venerdì 27 gennaio 2012

Memoria e progetto (2.0)








 

1. A ridosso del Giorno della memoria, si ripropongono puntualmente, con un qualche senso di frustrazione, alcuni problemi che molti di noi avvertono ma che spesso fanno fatica a formulare in modo esplicito. Anzitutto, il problema dell’indifferenza. Chi è sinceramente votato alla coltivazione di una specifica memoria difficilmente riesce a comprendere come mai la maggioranza finisca col restare estranea, come si rifiuti di entrare nel circuito emotivo e cognitivo di quella stessa memoria. In secondo luogo, il problema della pedagogia della memoria. Proprio l’indifferenza spesso registrata presso il grande pubblico finisce per gettare ombre sull’efficacia delle pedagogie della memoria che di volta in volta vengono adottate.

2. Di fronte a questi problemi, le scienze cognitive hanno chiarito sempre più i meccanismi di funzionamento della memoria individuale e delle memorie collettive. In entrambi i casi, si sostiene che la memoria sia una funzione sviluppatasi in concomitanza con l’evoluzione biologica e culturale e che sia funzionale all’adattamento e alla sopravvivenza. La memoria obbedisce tendenzialmente alla banale legge secondo cui si ricorda quel che serve e si dimentica quel che non serve. Se certe memorie cadono nell’indifferenza e nell’oblio, questo è perché di esse, nei fatti, si può fare tranquillamente a meno. Se una qualche memoria è in crisi, allora il problema non sta nella memoria, sta piuttosto nell’assenza di un suo uso positivo, di un progetto, individuale o collettivo, entro cui quella memoria acquisti un senso, entro cui quella memoria si mostri in grado di assicurare un qualche vantaggio evolutivo ai suoi portatori.[1]

3. La domanda, allora, cui dobbiamo rispondere, ogni qual volta ci troviamo di fronte alla minaccia dell’indifferenza e dell’oblio, è che uso possiamo fare di questa memoria?[2] Come rientra questa memoria nella nostra vita quotidiana, nella soluzione dei problemi che abbiamo di fronte, nel nostro progetto collettivo? Non basta rispondere che ricordar si deve, che abbiamo un dovere di memoria. Si cadrebbe facilmente in una kantiana memoria per la memoria che, seppur suggestiva sul piano intellettuale, potrebbe al più accontentare qualche filosofo o qualche moralista, ma non certo regolare le dinamiche della memoria diffuse presso il grande pubblico. In termini generali, le memorie sopravvivono se, di fatto, rappresentano un tassello indispensabile nell’ambito dei nostri sforzi, dei nostri obiettivi, nell’ambito dei nostri progetti per il futuro.

4. Curiosamente, ci risulta più facile recriminare sulla sparizione delle memorie piuttosto che sull’assenza di un progetto collettivo per il nostro futuro. In effetti, è più facile mantenere artificialmente in vita memorie che hanno ormai poco o nulla a che fare con la nostra pratica quotidiana, piuttosto che assumere l’impegno di un progetto entro cui quelle stesse memorie possano avere un senso. È questo quello che Nietzsche chiamava l’atteggiamento antiquario. Senza diventar per questo nicciani, possiamo tranquillamente ammettere che farsi sacerdoti delle memorie può in effetti, in alcune circostanze, rappresentare una comoda maschera per la propria impotenza.

5. Ma perché sentiamo così poco la mancanza di un progetto? La società italiana viene da una ventina e più d’anni in cui si è progressivamente smarrito ogni progetto collettivo, in cui si è data la stura a una miriade di progetti individualistici e corporativi, dove ogni gruppo, ogni banda, ha cercato di favorire i propri interessi, con l’uso spregiudicato del potere, spesso coperto da fantasiose narrazioni mediatiche. La mancanza di un progetto comune, democraticamente elaborato e sostenuto, e la prevalenza selvaggia delle volontà di ciascuno hanno portato inevitabilmente all’inefficacia e all’inefficienza; hanno portato il Paese sull’orlo di un colossale fallimento che ha rischiato di coinvolgere l’Europa e il resto del mondo. Come effetto non secondario, la perdita dell’orizzonte di un progetto comune e il trionfo dei particolarismi hanno comportato, per usare una metafora consumata, l’assassinio delle memorie, ma anche la guerra delle memorie, il trionfo della retorica, la sparizione della verità, la gara a gridare l’ultima parola mediatica. Ciò che è stato riassunto con il termine di abusi della memoria. Il risultato è stato la perdita del senso della realtà, l’appiattimento sul presente, la sfiducia e il pessimismo: l’impotenza, appunto.

6. Di fronte all’impotenza e al rischio concreto di un’effettiva disgregazione (monetaria, sociale, territoriale), è davvero significativo che, in seguito alle celebrazioni relative al Centocinquantesimo dell’Unificazione, una parte consistente degli italiani abbia mostrato il bisogno di identificarsi in una qualche memoria nazionale comune, in simboli condivisi, in una qualche narrazione comune, in una storiografia popolare. Abbiamo cominciato, forse, a capire che continuare a rosicare e a sparare sulla casa comune comporta, prima o poi, la rovina di tutti. Si sta ora diffondendo, anche se con grande difficoltà, la consapevolezza che abbiamo di fronte un Paese da ricostruire nelle sue fondamenta, in termini morali e materiali. Solo in questo progetto di ricostruzione collettiva possiamo intravvedere, oggi, il senso di un buon uso della memoria. Allora, la memoria della Resistenza, tolta dall’alone retorico, potrà diventare indispensabile per capire il fallimento dei partiti e della politica, per capire l’attuale debolezza della nostra Repubblica, per capire cosa possiamo fare per costruire una democrazia che funzioni, per capire i termini delle scelte quotidiane di fronte alle quali ci pone la storia, per intendere a fondo il significato della responsabilità e della partecipazione. La memoria delle foibe può diventare indispensabile per riflettere sulla violenza politica, sulle fazioni, sui fondamentalismi, sui confini, sulla conquista, ma anche sul significato attuale della Patria repubblicana e del diritto di cittadinanza. La memoria della Shoah può diventare indispensabile per riflettere sui diritti umani, sui limiti dello Stato, sulle relazioni internazionali e il “diritto universale all’ospitalità” e, ultimo ma non ultimo, sulla costruzione effettiva di un’Europa dei popoli e non solo dei banchieri. La memoria dei magistrati uccisi dalla mafia diventerà guida indispensabile per realizzare un’effettiva riforma della giustizia che non sia soltanto una maschera di privilegi e conflitti d’interessi, per recuperare un autentico senso delle istituzioni. E così via.

7. In sintesi, l’unico modo per assicurare davvero la propagazione della memoria è quella di inserirla in un progetto collettivo. Non sono le memorie che mancano. Ci manca il progetto collettivo. Quando gli individui si arruolano in un progetto collettivo, solo allora la memoria diventa indispensabile, perché è quella che dà senso al progetto, è quella che ci permette di rispondere alle ormai classiche domande: donde veniamo, chi siamo, dove andiamo?

 

Giuseppe Rinaldi (27/1/2012 – 06/07/2021)

 

 

NOTE

 

[1] Non sto postulando una teoria utilitaristica della memoria. Sto solo enunciando i meccanismi che, de facto, regolano la conservazione delle memorie o il loro oblio, indipendentemente da qualunque valutazione di opportunità.

[2] Tralascio la tematica relativa agli usi ed abusi della memoria. Per chi fosse interessato, rimando al mio saggio Storia e memoria, in L. Ziruolo (a cura di), I Luoghi, la Storia, la Memoria, Edizioni Le Mani, Genova, 2008.