trascorsa crisi politica, è stato a guardare. A livello locale, tranne rare eccezioni, ormai c’è il vuoto più assoluto. Vedremo in proposito i risultati della prossima tornata di elezioni amministrative. Dovrebbe essere ben chiaro che il problema non è Renzi. La scalata di Renzi al PD è stata possibile perché il vuoto c’era già da un pezzo, fin da quando Bersani voleva smacchiare i giaguari. Renzi ha venduto abilmente una bella illusione, che tuttavia non è servita. E ora pare proprio si debba tornare alla realtà.

Spesso ho citato le vicende di Fabrizio Barca, il volenteroso che qualche anno fa si era speso per una rigenerazione del partito a livello della partecipazione e al livello territoriale – subito stoppato dalla nomenclatura. Barca che non faceva parte del cerchio e ha dovuto dimettersi. Riporto una breve sintesi del ragionamento, a proposito del destino del PD, di Marco Damilano (L’Espresso del 3/6/2018 ): «Eppure l’Italia che non si identifica con Di Maio e Salvini è vasta e neppure minoritaria e ha bisogno di una casa politica nuova, con tre pilastri, quelli su cui è crollato il renzismo. Un’identità culturale […]. Un modello organizzativo […]. Un gruppo dirigente diffuso […]. In assenza di una risposta su almeno questi tre punti, l’identità culturale che viene prima dei programmi, l’organizzazione, la leadership, il PD è destinato a dissolversi». Sono passati ormai due mesi dalla sconfitta del 4 marzo e di reazioni sensate purtroppo non ne abbiamo viste neanche una. Men che mai abbiamo intravisto le fondamenta di una casa politica nuova.

13. Se ci aspettiamo che questo partito dimezzato, com’è attualmente, la testa a Roma (o a Firenze) e il corpo ovunque e in nessun luogo, faccia l’opposizione «senza sconti» al governo populista sovranista e riesca a costruire un’alternativa politica capace di tornare a vincere, diciamo, tra due o tre anni – visto che non è detto che questa legislatura arrivi fino alla fine – forse ci facciamo qualche illusione, forse siamo vittima di un clamoroso wishful thinking. Se tutto ciò non è possibile, allora tutta la speranza del PD (e delle altre sinistre) sta ormai solo più nel fatto che il governo sovranista populista governi così male e faccia dei disastri tali da cambiare molto in fretta l’opinione degli elettori che oggi lo sostengono. Per ora si parla solo di opposizione. Non si parla per ora neanche della costruzione di un’alternativa di governo, anche perché non si saprebbe con chi costruirla, visto che il PD politicamente si trova nel più totale isolamento. Le cose sarebbero andate assai diversamente se – l’ho già ribadito varie volte - il PD avesse realisticamente accettato una qualche alleanza con Di Maio. Oggi al posto di Salvini ci sarebbe un Gentiloni (o Minniti, o Del Rio, o quello che preferite). E il programma di governo sarebbe radicalmente diverso. Certo, il PD avrebbe dovuto ammettere di avere deluso una parte importante dell’elettorato e avrebbe dovuto accettare anche una drastica revisione di alcuni dei propri provvedimenti di governo. Doloroso? Ma intanto dovrà farlo lo stesso al prossimo Congresso. O si pensa di fare un Congresso che santifichi l’operato di Renzi e Gentiloni?

14. La sola novità recente di qualche rilievo è quella della formazione (nella prospettiva di un immediato confronto elettorale settembrino) di una sorta di fronte repubblicano, sul modello del fronte che ha portato alla vittoria in Francia l’attuale presidente Macron. Promotore è stato il nuovo astro Carlo Calenda. Nelle intenzioni, il leader di questo ampio schieramento avrebbe dovuto essere Paolo Gentiloni. Il progetto non è piaciuto più di tanto agli attuali dirigenti del PD e, tanto per cambiare, anche Fassina si è subito detto contrario. È dunque probabile che il venir meno dell’imminenza delle elezioni metterà in soffitta anche questa proposta di emergenza. Si trattava comunque di una proposta che non avrebbe contribuito gran che a ricostruire il partito sul piano della cultura politica e del modello organizzativo, perché avrebbe avuto il suo fulcro in un generico programma moderato anti sovranista e antipopulista, capace di mobilitare anche frange di FI e del centro. Sarebbe stato un tentativo disperato ma obbligatorio nel caso in cui Lega e M5S si fossero presentati insieme alle elezioni. Le sinistre però hanno il pregio di resistere a ogni cambiamento, anche quanto hanno una pistola puntata alla testa. Questo non vuol dire che una sinistra rinnovata non debba guardare, in un prossimo futuro, anche e soprattutto alla cultura politica repubblicana – visto che la cultura politica socialdemocratica è decisamente in crisi un po’ dappertutto. Ma qui ci sposteremmo su un livello di discussione che passa completamente sopra le teste dei vari Renzi, Martina o Fassina. La strategia delle sinistre e del PD in particolare, in questo frangente della formazione del governo, è stata perfino criticata dal principale quotidiano italiano di ispirazione laico - repubblicana. Il che è tutto dire.

15. Per esprimere fino in fondo il nostro pessimismo sulla situazione politica attuale vale la pena ancora di sottolineare, in ultimo, come anche la modesta linea di condotta della «opposizione senza sconti» di Martina non sarà così semplice. Molti dei contenuti su cui il nuovo governo si è impegnato – a parte le questioni di fattibilità -  paiono mettere in crisi la tradizionale distinzione tra destra e sinistra. Il salario minimo garantito che è nel programma di governo di Conte è di destra o di sinistra, visto che non piace alla CGIL ma è anche nel programma del PD? Quando si tratterà di ragionare sulla revisione del Jobs Act, come si collocheranno le nostre numerose sinistre (visto che è stato uno degli argomenti portanti della fuoriuscita di MDP dal PD)? Abolire (o rivedere) la legge Fornero è di destra o di sinistra? Il cosiddetto «reddito di cittadinanza» nella versione grillina non è molto diverso dal «reddito di inclusione» del PD. Sarà allora molto difficile sostenere che il primo è di destra mentre il secondo è di sinistra. La revisione della famosa «buona scuola» renziana, che aveva suscitato le reazioni da parte di diversi insegnanti di sinistra e da parte della sinistra fuoriuscita dal PD, è di destra o di sinistra? Anche quando si parlerà delle infrastrutture e dei trasporti ci sarà da ridere: i No-TAV sono di destra o di sinistra? Sono «compagni che sbagliano?». A ciò possiamo poi aggiungere questioni complesse, come l’atteggiamento verso l’Europa e l’Euro, verso i quali il PD ha sempre mostrato una sorta di appeasement, fino ad apparire come complice della Germania o dei “burocrati” di Bruxelles. Mentre a sinistra c’è anche – piaccia o no - una forte componente antieuropeista con cui varrebbe la pena di discutere. È davvero curioso il fatto che il PD renziano abbia sempre adottato, su tutti i problemi, le strategie più moderate, nell’intento di attrarre una parte degli elettori del Centro e della Destra. Le forze populiste che invece hanno fatto il pieno sul piano elettorale sono anche quelle che su tutti i problemi hanno sempre proposto le strategie più radicali.

16. Queste considerazioni mostrano con chiarezza che anche la minima mission di un’opposizione dura al governo Conte implicherà comunque una revisione profonda delle nozioni stesse di destra e sinistra, per lo meno a livello programmatico. Pescare a destra e a sinistra è del resto sempre stato nella natura del populismo che, proprio per questo, non va scambiato con una destra tradizionale. Del resto, storicamente, il movimento fascista, che non era certo una destra tradizionale, aveva ereditato dalla sinistra molti dei suoi obiettivi, soprattutto quelli di tipo sociale, oltre allo stile rivoluzionario e movimentista. E, come si sa, Mussolini il consenso popolare lo ha avuto per un bel po’. Non basta dunque promettere una «opposizione senza sconti». Il confronto con il programma di Lega e M5S – se condotto con rigore – implicherà, da solo, una pesante messa in discussione della natura stessa delle sinistre e del PD in particolare. Sarà questo davvero un vero e proprio drammatico Congresso permanente, condotto tutti i giorni in pubblico, sui media, tra urla e schiamazzi, che continuerà a lacerare per un tempo indefinito le vecchie sinistre.

 

Giuseppe Rinaldi

4/06/2018

 


E le sinistre stanno a guardare

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1. L’autorevole Roberto Perotti – su La Repubblica del 29/5 – ha proposto una valutazione un po’ controcorrente dell’operato di Mattarella. Il suo veto al ministro dell’economia del governo gialloverde sarebbe stato un atto avventato, poiché non potrà che favorire enormemente le chance elettorali del populismo sovranista. Unitamente a queste considerazioni, Perotti sostiene che, notoriamente, Lega e M5S sono sempre stati per l’uscita dall’Euro – per cui Savona avrebbe dovuto essere messo in conto - ma che, una volta al governo, forse non avrebbero osato portare fino in fondo i loro propositi. E qualora lo avessero fatto sarebbero stati bloccati dalla loro stessa base elettorale, poco amante delle avventure che mettano a rischio i quattrini. Inoltre, in generale, il contrasto a una politica di uscita dall’Euro dovrebbe avvenire per via democratica e non attraverso censure istituzionali. L’intervento di Mattarella, insomma, avrebbe finito soltanto per sostituirsi,  inutilmente e dannosamente, alla totale vacuità e inadeguatezza del fronte anti populista del nostro Paese.

2. Il ragionamento in generale non fa una grinza, anche se a nostro giudizio pecca decisamente di ottimismo circa la base elettorale dei due partiti sovranisti e populisti. Le posizioni del tipo «Lasciamoli governare, saranno gli italiani a giudicare» implica comunque che i prevedibili disastri li pagherebbero tutti. Perotti pare sottovalutare il fatto che solo la diffusione della notizia del “Piano B” dell’entourage di Savona abbia contribuito a raddoppiare lo spread. Se guardiamo poi alla dinamica effettiva dei fatti va ribadito che, nonostante quel che stanno sostenendo gli arrabbiati, Mattarella non ha impedito la formazione del governo gialloverde, ha solo fatto eccezione su un nome particolarmente controverso e i motivi sono stati da lui ampiamente spiegati. Il fatto che Salvini non abbia ceduto su una motivata richiesta di mettere da parte un nominativo vuol solo dire una cosa: che ha ritenuto vantaggiosa per sé la strada delle nuove elezioni. Solo Di Maio pare non lo abbia ancora capito.

3. Tuttavia ha ragione Perotti quando sostiene che, con il Piano B e il veto di Mattarella, la questione Euro è tornata alla ribalta nella politica italiana. La controversia insoluta sul nome del ministro dell’economia ha mostrato quale fosse la vera posta in gioco dietro al governo gialloverde che stava per nascere. Il programma di governo, elaborato e sottoscritto dai due contractor, comportava un evidente sforamento di tutti i limiti di spesa, tanto che è stato accusato dai benpensanti di essere un libro dei sogni.  Fare la flat-tax, eliminare la legge Fornero, istituire il reddito di cittadinanza e quant’altro avrebbero comportato un inevitabile conflitto con l’Europa. La qual cosa, a sua volta, se non sanata, avrebbe comportato l’uscita dall’Euro, con tutte le conseguenze immaginabili. Insomma, il patto di governo tra Di Maio e Salvini portava con sé, nei fatti, la clausola nascosta del conflitto con l’Europa e dell’eventuale uscita dall’Euro. Non era, il loro, un libro dei sogni. Si poteva realizzare ma uscendo dall’Euro e, certo, pagandone poi tutte le conseguenze. Va notato che – sempre secondo il piano B prospettato dall’entourage di Savona - per uscire dall’Euro con successo bisognerebbe farlo senza dirlo prima, in un fine settimana (sic!), alla faccia della democrazia. Cercare a tutti i costi di mettere Savona al governo, in effetti, è stato proprio come se l’avessero detto prima. E le reazioni ci sono state. Con il debito pubblico che abbiamo, anche solo mettere in giro simili storie è effettivamente da irresponsabili. Questo deve aver pensato Mattarella.

4. Del problema Euro non si era tuttavia mai parlato nella recente campagna elettorale. Questo silenzio è stato dovuto non solo al fatto che del Piano B non si deve parlare perché sia efficace ma anche al fatto che l’insofferenza nei confronti dell’Euro e dell’Europa è diffusa, anche e soprattutto, presso il popolo della sinistra. Difendere l’Europa e l’Euro non è mai stato popolare a sinistra, per cui anche da quelle parti si è preferito rimuovere la questione. Oggi, tuttavia, tutti quei “keynesiani” di sinistra che hanno sempre squalificato l’Europa si sono fatalmente incontrati in modo trasversale con il populismo sovranista. L’idea comune è che – sovranamente – l’indebitamento può crescere in maniera illimitata, anche per un paese come l’Italia che ha già un debito enorme. La novità ora è che la politica del debito è proposta e perseguita fino alle logiche e inevitabili conseguenze e cioè fino alla rottura con l’Euro e l’Europa. Savona del resto non è mai stato uno di destra. Così, quasi senza accorgercene, tra una battuta e l’altra contro la Germania e contro Bruxelles, siamo stati messi di fronte all’ipotesi di una nostra Brexit, fin dentro alla bozza del programma di governo.

Accadrà così per lo meno che le prossime elezioni di settembre avranno come argomento fondamentale, sia a destra sia a sinistra, la vera questione e cioè l’entità mostruosa del nostro debito, la nostra permanenza o meno nell’Euro e i nostri rapporti con l’Europa. Avremo, insomma, il tanto sospirato e temuto referendum sulla moneta unica. Con il piccolo inconveniente che gli investitori non staranno certo ad aspettare i risultati.  In termini di livello del dibattito politico economico ci troviamo più o meno precipitati allo stadio della Grecia di qualche anno fa. Dopo tutte le psichedeliche fughe nella postpolitica, forse un drammatico bagno di realtà era proprio inevitabile. Seppure non è detto che servirà a qualcosa.

5. Se c’è una cosa che questa crisi ha mostrato con chiarezza - oltre a palesare il sovranismo anti Euro di Salvini - è l’inconsistenza ondivaga del M5S. Non avendo alcun serio retroterra di cultura politica i Cinque Stelle hanno tentato di tutto pur di andare al governo, rivolgendosi indifferentemente alla destra come alla sinistra. Il loro orgoglio supremo è di essere pratici e collocati oltre le ideologie. Messi a confronto con una forza come la Lega, che elettoralmente vale la metà di loro ma che ha una cultura politica ben caratterizzata, hanno tuttavia ceduto buona parte dei loro slogan e dei loro principi e si sono assuefatti al progetto sovranista. Sbaglia chi pensa che in tal modo il M5S abbia mostrato la propria «vera natura». La vera natura del M5S proprio non c’è perché nella loro cultura politica ci sono solo elenchi di cose disparate da fare per “cambiare” il Paese. E gli elenchi in buona misura si possono fare e disfare, come le liste della spesa, con un click, come su Facebook o sulla piattaforma Rousseau. A seconda dei compagni di strada che ci si ritrova.

6. Questa ormai accertata caratteristica del M5S rende, a posteriori, ancora più grave il rifiuto ormai consumato del PD e di LeU di aprire una trattativa con il M5S, quando era possibile. Il PD e LeU non hanno saputo fare l’unica cosa realistica che avrebbero potuto fare e cioè quello di aprire una trattativa con il M5S per costruire un programma di governo e per trovare una formula di governo adeguata. Oggi, invece del fallito governo gialloverde, avrebbe potuto esserci un governo con a capo un personaggio scelto di comune accordo tra PD, LeU e M5S, con un certo numero di ministri (con magari qualche ministero significativo) assegnati alla sinistra. E con il beneplacito di Mattarella. Il programma sarebbe stato certamente diverso da quello salviniano, anche se sarebbe stato necessario qualche compromesso. Del resto chi ha governato con Berlusconi e ha preso i voti di Verdini non può fare troppo lo schizzinoso sui compromessi. L’avere gettato Di Maio nelle braccia di Salvini («Governino loro, se ne sono capaci!») è stato un errore capitale che la sinistra italiana pagherà carissimo, proprio a partire dalle prossime elezioni. Detto per inciso: c’è ancora una finestra di pochi giorni prima dello scioglimento delle Camere. Se il PD non fosse sulla luna, correrebbe a parlare con Di Maio per tentare una formula in extremis, magari un governo M5S con appoggio esterno del PD e di LeU. Purtroppo la logica non abita più qui.

7. I prossimi passi che ci attendono sono quelli di un governo del Presidente, a nome Cottarelli, che non otterrà certamente la fiducia delle Camere (almeno a sentire le dichiarazioni odierne dei vari leader) e che, quindi, avrà il solo scopo di traghettare il Paese a nuove elezioni, presumibilmente in autunno (si vocifera addirittura a settembre o a luglio, se lo spread non ci darà tregua). Si può, in altri termini, considerare che ormai sia stata aperta la campagna elettorale (forse non s’era mai davvero conclusa).  Presumibilmente le elezioni si terranno con il rosatellum, poiché difficilmente si troverà un accordo per cambiarlo. Anche se non possiamo escludere qualche colpo di mano, da parte di qualche fatua e improvvisata maggioranza parlamentare, che riesca a ritoccare la legge elettorale a proprio uso e consumo. E qui potremmo aspettarci di tutto. Va segnalato, per i pochi che credono ancora nelle forme della democrazia, che cambiare la legge elettorale a pochi giorni dal voto sarebbe un comportamento assolutamente contrario a ogni buon senso e ai principi stessi della democrazia. È una prassi che andrebbe proibita per legge.

8. Nonostante la vicinanza delle elezioni, è presto per prevedere quali saranno gli schieramenti elettorali in campo. Quel che è accaduto in questo ultimo periodo lascerà dei segni indelebili ed è probabile che si apra un periodo di significativi rimescolamenti. Non è chiaro se la coalizione del Centro destra si ricomporrà, anche se avrebbe nuove chance di crescita, col rientro in politica di Berlusconi e con il successo personale di Salvini. Ma non è neppure esclusa la possibilità di una nuova coalizione tra M5S e Lega, che probabilmente avrebbe anch’essa grandi possibilità di successo elettorale, unendo il populismo nordista con quello sudista. In ogni caso, le cose per la sinistra si mettono piuttosto male.

Se gli schieramenti e le coalizioni rimarranno le stesse (nonostante la attuale ruggine tra Salvini e Berlusconi) le nuove elezioni saranno percepite, giustamente, dall’elettorato come un secondo turno tra i primi due vincitori delle scorse elezioni. Insomma, se la giocheranno tra Salvini e di Maio (tenendosi per buona magari la possibilità di ripetere lo scherzetto trasversale del “governo del cambiamento”). In casi come questi sarebbe assurdo votare per chi arriverà terzo o quarto (cioè la coalizione guidata dal PD) e per chi non ha alcuna disponibilità a fare un governo almeno con uno dei primi due.

Qualora invece nascesse una coalizione M5S e Lega (magari sull’onda di una mobilitazione contro il Presidente della Repubblica) si configurerebbe nel nostro Paese un rischio esattamente simile a quello corso dalla Francia più o meno un anno fa. L’Istituto Cattaneo ha calcolato che una coalizione tra Lega e M5S potrebbe vincere quasi tutti i seggi uninominali. In Francia si riuscì tuttavia a trovare un personaggio come Emmanuel Macron, abbastanza a destra (cioè capace di raccogliere un ampio consenso) ma dichiaratamente anti populista. In quel caso la sinistra ha finito per spaccarsi tra chi ha scelto di votare utilmente per Macron contro la destra lepenista e chi ha scelto invece un meno utile voto di testimonianza. Ai francesi (e all’Europa) è andata bene, anche se la sinistra è andata in pezzi. Non è detto che vada altrettanto bene da noi. Non abbiamo oggi un Macron degno di questo nome. A meno che qualcuno non pensi a Berlusconi o a Renzi.

9. Nonostante le sue dichiarazioni di appoggio al Presidente della Repubblica, il più danneggiato dalla mossa rigorosa di Mattarella (o, se si preferisce, dal gran rifiuto di Salvini) è stato e sarà senz’altro il PD.  Il PD di Martina – che era così contento di poter fare l’opposizione «senza sconti» per cinque anni – si troverà invece a dover rinviare il Congresso (così non sapremo mai «perché abbiamo perso le elezioni») e a condurre una campagna elettorale in condizioni di estrema debolezza. I dirigenti del PD credevano ormai di avere tutto il tempo per mettere a posto le loro questioncelle di potere interno e invece dovranno affrontare la più disperata campagna elettorale della loro storia.

In ogni caso il PD, per sperare di combinare qualcosa alle elezioni dovrebbe a questo punto proporre un’alternativa di governo tutta sua. E questo significa, elettoralmente, mettere in piedi una coalizione così ampia che possa avere qualche realistica speranza di governare. Con il M5S non s’è voluto e non si vorrà andare, per veto esplicito di Renzi. Con Berlusconi – se questo rompesse con Salvini – i voti presumibili non basterebbero neppure (a parte l’impresentabilità del personaggio). Anche un’assai improbabile coalizione vago - europeista, da Berlusconi fino a LeU, contro Salvini e M5S uniti, se la vedrebbe molto brutta. C’è da dire poi che non è neppure sicura un’alleanza elettorale tra il PD e LeU (dati i rancori personali e le pulsioni identitarie mai sopite che continuano a dividere le due formazioni). Del resto MDP voleva la sconfitta di Renzi e l’ha proprio avuta. Solo che ha tirato in mezzo tutta la sinistra. D’Alema sarà contento. Ma anche gli altri non sono da meno: vi ricordate gli appassionati dibattiti, che oggi paiono del tutto lunari, su Pisapia, se doveva essere lui o no federare la sinistra?

10. Al quadro politico, già di per sé disastroso, va aggiunto il fatto che la nuova campagna elettorale si farà intorno a temi che in quella precedente – come si diceva - erano stati accuratamente messi da parte un po’ da tutti. Temi che per la sinistra sono però sempre stati terribilmente divisivi. Temi come la difesa delle istituzioni (la Presidenza della Repubblica, in primis), la nostra permanenza in Europa, gli immigrati, la sovranità nazionale nei confronti di Bruxelles e la sovranità monetaria, il nostro colossale debito, lo spread e gli istituti di rating, i criteri della tassazione, i tagli della spesa e i criteri da adottare nella ridistribuzione della ricchezza (il welfare, tra cui il reddito di cittadinanza o di inclusione che sia). La sinistra sarà costretta a difendere a spada tratta un’Europa e un Euro pieni di limiti e di difetti, senza neppure avere un piano credibile per superarli. Sono questi tutti temi tremendamente importanti, sempre messi da parte e nascosti dalle pratiche spicciole. Guarda caso, però, sono tutti temi intorno ai quali la sinistra non ha mai saputo costruire – in tutti questi anni – una cultura politica comune e diffusa. Ormai è divenuto chiaro a tutti che per avere la flat – tax (tanto cara al popolo del Nord) e per avere il reddito di cittadinanza (tanto caro al popolo del Sud) bisogna per forza mandare al diavolo l’Euro e l’Europa. E non ci sono davvero tante probabilità che la massa degli elettori stia dalla parte dell’Euro e dell’Europa. Nonostante l’ottimismo di Perotti.

 

Giuseppe Rinaldi

29/05/2016