sabato 25 ottobre 2014

La discesa di Giacomo all’Inferno

vulcano
Il giovane favoloso di Mario Martone è un film destinato a ripresentare, forse per l’ennesima volta, la vexata quaestio del rapporto tra cinema e storia. Il film, in effetti, propone un’ampia biografia di Giacomo Leopardi, uno dei personaggi più rappresentativi della nostra tradizione culturale. In casi come questo, la prima domanda che viene spontanea, riguarda l’aderenza di quanto rappresentato sullo schermo alla verità storica, com’è stata accertata dagli storici e dagli storici della letteratura in particolare. Ebbene, pare che il verdetto degli storici sia abbastanza unanime: chi ben conosce la biografia e la bibliografia leopardiana tende a condannare il film di Martone,[1] additandone svariate carenze, come la trattazione superficiale di certi aspetti, dimenticanze inspiegabili, stravolgimenti, cadute verso la spettacolarizzazione e la semplificazione, il tutto fino a fare di Leopardi un personaggio pop, magari simpatico al grande pubblico ma lontano dal vero. Notiamo, en passant, che forse è proprio per alcuni di questi supposti difetti che il film sta avendo un certo successo e sta per lo meno suscitando qualche discussione, contribuendo così a riesumare un personaggio che è noto a tutti ma che quasi nessuno può asserire di conoscere davvero.
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Una volta definito che il Leopardi di Martone non è (e forse non poteva proprio essere) compiutamente il Leopardi degli storici, anziché avanzare una pregiudiziale stroncatura, si tratta di rammentare che il cinema in generale non ha e non deve avere alcuna ambizione di sostituire la storiografia. Non deve cioè porsi l’obiettivo di risparmiare, a un pubblico pigro e velleitario, l’onere di leggere direttamente le opere, di conoscere la saggistica e le principali interpretazioni avanzate dagli studiosi, compresi i punti più oscuri e controversi. Il cinema è essenzialmente fiction e in questo ambito va valutato, anche quando l’opera si ispira a fatti storici. Chi poi conosceva appena un po’ il cinema di Mario Martone non poteva certo aspettarsi un’operazione filologica, magari mossa da interessi di ricostruzione storica, una specie di mega documentario d’autore, o un film d’inchiesta che avrebbe dovuto rivelarci finalmente «tutto quello che avreste sempre voluto sapere ma non avete mai osato chiedere». Insomma, non ci si poteva attendere alcuna nuova rivelazione o restituzione intorno al «vero» Leopardi. Coloro che sono andati a vedere il film con queste intenzioni non potevano che rimanere delusi, come pure rimarranno delusi tutti quegli studenti (con professori annessi) che andranno a vedere questo film convinti che esso possa rappresentare una giocosa scorciatoia allo studio letterario.
A torto o a ragione, Martone si considera un «autore» nel senso proprio della parola e i suoi film portano continuamente le tracce di questa convinzione, per cui il minimo che si può fare, di fronte a un film come questo, è di cercare di capire quale sia stato il taglio interpretativo, quale sia, sempre che ci sia, il messaggio dell’autore. Non intendo certo che debba trattarsi di un messaggio esplicito, poiché non è necessario che i film siano dei comizi o delle opere ideologiche; si tratta di cercare tuttavia di intendere nel miglior modo quale sia il messaggio veicolato dal testo. È bene oltretutto non dimenticare che Martone viene dal teatro (si pensi all’interessantissimo Teatro di guerra), per cui il suo film andrebbe dunque considerato come una lettura teatrale della biografia leopardiana, con tutti i rischi, i pregi e i difetti che un’operazione del genere può comportare.
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All’operazione di Martone si può comunque attribuire a priori un merito. Questo consiste proprio nel fatto di avere sottratto il Leopardi all’ambito specialistico del linguaggio storico letterario (e a quella caricatura che spesso ne è fatta nei manuali scolastici) e nell’averlo proiettato in una dimensione linguistica certamente insolita come quella della scena. L’effetto è di creare una specie di corto circuito tra l’immaginazione dello spettatore e l’immagine filmica, tra il Leopardi che ciascuno di noi ha costruito in proprio, attraverso la propria personale frequentazione e l’immagine elaborata dal regista. Si tratta insomma dell’esperimento temerario dell’incarnazione di un’idea che di suo vive nel mondo delle elaborazioni intellettuali e che, nel film, è precipitata nel mondo sensibile. Si tratta di un esperimento che può avere esiti straordinari, ma certamente anche esiti discutibili e controversi. Ad esempio, per citare un risultato a nostro parere positivo, la straordinaria immagine fisica che il bravo Elio Germano ha prestato a Leopardi, non solo negli sguardi e negli atteggiamenti, ma anche nelle terribili contorsioni del fisico sempre più malato, è senz’altro qualcosa che è destinato a rimanere nel nostro immaginario collettivo e, sicuramente, a interagire con quel che sapevamo di Leopardi stesso e magari a completarlo.
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Sul piano della scansione temporale, il film ha un andamento cronologico tipicamente biografico. Martone tuttavia ha fatto la scelta di concentrarsi su tre momenti principali della vita di Leopardi, quasi come se fossero tre atti scenici: la vita a Recanati, il soggiorno a Firenze e il soggiorno napoletano, qualcosa come il mattino, il pomeriggio e la sera. I tre quadri sono, infatti, vividamente caratterizzati dal tono della luce. È calda e splendente quella di Recanati, dove il giovane di belle speranze ha modo di immergersi nella natura circostante e di produrre la sua formazione culturale nella biblioteca paterna. Assai più contrastato di luci e di ombre è il panorama fiorentino, dove i libri e il paesaggio lasciano il posto agli studi e ai salotti, alle strade e all’ambiente cittadino, i luoghi dove si intrecciano le relazioni umane, quanto mai problematiche, del giovane ormai in fuga. È invece fredda e livida la luce di Napoli, città che è dipinta come un mondo straniero, affascinante ma minaccioso, una specie di prigione del corpo e dello spirito, resa angosciante dal colera e da una tetra eruzione vesuviana. Una biografia dunque che, anche nella disposizione della materia, si prospetta come una sorta di progressiva discesa nelle tenebre, parallela al progredire dell’isolamento, della miseria materiale e del degrado fisico del poeta.
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Il quadro riguardante il soggiorno a Recanati può essere concepito come una sorta di romanzo di formazione nel quale l’eroe costruisce la propria sensibilità interiore grazie all’immersione nella natura e al suo isolamento e costruisce una sua solidissima e multiforme preparazione, grazie allo straordinario capitale culturale della casa paterna. Il giovane è rappresentato come il precipitato migliore di tutta la cultura classica e di tutta l’eredità storica della cultura italica. Memorabile l’episodio in cui il precettore gesuita legge Omero in greco e il giovane Giacomo traduce mettendo in versi all’istante. Certo, l’ambiente familiare è conservatore, ha l’aspetto scostante dell’istituto gesuitico, la libertà personale è ridotta al minimo, ma il regista, grazie anche al fascino dei luoghi perfettamente conservati, non può che indugiare sulla ricchissima offerta formativa di casa Leopardi, che ha potuto così forgiare l’intelletto del giovane favoloso. Non può che insistere sui suoi pezzi di bravura.
Giacomo si fa così ben presto conoscere nel mondo letterario e ha modo di stringere relazioni epistolari e di persona con i migliori intelletti del tempo. Nel film è dato ampio spazio alla relazione appassionata e tormentata intercorsa con Pietro Giordani. Nella luce di Recanati si costruisce il rapporto con la natura, affascinante e misteriosa ma si sviluppa anche la presa di coscienza dei limiti fisici del corpo. Giacomo è anche un attento osservatore della vita sociale intorno a lui, della vita quotidiana dei contadini, del duro destino loro imposto dalla sventura, come nel caso della morte della giovane figlia del carrettiere. Giacomo matura però progressivamente la sensazione che la sua gabbia dorata sia in realtà una prigione e così la formazione dell’eroe culmina con il progetto di fuga, con la volontà di aprirsi al resto del mondo, cioè all’Italia del suo tempo. La sua sembra, più che altro, una domanda di verifica di quel che egli stesso è intanto diventato. Come in Platone, il prigioniero si appresta a uscire dalla caverna.
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Il soggiorno a Firenze (e Pisa) e il soggiorno napoletano sono invece rappresentati come altrettanti momenti di una sorta di via crucis, in cui il giovane favoloso prende via via coscienza dei propri limiti fisici, ma anche della sua estraneità nei confronti della società del tempo, dell’ottusità dell’ambiente circostante, dell’impossibilità di intrecciare un rapporto autentico, con le donne in primo luogo, ma anche con la società letteraria del suo tempo, fatta di personalismi, rancori, pettegolezzi. Giacomo cerca di integrarsi con tutte le sue forze, ma è respinto, anche a causa dei suoi problemi fisici, delle spigolosità del suo carattere e delle sue difficoltà a intrattenere relazioni interpersonali. Il fatto di essersi formato in un luogo fuori dal mondo come la biblioteca di Recanati fa evidentemente di Giacomo un essere proveniente da un altro mondo, un disadattato, un estraneo. Il film mostra l’Accademia della Crusca che boccia le Operette Morali e mostra le vicende della passione per Fanny che si conclude con una amara frustrazione. Ciononostante Giacomo persevera nella sua scelta di restare lontano da Recanati e di condurre una sorta di vita bohémienne, circondato da un gruppo sempre più ristretto di amici, tra cui gli esponenti di una compagnia teatrale che si sposta continuamente per i suoi spettacoli, un sodalizio che alla fine si ridurrà al solo Antonio Ranieri.
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Leopardi e Ranieri si spostano infine a Napoli, con la motivazione della ricerca di un clima salubre. Nonostante in una drammatica conversazione con alcuni intellettuali napoletani Giacomo li inviti aspramente a considerare il suo lavoro per quel che è, e non in relazione ai suoi problemi fisici e psicologici, il film sembra ora avvitarsi proprio in questa dimensione. Mentre nella prima parte sono frequenti le letture poetiche e le citazioni, viene cioè mostrato l’intelletto di Giacomo all’opera, nella ultima parte tutto ciò passa in secondo piano e si mostra soprattutto il progredire del suo isolamento e della sua miseria umana. Il film si concentra progressivamente sugli aspetti esteriori del Giacomo bohémien e perde alquanto di vista la sua vita intellettuale, forse perché ora, immerso nella parte più arretrata dell’Italia, è diventata sempre più inattuale, inutile e financo impossibile. La vita napoletana di Giacomo sembra aver messo da parte i grandi progetti letterari ed è piuttosto immersa in una serie di beghe miserande, come quella relativa all’alloggio, e si svolge in mezzo al popolo o tra le osterie di Napoli, alla ricerca di qualche distrazione o di qualche consolazione, come i dolci e i gelati. È ancora circondato dall’affetto di un piccolo gruppo di persone, che tuttavia poco o nulla hanno a che fare con l’intelletto del poeta. La stessa relazione, ambigua e paradossale, con il Ranieri non è chiaro quali fondamenti avesse, e il film non fornisce alcuna ipotesi o chiarimento. I due non si vedono mai discutere di cultura, di letteratura o di alcunché.
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La discesa verso Napoli di un Giacomo sempre più indisposto e sempre meno in grado di scrivere, è rappresentata da Martone – regista napoletano per eccellenza - come un passaggio dalla luce alle tenebre, in una condizione di povertà materiale, circondato da uno stuolo di popolani e lazzaroni. La scena della discesa nel bordello, dai toni quasi felliniani, l’eruzione del Vesuvio, la minaccia dilagante del colera, l’assenza di medici dotati di qualche competenza, le processioni religiose intrise di superstizione, le ottusità amministrative borboniche non fanno altro che evidenziare la presenza di una sorta di oscura Italia, un’Italia dell’altro mondo, completamente contrapposta alla luce di Recanati, all’equilibrio del mondo classico. Gli spiriti dei Lumi, estrema difesa dell’intelletto contro una natura ostile e maligna, contro la stupidità e la volgarità, sono ormai decisamente lontani. La ginestra, travolta dalle lave del vulcano, che è evocata nella chiusura del film, non ha il senso della lucida e disincantata affermazione della ragione nei confronti della natura e della storia, ma quello della sconfitta della fuga personale di Giacomo verso il mondo.
 
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Giacomo è presentato da Martone come un rivoluzionario romantico sconfitto, che paga fino in fondo il prezzo della propria rivolta personale, né più né meno com’erano stati presentati i personaggi messi in scena in Noi credevamo, il film precedente di Martone, ambientato anch’esso nell’Italia ottocentesca. Anche in quel caso si trattava di personaggi appassionati, non di rado uomini colti, presi dall’ansia di cambiare il mondo, protesi a compiere imprese straordinarie, fino al punto da mettere in gioco sprezzantemente la propria vita. Anche in quel caso tuttavia emergevano prima o poi le debolezze, le infedeltà, i tradimenti, l’ingenuità e la stupidità, una mistura devastante che invece di permettere ai protagonisti di fare la storia produceva la loro rovina. Se Noi credevamo era, passo a passo, la storia sofferta del fallimento di una rivoluzione politica, ora Il giovane favoloso ci appare immediatamente come la storia, altrettanto sofferta e drammatica, del fallimento di una rivoluzione personale. Si tratta pur sempre in entrambi i casi di un fallimento che avviene sullo sfondo di un’Italia in subbuglio che non ha tuttavia alcun progetto, che non ha alcuna consapevolezza collettiva, che vive di sogni generosi, velleitari e illusori, spaccata tra il vecchio e il nuovo, divisa dalle vecchie e nuove barriere di classe, che non riesce a distinguere il bene dal male, che divora i suoi figli migliori.
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Avevamo bisogno di un ennesimo film sulla sconfitta di una rivoluzione? Forse sì, a patto che se ne colgano le implicazioni politiche. Ci è capitato di sostenere che questo film abbia una qualche valenza politica, non volendo con ciò ovviamente sostenere che il Leopardi s’interessasse di politica. Si tratta, in effetti, di una valenza politica alquanto affine a quella di Noi credevamo.
Si ricorderà che quel film era uscito nel contesto delle celebrazioni per il Centocinquantenario dell’Unificazione. In quell’occasione storici, politici ed opinionisti si erano domandati molto seriamente se gli innumerevoli e gravissimi problemi dell’Italia odierna non avessero qualche radice proprio nei limiti di quel processo di unificazione. Il film di Martone era stato un momento interessante di quel dibattito e aveva avuto il grande merito di produrre un’analisi disincantata e spietata dei limiti delle motivazioni personali che avevano spinto i patrioti all’azione. Veniva contrapposto lo slancio generoso, in vero più passionale che razionale, al sopravvenire delle piccinerie personali, della stupidità e degli opportunismi.
Ne Il giovane favoloso viene compiuta una analisi analoga, riguardante, questa volta, non il mondo della politica in senso stretto ma il mondo della cultura del nostro paese. Nel contrasto, assolutamente evidente nel film, tra la biblioteca di Recanati e il bordello di Napoli, si può leggere la deriva di un Paese in cui la cultura sembra non essere in grado di produrre alcun progresso, alcuna trasformazione sociale. Se nel nostro passato abbiamo avuto dei giovani favolosi sconfitti come Giacomo e se ancor oggi ci ritroviamo circondati e sommersi da gente impresentabile, vorrà ben dire qualcosa. Il giovane favoloso non è stato riconosciuto da alcuno[2] e forse è ancora in attesa di un Paese che sia degno di lui. Forse c’è qualcosa che non ha funzionato. Forse ha davvero qualche senso tornare indietro, per scavare nella nostra storia politica e culturale, per cercare di capire dove, quando e perché, a un certo punto, siamo usciti di strada.
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Il film tuttavia si limita a suscitare tutte queste domande. Le risposte restano in sospeso (ed è bene che sia così). Sta allo spettatore produrre le sue elaborazioni dopo aver visto il film. La vicenda umana di Leopardi è, in effetti, piuttosto paradossale e non è facile collocarla nella storia d’Italia di allora e di oggi. La biblioteca di Monaldo, in una provincia periferica dello Stato più reazionario dell’epoca, può essere considerata come la massima espressione dei Lumi, come la miracolosa sopravvivenza di un capitale culturale vecchio di secoli, come un patrimonio straordinario capace di essere una solida premessa per qualsiasi ulteriore sviluppo, umano, culturale o sociale.[3] Oppure, assai più probabilmente, può essere considerata come il frutto di una colossale illusione, il frutto di una velleità tutta provinciale di voler imitare a tutti i costi ciò che non si riuscirà mai a diventare. La velleità di scimmiottare le grandi metropoli. Dunque si trattava di sostanza o illusione?
Il giovane favoloso non poteva sospettare che la biblioteca paterna, in un’Italia come quella, potesse essere di fatto un’illusione colossale, un corpo estraneo. Forse è stato davvero l’unico a prenderla alla lettera e così, nella sua formazione, ha costruito se stesso a immagine e somiglianza di qualcosa che era profondamente inattuale. La biblioteca ha funzionato tuttavia effettivamente e ha dato luogo alla produzione di un magnifico intelletto. Quando però Giacomo cerca di vivere, di mettere in pratica, di esistere in conseguenza di tutto quel che aveva imparato, egli scopre il doloroso inganno, ma non può più tornare indietro. Giacomo è ormai condannato a essere Leopardi. Di qui il suo successivo girovagare per un’Italia arretrata e immatura alla ricerca di una patria che non troverà mai, che non poteva trovare, perché non c’era. Allora Giacomo diventa uno sradicato, un bohémien, prefigurazione d’innumerevoli altri intellettuali sradicati che lo seguiranno nella storia di un Paese come il nostro, alcuni dei quali distruggeranno se stessi in rivoluzioni politiche fallimentari. Non è stata soltanto la natura impersonata dallo «sterminator Vesevo» a stroncare il Leopardi, essa ha avuto senz’altro un valido aiuto da parte dell’arretratezza di un Paese intero.
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Dimenticavamo. Cinematograficamente, il film è senz’altro pregevole. Intanto per la bravura degli attori, per la cura delle immagini, per la felice sovrapposizione delle immagini e della recitazione dei versi del poeta, per la scelta della ricostruzione del linguaggio parlato all’epoca, oltre che per il rigore nella ricostruzione dei costumi. Il film segue ovviamente un filone principale di realismo narrativo, ma non troppo seriamente, poiché qua e là compaiono varie intrusioni simboliche (di tipo onirico ma non solo, si veda la statua di sabbia che compare a un certo punto) e sorprendenti effetti di straniamento, come la canzonetta moderna in inglese che, a un certo punto, fa irruzione nel contesto ottocentesco della vicenda. Più o meno come i piloni di cemento armato che, a un certo punto, comparivano in Noi credevamo. Sarebbe come dire al pubblico odierno: de te fabula narratur.
 
24/10/2014
 
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
 
NOTE
[1] Da una comunicazione di Elio Gioanola al Circolo del Cinema “Adelio Ferrero” di Alessandria, in data 16-10-2014.
[2] Non si è trattato solo di un mancato riconoscimento in senso morale. Com’è noto, dopo la morte del Leopardi a Napoli le sue spoglie hanno rischiato seriamente di finire nella fossa comune.
[3] Le storie dicono che la biblioteca fosse stata messa insieme da Monaldo senza un progetto preciso, comprando libri d’occasione presso rigattieri. Insomma, una biblioteca fatta con libri usati. Lo stesso Monaldo pare fosse un mediocre intellettuale. L’unico a prender sul serio la Biblioteca pare sia stato proprio il giovane Giacomo.
 

venerdì 3 ottobre 2014

I più furbi di tutti (1.1)

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Pur avendo grande stima di Marco Lodoli, devo dire apertamente che questa volta non sono d’accordo con quello che ha scritto. Lodoli, oltre che scrittore, è un acuto commentatore di questioni scolastiche, un conoscitore dei giovani, cui ha dedicato le sue energie d’insegnante con grande sensibilità e passione. L’articolo che ha suscitato il mio dissenso s’intitola “Addio cultura umanista”,[1] un articolo che sicuramente potrà andare ad aggiungersi alle molte inutili e fuorvianti previsioni catastrofiste che sono comparse negli ultimi decenni. La tesi sostenuta da Lodoli è che «la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti».
La descrizione nuda e cruda può anche essere condivisibile, ma il fatto grave è che da buon postmoderno Lodoli poi conclude: «Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei».
Insomma, se abbiamo capito bene, la ventilata sparizione della cultura umanistica potrebbe anche non essere un male e di questa sparizione dobbiamo prendere atto, non perché abbiamo dei buoni argomenti per ritenerla superata, errata, inutile o pericolosa, ma semplicemente perché uno stuolo di ragazzini non è più in grado di stare ad ascoltare un insegnante per un quarto d’ora di seguito: «…per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c’è poco da fare, l’oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente». La cultura umanistica per Lodoli sarebbe dunque diventata inattuale e noi ci dovremmo rassegnare a prendere atto di questa situazione e, al più, a cercare di comprendere di soppiatto in quale direzione stiano andando i tempi, direzione dei tempi che i ragazzini sarebbero in grado di cogliere assai meglio di noi. Non ci resta insomma che fare l’inchino al post umanesimo e al post - pensiero.
Forse le cose non stanno proprio così. Vorrei prenderla un po’ alla larga. Un paio d’anni fa, un’autorevole ricerca internazionale di Evans, Kelley e Sikora,[2] che ha ottenuto anche da noi qualche fuggevole richiamo sulla stampa, si è posta il problema di identificare gli strumenti più idonei ad assicurare il superamento delle influenze negative dello svantaggio culturale famigliare sul destino dei figli. Ebbene, secondo questo studio, lo strumento più efficace in assoluto sarebbe quello di dotare le famiglie svantaggiate di una risorsa davvero sorprendente e innovativa: i libri. I ricercatori intendono proprio i libri intesi come oggetti fisici. Non è necessario che i genitori sappiano effettivamente usare i libri che posseggono: basta averli in casa. Se essi hanno in casa molti libri, questi costituiranno un ambiente abituale per i figli, rappresenteranno una continua fonte di stimolo, permetteranno all’insegnamento scolastico di trovare una solida sponda in famiglia. È la massa dei libri che fa la differenza. I libri costituiscono dunque, per una qualsiasi famiglia, una delle più importanti forme di capitale culturale.
I ricercatori non si sono tuttavia accontentati di questa conclusione e hanno provato a quantificare la massa, si sono cioè domandati se ci sia una soglia, in termini di numero di libri, oltre cui l’effetto benefico del libro diventi sicuramente efficace, oltre cui si possa cioè riuscire seriamente a compensare lo svantaggio culturale. Ebbene, la soglia identificata è di circa 500 libri (libri non scolastici, s’intende!). Questo significa che, con una cospicua dotazione di almeno 500 libri, una famiglia svantaggiata sul piano culturale può riuscire a cancellare la sua situazione di svantaggio e mettere i propri figli sul piede di parità con le altre famiglie. Cinquecento libri non sono neanche tanti, per ospitarli è mediamente sufficiente uno scaffale largo due metri e mezzo, con cinque ripiani.[3] Aggiungo che la ricerca di Evans e soci è transnazionale, per cui i risultati sono di validità abbastanza generale.
A questo punto noi possiamo domandarci: «Quante sono le famiglie del nostro Paese che hanno in casa almeno 500 libri?». Per avere una risposta possiamo brevemente ricorrere a un indicatore che ho raccolto personalmente in una delle mie indagini sui giovani. Alla domanda “Approssimativamente, quanti libri ci sono in casa tua?”, la media delle risposte delle famiglie alessandrine (quelle che avevano un giovane alla soglia dell’Esame di Stato nel 2009) si attestava sui 200 libri. Solo una fascia minima del 15% ha dichiarato di avere in casa più di 500 volumi.[4] Marco Lodoli insegna nelle borgate romane e ha soprattutto presenti i giovani degli ambienti sociali più deprivati, ma evidentemente anche al Nord, al centro del triangolo industriale, abbiamo una diffusa situazione di degrado culturale, magari meno evidente e piuttosto ben mascherata. Molte delle nostre famiglie non hanno in casa neanche quella quota di libri che servirebbe a una famiglia deprivata a compensare la sua situazione di svantaggio culturale! Anche le famiglie del nostro territorio, nonostante la ricchezza esteriore, gli abiti griffati, il grande consumo di gadget elettronici, nascondono dunque una povertà culturale insospettata, di cui probabilmente hanno anche scarsa consapevolezza. A livello nazionale, poi, sono note le stime di De Mauro e dei suoi collaboratori intorno alla diffusione dell’analfabetismo di ritorno. Solo un terzo della popolazione del nostro paese è in grado di leggere e comprendere il senso di un articolo di giornale di media difficoltà.[5]
Quando mi capita di fornire questi dati ottengo sempre reazioni di fastidio, mi accorgo di essere subito percepito come un presuntuoso che si permette di giudicare dall’alto la cultura degli altri. Certe cose tra persone per bene non si fanno! Ma allora, perché siamo tutto sommato disposti ad ammettere un livello di miseria materiale in aumento (le “famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese” sono un ritornello costante in cui c’è quasi compiacimento) e siamo invece così riluttanti ad ammettere la presenza diffusa della miseria culturale? Per avere una spiegazione di questa rimozione collettiva dobbiamo andare un po’ indietro. Nel Sessantotto, sull’onda di Don Milani e della contestazione, c’era stata una rivendicazione di diritto allo studio che aveva ottenuto importanti successi: l’apertura a tutti dell’Università, l’innalzamento della scolarità, la scuola per gli adulti. Contemporaneamente c’era stata l’esplosione del mercato della cultura di massa (libri tascabili, riviste, musica, cinema, media). Insomma, sembrava che gli italiani fossero tutti destinati a diventare degli intellettuali, dei raffinati consumatori di cultura. Invece ci possiamo accorgere solo oggi che quella generazione (i padri/ le madri dei giovani di oggi), se ha innalzato mediamente il livello dei propri titoli di studio, a causa forse di una trasmissione culturale troppo affrettata non ha saputo acquisire un’autentica dimensione culturale, si è accontentata di un’infarinatura superficiale che è ben presto svanita, di fronte al degrado delle relazioni e delle conversazioni, di fronte alle TV, di fronte agli insuccessi e alle delusioni della vita quotidiana. Non basta il diploma o la laurea per cambiare abitudini culturali radicate da generazioni. Nonostante gli sforzi di cambiamento, ciascuno è stato risucchiato verso i tratti culturali tipici del proprio milieu sociale.[6] Il degrado culturale, come una specie di forza di gravità o come una sorta di entropia ha così fatto sentire alla lunga i suoi effetti. La maggior parte dei padri non aveva 500 libri in casa e non ha fatto granché per procurarseli. E i figli di oggi non sono da meno.
L’unica differenza è che i ragazzi del Sessantotto avevano la percezione netta della loro condizione sociale deprivata e avevano cercato di acquisire almeno la parvenza di una cultura legittima, e la relativa certificazione. I giovani di oggi invece sembrano e si sentono tutti uguali, non si sentono esclusi da una qualche cultura legittima, non credono di avere nulla da conquistare e così a scuola reagiscono (non proprio tutti, per fortuna) con un senso di estraneità, come racconta con efficacia Lodoli nel suo articolo descrivendo una collega: «“Io non esisto più, sono diventata invisibile”, mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria, e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento”». Dietro di ciascuno di questi giovani che non sanno più afferrare le parole ci sono i 500 libri che mancano. Ci sono genitori che hanno visto ben presto il degradarsi di una superficiale formazione scolastica ricevuta con troppa fretta. Genitori che non hanno proceduto ad alcun aggiornamento delle loro conoscenze e così oggi si trovano a essere in sintonia al più con la cultura di qualche decennio fa; ma anche genitori che hanno messo da parte i consumi culturali impegnati perché li avevano adottati solo per moda, che hanno smesso di andare al cinema di qualità, di andare a teatro, di frequentare i dibattiti e le conferenze. O, ancora, genitori che hanno smesso di discutere e di partecipare, che hanno rinunciato alla politica (il ceto politico odierno è l’esatto specchio di questa situazione). Per la maggior parte dei beni vale la regola che “meno se ne ha, più se ne sente il bisogno”. La cultura è invece un bene alquanto differente per il quale vale la regola “meno se ne ha, meno se ne sente il bisogno”.
Da tutto ciò deriva che, quando parliamo della diffusione della cultura nel nostro Paese, siamo vittime, come Lodoli, d’un’illusione ottica sistematica che ci fa costantemente sovrastimare le capacità culturali medie della popolazione. Se la cultura umanistica non si diffonde presso la popolazione, allora siamo spinti a concludere che ci deve essere qualcosa che non va nella cultura umanistica; che sia invece la popolazione ad avere qualche problema non ci passa neppure per l’anticamera del cervello. In campo culturale è profondamente sbagliato adottare la logica della maggioranza. Ammesso poi che ci sia davvero una “fine della cultura umanistica”, questa riguarda, come abbiamo visto, più la generazione dei padri che non quella dei figli: non si può trasmettere quello che non si ha o quello che si possiede solo in forma superficiale.
Lodoli si lamenta della sparizione della cultura umanistica, ma anche la cultura scientifica non si sente tanto bene. Se i giovani annoiati da Leopardi o da Debussy si dedicassero al calcolo algebrico, alla meccanica quantistica o alla genetica, potremmo anche considerarla una svolta culturale di un certo rilievo. Ma non sembra sia proprio così. Caro Lodoli, non è che la cultura umanistica e la cultura scientifica abbiano fatto il loro tempo. Sono le sole forme di cultura che conosciamo e se fossimo saggi faremmo bene a tenercele strette. La crisi che sta attraversando il nostro Paese è anche e soprattutto una crisi che deriva dai nostri enormi deficit culturali. Non è che i giovani del venturo post – umanesimo, che Lodoli descrive con un po’ d’invidia e d’ammirazione, abbiano accesso a qualche inusitata forma di conoscenza, a dimensioni della logica o dell’espressione proibite a noi grevi gutemberghiani, a nuove manifestazioni culturali di cervelli mutanti che si stanno evolvendo tra gli ipertesti o nei social network. No, non sono mirabolanti creature del futuro, sono solo il frutto della nostra collettiva arretratezza, della nostra miseria culturale, di quella nostra beata presunzione per cui possiamo anche sentirci poveri, ma non riusciamo proprio a sentirci ignoranti. Anzi, non solo non siamo ignoranti, siamo i più furbi di tutti.
 
01/11/2012
03/10/2014 (rev.)
                                                                             Giuseppe Rinaldi
 
 
NOTE
[1] Cfr. Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso, su La Repubblica del 31/10/2012.
[2] Evans, Mariah D. R. & Kelley, Jonathan & Sikora, Joanna & Al., Family scholarly culture and educational success. Books and schooling in 27 nations, in Research in Social Stratification and Mobility, 28 (2), 2010. Pp. 171-197.
[3] Sarebbe affascinante cimentarsi nell’ideare una biblioteca minima di 500 titoli essenziali della nostra cultura da salvare e da trasmettere alle future generazioni.
[4] Cfr. Rinaldi, Giuseppe (a cura di), Giovani e cultura civica. Indagine con gli studenti diplomandi di Alessandria, Guerini e Associati, Milano, 2012.
[5] Cfr. De Mauro, Tullio, La cultura degli Italiani (a cura di Francesco Erbani), Laterza, Bari, 2010.
[6] Su questo tema si veda il sempre attuale Bourdieu, Pierre, La distinction, Les Éditions de Minuit, Paris, 1979. Tr. it.: La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983.