lunedì 3 aprile 2017

Cosa resterà della scissione del PD?

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1. È passato[1] poco più di un mese dal 25 febbraio 2017, data in cui una parte della minoranza del PD è uscita dal partito dando vita a Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista (MDP). Fanno parte della nuova formazione politica oltre a Bersani anche Massimo D’Alema, Roberto Speranza, Enrico Rossi e Arturo Scotto (di provenienza SEL). Si tratta di 37 deputati e 14 senatori. La scissione ha suscitato un notevole impatto sul pubblico, anche se ormai l’effetto emotivo sembra abbastanza rientrato. Sui giornali si tratta solo più occasionalmente della questione. Siamo in un’epoca nella quale è difficile restare a lungo sulle prime pagine dei giornali. Ci troviamo quindi nella distanza temporale giusta per sviluppare in merito qualche considerazione più strutturata, andando oltre le prime impressioni.
 
2. Che il PD non fosse un partito unito si sapeva da tempo. Per lo meno dall’inizio della segreteria Renzi. Che ci fosse un rapporto conflittuale tra Renzi e la minoranza interna (anch’essa tuttavia assai divisa) non è mai stato un mistero. Segnali di gravissimo malessere interno si erano tuttavia già avuti con quel centinaio di parlamentari, mai usciti allo scoperto, che avevano votato contro Prodi alle elezioni del Presidente. C’era stato poi l’affare Letta, che aveva fornito l’immagine di una lotta interna spietata. C’erano già stati poi ancora alcuni abbandoni individuali, come quelli di Fassina[2] e di Civati,[3] che a molti osservatori erano parsi poco comprensibili come tempistica e come motivazioni.
Nel corso degli anni siamo poi stati edotti, quasi giornalmente, sul dissenso della minoranza che ha usato tutte le armi a sua disposizione, plausibili e meno plausibili, per screditare pubblicamente l’operato del Governo Renzi. Conosciamo tutto o quasi delle posizioni della minoranza sul fisco, sul jobs act, sulla riforma della scuola, sulle trivelle, sulla legge elettorale e sulla riforma costituzionale e quant’altro. Anche se la minoranza non è mai stata un gruppo coeso e le sue posizioni sono cambiate nel tempo, la scissione è sempre stata sceneggiata, rappresentata minacciata per lunghi anni di fronte all’opinione pubblica, sui mezzi di informazione. Con esiti ovviamente depressivi sui sondaggi del PD.
Nell’ultimo periodo, com’è noto, un gruppo nutrito di oppositori interni ha conseguito una grande vittoria contro Renzi, con la vanificazione del progetto di legge sulla riforma elettorale e del progetto di riforma costituzionale (i quali progetti, peraltro, diversi di loro avevano sottoscritto). Renzi è stato costretto a mettersi da parte, a dimettersi dal governo e, infine, anche a dimettersi da segretario del PD, dando inizio anticipatamente alla fase congressuale. È stato anche costretto, nei fatti, a rinviare la verifica elettorale – che egli avrebbe voluto fare subito - fino alla scadenza naturale della legislatura.
 
3. C’è da domandarsi perché – dopo tanto lungo chiassoso agitare senza passare ai fatti – la scissione sia avvenuta proprio ora. La scissione è stata spettacolarmente minacciata ma mai consumata finché Renzi stava solidamente in sella al partito e al governo. Quando Renzi ha guadagnato la sconfitta più sonora - quindi nel momento in cui era più debole - gli scissionisti hanno deciso di andarsene. Perché? Bastava costruire un’alternativa politica a Renzi dentro il PD, gli spazi si erano decisamente riaperti. Forse avevano creduto davvero che Renzi, sconfitto sul Referendum, avrebbe abbandonato la politica?
L’unica spiegazione possibile della tempistica della scissione è costituita dal ritorno del proporzionale. Nei fatti, la sconfitta referendaria di Renzi ha posto fine all’epoca del maggioritario e ha aperto la stagione del proporzionale. Il 25 gennaio 2017 la Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’Italicum e il 9 febbraio aveva emanato la relativa sentenza. Così il 25 febbraio è nato tempestivamente il MDP. Questa concomitanza è sotto gli occhi di tutti. Di qui alle elezioni del 2018 resta un anno, appena il tempo per organizzarsi. I fuoriusciti contano realisticamente sul fatto che il Parlamento non riuscirà a fare una legge elettorale sostanzialmente diversa da quella emersa dalla potatura della Corte.
Accanto a questo primo motivo fondamentale, c’è poi una seconda questione, quella dei capilista bloccati, che non sono stati dichiarati incostituzionali dalla Corte. Con la prospettiva assai probabile che Renzi vinca le primarie e torni a prendere in mano il partito - come pare dai sondaggi - in un regime elettorale a capilista bloccati la carriera politica della minoranza comunque sarebbe finita con l’attuale legislatura, perché mai sarebbero stati ricandidati.
Nella prospettiva renziana, per quanto riguarda i rapporti di forza interni e la distribuzione delle cariche, vige una sorta di spoils system, chi vince prende tutto.[4] Il modello che Bersani e i suoi avrebbero invece gradito sarebbe stato un modello consociativo di gestione del partito, una specie di Manuale Cencelli interno, che avrebbe dovuto distribuire le candidature tra le varie correnti. Lo stesso stile consociativo avrebbe dovuto essere seguito nella definizione delle scelte politiche correnti: la minoranza avrebbe dovuto avere sempre il diritto di veto e il partito avrebbe dovuto portare avanti solo le proposte condivise. Queste aspettative sono emerse più volte nel corso dei dibattiti sul jobs act, sulla proposta di legge di riforma costituzionale e sulla legge elettorale. Anche con dichiarazioni esplicite. Purtroppo il consociativismo interno non regge nell’epoca del partito del leader.[5] Non si possono avere i benefici del partito del leader e, nello stesso tempo, impedire sistematicamente il funzionamento del partito del leader per godere dei benefici del consociativismo, secondo il vecchio stile. In ogni caso è bene ricordare che anche nei partiti di vecchio modello non era consentito alla minoranza di contrastare e boicottare pubblicamente le decisioni dalla maggioranza.
 
4. Non intendiamo, con tutto ciò, sostenere che i fuoriusciti non abbiano anche motivazioni ideali ma, più semplicemente, che il nuovo quadro della legge elettorale proporzionale abbia costituito l’elemento decisivo, scatenante, che ha prodotto la messa in atto della scissione. La strategia della minoranza si comprende dunque soltanto con la paura del voto immediato – che era senz’altro nei piani di Renzi - e con la speranza di riuscire ad avere un peso alle elezioni del 2018 in un quadro proporzionale e sotto un’altra sigla. In fin dei conti è la stessa paura che alle elezioni del 2013, nonostante la non vittoria di Bersani, ha indotto quest’ultimo a preferire – piuttosto che un immediato ritorno alle urne - il patto con Berlusconi e il proseguimento a tutti i costi di una legislatura già preventivamente bloccata dall’isolazionismo del M5S. Ora si vuole a tutti i costi che questa legislatura continui fino al termine naturale, infatti il MDP appoggia il governo Gentiloni (che peraltro è notoriamente una creatura di Renzi!).[6] Uscire dal PD per appoggiare il governo del PD è la mirabile conseguenza di questa situazione!
 
5. Cosa è o cosa sarà la cosa di Bersani & C? Certo, è presto per poterlo dire, ma possiamo cominciare a interpretare alcuni indizi. È interessante intanto il fatto che nella sigla della nuova formazione politica compaiano la democrazia e il progresso ma non i termini socialismo o socialdemocrazia. La scelta dell’alias “Articolo 1” fa invece pensare a una forte vocazione lavorista. Una scommessa lavorista ma non socialista dunque! Nel simbolo della nuova formazione, che è circolato in questi giorni, ricorrono i colori della bandiera nazionale, ovviamente senza alcun riferimento all’Europa o all’internazionalismo, ma nello stesso tempo vi campeggia un grande “uno” rosso, richiamo proletario per definizione. Insomma, un bel minestrone. Siamo curiosi di sapere in quale gruppo si collocheranno in sede europea. A quelli come me tutto ciò fa venire in mente il ritorno dell’ircocervo, ma tant’è.
Il Manifesto dei valori del MDP – a conferma di quanto appena sostenuto - fa più ampiamente riferimento a un assemblaggio davvero assai variegato di ideologie e/o di esperienze e cioè: « […] alle culture socialiste, liberali, cattoliche democratiche e ambientaliste, al mondo civico dell’associazionismo e del volontariato, alla grande mobilitazione popolare manifestatasi nel recente referendum costituzionale». Ci si rivolge a «[…] chi è emarginato, escluso e sconfitto dalla globalizzazione neoliberista e dal saccheggio delle risorse della Terra» e alle «[…] periferie, quelle politiche, sociali, culturali e antropologiche». Naturalmente si ribadisce, con ampia dovizia di particolari, la centralità del lavoro, facendo anche un esplicito riferimento a una sorta di unità di intenti con la CGIL. Non poteva mancare poi un rassicurante riferimento positivo all’operato del Papa, per accattivare il consenso del mondo cattolico.
A nostro avviso, l’espressione più sorprendente del Manifesto dei valori del MDP è la seguente: «L’articolo 1 della Costituzione contiene un altro valore per noi fondamentale, quello di popolo. L’unico modo per arginare l’onda populista è quello di tornare a essere popolari». Peccato che il popolo di cui parla la Costituzione sia quello giuridicamente inteso e che lì il termine sia inteso in senso descrittivo e non come un valore, e che quindi non c’entri proprio nulla, ahimè, col popolarismo.[7] Comunque, in questa prospettiva, stando al testo, avremo democratismo, progressismo, lavorismo, vocazione nazionale e popolarismo contro il populismo.
La posizione nello spazio politico del nuovo movimento/ partito si dice esplicitamente che sarà di centrosinistra, intendendo con ciò correggere la deriva neocentrista del PD. Insomma par di capire che il MDP aspiri a occupare esattamente lo stesso spazio politico del PD. Il progetto del MDP è palesemente quello di sottrarre al PD una fetta importante della propria base elettorale e di recuperare un’ipotetica fascia di delusi dalla politica di Renzi. In altri termini, ciò equivale a sostenere che «il vero PD siamo noi». Bene. Se non fosse che – come abbiamo appena ricordato - importanti esponenti del MDP hanno dichiarato che intendono sostenere il Governo Gentiloni e che, in una prossima legislatura, immaginano, nel nuovo quadro proporzionale, addirittura una coalizione con il PD. È veramente difficile capire come ci si possa coalizzare tra soggetti politici che, per loro stessa definizione, sono destinati a rubarsi l’elettorato l’un l’altro.[8]
 
6. Va rilevato che lo spazio politico “alla sinistra del PD” è un’area già estremamente sovraffollata. Per nominare solo i più importanti, abbiamo, da poco, Sinistra Italiana di Fratoianni, cui ha aderito anche Fassina, Rifondazione comunista (PRC-SE), L’altra Europa con Tsipras, i Comunisti Italiani e poi Possibile di Pippo Civati. A questo quadro possiamo aggiungere il movimento Campo progressista[9] di Pisapia che si è dato il volenteroso compito di unificare proprio quel che il MDP sta invece dividendo. A questi vanno aggiunte ulteriormente alcune realtà territoriali guidate da amministratori, come De Magistris a Napoli. Abbiamo poi organizzazioni di un certo rilievo come la CGIL, la FIOM di Landini o l’ANPI che si comportano come veri e propri movimenti politici. Si tratta di uno spazio politico massimamente eterogeneo, dove non è facile individuare somiglianze e differenze. Forse la linea di frattura più riconoscibile è sempre quella tra chi ritiene possibile collaborare con il PD di Renzi e chi invece no.
6.1. Non è facile trovare una ragione per questa proliferazione di sigle di movimenti, di partiti e di leader che si auto collocano alla sinistra del PD. La tendenza della sinistra a frazionarsi – spesso citata come un tormentone - non è una spiegazione convincente. Per lo meno richiederebbe a sua volta una spiegazione. Si tratta indubbiamente di un’offerta politica ampia e variegata che tuttavia tende a frammentarsi sempre più, in frammenti sempre più piccoli. Ciascuno avanza le ragioni della propria irriducibile identità, ragioni che, per coloro che sono appena un po’ esterni, non sono sempre facili da comprendere.
6.2. Nonostante le reiterate dichiarazioni contro il populismo, anche in quest’area sembra che abbia grande spazio la personalizzazione, poiché i vari raggruppamenti spesso sono conosciuti più a partire dai loro leader che per i contenuti della loro proposta politica. Del resto molti dei leader sono parlamentari, sindaci o comunque personaggi rappresentativi di Associazioni varie. Oltre alla personalizzazione abbiamo l’esasperazione, spesso semplificata, nel più puro stile populista, di alcuni punti programmatici, come i rapporti con l’Europa, il lavoro; o anche di alcune ideologie, come il comunismo.
La frammentazione di quest’area non potrà che far aumentare quel misto di leaderismo e di direttismo (cioè di ricerca continua di espedienti di democrazia diretta) che è proprio uno dei tratti dominanti dei nuovi populismi.[10] Pensare che, con l’arrivo del MDP, questo campo riesca a trovare una propria unità d’azione per riuscire a pesare efficacemente nello spazio politico sarebbe ingenuo, viste le esperienze del passato. Le buone intenzioni di Campo progressista di Pisapia sembrano a maggior ragione destinate ad andare frustrate. Soprattutto per le conflittualità interne, le antipatie personali, i calcoli di piccolo potere delle piccole burocrazie. Si tratta di un mondo molto autoreferenziale – nonostante le grandi idealità sbandierate - che ahimè potrà essere riprodotto e mantenuto in vita solo grazie al proporzionale.
6.3. Date tutte queste premesse, non nascerà neppure, da questa confusa area, una nuova socialdemocrazia italiana capace di competere con il PD democratico o, per lo meno, di condizionarlo da sinistra. Del resto ogni riferimento al socialismo – come già s’è detto - è stato bandito dal nome del nuovo soggetto politico. La socialdemocrazia, oltretutto, è in crisi in tutta Europa e la fondazione di un partito socialdemocratico in Italia oggi pare abbastanza un anacronismo. Nascerà piuttosto un anti PD che si considera come il vero PD che vorrà allearsi col PD ma che, nello stesso tempo, sarà un competitore del PD. Splendido.
 
7. Per andare su qualcosa di più solido, non è chiaro quale modello di partito abbiano in mente i fuoriusciti. È singolare che si siano definiti movimento piuttosto che partito. Ormai nel linguaggio politico italico la confusione tra partito e movimento è la più totale – dopo Grillo, anche Casini recentemente ha fatto un movimento. La realtà è che ormai i partitini dell’area – la stessa cosa vale anche a destra - sono soltanto più correnti parlamentari intorno a un qualche sedicente leader. Poco più che un’agenda di numeri telefonici. È davvero difficile pensare che ci saranno le nuove sezioni del MDP nei quartieri periferici o che verranno riaperte le storiche sezioni del PCI. O che ci saranno i nuclei storici della classe operaia che chiederanno in massa le tessere della nuova formazione. Ma è anche difficile pensare a un partito che rilanci la partecipazione dal basso, l’attivismo nelle strade, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle amministrazioni locali. Il sospetto è che tutto ruoterà intorno al gruppo parlamentare romano e a un pugno di amministratori locali sparsi nella penisola. Si spera forse di essere l’ago della bilancia per tenere in piedi qualche giunta locale, per garantire almeno la continuazione di alcune carriere.
È comunque indicativo delle future tendenze che i fuoriusciti, quando stavano nel PD, non hanno fatto nulla – esattamente come Renzi – per ristrutturare la presenza territoriale del PD e per incentivare la partecipazione interna, per dare la parola ai militanti, agli iscritti e agli elettori. D’Alema – se ricordiamo bene – era stato proprio uno di quelli che, per primi, avevano teorizzato il partito televisivo. Difficile vederlo tornare a lavorare nelle sezioni.
 
8. La scissione tuttavia, tralasciando le contingenze della sua esecuzione, porta con sé una serie di questioni di ordine più generale che sono connesse agli sviluppi recenti del sistema politico italiano e, in particolare, alla storia della sinistra. Gli scissionisti portano nella loro sigla il termine democratico. Lo stesso termine che compare nella sigla del PD. Forse questa passerà alla storia per essere stata – nel nostro Paese – la prima scissione nei democratici, per andare a costruire un altro soggetto politico democratico. Forse vale la pena – poiché l’argomento è davvero poco praticato – approfondire questo punto.
8.1. In una Repubblica democratica ci si attende che tutti i cittadini condividano le regole di base della democrazia, come sancite dalla Costituzione. Tuttavia quando un partito si qualifica come “democratico” non può limitarsi a porre alla base della sua prospettiva politica la democrazia formale. Altrimenti sarebbero tutti democratici. La democrazia, oltre a essere un sistema formale, è anche una rispettabile ideologia – magari meno nota del socialismo o del liberalismo – che ha forti implicazioni politiche. Si pensi alla contrapposizione storica tra liberalismo e democrazia. Anche se hanno trovato una qualche sintesi e sovrapposizione nelle cosiddette liberaldemocrazie, le due ideologie non potrebbero essere più diverse. Si dividono in particolare su questioni non da poco come il ruolo dello Stato nell’economia, la questione dell’eguaglianza, l’istruzione pubblica, lo stato sociale, il rapporto tra il bene comune e l’interesse individuale.
C’è di più: la democrazia, in quanto ideologia politica, non può che essere di sinistra, poiché ritiene che il bene comune vada costantemente individuato e costruito e non sia soltanto una questione di garanzia della libertà individuale. Non può quindi che essere progressista, per cui – tra l’altro - usare “democratico e progressista” insieme non può che suonare come una tautologia. Come si fa a essere politicamente democratici senza essere progressisti? Ci si ridurrebbe subito alla democrazia formale. L’ideologia democratica, se presa seriamente, non è un pastrocchio buono per tutte le stagioni, può dar vita a politiche anche assai radicali, come insegna una schiera di politici, di studiosi e di filosofi, che per brevità evito qui di citare. L’ideologia democratica contiene al proprio interno un modello di società che aspetta di essere realizzato. La democratizzazione è un processo storico che può avere la stessa ampia prospettiva che ha avuto il socialismo.
L’ideologia politica democratica, comunque, non è populista e neanche popolarista, con buona pace di quanto scritto nel Manifesto del MPD. È civica, perché si basa sul cittadino e non sul popolo popolare. Il cittadino è qui inteso ovviamente non come figura giuridica – giuridicamente siamo tutti cittadini – ma come modello di umanità da realizzare, come un modello di civis. Una società costituita di cives è il progetto politico democratico da realizzare. Per il semplice fatto che questo modello ora non c’è o c’è in minima parte.
8.2. L’ideologia democratica, storicamente, si è fusa con un’altra ideologia affine che è quella repubblicana. Anche qui vale lo stesso discorso: poiché siamo cittadini di una repubblica possiamo formalmente dirci tutti repubblicani. Però è anche vero che «Tutti repubblicani, nessun repubblicano!». Com’è stato recentemente dibattuto nel campo della filosofia politica, il repubblicanesimo è anche una rispettabilissima ideologia politica che ha ancora molto da dire, sul modello di individuo e di società che sono degni di essere perseguiti. Il repubblicanesimo preso sul serio può anch’esso dare origine a sviluppi politici capaci di trasformare radicalmente l’esistente. Si pensi soltanto alla questione della laicità, alla questione dei rapporti tra lo Stato e le religioni, alla religione civile e al patriottismo costituzionale, o alle questioni relative all’immigrazione. Anche qui si potrebbe elencare una schiera di politici, di studiosi e di filosofi di riferimento.
8.3. Purtroppo le ideologie politiche del repubblicanesimo e della democrazia non sono mai state seriamente prese in considerazione nel partito democratico di Veltroni e poi, ancor meno, in quello di Bersani e di Renzi. Non basta scimmiottare certi riti dei partiti americani, come ad esempio le primarie, per dirsi ideologicamente democratici. Qui, fin dalle sue origini, ha fallito il PD, che doveva invece lavorare proprio solo per questo. C’è un paradosso nel nostro Paese. Abbiamo La Repubblica, un grande quotidiano che fa opinione e che ha un’espressa matrice ideologica repubblicana e democratica, a partire da Eugenio Scalfari, il suo fondatore. Abbiamo un partito, il PD che si dice democratico ma che non è mai stato minimamente all’altezza della cultura laica, repubblicana e democratica espressa (certo, nei momenti migliori) da La Repubblica.
Un tormentone ricorrente, quando si parla del PD, è che questo sia stato un partito mai nato. S’intende con ciò che la fusione – sotto l’ombrello di una fin da allora mai ben precisata “cultura politica democratica” – delle componenti del PCI e della DC (in assenza del socialismo, suicidatosi per conto suo, almeno in Italia) non è mai neppure cominciata. Il PD ha avuto tutto il tempo per farla, questa fusione delle culture politiche, ma è mancata del tutto la visione. È mancata la cultura in senso sostantivo. L’uomo comunista e l’uomo democristiano non hanno saputo diventare una terza cosa, l’uomo democratico, il militante sostanziato dai valori del civis, e così sono diventati la caricatura di se stessi. Nell’attuale scissione intravvediamo se pur confusamente la separazione degli eredi del PCI (di quel che ne resta oggi) dagli eredi della DC.
Il PD è diventato così il partito delle correnti e le correnti hanno cominciato a essere denominate per nome e cognome, a costituirsi cioè combriccole personali. Le sezioni sono state chiuse e le organizzazioni territoriali si sono ridotte solo più a macchine di potere locale che servono per scegliere gli amministratori o per distribuire qualche posto qui e là. Gli intellettuali sono stati liquidati, sostituiti dai ghost writer e dai pubblicitari, dal partito televisivo e dai blog, e il livello di qualità del discorso politico ha avuto una caduta verticale. Questo è avvenuto per un decennio sotto gli occhi di tutti, nessuno ha mosso un dito. E adesso ci si rimpalla la colpa della «separazione dalla nostra gente». Le primarie – vantate retoricamente come momento di democrazia diretta – non hanno mai saputo coinvolgere in un dibattito autentico gli elettori e sono rimaste un momento del tutto strumentale che non ha saputo in alcun modo dare lo scettro della scelta agli elettori. E poi le primarie, anche fatte in questo modo riduttivo, danno anche fastidio ai manovratori. La retorica delle primarie mal si appaia con l’accettazione dei capilista bloccati. Spesso il PD non riesce neanche a stare all’altezza della sua retorica.
8.4. La cultura politica democratica ha, come s’è detto, i suoi rispettabili contenuti che andrebbero riscoperti, approfonditi, rivitalizzati ma è soprattutto anche una questione di metodo. Anche se si facessero delle buone realizzazioni, se queste non sono fatte attraverso il metodo giusto, esse sarebbero ugualmente dannose. Questo è il limite fondamentale del populismo. Si può amministrare magari anche bene, ma se non si coinvolgono i cittadini, il risultato politico complessivo sarà pessimo. Si può anche adottare una linea politica vincente, ma se non c’è partecipazione, la vittoria rimarrà nelle mani di una trista oligarchia e finirà per produrre effetti deleteri. Senza un partito grande, compatto, vivace, colto, reattivo nei momenti cruciali i leader restano da soli.[11] Quando c’è bisogno di attivisti e militanti che piantino i gazebo per raccogliere le firme, per parlare con gli elettori, per fare le campagne di propaganda, e così via ci sarà il deserto. Quando si deve scegliere su temi come la riforma della scuola, il reddito di cittadinanza o la riforma del mercato del lavoro non ci saranno intellettuali che si metteranno a studiare, a elaborare e a dibattere,[12] non ci sarà anzi proprio alcun dibattito e le improvvisazioni dei leader cascheranno sulla testa di un’opinione pubblica impreparata che reagirà come si fa su Facebook. Quando ci sarà bisogno di selezionare la classe politica ci si ritroverà soltanto con i soliti yes-man dalle dubbie e talvolta improponibili qualità.
Il problema di una riforma interna del PD dal punto di vista del metodo democratico e dal punto di vista organizzativo è stato posto con estrema chiarezza da Fabrizio Barca (anche se le sue proposte sono suscettibili di critiche e miglioramenti) ma non ha avuto nessuna risposta, né da parte di Renzi, né da parte dell’opposizione antirenziana. Vedremo se il MDP saprà darsi una struttura interna che, dal punto di vista del metodo, sia partecipativa e democratica e che sappia essere innovativa e alternativa a quella del PD. I metodi populisti, assolutamente deleteri per la democrazia, che tutti prima o poi finiscono per adoperare, sono solo i sostituti deboli di una struttura partito che non c’è più, che è stata demolita (o che forse non c’è mai stata davvero) e che oggi nessuno ha più interesse a rimettere in piedi. Ne quelli che sono rimasti nel Pd, né quelli che ne sono usciti. Tutti democratici però.
8.5. La cosa singolare è che molti elementi di cultura politica democratica – ignorati dal PD - sono stati recuperati e pienamente utilizzati dal M5S, naturalmente in una torsione tipicamente populista. Le istanze della lotta contro la corruzione, di un controllo da parte dei cittadini sull’operato degli eletti (che i grillini hanno interpretato infantilmente come mandato imperativo), la partecipazione dei cittadini alla elaborazione della linea politica e del programma (che i grillini pensano di risolvere con le piattaforme web – non a caso la loro si chiama “Rousseau”). Quando i grillini parlano – invero confusamente – di reddito di cittadinanza fanno riferimento appunto alla cittadinanza, indipendentemente dal fatto che un lavoro lo si abbia o meno. Le recenti acrobazie verbali del povero Renzi sul “lavoro di cittadinanza” (sic!) fanno davvero pena. La tematica del reddito di cittadinanza è patrimonio del movimento progressista di tutto l’Occidente[13] e non può essere liquidato con una battuta da pianerottolo.
 
9. Ancor più in generale, la scissione del MDP ha evocato, almeno per un momento, un dibattito che ritorna periodicamente ormai come un tormentone e che riguarda la natura della sinistra. Gli scissionisti ritengono di collocarsi a sinistra e di stare partecipando a un progetto di ricostituzione della sinistra. Spiegano di essere usciti perché il PD non sarebbe di centro sinistra ma neocentrista. Anche questa volta però è prevedibile che il dibattito evocato sulla natura della sinistra non porterà ad alcuna conclusione. La sinistra continuerà a risultare entrouvable, come la chambre di Luigi XVIII. Evidentemente, come si dice, il difetto sta nel manico.
L’argomento non può essere qui affrontato in breve e mi riprometto se ci sarà l’occasione di tornare sulla questione. Bastino comunque alcune considerazioni. Va ricordato che destra e sinistra sono concetti posizionali. La configurazione della dimensione destra/ sinistra è cambiata profondamente negli ultimi tre o quattro secoli. L’idea sbagliata che spesso si suggerisce o si condivide implicitamente è che la sinistra più vera sia sempre quella più estrema, l’ultima arrivata. È un’idea infantile, che si è dimostrata del tutto vana e che si è auto soppressa nella storia dell’Ottocento e del Novecento.
9.1. Per comprendere bene questo punto è il caso di dare un rapido sguardo alla storia. Per rimanere nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm,[14] nel corso degli ultimi duecento anni, si sono succedute diverse sinistre. Almeno tre.
La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di costruzione della nazione, soprattutto in Europa.
La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che, approssimativamente, dal 1848 giunge fino al 1970. È stata in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione del maggior numero.
La terza sinistra è una manifestazione recente, ancora alle prime armi, legata alla crisi progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della società e della cultura di massa e si caratterizza per avere una cultura politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso, per il carattere mono tematico (single issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo universalistico. Comunque la terza sinistra sarà la sinistra del futuro.
9.2. Fin qui Hobsbawm. È evidente che, mentre attraverso i secoli l’opposizione posizionale tra destra e sinistra rimane – e qui sta il senso dell’antitesi tra conservazione e progresso - i loro contenuti, le loro culture politiche, possono sostantivamente cambiare. Naturalmente, poi, nella sinistra ci sono sempre molteplici punti di vista, molteplici culture politiche che stanno in competizione. E’ sempre stato così e sarà sempre così. Non si può dire a priori chi sia di sinistra e chi no. Chi era veramente di sinistra si può dire solo a posteriori, dopo che i giochi sono stati fatti. L’angelo della storia ha le spalle rivolte al futuro e non può fare altro che guardare indietro. Pol Pot aveva studiato il marxismo a Parigi, ma col senno di poi pare non sia stato gran che di sinistra. La Terza internazionale dava ai socialdemocratici l’appellativo di socialfascisti, ma forse i socialdemocratici nella sostanza erano più di sinistra della Terza internazionale. Ci vuole cautela a intitolarsi la targhetta della sinistra. In ogni caso, oggi, il terreno della terza sinistra di Hobsbawm è un terreno completamente nuovo, una prateria ancora poco esplorata. Il compito che abbiamo di fronte è quello di dar conto, certo, delle buone realizzazioni ma anche della crisi ormai profonda della seconda sinistra e, nel contempo, di gettare le basi di una nuova sinistra che sarà tanto più adatta ai tempi quanto meno saprà scimmiottare quella vecchia.
9.3. Ebbene, è proprio sul terreno della costruzione della terza sinistra che il Partito Democratico avrebbe potuto avere qualcosa da dire se – come abbiamo osservato poc’anzi – avesse saputo costruire l’uomo democratico, il civis militante, al posto dell’uomo democristiano e dell’uomo comunista. Invece ci ritroviamo ancora con l’uomo populista o, se si crede che sia meglio, con l’uomo popolarista. Se quella strada fosse stata seguita rigorosamente e consapevolmente, le istanze partecipative e civili che pur stanno numerose tra gli elettori del M5S avrebbero trovato oggi posto proprio nel PD. Renzi non ha davvero mai capito che i voti li doveva prendere al M5S e non alla destra. Non si è mai neanche posto il problema. L’incapacità di seguire e percorrere rigorosamente quella strada, la strada dell’ideologia politica democratica, ha aperto la porta ai più diversi populismi (magari “di sinistra”) e al deterioramento della stessa qualità della partecipazione politica – come ho più ampiamente argomentato in un mio recente articolo.[15]
Sia Renzi, che cerca di cavalcare la situazione usando spesso e volentieri i metodi populisti, sia Bersani, che se ne va dal PD alla ricerca di una formazione democratica più democratica ma anche popolarista, sono entrambi figli di quel fallimento. Ormai è tardi. Mentre si litiga su chi è più di sinistra, alla generazione dei quarantenni il modello politico dell’uomo democratico non è neppure stato consapevolmente proposto e ora questi stanno in gran parte con il M5S. I ventenni sono sulla stessa strada. E questa sbandata storica la pagheremo tutti.
 
10. In sintesi, il problema vero che sta di fronte al sistema politico italiano, e cioè quello di costruire un’autentica cultura politica democratica all’interno della quale formulare una nuova definizione della sinistra che sia adatta al prossimo secolo, continuerà a restare insoluto.
Quella del MDP sembra più che altro una scissione tattica che mira a preservare le fortune politiche di coloro che ne sono stati coinvolti, avvenuta proprio ora in seguito alle prospettive aperte dall’avvento del proporzionale. La scissione andrà con ogni probabilità ad aumentare la confusione nell’area a sinistra del PD, senza però contribuire a un’effettiva prospettiva di unificazione. Non contribuirà alla nascita, a sinistra, di una forza di matrice socialdemocratica inclusiva e competitiva. Non contribuirà neppure a compattare il blocco sociale della “nostra gente”- come dice Bersani - contribuirà anzi a introdurvi nuove maggiori lacerazioni.
Se avrà qualche successo in termini elettorali – i sondaggi per ora oscillano tra il 4% e il 6% - la scissione indebolirà significativamente la forza elettorale del PD e contribuirà così senz’altro ad accentuare certi caratteri negativi del renzismo, ad accentuare cioè il carattere populista del PD, continuando a impedirgli di strutturare una sua matura cultura politica e una sua matura democrazia interna, basata su regole chiare di maggioranza/ opposizione e capace di mettere al bando le correnti. Costringerà inoltre il PD, così indebolito, a spostarsi sempre più a destra, alla ricerca di alleanze “innaturali”, allo scopo disperato di porre un limite al vero competitor che è costituito dal M5S. Contribuirà così, con tutto ciò, a facilitare il prossimo successo elettorale del M5S, che ha ora ottime possibilità di andare al governo, con tutte le conseguenze del caso. In estrema sintesi, possiamo concludere che la scissione sia stata un’operazione veramente geniale.
Non era Crozza ma Luigi Bersani in persona quello che - nel novembre del 2012 – in TV, di fronte a milioni di spettatori ansiosi di capire le differenze tra i candidati delle primarie del centro sinistra, se ne usciva con un’amletica domanda, piuttosto inedita nel panorama politico, che suonava così: «È meglio avere un passerotto in mano o un tacchino sul tetto?». Bersani evidentemente, fin da allora, non guardava più in là del passerotto.
 
Giuseppe Rinaldi
3/04/2017
 
 
OPERE CITATE
 
2016 Calise, Mauro
La democrazia del leader, Laterza, Bari.
 
1999 Hobsbawm, Eric J.
Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza, Bari.
 
2005 Van Parijs, Philippe & Vanderborght, Yannick
L’allocation universelle, Éditions La Découverte, Paris. Tr. it.: Il reddito minimo universale, EGEA Università Bocconi Editore, Milano, 2006.
 
 
NOTE
 
[1] Mi ero ripromesso, tempo fa, di evitare di commentare la politica corrente. Questo dopo avere ricevuto numerose reazioni negative proprio da parte di quelli che erano stati oggetto di alcune delle mie analisi. Le analisi politiche, oltre che non interessare più a nessuno, suscitano solo più risentimento e rabbia, perché ormai lo sport nazionale è quello di collocarsi. Sapere con chi stai. Con me o contro di me. Comunque, poiché cortesemente sollecitato da alcuni amici che hanno aperto su Appunti Alessandrini un interessante dibattito intorno alla scissione del PD, cercherò ugualmente di esporre le mie considerazioni in merito. Consapevole del fatto che riceverò ulteriori reazioni negative e che, comunque, le mie analisi saranno del tutto ininfluenti rispetto agli eventi prossimi venturi. È bene avere sempre le idee chiare circa il proprio posto nella storia.
[2] Il 4 gennaio 2015 Fassina lascia l’incarico di viceministro dell’economia. Nel giugno del 2015 esce dal partito e dal gruppo parlamentare. Il movimento di Fassina si chiamava Futuro a Sinistra. Fassina ha ora aderito a SI.
[3] Civati esce il 6 maggio 2015. Il 21 giugno viene presentato il movimento politico Possibile, che poi diverrà partito il 21 novembre.
[4] Lo si è visto con l’elezione di Mattarella, che Renzi ha rifiutato di condividere con Berlusconi, causando così la fine del Patto del Nazareno (e del progetto di riforma istituzionale).
[5] Si veda in proposito la mia recensione a Il partito del leader di Mauro Calise, su questo Blog .
[6] Sul piano pratico alla minoranza avrebbe fatto comodo una vittoria di Renzi al referendum. Ciò avrebbe permesso loro di continuare a restar dentro, rumoreggiando continuamente, ma stando dentro. La sconfitta oltre le aspettative di Renzi e la manifesta richiesta di Renzi di andare subito a nuove elezioni (avrebbero dovuto tenersi ad aprile) ha accelerato la resa dei conti. La minoranza è riuscita a imporre il congresso ma non la gestione consociativa del partito. Per cui l’esito non ha potuto essere per la minoranza che quello di cercarsi un nuovo spazio politico onde non porre fine alla loro carriera politica. Le ragioni ideali vengono dopo.
[7] Questo piccolo scherzo dell’inconscio di chi ha redatto il Manifesto è per me la miglior prova della validità di quanto ho sostenuto nel mio recente articolo I soggetti del populismo, su questo Blog, pubblicato anche su Appunti Alessandrini e su Città Futura.
[8] Sondaggi recenti più ottimisti danno il MDP al 6% e il PD al minimo storico del 24% (la stessa quota che aveva Bersani nel 2012-2013).
[9] Lanciato il 14 febbraio 2017 (Gad Lerner, Laura Boldrini, Bruno Tabacci). Si è tenuto un Congresso a Roma, l’11 marzo 2017
[10] Si veda in proposito il mio saggio I soggetti del populismo, cit..
[11] Calise ha bene insistito sulla solitudine del leader. Cfr. Calise 2016.
[12] Come s’è visto, nello scontro sul Referendum, gli intellettuali non hanno potuto fare altro che mettersi al lavoro contro Renzi.
[13] Si veda Van Parijs 2005.
[14] Cfr. Hobsbawm 1999.
[15] Cfr. I soggetti del populismo, cit..