venerdì 22 agosto 2014

Heidegger for dummies (2.0)


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Una delle ragioni della fortuna di Heidegger risiede senz’altro nell’oscurità del suo linguaggio. La contorsione del suo pensiero, anziché scoraggiare e allontanare il grande pubblico, ha finito per circondare il filosofo di un alone magico, mistico sacrale; ha finito per promuovere la ripetizione giaculatoria delle sua formule, per bandire ogni critica, immediatamente classificata come ostile e pregiudiziale. Insomma, il pensiero di Heidegger, come pare abbia detto una volta Popper, forse «non è abbastanza chiaro da poter dire che è sbagliato».
Già il solo proposito di «chiarire» il pensiero di Heidegger può essere accusato di pregiudizio anti heideggeriano, poiché un certo grado di oscurità sarebbe connaturato all’oggetto stesso di cui il nostro autore si è occupato. Insomma, a occuparsi di cose oscure, bisogna per forza essere oscuri. Di questo passo, proprio chi voglia seriamente fare un esame critico di Heidegger si trova di fronte a una montagna insuperabile, a un vero e proprio gergo per iniziati caratterizzato: 1) dalla ripetizione ossessiva di formule e citazioni, 2) dalla continua messa in campo di nuovi dettagli e particolari che dovrebbero rivoluzionare l’interpretazione o chiarire qualche dubbio a proposito delle teorie del maestro,[1] 3) dalla continua tendenza a voler conferire un significato profondo e decisivo ai passaggi più oscuri, 4) dall’uso ormai rituale dell’etimologia di parole del lessico filosofico e quotidiano della lingua tedesca e greca, quasi come se il segreto delle cose si potesse nascondere nella cabala delle parole. Insomma, ci si trova di fronte a un mostro auto interpretativo che cresce su se stesso, senza alcun controllo. È possibile dunque un’esposizione sintetica e attendibile di Heidegger?
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Anche se Heidegger ha dichiarato seriamente che il suo pensiero ha oltrepassato la metafisica occidentale, si tratta solo di non prenderlo troppo sul serio e di esercitare nei suoi confronti lo stesso trattamento che alla fine è riservato a tutti i pensatori o filosofi, e cioè cercare di rispondere sinteticamente alla domanda «che cosa ha veramente detto?». Gli ermeneuti incalliti sosterranno che ogni risposta a questa domanda non può essere che un’interpretazione che a sua volta richiederà altre interpretazioni, e così via. È chiaro che sotto il ricatto del «circolo ermeneutico» non si arriverà mai da nessuna parte. A costo dunque di compiere una sorta di violazione del mostro sacro, di essere accusati di lesa maestà, può essere utile mettere in fila le linee principali di una «esposizione di Heidegger» di tipo elementare, nella stessa forma degli appunti che sarebbero necessari a un modesto professore di filosofia per fornire un quadro critico attendibile del pensiero heideggeriano.
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Da dove cominciare? Intanto si può cominciare con il contestare che un’esposizione di Heidegger abbia bisogno di un trattamento speciale o, peggio, di particolari doti intuitive che non siano patrimonio di tutti. Nonostante le posizioni sostenute dallo stesso Heidegger (e dalla schiera degli heideggeriani), quella di Heidegger è una metafisica come tutte le altre, che appartiene alla storia della filosofia occidentale, che è nata e si è sviluppata proprio dal pensiero occidentale. Non è stata la prima e non sarà nemmeno l’ultima. Non facciamoci dunque impressionare dai paroloni come superamento, svolta, fine o distruzione.[2] Non si tratta poi neanche di una metafisica particolarmente originale, poiché, storicamente, è nata proprio sul terreno del pensiero più dogmatico di tutta la tradizione occidentale.[3] E di tutto ciò porta segni inequivocabili. Secondariamente, va aggiunto che, se c’è qualcosa di eccezionale da tenere in conto, dal punto di vista della storiografia filosofica, si tratta del fatto che la metafisica di Heidegger si è intrecciata perigliosamente con l’ideologia e con la pratica del nazismo. Occuparsi di Heidegger significa dunque maneggiare qualcosa che è stato, di fatto, e continua a essere, socialmente e politicamente pericoloso per la democrazia.[4]
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Heidegger probabilmente rimarrà nella storia della filosofia per avere individuato e praticato un campo d’indagine che prima di allora era stato considerato in forma marginale e cioè il campo della vita quotidiana. La filosofia di Heidegger dunque, al di là di quello che ne ha pensato Heidegger stesso, ha esplicitamente  aperto la possibilità di fare dell’ontologia intorno a questioni specifiche inerenti la comune esistenza delle persone. Sulla scorta di Husserl, potremmo affermare che Heidegger ha contribuito ad ampliare il novero delle ontologie regionali. Apparentemente, forse proprio per questo, è stato spesso presentato come un filosofo popolare. Volendo, sul piano storiografico, possiamo collegare questa sua attenzione verso la quotidianità con la diffusione progressiva della società di massa, proprio nel periodo in cui il filosofo ha operato. Non è tuttavia estranea alla parabola heideggeriana la drammatica situazione della prima Germania post bellica, una situazione di crisi morale e culturale, oltre che economica, che ha incubato il totalitarismo nazista.[5] Sull’ontologia dell’essere invece – che avrebbe costituito il suo campo principale di ricerca – Heidegger ha parlato molto, ma in sostanza, per sua stessa ammissione, non ha concluso nulla. Il giudizio può essere un po’ drastico, ma crediamo di poterlo abbondantemente sostenere.
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Elaborare un’ontologia significa banalmente rispondere alla domanda «Che cosa c’è?». Significa cioè individuare uno o più oggetti considerati di qualche importanza e fondarli e descriverli al meglio delle possibilità. Qual è dunque l’oggetto relativamente nuovo portato alla ribalta da Heidegger? Quest’oggetto è stato denominato con una sovrabbondanza di termini: vita, esistenza, esserci, Dasein, mondo della vita, Lebenswelt. Heidegger si era convinto (non stiamo qui ora a vedere il perché) che la tradizionale attività filosofica occidentale,[6] e la cultura che ne era derivata, avessero finito per stravolgere il significato autentico della vita che così era stato dimenticato, era andato perduto. Si trattava allora – attraverso un’opportuna metodologia – di smantellare tutte le sovrapposizioni e le incrostazioni storiche per fare emergere nuovamente il significato dimenticato, che, come tale era da considerarsi come originario, primario, fondativo di tutto il resto. Una volta identificato e ripristinato l’elemento originario, si poteva procedere a un nuovo inizio, a un rinnovamento radicale che avrebbe coinvolto lo stesso mondo della vita.
Si noti che la struttura dell’impresa heideggeriana è del tutto analoga a quella delle molteplici «filosofie del sospetto» che sono state piuttosto popolari tra Ottocento e Novecento. Queste filosofie sono state così definite perché hanno sostenuto che la realtà che ci appare è ingannevole e fasulla, che l’autentica realtà è un’altra. Dove sta allora la vera realtà? Per Heidegger siamo già immersi nell’autentica realtà, ma non ce ne rendiamo conto perché noi stessi, appunto, la stravolgiamo e nascondiamo continuamente. La vera realtà è dunque – usando una sua espressione -  la più vicina e la più lontana e sta in ciò che è dato per scontato. L’abilità del filosofo (del pensatore) sta dunque nel cogliere e portare in primo piano ciò che comunemente è dato per scontato nel mondo della vita quotidiana. Si tratta allora di liberarsi di tutti i preconcetti (liberarsi cioè di tutte le categorie mentali che ci condizionano) e di cogliere «la cosa stessa» nella sua immediatezza. Solo così ci si potrà riconciliare autenticamente con la vita e quindi solo così si potrà accedere al significato di ciò che davvero siamo. Questo è all’incirca il significato dell’ermeneutica della fatticità, che ha consentito a Heidegger di inaugurare il suo relativamente nuovo campo di ricerca.
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L’ontologia di Heidegger dunque non si occupa degli stessi argomenti delle metafisiche tradizionali, come la forma, la materia, la sostanza, il principio di non contraddizione, l’anima, il logos, Dio, ecc… Anzi, tutti i contenuti delle metafisiche tradizionali sono considerati da Heidegger come ostacoli da superare, anzi, come dice egli stesso, da distruggere.[7] In contrasto  con la filosofia ufficiale, egli ha tentato di cogliere la vita umana nella sua fatticità elementare[8] costituita nell’orizzonte della temporalità. La vita umana è concepita essenzialmente come un flusso di attività dotato di senso che avviene all’interno di uno schema temporale. L’esperienza della vita umana è un costrutto che banalmente sta nel presente, il quale si colloca in un passato e si proietta in un futuro.[9] Siamo dunque davvero lontani dalla concezione del tempo che è stata elaborata nella cultura occidentale, il tempo della fisica, degli orologi, o il tempo della teoria della relatività.
Ne consegue che, anche se Heidegger non usa questa terminologia, la sua è, di fatto, una concezione attivistica o, se si vuole, pragmatistica. Per certi aspetti – è stato rilevato da diversi studiosi – si tratta di un modo di pensare affine al pragmatismo americano. Che cosa distingue allora la visione di Heidegger rispetto a quella di un qualsiasi altro pragmatismo? Si tratta principalmente del fatto che quello di Heidegger è un pragmatismo senza soggetto. Secondo Heidegger, la vita avviene, non siamo noi a determinarla, ma è essa che si determina da sé e, così, ci determina in tutto e per tutto.  Noi siamo inseriti in una totalità, un cosmo di attività (che non è un cosmo fisico) ed esistiamo come centri di attività solo in quanto siamo elementi di questo cosmo. In nome di questa prospettiva, Heidegger ha condannato il soggettivismo cartesiano, e con ciò qualsiasi forma di autonomia del soggetto, l’idealismo trascendentale e tutte le teorie che hanno operato una distinzione tra soggetto e oggetto, comprese soprattutto le teorie scientifiche.[10] Va detto a onore del vero che la nozione di questo cosmo di attività dotate di significato non è un’invenzione di Heidegger; essa è molto simile a concetti analoghi elaborati da altri filosofi, soprattutto dal suo, per breve tempo, maestro Husserl e dall’hegeliano Dilthey. Heidegger ha chiamato questo cosmo di attività mondo della vita, oppure esserci (in tedesco: Dasein). Il Dasein dunque è la risposta heideggeriana alla domanda ontologica «che cosa c’è?».
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Di fronte a una simile “rivoluzionaria”[11] prospettiva di ricerca, è della massima importanza capire che fine fanno il soggetto e l’oggetto. La tradizione fenomenologica da cui Heidegger proviene aveva combattuto a lungo contro il cosiddetto psicologismo, in altre parole il tentativo di riduzione della realtà percepita e conosciuta a processi psicologici. Si tratta, detto per inciso, di una tendenza che oggi sta registrando una notevole ripresa grazie allo sviluppo delle neuroscienze. Husserl aveva sviluppato una complessa prospettiva secondo la quale si poteva mettere da parte l’Io empirico ed esaminare come il soggetto trascendentale costituisse gli oggetti dell’esperienza. La spiegazione della costituzione degli oggetti era di tipo relazionale e avveniva attraverso la nozione dell’intenzionalità. Attraverso l’intenzionalità, il soggetto trascendentale provvedeva alla costituzione degli oggetti dell’esperienza, i quali finivano così per acquisire una natura ibrida, né interna, né esterna al soggetto. Ciò permetteva di concentrarsi non sulla tradizionale dicotomia tra soggetto e oggetto ma sulla stessa relazione di costituzione. Per Husserl il mondo della vita era interamente costituito e la fenomenologia avrebbe permesso di indagare i meccanismi della sua stessa costituzione. In Heidegger – vedremo – ci sono soltanto i meccanismi di costituzione che, in un certo senso, sono completamente autonomizzati, cioè funzionano da soli.[12]
Heidegger, a differenza di Husserl, ha rifiutato la distinzione tra io empirico e io trascendentale, e ha tuttavia mantenuto l’obiettivo di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto: il risultato di quest’operazione è esattamente la vita, il Dasein o se si preferisce l’esistenza heideggeriana che, in pratica, è una entità che si auto costituisce (per Heidegger la fenomenologia si occupa del fenomeno inteso come ciò che si mostra da sé.). Le varie conseguenze di questa operazione teorica sono determinanti per lo sviluppo del sentiero filosofico heideggeriano. La conseguenza più importante di tutte è la sparizione del mondo esterno. Sul passaggio da Husserl a Heidegger ha affermato in proposito la Frede: «Husserl può [...] essere caratterizzato come un “soggettivista trascendentale”; cioè, egli ha sostenuto la concezione secondo cui il soggetto provvede le condizioni di tutte le determinazioni degli oggetti dell'esperienza e del pensiero. La riflessione sugli atti della coscienza è ritenuta capace di costituire l'essenza non solo degli atti di coscienza stessi, ma anche degli oggetti, fintantoché vengono lasciate fuori le questioni relative ai fatti effettivi del mondo esterno».[13] Dunque già in Husserl il mondo esterno effettivo viene messo tra parentesi, finché - usando il linguaggio heideggeriano – non verrà del tutto dimenticato. È come se il mondo esterno sparisse del tutto, surrogato dagli enti costituiti che s’incontrano nel mondo della vita. Non abbiamo più a che fare con cose, ma con rappresentazioni di cose che accadono. Nelle sue polemiche contro Cartesio, Heidegger ha mostrato di essere ben consapevole della questione. Sparisce tuttavia anche il soggetto individuale che tradizionalmente sarebbe stato considerato in qualche modo l’autore delle rappresentazioni. Al posto dell’oggetto e del soggetto viene dunque messo l'ente heideggeriano che si costituisce da sé stesso come totalità significativa. Al di là dell’ente auto costituentesi, in una posizione irraggiungibile, c’è soltanto l’essere, che finirà così per diventare è una sorta di residuo noumenico, buono per tutti gli usi (vedremo in seguito alcuni esempi). Se queste sono in sintesi le conseguenze dell’approccio teorico heideggeriano, vediamo allora nel dettaglio qualcosa in più circa la distruzione (o la de-costruzione, come qualcuno preferisce dire) del soggetto e dell’oggetto.
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Heidegger non accetta la nozione husserliana dell’io (das Ich; ingl. I). Afferma in proposito Inwood: «Heidegger è generalmente ostile nei confronti di das Ich. Egli lo associa alle teorie che isolano l’io dal mondo e dalle altre entità […] e trattano l’io come un oggetto di osservazione teorica e lo considerano come una cosa o sostanza».[14] All’io Heidegger preferisce la nozione di Self (das Selbst), la quale tuttavia è intesa in modo piuttosto particolare. Il Self non è da intendersi come un soggetto e neppure come una sostanza: esso è un ente di natura relazionale, che quindi è del tutto dipendente dal contesto. Metaforicamente si potrebbe sostenere che il Self è totalmente riempito da quanto avviene di volta in volta nell’ambito dell’esperienza. Heidegger stesso suggerisce che non accade che ci si concentri su se stessi esplicitamente o in isolamento dal proprio coinvolgimento con le cose e con gli altri (come Husserl credeva si potesse fare). Il Self dunque può essere considerato come un’attività relazionale attraverso cui possiamo acquisire o perdere familiarità con il mondo della vita stesso. Il Self sarebbe dunque unicamente la condizione di intelligibilità (o di significatività) della situazione vissuta.[15] Il Self possiede questa natura relazionale poiché opera in termini di intenzionalità e può essere considerato come un sottoinsieme delle possibilità che si aprono in una situazione effettiva. Il Self dunque non ha nulla di puro come das Ich ed è sempre situato nell’orizzonte della situazione e, soprattutto, è storico.
Questa concezione in pratica ha l’effetto di consacrare la dissoluzione dell’io singolare all’interno del «ci» dell’esser-ci, cioè all’interno del mondo sociale e storico di riferimento. Il Self in altri termini è un’appendice che si costruisce interamente sul terreno del Dasein. Si tratta insomma, dal punto di vista filosofico, di una forma di esternalismo radicale. Questa contesto-dipendenza del Self costituisce di fatto, come ognun vede, un tassello fondamentale di una visione totalitaria del mondo. Heidegger addirittura riteneva che questa dissoluzione dell’io nella totalità socio-culturale fosse un fatto primordiale, originario e fosse la condizione quotidiana vissuta dagli antichi greci. Riteneva, ugualmente, che questa stessa dissoluzione avvenisse nella situazione della comunità e nel popolo. In apertura abbiamo accennato ai rapporti tra la filosofia di Heidegger e l’ideologia nazista. Ebbene, tutto ciò era perfettamente compatibile con la prospettiva culturale völkisch, assai diffusa all’epoca in Germania.[16] Alcuni lettori affezionati alla vecchia interpretazione esistenzialistica di Heidegger potranno trovare strano tutto ciò. Heidegger infatti è noto per avere sviluppato una serie di analisi “kierkegaardiane” riguardanti la soggettività, il rischio, l’angoscia, l’autenticità, In realtà, la differenza tra la non autenticità e l’autenticità, su cui spesso effettivamente insiste Heidegger, non è quella tra la massa inconsapevole e l’individuo consapevole, ma è quella tra l’adesione inconsapevole e l’adesione consapevole alla totalità, dalla quale comunque non si sfugge. Heidegger disprezza la totalità meccanica delle società individualiste e vuole sostituirla con una totalità spirituale. Per questo il nazismo di Heidegger è stato un nazismo di tipo spiritualistico e non biologistico e per questo Heidegger ha avuto i suoi problemi anche nel NSDAP.
Qui sta anche la radice di una delle più divertenti e colossali cantonate filosofiche del Novecento: i lettori di Sein und Zeit,[17] soprattutto francesi, forse poco conoscendo il retroterra culturale conservatore e totalitario di Heidegger, hanno interpretato il suo Self in termini di libertà soggettiva, nonostante lo stesso Heidegger avesse dichiarato abbastanza esplicitamente la sua posizione. Ci ha pensato lo stesso Heidegger a correggere questa cantonata nella sua Lettera sull’umanismo del 1946.
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La prospettiva heideggeriana, oltre alla distruzione del soggetto, presuppone anche la distruzione dell’oggetto (cioè dell’oggetto più o meno come era stato inteso dalla varie ontologie precedenti). Questo è senz’altro il punto più controverso e frainteso della teoria heideggeriana. L’oggetto generico di Heidegger si chiama ente (Seiende; ingl. entity). Tuttavia, come abbiamo già in parte anticipato, esso non ha nulla a che vedere con cose come la sostanza, la materia, l’idea, la forma della metafisica classica o con gli enti della scienza moderna (energia, atomi, molecole). L’ente è esclusivamente l’oggetto del riferimento intenzionale del Self, dunque è sempre qualcosa che è costituito come ente dotato di significato e che si ritrova in un mondo della vita.[18] Tuttavia non ci sono enti individuali, separati, ciascuno per proprio conto: gli enti si presentano sempre in un insieme. Questo insieme è lo sfondo significativo del mondo, in riferimento al quale ciascun singolo ente può diventare manifesto. D’altro canto, gli enti sono immersi nella temporalità, per cui non esistono cose ben definite, cui si possa attribuire una sostanza permanente: gli enti nell’orizzonte del tempo sono in continuo mutamento, sono insiemi di possibilità, solo alcune delle quali vengono man mano attuate.
Abbiamo già accennato alla temporalità come orizzonte fondamentale del mondo della vita e dunque al fatto che tutto è attività. Quest’attività comporta la distensione nel tempo degli enti di cui abbiamo parlato.  Ebbene, più precisamente, gli enti si trovano nel mondo della vita o come possibilità (Möglichkeit; ingl. possibility) o come attualità (Wirklichkeit; ingl. actuality) – qui i riferimenti ad Aristotele sono palesi e financo ingenui.  L’essere degli enti per Heidegger, tuttavia, piuttosto che attualità, è soprattutto possibilità.[19] Ciò vuol dire che l’essere degli enti non è mai fisso, che gli enti sono dotati di vita “ermeneutica” e di movimento. Il loro essere consiste sempre nell’avere delle possibilità. Questo però non significa che gli enti siano liberi di autodeterminarsi: le possibilità sono sempre loro offerte dal contesto.[20]
Questo strano mondo fatto di oggetti intenzionali, distesi nel tempo, il cui significato e destino è determinato dalla totalità mutevole del mondo stesso, e che, soprattutto, sono fasci di possibilità vincolate, ha indotto Heidegger ad adottare un linguaggio alquanto criptico, che sconcerta il lettore che gli si avvicina per la prima volta. Nel mondo della vita heideggeriano gli enti non si può dire rigorosamente che «sono» ma si dirà che «vengono alla presenza». Poiché la presenza è intesa, appunto, come il significato, il venire alla presenza equivarrebbe a diventare significativo nell’ambito di un determinato momento del mondo. Venire alla presenza è reso da Heidegger con il termine wesen (da lui usato in tal caso come verbo e non come sostantivo – sarebbe qualcosa come “essenziare”) e con alcuni suoi composti.
Su questa terminologia val la pena di fare una breve digressione. Wesen, usato come sostantivo, ha il significato tradizionale di essenza. Heidegger tuttavia usa anche wesen come verbo (che non è più in uso nel tedesco attuale) per indicare il durare, il permanere, l’essere durevolmente presente. È invece ancora in uso il verbo anwesen,[21] usato da Heidegger proprio con il significato di venire alla presenza, mentre Anwesenheit ha il significato sostantivato di presenza. Per converso, abwesen assume il significato di assentarsi, essere assente. Secondo Volpi, il sostantivo Wesung (ingl. essencing) spesso usato da Heidegger è ricavato da wesen e ha il significato di manenza; è stato tradotto in italiano come permanenza essenziale o come presentarsi essenziale. In inglese è di solito reso con essential swaying.
Questa noiosa digressione terminologica ci permette tuttavia di comprendere il legame tra il venire alla presenza e l’essenza heideggeriana. Il termine essenza qui proviene da Husserl, il quale a sua volta lo aveva preso da Aristotele, tramite Brentano. L’essenza di cui parla Heidegger non è tuttavia la forma aristotelico-scolastica, ma è proprio l’ente dotato di significato che si manifesta come presente all’interno di un mondo costituito in un orizzonte temporale.[22] Essa indica il modo in cui l’ente segue il suo corso, il modo in cui l’ente, attraverso il tempo, si disvela come quello che è. Avendo Heidegger eliminato dal suo campo ogni componente di conoscenza razionale, sostituita dalla intuizione immediata, non è mai possibile conoscere l’essenza di qualcosa in senso tradizionale (cioè razionalmente). L’essenza dunque, nella prospettiva attivistica heideggeriana, si manifesta da se stessa nell’orizzonte temporale dell’esserci, cioè si toglie dal nascondimento. Ciò implica che il riconoscimento dell’essenza di ciò che man mano avviene si può fare solo dopo l’evento stesso. Si può soltanto costatare dopo quello che l’ente era e, comunque, il suo significato è fluido e può sempre cambiare (Heidegger parla spesso di “dono dell’essenza”). Solo apparentemente dunque tutto ciò assomiglia al senso dell’essenza intesa classicamente come quod quid erat esse. In italiano abbiamo il verbo diventare che vuol dire proprio quello che intende Heidegger per essenza. Il mondo di Heidegger è dunque un mondo di enti significativi dove tutto diventa, in cui non si può fare nessuna previsione (ciò varrebbe a bloccare la temporalità) e in cui non resta che stare a guardare e stupirsi di quello che  di volta in volta viene alla presenza.[23]
È chiaro che tutto ciò è legato alla rudimentale concezione heideggeriana del tempo, secondo la quale non esiste un tempo invariante e dove il tempo è sempre una manifestazione degli enti in rapporto al loro passato e alle loro possibilità future, e dove nessun ente è davvero dotato di qualche stabilità, dove la totalità significativa che si determina di volta in volta prevale sempre sul singolo ente, anzi, conferisce un senso al singolo ente..
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Dunque, all’interno del mondo della vita si danno, cioè vengono alla presenza, si disvelano, si dischiudono, dei Self come entità intenzionali che sono il risultato del loro riferirsi in termini d’esperienza a una molteplicità di altri enti (quasi come fossero delle monadi leibniziane). Il mondo della vita complessivamente inteso, dunque, possiede la caratteristica di costituire il luogo della auto manifestazione degli enti, cioè del loro presentarsi e assentarsi sulla scena del mondo stesso. Questo luogo metaforicamente è descritto come uno spazio aperto, tanto che è proprio chiamato aperto (das Offene; ingl. the open). La corrispettiva caratteristica di questo spazio aperto è l’apertura (Offenständigkeit; ingl. the openness). Un ente dunque può venire alla presenza solo se c’è uno spazio aperto in cui può presentarsi. Lo spazio aperto non è altro che un insieme di possibilità che si danno, poiché non c’è alcun soggetto che sia in grado di aprire qualcosa. La riflessione sulla costituzione dello spazio aperto è un momento importante della cosiddetta seconda fase del pensiero heideggeriano. In questo nuovo contesto, lo spazio aperto è stato ulteriormente metaforizzato e chiamato radura (Lichtung; ingl. clearing).[24] La radura dell’essere è lo spazio aperto in cui gli enti possono venire alla presenza, in quanto dono dell’essere. La presenza di un ente presuppone anche la contro-dinamica dell’assenza. Il gioco che viene a determinarsi tra la presenza e l’assenza dell’ente è ciò che Heidegger chiama evento (Ereignis; ingl. enowning). La filosofia del secondo Heidegger si configurerà dunque sempre più come un’ontologia dell’evento, cioè un’ontologia della comparsa degli enti nell’orizzonte del tempo. Per Heidegger la realtà è fondamentalmente costituita da eventi che si dischiudono nella Lichtung dell’essere.
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Il mondo dunque è una totalità significativa che ha come orizzonte la temporalità all’interno della quale compaiono degli eventi costituiti in base alla intenzionalità dei vari Self. In questo modo, all’interno del mondo della vita si produce la storicità (Geschichtlichkeit).[25] Poiché i Self sono sempre determinati dal contesto, quel che accade nella storia può essere solo costatato ex post come evento. Di qui deriva la nozione del fato (Schicksal; ingl. fate) che è  la possibilità che viene ereditata e che dunque non può altro che essere scelta e accettata fino in fondo.[26] Di qui la tematica dell’essere per la morte e della risolutezza contenute in Sein und Zeit. Tutto ciò non è davvero molto distante dalla tematica nicciana del volere il proprio destino. Mentre il fato è un concetto che Heidegger usa soprattutto in riferimento a quel che avviene all’interno del mondo della vita, nel secondo Heidegger la considerazione temporale si allarga fino a ipotizzare una successione di epoche della storia dell’essere, cioè di diversi mondi della vita che vengono alla presenza nell’apertura dell’essere e che si succedono l’uno all’altro.[27] In tal caso egli parla del destino (Geschick). La vita umana dunque è governata dal fato, il quale a sua volta è immerso nel destino della storia dell’essere. Di tutta questa porcheria è stato fatto ampio uso nell’ideologia del nazismo e nel pensiero della conservazione e della reazione.
Naturalmente in una visione della storia del genere non c’è spazio alcuno per la differenza tra conoscere e fare (anche qui in perfetta sintonia con Nietzsche). Non c’è dunque neppure spazio per un’etica della responsabilità. Quel che di volta in volta si dà nell’apertura dell’essere è simultaneamente già fatto e conosciuto. Quel che progressivamente viene alla presenza nella storicità così altro non è concepibile che come la verità dell’essere (die Wahrheit des Seins; ingl. the truth of being). Tutto quel che viene alla presenza ha quindi l’autorità del fatto compiuto. La verità dell’essere è la dischiusura dell’auto rivelazione/ nascondimento dell’essere. Nella storia l’essere si rivela nella presenza degli enti e nello stesso tempo si ritrae nell’enticità degli enti. La domanda di verità non è la domanda di certezza a proposito di ciò che conosciamo o crediamo, ma la richiesta di dischiusura di ambiti finora rimasti sconosciuti.[28] Questa verità dell’essere non ha dunque nulla a che fare con una verità nel senso della conoscenza. Per Heidegger qualunque conoscenza intellettuale non può che essere del tutto sterile, puramente contemplativa, incapace di stare nella vicinanza dell’essere. L’intellettualismo della filosofia e della metafisica dunque distrugge la storicità vitale e autentica, per cui si tratta di ritornare alle origini, prima delle degenerazioni della metafisica. Ciò significa tornare a un mondo precategoriale come quello dei pensatori presocratici. Solo da lì sarebbe stato possibile un nuovo inizio. Una regressione nel mondo primitivo dei presocratici avrebbe proiettato la Germania avanti nel nuovo millennio.
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Forse il detto più famoso, a proposito di anti intellettualismo, è quello che dice più o meno: «Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola». Viene ordinariamente attribuito a Goebbels, il ministro nazista della propaganda. In realtà ha una storia un po’ più complessa, e val la pena di ricordarla. Nel 1933, poco tempo dopo il successo di Hitler, in occasione dei festeggiamenti per il suo compleanno, il commediografo filonazista Hans Jost mise in scena a Berlino un dramma intitolato Schlageter. Il dramma è una sorta di biografia esaltata di Leo Schlageter, un esponente di estrema destra, membro dei corpi franchi, il quale, per avere compiuto vari attentati e attività di sabotaggio, venne fucilato dai francesi nel 1923, durante l’occupazione della Ruhr. Nel dramma, il protagonista se ne esce con una battuta che suonava più o meno così: «Quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia Browning». L’opera di Jost divenne una specie di testo di culto del teatro nazista e la battuta divenne assai popolare nell’ambiente dei militanti del partito. Niente di strano dunque che possa essere stata pronunciata anche da Goebbels. Dunque il contesto di nascita di quel motto è quello della celebrazione di una specie di terrorista/ patriota proto nazista che aveva fatto la scelta della lotta pratica contro qualsiasi teoria. Essendo stato condannato dai francesi, considerati come invasori, egli rappresentava in pieno i valori e gli obiettivi politici del nazismo. Ebbene, Leo Schlageter, un vero esempio di essere per la morte, fu sempre considerato da Heidegger come un vero e proprio eroe,[29] tanto che, nei suoi confronti, egli si adoperò in più occasioni nel tesserne le lodi e nell’organizzarne fattivamente le celebrazioni. Molto heideggerianamente, solo questo poteva essere il destino effettivo dell’ontologia di Heidegger.
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Per ora può bastare. Quello che abbiamo presentato è solo il nucleo ontologico principale della filosofia heideggeriana. Una serie nutrita di altre sue tematiche tipiche, per cui Heidegger è, ahimè, da molti considerato come «il più grande filosofo del XX secolo», sono soltanto banali conseguenze di questo peraltro confuso impianto teorico. La tematica della differenza ontologica, la tematica della tecnica, la concezione della decadenza dell’Occidente, l’avversione nei confronti della scienza galileiano – newtoniana, la teoria dell’arte, la sua distorta visione del mondo greco, l’anti umanismo radicale, la sua supposta prospettiva ecologica.
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 E l’essere? Correttamente Sheehan ha fatto notare che il problema di Heidegger non è mai stato quello dell’essere, quanto piuttosto quello del significato dell’essere.[30] Come il noumeno kantiano, l’essere di Heidegger rimane sullo sfondo, e rimane inattingibile, pur avendo una sua insignificante ma enorme funzione. L’essere rappresenta in Heidegger il concetto limite del soggetto, esattamente come il noumeno in Kant rappresentava il concetto limite dell’oggetto. Anche lo stesso Heidegger sembra essersi dimenticato dell’essere, poiché nella sua ultima filosofia questo viene spesso evocato invano, senza alcun risultato sostantivo. L’ultimo Heidegger ha prodotto: 1) un’ignobile filosofia della storia,[31] cui abbiamo già riservato qualche accenno, e 2) il tentativo patetico di elaborare una specie di religione dell’essere, intrisa di ellenismo, che avrebbe dovuto sostituire il cristianesimo e produrre una rinascita spirituale (del popolo tedesco, finché c’era il nazismo; dell’Occidente, dopo la sconfitta del nazismo).[32] Entrambi questi risultati sono nati e si sono sviluppati sul terreno della compromissione con il nazismo e ne portano gravemente le tracce, nonostante i tentativi posteriori di mascheramento e occultamento.
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Il problema strutturale della filosofia di Heidegger è stato reso bene evidente da Umberto Eco, nel suo saggio Sull’essere.[33] Afferma Eco «Se è principio ermeneutico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci si possa domandare se non ci siano per caso interpretazioni “cattive”. Perché dire che non ci sono fatti ma solo interpretazioni significa certo dire che quelli che ci appaiono come fatti sono effetto d’interpretazione, ma non che ogni interpretazione possibile produca qualcosa che, alla luce di interpretazioni successive, siamo obbligati a considerare come se fosse un fatto. […] Il vero problema di ogni argomentazione “decostruttiva” del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siamo d’accordo tutti ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è un effetto di interpretazione. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo – e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda?».[34]
Insomma, l’ontologia di Heidegger è una suprema manifestazione di tracotanza ontologica, poiché rifiuta strutturalmente la presenza di un limite esterno (comunque lo si voglia definire). Poiché la significazione viene entizzata mediante un automatismo del fenomeno, non c’è alcuna possibilità di resistenza nei confronti dell’attività di significazione stessa (cioè, nei confronti di ciò che man mano viene alla presenza). Così ogni cosa che si costituisce, in quanto si costituisce nella radura dell’essere, può vantare la sua pretesa, al di là del bene e del male. Ma quel che avviene nella radura dell’essere non è un paradiso, ci sono ahimè conflitti e atrocità di tutti i tipi, c’è il banco del macellaio della storia che, come diceva Hegel, «è sempre al lavoro». Non basta che tutti si mettano a pensare nella vicinanza dell’essere per armonizzare il mondo – a meno che non si pensi (ed è proprio il caso di Heidegger), con Eraclito, che Polemos sia il padre di tutte le cose.
Crediamo di non sbagliare attribuendo proprio a questo tratto di tracotanza della sua ontologia l’agghiacciante insensibilità morale mostrata da Heidegger in molte occasioni che sono dettagliatamente riportate nelle sue biografie. Oppure, può anche essere che una sua originaria e patologica insensibilità morale abbia prodotto la sua ontologia. Certo, questo non è un argomento storico filosofico rilevante, ma è un argomento rilevantissimo nella valutazione della figura storica di Heidegger e nella valutazione complessiva della sua impresa filosofica, con particolare attenzione all’uso che ne è stato fatto, all’uso che possiamo farne e all’uso che assolutamente non dobbiamo farne.
 
21/08/2014
28/08/2014
 
                                                                               Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
2013   Dahlstrom, Daniel O.
The Heidegger Dictionary, Bloomsbury, London-New York.
 
1997   Eco, Umberto
Sull’essere, in Eco, Umberto (a cura di), Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano.
 
1987   Farias, Victor
Heidegger et le Nazisme, Éditions Verdier, Paris.  Tr. it.: Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
 
2005   Faye, Emmanuel
Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris.  Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro edizioni, Roma, 2012.
 
1993   Frede, Dorothea
The Question of Being: Heidegger’s Project, in Guignon, Charles B.   (a cura di), The Cambridge Companion to Heidegger, Cambridge University Press, Cambridge.
 
1992   Grieder, Alfons
What did Heidegger mean by "Essence", in Macann, Christopher (ed.), Martin Heidegger. Critical Assessments. Volume I: Philosophy, Routledge.
 
1999   Inwood, Michael
A Heidegger Dictionary, Blackwell Publishing Ltd, Oxford, UK.
 
1991   Losurdo, Domenico
La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l'«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino.
 
1988   Ott, Hugo
Martin Heidegger - Unterwegs zu seiner Biographie, Verlag Campus, Frankfurt.  Tr. it.: Martin Heidegger: sentieri biografici, SugarCo Edizioni, Milano, 1990.
 
1998   Philipse, Herman
Heidegger’s Philosophy of Being. A Critical Interpretation, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
2010   Schalow, Frank  &  Denker, Alfred
Historical Dictionary of Heidegger’s Philosophy, The Scarecrow Press, Inc., Lanham.
 
2005   Sheehan, Thomas
Dasein, in Dreyfus, Hubert L.  &  Wrathall, Mark A.   (a cura di), A Companion to Heidegger, Blackwell Publishing Ltd, Oxford, UK.
 
 
NOTE
 
[1] Così funziona la Gesamtausgabe, ormai molto criticata da tutti gli studiosi avveduti. Qualsiasi pezzo di carta sia stato scritto da Heidegger, fosse anche la lista della spesa, è diventata parte dell’Opera Ommnia (le cui linee fondamentali sono state tracciate dallo stesso Heidegger). D’altro canto le carte compromettenti sono state occultate o stravolte. Non è stata permessa una vera edizione critica con criteri rigorosamente filologici. L’archivio viene mostrato solo agli studiosi compiacenti. Responsabili di questa drammatica situazione sono gli eredi di Heidegger, in particolare il figlio ultimo.
[2] Questa situazione fa sì che anche un’innocente esposizione della filosofia di Heidegger, che non voglia essere propagandistica o incensativa, non possa che passare per una «messa in riga» (il termine è heideggeriano) di una serie di pretese, di una serie di autorappresentazioni che non hanno alcun fondamento. 
[3] Heidegger ha cominciato come cattolico tradizionalista (doveva diventare gesuita). Ha mosso i suoi primi studi occupandosi di aristotelismo e di filosofia scolastica. Successivamente, avvicinatosi al luteranesimo, ha approfondito molte tematiche filosofico teologiche. Avvicinatosi alla filosofia di Husserl, avrebbe dovuto occuparsi di fenomenologia della vita religiosa.
[4] Su questo punto, cfr. Faye 2005. Vedi anche Ott 1988 e Farias 1987.
[5] Su questo punto resta esemplare l’analisi di Losurdo 1991.
[6] Nulla dice Heidegger delle altre civiltà e delle altre culture.
[7] Da questo atteggiamento heideggeriano ha preso il via una corrente filosofica nota come decostruzione che ha avuto un notevole successo.
[8] Fatticità è una parola inventata dai traduttori scimmiottando il tedesco heideggeriano (Faktizität). Dato che in italiano non è praticamente usata, si poteva ben usare la parola fattualità.
[9] Questa rudimentale concezione del tempo – checché ne dica Heidegger – non è priva di presupposti ed è comunque tipica del cristianesimo.
[10] La popolarissima corrente anti illuminista, anti scientifica e anti tecnologica è oggi quasi interamente monopolizzata da discepoli più o meno riconosciuti di Heidegger.
[11] Alcuni studiosi hanno in proposito parlato di una rivoluzione conservatrice.
[12] Per questo Heidegger è considerato come l’ispiratore di molti dei relativismi che popolano la scena della cultura contemporanea.
[13] Cfr. Frede 1993: 52.
[14] Cfr. Inwood, 1999: 103-105.
[15] Cfr. sempre Inwood, 1999: 103-105.
[16] Vedi in proposito Losurdo 1991 e Faye 2005.
[17] Essere e tempo (Sein und Zeit) è l’opera considerata più rilevante di Heidegger, che tuttavia è gravemente incompiuta. Nel 1927 rispetto al piano originario ne è stata pubblicata solo una metà, sotto la pressione di un concorso universitario. L’altra metà promessa non verrà mai alla luce. Nel 1934 Heidegger aderirà al NSDAP e avrà altro da fare. Le scuse addotte per la non realizzazione dell’opera sono patetiche e costituiscono un insulto all’intelligenza del lettore.
[18] In questo periodo in Germania aveva avuto alquanto successo la distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Generalmente si riteneva che ciascuna avesse il proprio ambito: le scienze della natura procedevano alla spiegazione causale, mentre le scienze dello spirito procedevano alla interpretazione. Ebbene, nel caso di Heidegger, le scienze dello Spirito (le scienze dell’interpretazione o ermeneutiche) fagocitano completamente le scienze della natura. Tutto è ridotto a interpretazione, secondo il detto nicciano «Non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
[19] Mentre nella Metafisica di Aristotele ogni potenza ha il suo atto, nella versione dinamica che ne dà Heidegger, ogni ente ha delle potenzialità diverse alcune delle quali soltanto saranno attuate sulla base della configurazione complessiva del mondo della vita e questo sarebbe il fato.
[20] Il che è assolutamente analogo allo Spirito hegeliano. Lo Spirito era un sistema terribilmente privo di libertà, l’unico libero era lo Spirito stesso. Tuttavia Hegel pensava che la libertà dell’uomo consistesse nell’assecondare le decisioni dello Spirito.
[21] L’attuale significato di Anwesen, usato come sostantivo, è quello di podere, tenuta, proprietà terriera, che sarebbe comunque la presentazione di chi è proprietario.
[22] Grazie al fatto che il mondo della vita si regge sull’intenzionalità, viene meno la differenza tra universale e singolare, tra la quidditas e la haecceitas.
[23] Tutto ciò è del tutto analogo alla concezione della storia di Hegel. Anche lui aveva scopiazzato Aristotele.
[24] Secondo Faye, la metafora della radura sarebbe stata suggerita a Heidegger dall’immagine notturna dello stadio di Norimberga con i fasci di luce puntati al cielo, durante una delle tante cerimonie naziste. In quel di Norimberga dunque si stava verificando l’evento dono dell’essere che avrebbe mutato l’essenza del popolo tedesco.
[25] Heidegger segue lo storicismo diltheyano.
[26] Questo non è esattamente quel che avevano capito gli esistenzialisti.
[27] Ovviamente a questo proposito possiamo citare Hegel, ma soprattutto Spengler che è stato uno dei riferimenti più costanti di Heidegger.
[28] Cfr. Inwood 1999: 230.
[29] In Sein und Zeit Heidegger aveva scritto espressamente che il Dasein si sceglie i propri eroi.
[30] Cfr. Sheehan 2005.
[31] Su questo punto si possono utilmente consultare Faye 2005 e Philipse 1998.
[32] Chi voglia convincersi di tutto ciò può dare un’occhiata ai Contributi alla filosofia. L’onesto Franco Volpi (il traduttore e curatore in italiano di molte opere heideggeriane) è stato censurato dagli eredi di Heidegger (depositari della Gesamstausgabe) per avere scritto in bozza nella Prefazione che i Contributi rappresentavano palesemente il fallimento del progetto filosofico heideggeriano. Infatti, l’edizione italiana dei Contributi è stranamente uscita senza la prefazione di Volpi. La cosa è stata ampiamente denunciata dallo stesso Volpi.
[33] Cfr. Eco 1997.
[34] Cfr. Eco 1997: 35.