martedì 2 settembre 2014

Quel nazista che « è » in te (1.0) - Seconda parte

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 Pensare per valori [...] è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l'essere. 
                                                                                                                         M. Heidegger, 1976: 301
 
Dopo le poche e densissime pagine introduttive in cui Heidegger ha cercato di sintetizzare i punti fondamentali della sua prospettiva, facendo finalmente riferimento alla domanda del suo interlocutore (Comment redonner un sens au mot «Humanisme»?), egli passa a chiedersi se sia proprio necessario mantenere un «ismo» come umanismo. Si chiede anche che senso abbiano i nomi di specializzazioni della cultura, come «logica», «etica» o «fisica». Avendo stabilito che il pensiero che lascia dimorare l’essere è quello arcaico e originario, ne consegue che tutte le specializzazioni filosofiche e scientifiche sono soltanto un effetto dello stato di decadenza in cui si trova l’Occidente, proprio a causa della perdita del rapporto con l’essere. Le specializzazioni con i relativi «ismi» infatti: «…compaiono non appena il pensiero originario volge alla fine. Nella loro grande epoca i Greci hanno pensato senza simili denominazioni».[1] Sappiamo che, nella seconda fase del suo pensiero, Heidegger considerava degni d’interesse soltanto Anassimandro, Eraclito e Parmenide. Platone e Aristotele si collocavano già sulla strada dell’allontanamento dall’essere. In ciò le sue posizioni presentano molte analogie con quelle di Nietzsche, filosofo che egli aveva studiato intensamente negli anni Trenta.
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Heidegger sente il bisogno di elaborare un articolato resoconto proprio circa le cause della fine del pensiero originario. La narrazione è condotta sempre su un piano metaforico, per lo più usando disinvoltamente, o ignorando del tutto, i dati della storia della filosofia. Secondo la sua visione, il pensiero originario, il quale «detto semplicemente, è il pensiero dell’essere», volge alla fine quando si ritira dal suo elemento, che è definito come ciò in base a cui il pensiero può essere un pensiero autentico. Spiega infatti: «L’elemento è ciò che propriamente può: il potere (das Vérmögen). Esso si prende a cuore il pensiero e lo porta alla sua essenza».[2] Successivamente spiega che il pensiero è «fatto avvenire dall’essere» e che «all’essere appartiene». Da ciò si può come minimo ricavare che il pensiero non è mai di un soggetto individuale e che l’essere è la condizione affinché il pensiero abbia la sua essenza, sia cioè un pensiero autentico. Riassumendo, il pensiero (che quindi è sempre di un popolo o di una civiltà) volge alla fine quando perde il suo potere o la sua capacità, il quale potere è sempre tuttavia espressione dell’essere. Il pensiero «può» solo come riflesso dell’essere.[3]
Il rapporto tra l’essere e il pensiero sembra dunque veramente centrale. Il problema è che Heidegger si sforza di chiarire questo rapporto senza usare le nozioni tipiche della metafisica occidentale, come quella di causa ed effetto, senza le quali è però è difficile definire un qualsiasi tipo di rapporto tra qualsiasi cosa. La spiegazione che egli fornisce complica le cose più che chiarirle: «Il pensiero è dell’essere in quanto, fatto avvenire dall’essere, all’essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell’essere in quanto, appartenendo all’essere, è all’ascolto dell’essere. […] Dire che il pensiero è, significa dire che l’essere si è ognora preso a cuore destinalmente la sua essenza. Prendersi a cuore una «cosa» o una «persona» nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene. Pensato in modo più originario, questo volere bene significa donare l’essenza. Questo volere bene (Mögen) è l’essenza autentica del potere (Vermögen), che può non solo fare questa o quella cosa, ma anche «dispiegare l’essenza» di qualcosa nella sua provenienza, cioè far essere. […] A partire da questo voler bene l’essere può il pensiero. Quello rende possibile questo. L’essere, come ciò che vuole bene e che può, è il «possibile». L’essere in quanto elemento è la «tacita forza» del potere che vuole bene, cioè del possibile».[4]
Sono qui presenti molti motivi tipici del secondo Heidegger. Occorre intanto ricordare che, per Heidegger, dopo la distruzione fenomenologica del soggetto e dell’oggetto, esiste soltanto ciò che è significativo e tutto ciò che è significativo è entificato. Poiché gli enti sono, essi sono «vicini» all’essere. Il pensiero stesso, in quanto ente significativo, può essere dunque considerato allusivamente come fatto avvenire dall’essere, proprietà dell’essere, ecc… A sua volta il pensiero (a prescindere dai suoi contenuti) in quanto ente significativo è a sua volta all’ascolto (hören) dell’essere, cioè disponibile a stare in vicinanza dell’essere. L’uso di tutte queste circonlocuzioni metaforiche (proprietà, voler bene, donare, forza del possibile, far essere, stare in ascolto) serve principalmente a evitare di usare la nozione tradizionale della causazione, che reintrodurrebbe una differenza tra soggetto e oggetto ed esporrebbe Heidegger a una serie di richieste di chiarificazione del tutto imbarazzanti. Insomma, l’essere è considerato da Heidegger come una specie di noumeno ante significativo, sul terreno del quale avviene come una sua manifestazione la genesi del significato. La genesi del significato equivale tuttavia alla genesi dell’ente, evento che è considerato come una cosa misteriosa al di là dell’umano stesso, da cui l’umano stesso dipende. La genesi del significato diventa così il «dono dell’essere», un’irruzione dell’essere nella temporalità.
Nonostante Heidegger rifiuti i concetti della metafisica tradizionale, egli usa tuttavia spesso il termine essenza, che però assume, di volta in volta, i significati più diversi, comunque sempre di carattere vago, allusivo e metaforico. Questa perdita di precisione del linguaggio che, per chi è dotato di cultura filosofica, può essere considerato come elemento di degrado è invece considerata da Heidegger come la via maestra per cogliere «la cosa stessa». Siccome il pensiero originario era semplice, allora per cogliere l’originario occorre semplificare. Heidegger, dopo questa prolusione, sembra tuttavia consapevole della propria vaghezza concettuale (o dello sconcerto del lettore) e cerca di precisare e di prendere le distanze dalla scolastica: «Quando parlo di «tacita forza del possibile» non intendo il possibile di una possibilitas solo rappresentata, né la potentia quale essentia di un actus dell’existentia, ma l’essere stesso che, volendo bene, può sul pensiero, e quindi sull’essenza dell’uomo, cioè sul suo riferimento all’essere. Potere qualcosa qui significa conservarlo nella sua essenza, mantenerlo nel suo elemento».[5] La precisazione mira anzitutto a prendere le distanze da una concezione meramente scolastica dell’essere. Viene ribadita la metafora del «voler bene», ma soprattutto viene indirettamente chiarito che l’essenza (in questo caso dell’uomo) altro non è che il riferimento stesso all’essere di ogni ente significativo. L’essere dunque è la condizione affinché l’ente significativo sia, venga conservato nella sua essenza. Dunque, in teoria, non c’è l’essenza dell’uomo, oppure del cane o del cavallo, come forma scolastica, ma c’è un’unica essenza, intesa come rapporto con l’essere, condivisa da tutti gli enti significativi.[6] L’essere conferisce l’essenza e gli enti significativi la ricevono. Lo scandalo è costituito dal fatto che gli enti significativi dimentichino questo loro rapporto con l’essere. Qualora perdano il rapporto con l’essere, essi perdono anche la loro essenza autentica. Nella metafisica tradizionale, conoscere l’essenza significa conoscere la quidditas della cosa; in Heidegger conoscere l’essenza significa ri-conoscere che l’ente dipende dall’essere. Quanto alla conoscenza del singolo ente, il tutto avviene nell’auto disvelamento dell’ente che è immediatamente intuito, sullo sfondo degli altri enti. La conoscenza intuitiva della manifestazione dell’ente sostituisce la conoscenza razionale.
Per il lettore può risultare curioso e sconcertante il fatto che l’essere, che vuol bene e che è potente, a un certo punto, non ce la faccia più a conservare il pensiero e anzi permetta al pensiero di ritirarsi dal suo elemento, determinando così la fine del pensiero originario. Insomma, l’essere sarebbe una potenza che però non ce la fa. Heidegger risponderebbe probabilmente che il rapporto tra Essere e ente non è quello della forza fisica (nel senso della causa e dell’effetto) ma quello che consiste nel rendere possibile la significazione e quindi rendere possibile l’ente stesso.
Siamo qui alla presenza dei due fondamentali motivi del secondo Heidegger, individuati da Philipse, quello del post-monoteismo (la religione anticristiana dell’essere) e quello neo hegeliano.[7] Il tutto forse mescolato con qualche sostanzioso residuo aristotelico. Secondo lo studioso belga, cui dobbiamo la miglior analisi critica del pensiero heideggeriano, questo tipo di linguaggio sarebbe maturato nel periodo della stesura dei Contributi alla filosofia, in cui Heidegger, resosi conto della mancanza di spiritualità dell’impresa nazista, cercava di porre le fondamenta di una nuova religione völkisch, incentrata sull’Essere, che avrebbe dovuto essere antiplatonica, antiaristotelica e anticristiana.
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Dopo l’esame delle cause della fine del pensiero originario, finalmente Heidegger riprende il filo del discorso intorno alla domanda del suo interlocutore circa il senso dell’umanismo. Il fatto che oggi – Heidegger a questo punto lo dà per dimostrato - viviamo nell’epoca della fine del pensiero originario fa sì che prevalga il pensiero discorsivo, la logica argomentativa. Tutto ciò ha assimilato la filosofia alla tecnica e ciò ha alimentato le compartimentazioni specialistiche come quelle tra «etica», «logica» e «fisica» e il proliferare degli «ismi», uno dei quali è proprio l’umanismo. L’umanismo, cioè l’oggetto di riflessione della Lettera, è così subito inquadrato e diminuito, ridotto al rango di una delle molteplici conseguenze della fine del pensiero originario.
Dice Heidegger rivolgendosi al suo interlocutore: «La [sua] domanda nasce dall’intenzione di mantenere la parola «umanismo». Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è ancora abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere?».[8] Ricordando che Heidegger scrive nel 1946, è evidente che per lui la causa del male recente è costituita dal pensiero discorsivo, dalla specializzazione, dalla proliferazione degli «ismi» e non dalla scelta dell’«ismo» sbagliato. L’unico modo per combattere il male starebbe dunque in un ritorno alla situazione precedente la formazione degli «ismi», cioè un ritorno al pensiero originario. La condanna del degrado del presente, la critica nei confronti del progresso e della tecnica, il ritorno all’origine sotto la forma del nuovo inizio sono motivi tipici dell’ideologia völkisch. Sappiamo ormai con una certa precisione dalla sua biografia che per una decina di anni Heidegger ha creduto che proprio il nazismo fosse il nuovo inizio, ma su questo egli ora tace.
Così viene descritta più in dettaglio da Heidegger la sostituzione del pensiero originario con la tecnica: «Quando il pensiero, ritirandosi dal suo elemento, volge alla propria fine, sostituisce questa perdita procurandosi un valore come téchne, come strumento di formazione, quindi come esercizio scolastico, e poi come attività culturale. A poco a poco la filosofia diventa una tecnica della spiegazione a partire dalle cause supreme. Non si pensa più, ma ci si occupa di «filosofia». Tali occupazioni, in concorrenza fra loro, si offrono poi pubblicamente come «ismi» e tentano di superarsi. Il dominio di tali etichette non è casuale. Soprattutto nell’epoca moderna, esso riposa sulla dittatura peculiare della dimensione pubblica».[9]
Il ritiro dal suo elemento del pensiero originario è evidentemente l’allontanamento dall’essere. Cioè il fatto che il pensiero non riconosce più la fonte della propria «possibilità» (se vogliamo essere generosi, la fonte della propria capacità creativa[10]). Evidentemente, per Heidegger, è sufficiente mantenere il rapporto con l’essere per poter pensare adeguatamente. Le divisioni, i disaccordi subentrati nel campo della filosofia tra i vari «ismi» evidentemente, secondo l’Autore, non sussistevano nell’ambito del cosiddetto pensiero originario. Heidegger, in effetti, ritiene – lo dirà più avanti – che i veri pensatori pensano sempre la stessa cosa. La forma di vita elementare organizzata sul terreno zampillante del pensiero originario doveva essere evidentemente armonica e priva di lacerazioni interne (in effetti così i tedeschi dell’Ottocento si erano immaginati il mondo greco). Si tratta di una visione del tutto fantastica, poiché sappiamo benissimo che anche nell’ambito del pensiero «vicino all’essere» dei primissimi filosofi le contrapposizioni erano piuttosto marcate e feroci. Basti pensare a quel che dice Eraclito del suo collega Pitagora.
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L’accenno alla «dittatura della dimensione pubblica» è davvero interessante. Nei confronti dell’opinione pubblica massificata Heidegger non critica certo l’uniformità del pensiero (poiché i pensatori veri pensano tutti la stessa cosa) ma il fatto, per lui scandaloso, che la dimensione pubblica possa essere il campo di tutti i soggettivismi individuali. Egli critica dunque proprio il pluralismo: «… Il linguaggio cade al servizio della funzione mediatrice delle vie di comunicazione per le quali l’oggettivazione, come uniforme accessibilità di tutto a tutti, si estende in spregio a ogni limite. Così il linguaggio cade sotto la dittatura della dimensione pubblica. Questa decide preventivamente ciò che è comprensibile e ciò che deve essere rifiutato come incomprensibile. […] La devastazione del linguaggio, che rapidamente si estende ovunque, non consuma solo la responsabilità estetica e morale che si ha in ogni uso del linguaggio. Essa proviene da una minaccia dell’essenza dell’uomo. […] La decadenza del linguaggio […] non è però il fondamento, ma già una conseguenza di quel processo per cui il linguaggio, sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività, cade in modo quasi inarrestabile fuori dal suo elemento. Il linguaggio ci rifiuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità dell’essere. […] Ma se l’uomo deve ancora una volta ritrovare la vicinanza dell’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi. […] Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere […]. Solo così viene ritornata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella verità dell’essere».[11]
Questo linguaggio della decadenza, per Heidegger scandaloso, che assicura l’uniforme accessibilità di tutto a tutti e che decide preventivamente ciò che è comprensibile e ciò che deve essere rifiutato come incomprensibile, nella storia della filosofia si chiama «ragione discorsiva» ed è proprio quella che rende possibile – si veda Habermas – il pluralismo e la democrazia. In una simile situazione, sotto la dittatura dell’opinione pubblica (cioè la dittatura del pluralismo e della democrazia), gli uomini rischiano seriamente di perdere la propria essenza a causa della corruzione del linguaggio. Devono pertanto lasciarsi chiamare dall’essere attraverso il pensiero e la poesia dei funzionari del linguaggio, i quali sono così confermati nella loro posizione aristocratica di stare dalla parte dell’essere. I due nemici sono così chiaramente individuati: la soggettività dei molti punti di vista e l’oggettività del discorso intersoggettivo. Il pensiero di Heidegger non sopporta il pluralismo dei punti di vista e non sopporta una nozione di verità esterna con cui si debba fare i conti. Anche qui è sempre in funzione la distruzione fenomenologica che per Heidegger è la via maestra per accedere al fondamento del pensiero originario.
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Usando il termine essenza in forma davvero elastica, per non dire di peggio, Heidegger produce una cortina fumogena che stravolge continuamente il significato del discorso. In un brano davvero acrobatico Heidegger rivela la sua malafede: presenta come umanistico quanto egli stesso indirettamente dichiara come antiumanistico: «Ma in questo richiamo all’uomo, nel tentativo di preparare l’uomo a questo richiamo, non c’è dunque una preoccupazione per l’uomo? Dove altro si dirige «la cura» se non nella direzione volta a ricondurre di nuovo l’uomo nella sua essenza? Ma che altro significa questo, se non che l’uomo (homo) diventa umano (humanus)? In questo modo l’humanitas rimane l’esigenza di un simile pensiero, perché humanismus è questo: è meditare e curarsi che l’uomo sia umano e non non-umano, «inumano», cioè al di fuori della sua essenza. Ma in che cosa consiste l’umanità dell’uomo? Essa riposa nella sua essenza».[12]
Tradotto in lingua corrente lo sproloquio citato significa più o meno questo: la posizione espressa da Heidegger sarebbe umanistica perché vuole ricondurre l’uomo alla sua essenza. Ma l’essenza dell’uomo è l’essere (cioè non è l’uomo), dunque vuol ricondurre l’uomo a qualcosa di diverso dall’uomo, dunque all’inumano (secondo la sua stessa definizione di inumano). Heidegger può permettersi queste acrobazie proprio perché rifiuta ogni precisione e ogni definizione dei termini. Poiché l’essenza è un dono dell’essere, ricondurre l’uomo alla propria essenza non significa in alcun modo un progetto di umanizzazione, bensì significa ricondurre l’uomo a rammemorare l’essere, la fonte primaria della sua essenza.[13] Poiché l’uomo attuale ha perso la propria essenza (per colpa della specializzazione tecnica) allora l’unico vero umanismo sarebbe quello esercitato dall’essere, nella sua chiamata amorevole all’uomo, nel pensiero e nel linguaggio, affinché esso ritrovi la propria essenza, che poi non è l’uomo ma è l’essere stesso. In altre parole, solo accettando di dipendere dall’essere l’uomo può ritrovare la propria essenza di dipendente dall’essere.
Insomma, in contrapposizione a un umanismo costruttivistico, come quello di Sartre, Heidegger propone una specie di umanismo (anche se non lo chiama così), incentrato sulla dipendenza da parte dell’essenza umana storica nei confronti dell’essere. È chiaro che egli pensa che il suo essenzialismo ermeneutico, facendo riferimento a un che di fondamentalmente originario, sia migliore rispetto a tutti gli altri essenzialismi. Tutti gli essenzialismi convenzionali comunque, seppur dogmaticamente, hanno alla fine cercato di descrivere l’umano, di descrivere una qualche forma umana universale. Heidegger si guarda bene dal fare ciò, perché il suo essenzialismo fondato sull’essere si colloca al di là (o al di qua) di qualsiasi definizione concettuale dell’umano. Occorre sempre ricordare che, per Heidegger, il rapporto tra l’essere e l’essenza dell’uomo avviene a livello precategoriale. Appena l’essenza dell’uomo è stata categorizzata in qualche modo, ahimè, è già iniziata la fine del pensiero e la fine del rapporto con l’essere. L’unico carattere veramente distintivo dell’essenza umana, alla fine, si colloca proprio fuori dell’uomo e sarà identificato proprio nel rapporto precategoriale con l’essere.
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A questo punto può partire l’attacco esplicito contro l’umanismo. Dopo avere sviluppato una breve storia della nozione di umanismo, a partire fin dai romani, Heidegger elenca una serie di esempi storici di umanismo e sviluppa poi una conclusione di tipo relativistico. «Per quanto queste forme di umanismo possano essere differenti nel fine e nel fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva realizzazione, nella forma della dottrina, esse, tuttavia, concordano tutte nel fatto che l’humanitas dell’homo humanus è determinata in riferimento a un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nella sua totalità. Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere. […] Pertanto ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende».[14]
Insomma, tutti gli umanismi sono dei relativismi metafisici. Gli umanismi non comprendono il fatto che ciò che conta davvero è il rapporto con l’essere. Si ottiene dunque una strana conseguenza per cui, di fronte al pensiero originario, tutto diventa relativo, tutto diventa uguale e interscambiabile poiché assimilabile a metafisica, sospetto di metafisica. Come quel personaggio che parlava in prosa senza saperlo, siamo totalmente immersi nella metafisica senza rendercene conto. Così l’umanismo e l’anti umanismo si equivalgono. Le metafisiche sono tutte uguali, con i loro limiti una vale l’altra. «È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente […]. La metafisica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede neppure mai in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha ancora posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto metafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato».[15] Quindi, finché ci attarderemo con l’umanesimo otterremo soltanto di rinviare l’appuntamento con l’essere.
È ovviamente facile per Heidegger, dopo avere postulato la differenza tra l’essere e l’ente, accusare tutte le filosofie di non tenere in alcun conto questa differenza. Le battaglie tra i metafisici, come i dibattiti tra umanesimo e anti umanesimo sono dunque fuor di luogo. La metafisica dovrebbe sospendere le sue contese, annullarsi in quanto metafisica, e mettersi a pensare la differenza e tornare al pensiero originario. Il ché, come abbiamo visto, nella prospettiva neo hegeliana, significa soltanto fare un passo indietro verso l’originario per permettere una nuova parusia dell’essere nella storia e determinare così l’avvento di una nuova epoca. Siamo sempre nel campo della nuova religione dell’essere.
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Il fatto che l’uomo sia considerato un animal rationale - qui la polemica è rivolta contro la tradizione platonica aristotelica e scolastica - è già, secondo Heidegger, un’interpretazione metafisica: «…prima di ogni altra cosa, rimane finalmente da chiedersi se in generale l’essenza dell’uomo, in un senso iniziale e che decide anticipatamente di tutto, dimori nella dimensione dell’animalitas. […] Si può procedere così, si può cioè in tal modo situare l’uomo all’interno dell’ente e considerarlo come un ente tra gli altri. […] Ma così l’essenza dell’uomo è stimata troppo poveramente, e non è pensata nella sua provenienza, una provenienza essenziale che per l’umanità storica resta sempre il futuro essenziale».[16] Non si prende neppure in considerazione l’ipotesi scolastica aristotelica per cui l’essenza dell’uomo potrebbe stare nell’uomo stesso.[17] Qui si sottolinea, pur con le solite contorsioni, che, al di là della animalità, l’uomo ha una provenienza essenziale diversa, la quale è connessa con il suo stesso futuro essenziale. L’uomo abita dentro un’essenza che proviene da altrove. L’essere, che opera nel pensiero e nel linguaggio, è dunque la fonte che dona all’uomo la sua essenza che – come si è visto – è storica e collettiva. È questa la caratteristica distintiva che si deve ammettere allo scopo di non stimare troppo poveramente l’essenza dell’uomo. Il mancato ascolto dell’essere significa la riduzione effettiva dell’uomo all’animalità: tutte le metafisiche, umanesimo compreso, lasciano l’uomo nella sua animalità. L’umanesimo tratta l’uomo come un animale. Può essere sconcertante, ma il testo dice proprio così.
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A questo punto, nella polemica anti metafisica, viene introdotto un concetto che è del tutto chiarificatore rispetto al complesso dell’argomentazione heideggeriana: si tratta della distinzione tra l’esistenza e l’e-sistenza. «La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega solo nella sua essenza (west) in quanto è chiamato dall’essere. Solo a partire da questo reclamo, l’uomo «ha» trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare e gli «ha» il «linguaggio» come dimora che conserva alla sua essenza e il carattere estatico. Lo stare nella radura (Lichtung) dell’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene un tal modo di essere. L’e-sistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ratio, ma è ciò in cui l’essenza dell’uomo conserva la provenienza della sua determinazione».[18]
 Dunque, all’esistenza povera degli esistenzialisti Heidegger contrappone la sua e-sistenza ricca nei termini del rapporto specifico e caratteristico che l’uomo avrebbe con l’essere. Questo rapporto sarebbe di tipo estatico (nel senso dell’estasi, ovvero dello «star fuori di sé»). Qui Heidegger finalmente ammette con chiarezza che l’essenza dell’uomo (che è dono del voler bene dell’essere) non sta nell’uomo (negli uomini singoli), ma fuori dell’uomo, anzitutto nella forma di vita di un popolo o di una civiltà e poi, in ultima analisi, nell’essere.
L’unico modo autentico di esistere è quello di esistere nell’essere, cioè esistere fuori di sé. Quello che presso altri pensatori era l’alienazione (il darsi ad altri) in Heidegger diventa la massima realizzazione dell’essenza umana. Se l’essere si relaziona con l’uomo attraverso il pensiero e il linguaggio, allora la vita estatica non è altro che la vita collettiva condotta nel pensiero e nel linguaggio di un popolo o di una civiltà. L’alienazione vera secondo Heidegger sarebbe invece costituita dal soggettivismo e dall’oggettivismo che derivano dalla metafisica e dalla ragione tecnica. Insomma, Heidegger condanna l’individualismo soggettivistico (e il liberalismo e la democrazia che ne conseguono[19]), condanna le oggettivazioni della ragione tecnica per glorificare l’immedesimazione con ciò che sta fuori di sé, con ciò che Hegel avrebbe chiamato Spirito oggettivo.
Qui si coglie in pieno il progetto di distruzione totale dei valori dell’Occidente che aveva preso forma definitiva nell’ambito della cultura völkisch di stampo nazista. Com’è stato ormai ampiamente chiarito, si trattava di una crociata antiborghese che, sotto la retorica del filo ellenismo, della spiritualità e del misticismo, nascondeva una connotazione profonda di rivoluzione conservatrice plebea. Del resto lo stesso Heidegger, nonostante gli scritti infarciti di greco antico, è sempre rimasto un provinciale reazionario.[20] Dovrebbe essere ormai chiaro che, nella biografia intellettuale di Heidegger, questa sua cultura antiborghese da parvenu ha trovato infine il suo sbocco naturale intrecciandosi per una decina d’anni con il misticismo nazista del popolo e della razza tedesca.
Qui, nello stare fuori di sé, starebbe dunque il fondamento della diversità dell’uomo rispetto agli altri viventi, della sua autentica essenza. Il rapporto particolare con l’essere rende l’uomo un’entità completamente diversa, la cellula di un mondo spirituale. «… L’uomo dispiega la sua essenza (west) in modo da essere il «ci» (Da), cioè la radura dell’essere. Questo «essere» del «ci», e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro nella verità dell’essere. L’essenza e-statica dell’uomo riposa nell’e-sistenza, che resta diversa dall’existentia pensata metafisicamente».[21] Proprio per questo suo ricevere la spiritualità da fuori, l’essenza e-statica dell’uomo costituisce una differenza incolmabile con tutto ciò che è animale. «Probabilmente per noi, fra tutti gli enti, l’essere -vivente è il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, e dall’altro è ad un tempo separato da un abisso dalla nostra essenza e-sistente […]. Tali riflessioni gettano una luce strana sul modo abituale, e perciò ancora affrettato, di caratterizzare l’uomo come animal rationale».[22]
Chi non è disposto a stare fuori di sé in modo e-statico (cioè chi non è disposto a esser membro della totalità essenziale del proprio mondo della vita) è un animale.[23] L’essenza si guadagna nel precategoriale e il precategoriale non è mai un individuo, ma un mondo. È evidente – anche se Heidegger non lo dice – che questa condizione animale è opposta alla condizione spirituale cui si accede nella condizione e-statica. Dunque per conseguenza non sono spirituali bensì sono animali gli abitanti delle moderne democrazie liberali. Sono animali coloro che parlano lingue degradate che non sono in grado di custodire l’essenza che è dono dell’essere. Coloro che conoscono Hölderlin muoiono in modo diverso, dirà più avanti. Sono evidentemente animali (privi di essenza umana spirituale) anche gli ebrei oggetto dello sterminio. Ciò sarà esplicitamente sostenuto da Heidegger nella conferenza Il Pericolo del 1949, pubblicata in italiano nelle Conferenze di Brema e Friburgo. Cfr. Heidegger 1994: 83. Vedi anche, in proposito, Faye 2005: 428 e seguenti.
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Il salto tra il mero vivente e l’essenza dell’uomo spirituale sarebbe dovuto al possesso del linguaggio che non è dunque da considerarsi come qualcosa di naturale. «Ai vegetali e agli animali manca il linguaggio perché essi sono ognora imbrigliati nel proprio ambiente, senza mai essere liberamente posti nella radura dell’essere che, sola, è «mondo». […] Nella sua essenza, il linguaggio non è l’espressione di un organismo, così come non è l’espressione di un essere vivente. Perciò esso non può mai essere pensato in modo adeguato alla sua essenza nemmeno in base al suo carattere di segno e forse neppure in base al suo carattere di significato. Il linguaggio è avvento (Ankunft) diradante-velante dell’essere stesso».[24]
Apprendiamo intanto da questo passo che anche il linguaggio ha una sua essenza e che questa non ha nulla a che vedere con i singoli viventi parlanti, non ha neppure nulla a che vedere con il segno e il significato. Presumiamo anche di capire che il mondo dei contenuti enciclopedici che stanno dentro il linguaggio abbia, per Heidegger, un carattere insopportabilmente strumentale. Il linguaggio è il sopravvenire (o l’avvento, come dice Volpi) nella storia dell’essere stesso. Insomma, il linguaggio è il luogo in cui si esprime la forma di vita collettiva di un popolo o di una civiltà che è un dono dell’essere. Attraverso il linguaggio/ lingua l’uomo accede alla sua essenza umana storica, Hegel avrebbe detto che si spiritualizza.
Naturalmente è quasi banale far osservare che questa concezione del linguaggio è del tutto arbitraria. Del resto Heidegger riteneva che la linguistica fosse una delle tante specializzazioni che erano sopravvenute in seguito alla dimenticanza dell’essere. Già Aristotele, molto più correttamente, pensava che il linguaggio fosse un artefatto. Se pensiamo poi che il Corso di linguistica generale di de Saussure è uscito postumo nel 1916 e che Heidegger scrive nel 1946 non possiamo che restare ammirati su come i pensatori possano pensare ignorando sistematicamente la bibliografia. Ma anche questi sono dettagli.
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Data la funzione di tramite del linguaggio, il compito dei pensatori e dei poeti, in contrapposizione ai filosofi, è quello di riconnettere l’uomo deietto con l’essere. «Ma per giungere nella dimensione della verità dell’essere in modo da poterlo pensare, noi, uomini d’oggi, siamo tenuti a chiarire anzitutto come l’essere riguarda l’uomo e come lo reclama. Tale esperienza essenziale ci accade nel momento in cui capiamo che l’uomo è in quanto e-siste. Se vogliamo dirlo nel linguaggio tradizionale, diremo: l’e-sistenza dell’uomo è la sua sostanza».[25] Cioè, in altre parole, qui si ribadisce che la sostanza dell’uomo è la sua alienazione (lo star fuori di sé). Si tratta dunque di un vero e proprio collettivismo spirituale in contrapposizione con il meccanico collettivismo sociale dei marxisti. Indubbiamente, è stato ormai ampiamente acquisito dalla critica, il nazismo di Heidegger era spirituale e non biologistico.
Cioè questo significa che lo stare fuori di sé nella totalità spirituale è la sostanza dell’uomo (l’essenza). L’uomo dunque in quanto singolo non è padrone di se stesso ma riceve da fuori e condivide la sua essenza. Naturalmente questa situazione implica la totale mancanza di scelta da parte dell’uomo. «L’uomo è piuttosto «gettato» dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così e-sistendo, custodisca la verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è. Se e come esso appaia, se e come Dio e gli dèi, la storia e la natura entrino nella radura dell’essere, si presentino e si assentino, non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’ente riposa nel destino dell’essere. All’uomo resta il problema di trovare la destinazione con-veniente alla sua essenza, che corrisponda a questo destino; perché, conformemente a questo destino, egli, in quanto e-sistente, ha da custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere».[26]
Si chiarisce che la verità dell’essere non è una verità in senso cognitivo, che si possa guadagnare attraverso ragionamenti, bensì la condizione storica del mondo come è deciso dall’essere in cui l’esistenza umana e-siste. La verità dell’essere corrisponde in un certo senso al verdetto del tribunale hegeliano dello Spirito del mondo.
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Heidegger si domanda a questo punto - retoricamente - in cosa consista l’essere. Come al solito la risposta è assai vaga. «Ma l’essere - che cos’è l’essere? Esso «è» se stesso. Questo è quanto il pensiero futuro deve imparare a esperire e a dire. L’«essere» non è né Dio né un fondamento del mondo. L’essere è essenzialmente più lontano di ogni ente e nondimeno è più vicino all’uomo di qualunque ente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che è più vicino. Eppure questa vicinanza resta per l’uomo ciò che è più lontano».[27] Qui troviamo qualche eco lontana della filosofia trascendentale husserliana. Come al solito si spiega che l’essere si manifesta nel linguaggio, anche se, naturalmente, si intende un linguaggio non di tipo referenziale. «... l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente. Questa vicinanza dispiega la sua essenza come linguaggio. Sennonché il linguaggio non è meramente linguaggio, giacché noi ci rappresentiamo il linguaggio, nel migliore dei casi, come unità di forma fonetica (segno scritto), melodia, ritmo e significato (senso). […] Ma come nell’humanitas dell’homo animalis resta nascosta l’e-sistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello «animale» ne occulta l’essenza che secondo la storia dell’essere gli è propria. In riferimento a quest’essenza, il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire (ereignet) e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, e di intenderla proprio come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano. Ma l’uomo non è solo un essere vivente che, accanto ad altre facoltà, possiede anche il linguaggio. Piuttosto il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola».[28]
È davvero interessante il «dominare non invadente» dell’essere che qualifica meglio il motivo neo-hegeliano, insieme al motivo postmonoteista.[29] Il Dio della nuova religione dell’essere non avrebbe più dovuto essere il Dio geloso della tradizione ebraica bensì il dio della physis dei primi filosofi greci. Nello stesso modo in cui l’essere domina non invadendo, così l’uomo singolo non può fare altro che con-formarsi ricevendo così la sua essenza dall’essere. Si ricordi che il linguaggio è in realtà un linguaggio/ lingua e che le lingue dell’essere erano per Heidegger il greco antico e il tedesco. Insomma, la solita religione pagana di stampo völkisch. Come si vede, gli stessi concetti vengono continuamente ripetuti e ampliati, spesso ricorrendo a nuove e più ardite metafore. La conclusione è fondamentale per l’argomentazione di Heidegger: «Così, nella determinazione dell’umanità dell’uomo come e-sistenza, ciò che importa è allora che l’essenziale non sia l’uomo, ma l’essere come dimensione dell’estaticità dell’e-sistenza».[30] La cosa fondamentale è comunque il ribadire ossessivo che l’uomo singolo non è il protagonista, bensì è un riflesso dell’essere. Il famoso pensiero originario pare in altro non consista se non nella presa di coscienza da parte dell’uomo di essere, appunto, un riflesso dell’essere. L’essere, a sua volta, è esattamente quello che è.
 
(*) È in preparazione un terzo articolo contenente l’esame delle parti conclusive della Lettera.
 
02/09/2014
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
2003 Bambach, Charles
Heidegger’s Roots. Nietzsche, National Socialism, and the Greeks, Cornell University Press, Ithaca and London.
 
1988 Bourdieu, Pierre
L’ontologie politique de Martin Heidegger, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna, 1989. [1975]
 
1987 Farias, Victor
Heidegger et le Nazisme, Éditions Verdier, Paris. Tr. it.: Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
 
2005 Faye, Emmanuel
Heidegger, l’introduction du nazisme fans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris. Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 2012.
 
1927 Heidegger, Martin
Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen. Tr. it.: Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1970. [1927]
 
1946 Heidegger, Martin
Über den Humanismus, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Lettre sur l’humanisme, in Heidegger, Martin (a cura di), Questions III, Gallimard, Paris, 1966.
 
1993 Heidegger, Martin
Basic Writings (edited by David Farrel Krell), Harper Collins, New York.
 
1976 Heidegger, Martin
Wegmarken, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.
 
1994 Heidegger, Martin
Bremer und Freiburger Vorträge. 1. Einblick in das was ist 2. Grundsätze des Denkens, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002. [1949-1957]
 
2013 Kosman, Aryeh
The Activity of Being, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts.
 
1988 Ott, Hugo
Martin Heidegger - Unterwegs zu seiner Biographie, Verlag Campus, Frankfurt. Tr. it.: Martin Heidegger: sentieri biografici, SugarCo Edizioni, Milano, 1990.
 
1998 Philipse, Herman
Heidegger’s Philosophy of Being. A Critical Interpretation, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
1946 Sartre, Jean-Paul
L'existentialisme est un umanisme, Éditions Nagel, Paris. Tr. it.: L'esistenzialismo è un umanismo, Pagus, Treviso, 1993.
 
1987 Tagujeff, Pierre-André
La force du préjugé, Éditions La Découverte, Paris. Tr. it.: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994.
 
2010 Viroli, Maurizio
La libertà dei servi, Laterza, Bari.
 
 
NOTE
 
[1] Heidegger 1976: 270. Heidegger riteneva che sussistesse un legame particolare tra la cultura greca e la cultura tedesca. I tedeschi erano considerati come gli eredi e i continuatori della cultura greca. Ciò in ossequio al filellenismo, caratteristico della cultura tedesca per tutto il periodo tra Settecento e Novecento.
[2] Heidegger 1976: 270. Vérmögen significa più che altro capacità. La scelta del termine italiano «potere» è forse discutibile. Nella traduzione in inglese viene usato the enabling, assai più affine a «capacità» che a potere.
[3] In termini husserliani, si potrebbe forse sostenere che c’è una relazione di costituzione tra l’essere e il pensiero (anche se l’essere non è propriamente un io trascendentale husserliano).
[4] Heidegger 1976: 270. Nella traduzione francese «voler bene» è reso con désirer. Avverte il traduttore francese: «Dans ce passage, Heidegger joue sur la polyvalence de ce mot (Mögen) qui signifie à la fois: pouvoir, désirer, aimer».
[5] Heidegger 1976: 271.
[6] Ciò accade perché le definizioni delle essenze in termini aristotelico scolastici richiedono necessariamente proprio quelle procedure logiche che Heidegger rifiuta, che considera come altrettanti allontanamenti dall’essere. Allora, un qualsiasi ente non sarà definibile in quanto ente specifico (in quanto forma aristotelica) ma sarà coglibile immediatamente nel suo spontaneo manifestarsi, nel suo venire alla presenza. Se qualcosa viene alla presenza è perché possiede una sua essenza che è il dono dell’essere.
[7] Cfr. Philipse 1998.
[8] Heidegger 1976: 270.
[9] Heidegger 1976: 271. È da notare l’antitesi tra «pensare» e «occuparsi di filosofia». La critica radicale di Heidegger nei confronti della filosofia accademica è reperibile già fin dagli anni Venti, nella forma della distruzione fenomenologica.
[10] Abbiamo già fatto notare che per Heidegger creativo non è mai l’individuo singolo, l’artista,… creativo è l’essere, anche se è misterioso. L’individuo altro non può fare che mettersi in ascolto.
[11] Heidegger 1976: 271-273.
[12] Heidegger 1976: 273.
[13] Si tratta, come ognun vede, di un discorso profondamente religioso - reazionario.
[14] Heidegger 1976: 275.
[15] Heidegger 1976: 276.
[16] Heidegger 1976: 277.
[17] Si noti che secondo la scolastica, pur provenendo da Dio, l’essenza dell’uomo stava dentro l’uomo. Ciò nel corso della storia ha costituito il fondamento del diritto naturale e, in seguito, dell’eguaglianza tra gli uomini. Heidegger è molto più reazionario della scolastica: l’animale razionale è soltanto un animale.
[18] Heidegger 1976: 277. Il misterioso west è l’uso verbale di Wesen. La oscura “provenienza della sua determinazione” va intesa come «The source that determines him».
[19] Dovrebbe esser chiaro a questo punto che la polemica costante di Heidegger contro la tecnica altro non è che una polemica contro la democrazia di matrice illuministica. Questo è il motivo per cui tutti gli antidemocratici anti illuministi, di qualsiasi provenienza si sono ispirati a Heidegger.
[20] Faye riporta, ad esempio, che fin dal 1909 Heidegger si era impegnato nell’attività dell’Unione del Graal o Gralbund, il cui capo spirituale era Richard von Kralick, un viennese assai vicino al leader antisemita Karl Lueger. Lueger di orientamento populista e antisemita, è stato sindaco di Vienna e cofondatore del Partito Cristiano Sociale ed è stato uno dei modelli politici cui si è ispirato il giovane Hitler durante la sua permanenza a Vienna. Von Kralick era un cattolico integralista, filoromano. Il Gralbund sognava l’unificazione dei tedeschi in un nuovo Sacro Romano Impero. Kralick fu poi considerato come un nume tutelare dai nazisti austriaci. Cfr. Faye 2005: 18 e Farias 1987: 43-46.
[21] Heidegger 1976: 278-279.
[22] Heidegger 1976: 279.
[23] Qui si riecheggia Aristotele: chi sta fuori dalla polis è una bestia o un Dio.
[24] Heidegger 1976: 279.
[25] Heidegger 1976: 282-283.
[26] Heidegger 1976: 283-284.
[27] Heidegger 1976: 284.
[28] Heidegger 1976: 286-287.
[29] Il riferimento è sempre a Philipse 1998.
[30] Heidegger 1976: 287.