domenica 28 settembre 2014

Eccellenza e rumore

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Chi si occupa oggi di cultura si trova inevitabilmente di fronte a una serie di questioni di fondo di primaria importanza e di difficile soluzione. Si tratta di questioni che riguardano il significato stesso dell’attività culturale, un significato che sembra vada progressivamente sempre più smarrendosi.
Sembra che nel campo culturale sia in atto un preoccupante processo d’inflazione che funziona, più o meno, secondo questa regola: più la cultura viene messa a disposizione di cerchie di pubblico sempre più ampie, più questa perde di valore, più si degrada. Sembra che sia proprio la diffusione stessa della cultura a generare questa perdita di valore. L’inflazione della cultura sembra essere uno degli effetti principali della sua stessa generalizzazione a livello di massa.
Se questo è vero, probabilmente c’è qualcosa che non va nell’obiettivo, che appartiene da sempre alla prospettiva democratica, di distribuire a tutti la cultura. Deve esserci qualcosa che c’è sfuggito, che non abbiamo ben capito. Quel che c’è sfuggito, probabilmente, è che la cultura sembra vivere fondamentalmente sulla differenza. La cultura è complessità ordinata e l’ordine è difficile da creare, da mantenere e da riprodurre. Proprio per questo la complessità crea la differenza tra chi l’ha e chi non l’ha. Lo stesso concetto si può dire, in altro modo, affermando che la cultura è eccellenza e che l’eccellenza, per sua intrinseca natura, è piuttosto rara. Se questo è vero, l’idea di distribuire a tutti l’eccellenza non può che essere un’idea sconsiderata, non può che distruggere la cultura stessa. Quando tutti avessero la stessa cultura non ci sarebbe più differenza, quindi non ci sarebbe più cultura.
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Nelle nostre società contemporanee è effettivamente avvenuta un’imponente distribuzione della cultura di base, cioè il possesso medio di una serie di abilità che possono essere utilizzate nella vita di tutti i giorni. Leggere, scrivere, contare, eccetera. Questa cultura di base mette in grado l’uomo medio di essere consumatore: mette in grado di prendere la patente, di leggere i libretti delle istruzioni degli apparecchi, di seguire una canzonetta, oppure di vedere un programma televisivo, di fare la dichiarazione dei redditi, di andare a votare. È indubbio che, rispetto alle generazioni precedenti, la cultura di base si sia innalzata considerevolmente, anche se è valutazione comune che il livello medio attuale (soprattutto in Italia) sia ancora piuttosto insufficiente, soprattutto se confrontato con quanto accade in altri paesi.[1] La diffusione di Internet pare abbia ulteriormente moltiplicato la sensazione di una crescita imponente della cultura di base: chiunque può avere a disposizione in ogni momento una quantità colossale d’informazione in qualsiasi formato, scritto, visivo o audiovisivo.
Ebbene, questa imponente crescita, peraltro insufficiente come s’è detto, della cultura di base pare proprio stia uccidendo la nozione della cultura come differenza. La generalizzazione a un’ampia fascia della popolazione della cultura di base ha prodotto una colossale illusione prospettica, ha prodotto la convinzione che sia stato finalmente realizzato il sogno di una cultura uguale per tutti e che quindi non ci sia nessun’altra cultura da conquistare. La nozione della cultura come differenza, come eccellenza, è anzi accusata di essere una sopravvivenza di altre epoche, una concezione elitaria, autoritaria, antidemocratica, una concezione sorpassata. Nei giorni nostri, anche grazie alle nuove tecnologie, tutti sarebbero ormai in grado di produrre cultura. La cultura di base diffusa dà il senso dell’uguaglianza e – attraverso le nuove tecnologie – il senso dell’onnipotenza. Cosa ci può essere di altro? In questa nuova situazione, è pur vero che la complessità e l’eccellenza non sono del tutto ignorate, anche perché talvolta sono piuttosto utili, ma vengono sempre più confinate e catalogate nella categoria della specializzazione. Lo specialista è l’utile idiota da sfruttare quando serve, ma lo specialista non ha nulla da insegnare di culturalmente rilevante. Anzi, talvolta lo specialista viene considerato come unilaterale, ottuso. Si riconosce dunque  che la differenza di eccellenza c’è, ma è legata a una specializzazione, per cui questa, in fin dei conti, non conta come differenza culturale.[2]
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Grazie a questa generalizzazione della cultura di base sembra dunque che oggi si viva in una società dove, rispetto a un passato recente, non ci sia più alcuna carenza di cultura: chiunque lo desideri, con un minimo di investimento, pur non potendo diventare immediatamente uno specialista, può frequentare, acquisire qualunque tipo di esperienza culturale. La cultura è a disposizione di tutti e tutti possono scegliere. Siamo cioè in presenza di un mercato culturale che potremmo definire maturo.
Grazie proprio alla maturità del mercato culturale, oggi ci troviamo di fronte a un campo indistinto, il campo della cultura di massa, popolato da un’enorme varietà di proposte, tutte in via di principio accessibili, talvolta estremamente differenziate al proprio interno, con bassissimi costi di accesso, cui ciascuno può accedere a seconda del desiderio momentaneo, delle proprie abitudini, dei propri progetti. Ciascuno sceglie sul mercato della cultura secondo la legge di Dember, sceglie cioè quei prodotti culturali che siano compatibili con il proprio massimo livello di inner complexity. Questa situazione, peraltro, fa sì che 1) gli individui tendano a riprodurre costantemente la propria posizione sul proprio specifico mercato culturale locale e che, quindi, 2) si formino tra gli individui delle barriere invisibili che non sono determinate da alcuna costrizione esterna ma sono determinate esclusivamente dalle loro scelte volontarie. Possiamo immaginare una specie di forza di gravità nascosta che tende a far sì che ciascuno continui a ruotare e a rimanere indefinitamente all’interno del proprio tipo di consumi.
Naturalmente accade spesso che queste isole di consumo culturale non siano prettamente individuali ma che siano condivise da gruppi di comuni conoscenti e frequentatori, non necessariamente nel senso di una presenza fisica (sono ormai ampiamente possibili anche gruppi di tipo virtuale). I social network sono l’esempio tipico di questa tendenza alla segmentazione delle relazioni, dei linguaggi e del consumo culturale. Possiamo dunque presumere che, in ciascuna isola di consumo, si stia determinando una tendenza verso la stabilità e una scarsa propensione al cambiamento. In una situazione del genere, qualunque fatto nuovo può appena smuovere le acque e poi tutto torna come prima. Il cambiamento può avvenire soltanto in seguito a qualche tipo di crisi, oppure in seguito all’immissione sul mercato di qualche prodotto particolare che sia in grado di sfondare il confine delle isole e di attrarre un numero rilevante di consumatori.
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Una questione rilevante è dunque costituita proprio dal fatto che la cultura è assimilata a merce sul mercato e che l’individuo si percepisce come consumatore di una merce. Poiché la cultura non è certo un bene primario, necessario alla sopravvivenza (come il cibo,...), la domanda di cultura sarà costantemente piuttosto debole e quindi il mercato sarà in un certo senso guidato dall’offerta, la quale tuttavia deve tener conto delle diverse isole. Una situazione dunque di offerta sempre più polverizzata che cerca di adattarsi ai livelli di complessità interna degli individui che sono sempre più diversi e imprevedibili.
In una situazione di questo genere la cultura diventa un equivalente della merce allineata sugli scaffali di un supermercato, in attesa del compratore. È questa, in un certo senso, la situazione delineata dai teorici del postmoderno. Tutto si equivale, non è più possibile istituire gerarchie di valori, tutte le vecchie gerarchie di valori vengono travolte, vengono meno tutti i confini e tutte le regole, si creano continuamente combinazioni o contaminazioni tra elementi talora assai eterogenei, la cui consistenza ha una durata assai breve. Qualunque tentativo volto a imporre un ordine, una struttura, una gerarchia è destinato al fallimento per la resistenza da parte delle isole. Quel che rimane è un gioco combinatorio che si alimenta da se stesso, che costruisce e distrugge continuamente le proprie forme, usando le deiezioni più disparate. È il trionfo della logica del bricolage. Dal punto di vista del pubblico questi processi sono guidati da atteggiamenti momentanei, da frazioni dell’io, dalle emozioni e dai sentimenti. Una qualunque logica organizzatrice è destinata a essere messa in secondo piano. Dal punto di vista dei produttori si apre il campo dell’uso manipolatore del mercato culturale: si tratta tuttavia di una manipolazione morbida, che consiste essenzialmente nel dare a ciascuno quello che ciascuno in fondo vuole o crede di volere, momento per momento, moda dopo moda.
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L’universo delle infinite gerarchie potenzialmente presenti sul mercato culturale elimina dunque qualunque gerarchia, qualunque eccellenza. Se la verità non esiste più (si veda Vattimo) allora non resta che ricorrere al condizionamento, alla persuasione o al potere. Per esistere culturalmente non occorre tanto seguire canoni o mostrare qualche tipo di eccellenza, poiché questi non sono più riconoscibili; bisogna invece mettersi in qualche vetrina, bisogna proporsi a qualche tipo di pubblico, bisogna mettersi in qualche canale. Bisogna insomma esercitare qualche tipo di attrazione, persuasione o potere. Per giunta, la capacità di stare sulla scena non può che essere sempre momentanea, per cui qualsiasi posizione conquistata è sempre minacciata. Può sempre comparire un attrattore più forte che ruba la scena. È il trionfo della cultura istantanea.
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Se è vero che la cultura sta principalmente nella differenza, nella complessità, nell’eccellenza, si prospetta allora l’esigenza di riconoscere, contro queste tendenze alla massificazione, che non c’è cultura senza forma, senza gerarchie (comunque queste gerarchie si vogliano produrre e conservare). Illudersi che la giustapposizione di elementi sparsi senza alcuna gerarchia sia cultura è soltanto demenziale. Un progetto culturale è sempre una proposta, parziale e arbitraria fin che si vuole, di organizzazione gerarchica. Il dibattito culturale verte proprio intorno ai criteri, alle regole. Solo così si costruisce un canone. Chi invece dà per scontato che il canone non c’è (o che non c’è più, o che non è più possibile, o che se c’è deve essere distrutto) si limiterà a fare il collezionista di oggetti che luccicano, come le gazze, ma questi, una volta presi tutti insieme, costituiranno soltanto un mucchio. Il fatto che il mucchio sia democraticamente distribuito non lo rende meno mucchio.
La legge dell’entropia spiega che è molto facile distruggere le complessità organizzate. Le cose si distruggono addirittura da sole. Non altrettanto facile è costruire, generare la complessità e l’eccellenza implica un enorme dispiego di energia e di sforzi. Tutti i canoni, tutti gli ordini, tutte le regole possono facilmente essere distrutti. Qualcuno può anche trovare bello l’atto distruttivo, ma il caos in sé non può, per definizione, avere alcuna bellezza. Il caos è come la notte in cui tutte le vacche si somigliano.
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La preponderanza dell’uniformità entropica ha portato, e sta sempre più portando, all’emarginazione di quella che era considerata la cultura delle élites, la cultura della distinzione, la cultura legittima. Con risultati che sono difficili da prevedere in tutte le loro conseguenze.
Quando c’era la cultura legittima c’era comunque una gerarchia ben precisa. Si trattava indubbiamente di una gerarchia legata al potere politico, alle divisioni in classe. Una gerarchia che escludeva pesantemente gli estranei, che era anche usata per opprimere. Per molto tempo la religione ha impersonato la cultura legittima, o comunque ne ha costituito parte fondamentale. Il caso più clamoroso è il possesso della tecnica della scrittura, che ha assicurato per secoli il predominio di certi gruppi sociali su altri. La gerarchia istituita comportava tuttavia anche un certo ordine nella conoscenza e nelle relative applicazioni. Implicava dei modi di essere. In molti casi queste forme di ordine, nate originariamente in ambienti intellettuali ristretti, sono diventate elementi indispensabili dell’identità individuale. Basti pensare alla coscienza socratica.
La presenza della differenza ha naturalmente creato la possibilità del sovvertimento, della rivoluzione. Nel passato molti sovvertimenti della gerarchia culturale stabilita avvenivano tramite la conquista. Il nuovo padrone imponeva i suoi criteri, i suoi gusti. Ma anche in passato si conoscono casi in cui i conquistati hanno colonizzato culturalmente i vincitori. Il caso più clamoroso è quello dei greci nei confronti dei conquistatori romani. Ma vale anche per gli ebrei nei confronti dei romani.
A partire dall’età moderna si è affermato il sogno del sovvertimento radicale della gerarchia culturale stabilita, per la costruzione di una nuova società e con ciò di una nuova cultura: il sogno della rivoluzione. Se alcune rivoluzioni hanno avuto qualche parziale successo, va detto che la maggior parte delle rivoluzioni ha fallito miseramente, ha fallito proprio e soprattutto in campo culturale. L’eliminazione radicale della vecchia cultura per fare da zero «l’uomo nuovo» si è rivelato un progetto folle e irrealizzabile. Possiamo citare l’esperimento delle comuni cinesi, l’esperimento criminale in Cambogia dei Khmer rossi. Ma possiamo anche citare le controculture degli anni Sessanta. Il cambiamento culturale è per sua natura un cambiamento lento. Può darsi che oggi, grazie alla velocità del web ci possa essere una qualche velocizzazione. Il fatto è che spesso i cambiamenti imposti dall’esterno sono superficiali e sotto il velo dell’apparente modernità spesso si nascondono drammaticamente elementi arcaici che sono pronti a riprendere il loro posto.[3]
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Quando si parla di cambiamento culturale si pensa al passaggio da una strutturazione a un’altra, diversa e nuova. Insomma il passaggio tra due canoni, tra due orizzonti gerarchici. Tuttavia, come aveva già perfettamente colto De Martino, non sempre c’è la transizione a un nuovo ordine. Sempre più spesso, nella società contemporanea, sembra che si manifestino dei fenomeni di pura perdita dell’ordine, di appiattimento, di destrutturazione. Ebbene, per i nichilisti, per i teorici della «società liquida» e per i comunitaristi sembra che la condizione della destrutturazione, dell’appiattimento, dell’anomia e del disordine, sia la condizione normale, il futuro che ci aspetta. Qui si vede con chiarezza il masochismo di certi intellettuali che hanno fatto dell’anti intellettualismo la loro ragione di vita. I teorici della cultura di massa, della cultura come supermarket, hanno rinunciato all’ordine, credendo di avere scoperto che non c’è alcun ordine assoluto. La perdita dell’assoluto li ha sconvolti e ha bruciato loro il cervello. Certo che non c’è alcun ordine assoluto, sullo sfondo della comunicazione c’è soltanto il rumore. Costoro, una volta scoperto che la comunicazione non è un assoluto, hanno pensato di fare del rumore il loro assoluto. La cultura è lavoro, fatica, elaborazione, costruzione lenta e tenace. I profeti del rumore assoluto si divertono soltanto a sfasciare quel che i volenterosi (che sono rimasti in pochi) cercano di costruire. «Vedete? Ve lo dicevamo che sotto c’è soltanto il rumore!»
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Questa esaltazione della perdita dell’ordine è dovuta al fatto che la società di massa e la cultura di massa hanno proditoriamente confuso il pluralismo politico con il relativismo culturale. Per costoro il pluralismo politico talora rasenta l’anarchismo, e comunque implica la fine di ogni distinzione, di ogni eccellenza culturale, di ogni differenza. La perdita dell’ordine è vissuta come una liberazione dalle catene, come una sorta di improbabile emancipazione.
Il fatto che, in una società democratica, valga il principio «una testa un voto» non implica certo che in realtà tutti siano effettivamente uguali. Anzi, il principio suddetto può essere condiviso solo se si procede ad astrarre da tutte le differenze che caratterizzano i singoli. Possiamo considerare gli individui come uguali proprio perché ci imponiamo implicitamente di non tener conto di una miriade di differenze, che ci sono. Tra queste differenze, c’è proprio la differenza culturale, quella che è il grado di generare l’eccellenza.
È senz’altro vero anche che la democrazia politica implica la libertà di coscienza, cioè la libertà di decidere in base alla propria coscienza. Si tratta di un principio sacrosanto. Il quale principio tuttavia, nella società di massa, viene comunemente esteso con grande generosità, dal campo politico al novero delle credenze e, più in generale, all’ambito della cultura. Si ritiene quindi di avere il diritto di credere in qualsiasi cosa, si ritiene che qualsiasi elemento di cultura sia legittimo, purché condiviso da qualcuno (in tal caso si formerebbe una comunità). Si profila così la possibilità che ogni gruppetto si costruisca la propria cultura insindacabilmente (è la tesi del relativismo culturale e delle teorie comunitaristiche).
Ora, uno degli elementi fondamentali che caratterizzano la democrazia – anche se è spesso stato considerato come un implicito – è che per decidere intorno al bene comune gli individui debbano discutere, confrontarsi, ragionare. In una situazione di estrema frammentazione comunitaristica non sarà possibile alcuno spazio pubblico di discorso condiviso che abbia un minimo di regole e di efficacia. Ci sarà solo lo scontro degli interessi delle varie prospettive: ciascun gruppo porterà avanti, con il massimo della pressione, le proprie richieste particolaristiche e non ci sarà alcun interesse a produrre regole e gerarchie universalistiche. Qualunque canone sarà visto come una imposizione autoritaria.
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La scienza non è democratica, perché non basta che siano in tanti a sostenere una certa ipotesi. Una minoranza, con un esperimento ben congegnato, in ogni momento può smentire la maggioranza. Le leggi scientifiche, per fortuna, non si decidono con il voto. Su questo almeno si può essere tutti d’accordo. Il fatto è – e ciò non viene quasi mai riconosciuto - che lo stesso vale per la cultura, per la complessità e per l’eccellenza. Se il consumo culturale può essere pluralistico e sottoposto ai gusti della massa, non è vero però che la cultura è riconducibile a un mero pluralismo e che, quindi, una maggioranza possa essere chiamata a dettare legge in fatto di cultura. Non è detto che la maggioranza sia in grado di riconoscere l’eccellenza (si pensi sempre alla legge di Dember). Anzi, se l’eccellenza fosse immediatamente riconosciuta dalla maggioranza, probabilmente questa non sarebbe più un’eccellenza. L’eccellenza va soggetta alla legge dell’inflazione culturale: quando la possiedono tutti, non vale più in quanto eccellenza.
Il problema dunque è analogo a quello che si presenta nel caso della scienza. Se esista cioè un criterio di gerarchizzazione in base al quale valutare il risultato ottenuto. Per la scienza l’idea è che, in un modo o nell’altro, ci sia un «mondo esterno» con cui le teorie scientifiche hanno a che fare. Per la cultura, più in generale, l’idea è quella che la cultura possieda dei meccanismi di selezione e di adattamento. Una specie di meccanismo di prova ed errore, radicato nella natura, nella storia e nella società stessa, che in un certo senso «risponde» ai costrutti culturali determinandone la compatibilità o la falsificazione. Se questo è vero, questo vuol anche dire che non tutte le «culture» sono altrettanto bene adattate. Non tutte sono equivalenti.[4] Ci sono degli elementi culturali che sono obiettivamente regressivi e che pertanto vanno messi da parte.[5] Non si può conservare e riprodurre tutto indifferentemente (come alcuni vorrebbero). Ci sarà un motivo per cui certe specie si sono estinte. Bisogna recuperare un punto di vista in cui abbia ancora un senso domandarsi quale sia la cosa migliore da farsi, quale sia la cosa assolutamente da evitare. L’idea dell’evoluzione culturale – che si sta affermando contro tutte le chiacchiere relativiste – implica riprendere a confrontarsi con la nozione del valore, tanto bistrattata. Non certo nel senso di valori assoluti, ma nel senso di ciò che è meglio in termini di adattamento.
 
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Se la cultura di base può essere (giustamente) accresciuta quanto si vuole, quanto è possibile, la cultura autentica, come del resto la scienza, non potrà mai essere completamente democratizzata e distribuita uniformemente. Questo perché, se deve esserci cultura, ci deve sempre essere uno scarto tra l’eccellenza e il resto. E questo scarto, paradossalmente, deve essere il più ampio possibile. Incolto, oggi, non è soltanto chi non ha la cultura di base, incolto, soprattutto oggi, è colui che non è in grado di apprezzare l’importanza di questo scarto. Chi non capisce che questo scarto deve essere mantenuto perché è la fonte stessa della ricchezza culturale, della dinamica della cultura. L’eccellenza non ha mai fine, ed è bene che sia così. Le società più progredite sono quelle che sanno riconoscere l’eccellenza, la sanno produrre e riprodurre, la sanno selezionare attraverso il confronto e la critica. Le società più progredite sono quelle che sanno mettersi costantemente in una relazione di dipendenza nei confronti dell’eccellenza.
 
28/09/2014
                                                                      Giuseppe Rinaldi
 
 
NOTE
 
 
[1] Le statistiche sulla diffusione dell’alfabetizzazione nel nostro Paese sono sconsolanti.
[2] Usare Bach o Beethoven per fare la pubblicità a una marca di automobili o alla pasta Barilla è un modo per far conoscere Bach e Beethoven sterilizzandone però la differenza culturale.
[3] Ciò è dovuto al fatto che il mondo esterno può anche cambiare velocemente, ma il mondo interno (le identità individuali) non cambiano altrettanto facilmente, sono il frutto di stratificazioni avvenute nel corso della educazione, della vita intera. Gli individui sono conservatori, perché incamerano quel che esperiscono e lo conservano.
[4] Il motivo di questa non equivalenza sta nel fatto che le culture non sono sistemi chiusi autoperpetuanti. Le culture sono sempre sistemi aperti, in interazione con un ambiente, che è sempre un elemento altro, una entità estranea che ha il potere di dire di «sì» oppure di dire di  «no». Nessuna cultura controlla tutte le variabili del proprio ambiente, nessuna cultura è autosufficiente. Tutte le culture sono esposte alle dure smentite della realtà. E non vale sostenere che la nozione stessa di realtà è un prodotto culturale. Certo, ci sono culture che vanno soggette alla tracotanza della autosufficienza. Altre sono più attente a venire a patti con il loro ambiente. Si vedano, in proposito, i lavori di Diamond. 
[5] In questi giorni, in alcune zone africane infestate dall’ebola, gruppi appartenenti alle popolazioni locali hanno assaltato gli ambulatori e le postazioni dei medici e degli infermieri, alcuni dei quali sono stati massacrati. La loro tesi è che l’ebola non esiste, è un’invenzione dei colonizzatori bianchi, e che l’ebola sia solo una scusa per occupare il loro territorio. Curiosamente queste tesi sono molto simili a quelle dell’epistemologo Latour, il quale spiega che i concetti scientifici sono arbitrari e fabbricati nei laboratori. Se prevalessero queste tesi (che sono prettamente ipotesi culturali) buona parte dei territori dell’africa sarebbero spopolati e la loro cultura sparirebbe a causa della dura legge della selezione naturale.
 

mercoledì 24 settembre 2014

L’estinzione del sindacato (1.1)

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Si poteva presumere da anni che si sarebbe arrivati a questo punto. Eppure nulla è stato fatto. In Italia continuiamo ad avere una situazione anomala che dura dal dopoguerra e che risale al periodo della Guerra fredda. Abbiamo non uno ma tre sindacati (più una ridda di altri sindacati di vario genere). Si chiamano confederali, ma questa è una pia etichetta, poiché la Confederazione è una pura facciata e non agisce quasi mai in modo unitario. Si tratta di una divisione che corrisponde a un’altra epoca, a concezioni del sindacato che sono ormai sparite, come quella del «sindacato di classe», oppur come la famosa teoria della «cinghia di trasmissione». Dal punto di vista storiografico, si potrebbe sintetizzare la questione con il fatto che, nell’ambito della Repubblica dei partiti,[1] i partiti si sono spartiti anche il sindacato.  Se la Repubblica dei partiti sta finendo rovinosamente, non è chiaro come questi sindacati, di antica e verace emanazione partitica, possano sperare di farla franca.

Peraltro, di fronte a questa vergognosa spaccatura, sono cinquant’anni che si sente parlare, invano, di unità sindacale. L’unica novità è che ora non se ne parla neppure più. Almeno fino a qualche decennio fa sussisteva ancora una certa vergogna per questa situazione di divisione, cosa per cui tutti remavano di fatto contro l’unità sindacale, ma si sgolavano ad assicurare che si stavano impegnando per l’unità sindacale. Neanche nel periodo degli anni Settanta, in cui il movimento operaio ha effettivamente fatto sentire dal basso la sua voce, si è proceduto a realizzare l’unità sindacale. La sola esperienza unitaria è stata quella della FLM, che è stata poi ben presto liquidata (era durata dal 1973 al 1984), non dal nemico di classe, ma dall’interno del sindacato stesso. I delegati eletti su scheda bianca – requisito fondamentale per andare oltre le sigle - hanno lasciato il posto a rappresentanze sindacali che sono costituite di nominati di fatto (e ciò – si badi bene - è accaduto ben prima dei nominati nelle liste elettorali). Il fatto che ora non si parli neppure più di unità sindacale e si dia per scontato il fatto di avere tre sindacati «confederali» continuamente divisi indica la ormai raggiunta totale autoreferenzialità delle tre sigle. Tale è la pervasività delle narrazioni ideologiche dei tre sindacati che a chi scrive non è mai capitato di sentire nessuno degli ambienti sindacali sostenere qualcosa del tipo «Se siamo arrivati a questo punto è perché eravamo divisi».

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Il sindacato lottizzato, tipico della Repubblica dei partiti, ha intanto lentamente mutato la sua natura, da sindacato di classe a sindacato di servizi.[2] La tessera non è più espressione di militanza (i militanti spesso danno addirittura fastidio) ma rappresenta, di fatto, il corrispettivo pagato per l’acquisto di protezione e di un certo numero di privilegi (principalmente per coloro che il posto ce l’hanno già) e di servizi.[3] Ben vengano i servizi.

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Intanto i sindacati continuano, in Italia, a non avere alcuna regolamentazione. I tre sindacati sono riusciti a percorrere questa lunga fase della storia repubblicana riuscendo a impedire qualunque applicazione del dettato costituzionale che imporrebbe una legge di regolamentazione dell’attività sindacale.[4] Attualmente i sindacati non hanno personalità giuridica definita, ma si comportano come se l’avessero. È una tipica situazione italica. Così abbiamo anche visto sindacati fasulli, con un numero finto di iscritti, ascendere rapidamente e altrettanto rapidamente decadere. Abbiamo visto anche l’ascesa e il declino del «sindacato padano» anche dopo la crisi della Repubblica dei partiti. È probabile che un dopolavoro o una società sportiva abbiano una personalità giuridica più definita e più controlli di un comune sindacato. Il fatto è che questo costume ormai è così consolidato che oggi nessun parlamento sarebbe più in grado di regolamentare le organizzazioni sindacali, le quali possono così continuare a sfuggire a ogni limite e a ogni controllo. Soltanto da poco alcune organizzazioni (come la FIOM) chiedono una legge sulla rappresentanza sindacale, che esse tuttavia intendono soprattutto in termini di specificazione di diritti. Una simile legge dovrebbe invece anche regolamentare l’attività stessa dei sindacati, secondo quanto previsto dall’art. 39 della Costituzione. Recentemente,[5] nell’ambito del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, Renzi ha rilanciato l’idea di una legge sulla rappresentanza sindacale, di cui però non sono noti gli indirizzi.

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Se la rappresentanza dei lavoratori è oggi di fatto resa monca dal fatto che i rappresentanti sindacali oggi non sono espressione diretta dei lavoratori, ma sono più che altro espressione delle diverse sigle, anche la democrazia interna alle organizzazioni sindacali (che non ha alcun controllo formale esterno) è una finzione sempre più palese. Oggi un sindacato, in Italia, potrebbe scrivere nel suo statuto che le cariche si trasmettono per diritto ereditario e non avremmo nessuno strumento giuridico per invalidare quello statuto (se non una riga dell’art. 39 della Costituzione che non ha mai avuto traduzione giuridica). Del resto, al di là di quel che sta scritto negli statuti, nei sindacati le carriere interne si fanno principalmente per cooptazione, cioè per fedeltà e non per merito. Questo ha portato, anche nel sindacato, all’affermazione della ben nota selezione dei peggiori, quello stesso meccanismo che ha progressivamente rovinato il personale politico dell’intera sinistra. E i risultati si vedono, a livello nazionale come a quello locale. Per giunta i pezzi grossi del sindacato, dopo avere scalato tutti i gradini della carriera interna, spesso si danno alla politica o ricevono importanti e lucrosi incarichi nella Pubblica Amministrazione. I sindacalisti prestati alla politica non fanno poi che difendere le prerogative dei sindacati, così come sono. Ci si lamenta spesso del fatto che i magistrati ogni tanto si danno alla carriera politica. Sembra invece che per i sindacalisti sia una cosa che appare del tutto normale all’opinione pubblica (la vecchia cinghia di trasmissione funziona sempre!).

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I nostri tre sindacati sono eminentemente italici e portano con sé naturalmente tutti i difetti dell’Italia. Sarà per questo che non si sono ancora accorti che esiste l’Europa. Essi, infatti, si guardano bene da operare una cessione di potere nei confronti di un’organizzazione sindacale europea. Quest’assurdo confinamento nazionale dei sindacati, di fronte allo sviluppo della UE, avviene soltanto per difendere le poltrone nazionali, che nel nostro caso, come si è visto, sono moltiplicate per tre. Non prospettandosi un sindacato europeo non si prospetta neppure una politica sindacale europea. Ciò espone il sindacato a una situazione di grande disomogeneità da un paese all’altro e quindi in una situazione di grande debolezza. Molte politiche europee passano completamente sulla testa dei sindacati. Con la pretesa della specificità di ogni paese, i sindacati continuano a stare chiusi nei confini nazionali per gestire il loro spazio che tuttavia si sta facendo sempre più esiguo.

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I sindacati italiani così sono diventati degli organismi conservatori. Sul conservatorismo dei sindacati italiani è già stato scritto molto e c’è sempre il rischio di ripetersi. Il massimo di resistenza conservatrice dei sindacati si esercita nel rifiuto di qualunque forma di partecipazione alla gestione dell’impresa, nel rifiuto di forme universali di tutela, come ad esempio il reddito minimo garantito[6] e nella difesa strenua del meccanismo della CIG, che difende solo gli occupati. Queste posizioni miopi si giustificano soltanto con la difesa strenua del ruolo tradizionale stesso del sindacato. Ormai il sindacato contratta solo più i licenziamenti e gli istituti di cassa integrazione sono fondamentali per garantire questo ruolo del sindacato. L’istituzione di un reddito minimo garantito o di qualche forma di partecipazione alla gestione delle aziende diminuirebbe immediatamente il potere delle attuali burocrazie sindacali.

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La difesa strenua da parte dei sindacati di coloro che hanno già il posto di lavoro - anche questa analisi è arcinota - ha prodotto un mercato del lavoro duale, che vede una netta contrapposizione tra garantiti e non garantiti. Tra i non garantiti poniamo anche l’enorme massa degli stranieri (dai lavoranti stagionali alle badanti) e l’enorme massa dei giovani. Ciò ha fatto sì che nessuno abbia preso in seria considerazione tutti quegli istituti – presenti in molti Paesi – che governano attivamente il mercato del lavoro, che assistono autenticamente chi deve fare il primo ingresso, oppure chi perde il lavoro, o chi deve essere riqualificato e reinserito. Così accade che nel nostro paese il canale che funziona ancora di più per trovare un posto di lavoro sia quello della conoscenza personale e della raccomandazione. E questo aggiunge ancor più ingiustizia alla situazione. Alle imprese questa situazione va benissimo.  Se vogliamo aggiungere ancora qualcosa per completare il quadro, possiamo chiamare in causa la situazione disastrosa della formazione professionale, che è estremamente disomogenea da zona a zona del paese, che spesso è in mano a clientele che consumano solo soldi pubblici (cui talvolta non sono estranei gli stessi sindacati o la stessa sinistra) che abbisognerebbe di una seria riforma che, tuttavia, chissà perché, tra politici e sindacati, è sempre stata impedita, rinviata o trascurata. Anche nelle recenti proposte di riforma della scuola del governo Renzi, non si parla di una seria riforma dell’istruzione professionale: si vede che si da già per scontato che quelli che studiano poi non avranno mai un lavoro.

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La situazione di cul de sac in cui il sindacato si è cacciato, con le sue stesse mani, fa sì dunque che esso si dimostri completamente incapace di affrontare la questione di una riforma del mercato del lavoro. È la questione scottante all’ordine del giorno. I nostri tassi di disoccupazione sono tra i più alti. Il nostro costo del lavoro tra i più alti, la nostra produttività tra le più basse. Capirebbe anche un bambino che così non si può andare avanti. Per fortuna c’è l’Europa, quella del perfido capitalismo finanziario, che ci martella e che ci sta praticamente imponendo di fare una seria riforma del mercato del lavoro. Siamo ormai l’unico paese – a quanto pare stando alle recenti statistiche – che proprio non cresce, neanche di qualche decimale. Dunque non possiamo dare la colpa agli altri. I problemi sono nostri, ce li portiamo dietro da decenni e, soprattutto, non li vogliamo risolvere, perché questo metterebbe fuori gioco questo meccanismo parassitario in cui i sindacati svolgono un ruolo non da poco.

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Il sospetto è che tra questo sindacato immobile e parassitario e la nostra struttura industriale arretrata ci sia una corrispondenza precisa, una funzionalità reciproca: si tratta di due nullità che si sostengono a vicenda, tirano a campare e che, insieme, affossano qualsiasi sviluppo. Il vero denominatore comune di questa Santa Alleanza è costituita dal fatto che, in entrambi i casi, il merito non conta nulla: sindacalisti cooptati senza merito che si intrattengono in una sequenza di infiniti «tavoli» inconcludenti con imprenditori senza merito che fanno affari solo grazie agli aiuti di Stato, alle connivenze politiche, finanziarie e talvolta anche mafiose. Sono solo due facce della stessa medaglia. Si tratta sempre di gente che sopravvive grazie ai traffici con la politica e il sottogoverno. Se si vuole un bell’esempio, da cui ci sarebbe davvero molto da imparare, si veda il pastrocchio assassino di politica, sindacato e impresa che si è realizzato all’Ilva di Taranto. La massima aspirazione di questi sindacati è quella di «fare un tavolo». Purtroppo per loro è davvero finita l’epoca dei tavoli. Perché questo Paese non ce la fa più a mantenere quelli che «fanno i tavoli».

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Il sindacato è sempre più destinato a vendere protezione individuale a coloro che – sono sempre meno – un lavoro ce l’hanno già, in cambio della tessera e della fedeltà. È sempre più destinato a proteggere tutti i piccoli corporativismi e le rendite di posizione, cioè tutto quel che dovrebbe essere eliminato da una seria politica di riforme. Hanno fatto lo sciopero alla RAI contro i tagli delle spese decisi dal governo, hanno rischiato di mandare a monte la trattativa Alitalia –Etihad, ultima chance dopo una serie di errori incredibili, si oppongono a qualsiasi riforma della scuola che smuova quell’apparato elefantiaco e inefficiente che si è accumulato per anni, proprio grazie all’immobilismo di governi e sindacati. La stessa battaglia sulla «bandiera», ormai del tutto simbolica, dell’articolo 18 (su cui peraltro i tre sindacati sono divisi) mostra ormai quello che tutti sanno, che «il re è nudo».[7] Il sindacato si oppone a tutto, ma non riesce a impedire nulla.

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Il fatto è che il sindacato in Italia è ormai un sindacato senza cultura, privo di qualunque visione che non sia il mero tirare a campare. L’avvento di dirigenti e funzionari selezionati col metodo della promozione dei peggiori ha aperto la strada alla totale mancanza di cultura, a tutti i livelli dell’organizzazione. Sono stati eliminati accuratamente tutti i rapporti di collaborazione che si erano instaurati, negli anni settanta, con gli intellettuali di punta, con il mondo della ricerca, con giuristi del lavoro, psicologi del lavoro, sociologi ed economisti. Oggi i Centri Studi dei sindacati pubblicano ogni tanto dei grafici e commentano le percentuali, tanto per avere qualche citazione nei TG. La conoscenza approfondita dei trend economici, dei processi produttivi, delle innovazioni, dell’organizzazione del lavoro, del mercato del lavoro è venuta completamente meno. Non si conoscono neppure le esperienze degli altri sindacati europei. Non c’è più nessuna produzione e organizzazione consapevole di conoscenza e ci si limita a correre dietro all’emergenza. Le pratiche quotidiane non corrispondono più ad alcuna strategia. Non è stata neanche mantenuta la sensibilità di archiviare i documenti interni, per poter permettere la ricostruzione di una storia del sindacato e dei lavoratori. Siamo di fronte a un sindacato che vive di pratiche burocratiche quotidiane, delle quali si dà già per scontato che non debbano avere storia. Del resto basta guardare i siti web delle organizzazioni sindacali per rendersi conto del dilettantismo e del pressapochismo in cui il sindacato è caduto.

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Il sindacato italiano – ormai è del tutto chiaro, basta ascoltare le dichiarazioni che la Camusso fa in TV - non ha più al proprio interno le energie, la capacità, la visione per rinnovarsi. All’interno, coloro che sono più consapevoli e che ci provano (certo, per fortuna qualcuno c’è ancora) sono emarginati oppure ridotti a minoranza. Questo declino di una specie ormai incapace di adattarsi ai mutamenti ambientali (quindi profondamente stupida – in senso tecnico) fa veramente pena. I lavoratori italiani, i giovani, i disoccupati non si meritavano certo tutto ciò. Non se lo meritavano neanche i militanti sindacali, spesso decisamente migliori dei loro dirigenti. E tutto ciò purtroppo, ancora una volta, essi lo pagheranno caro, lo pagheranno interamente. In questa situazione di avvitamento non potrà che affermarsi il principio schumpeteriano della «distruzione creatrice». Si tratta purtroppo del metodo più meccanico e più feroce per procedere all’innovazione, poiché comporta la distruzione di quel che non funziona più e la sua sostituzione con qualcosa di completamente diverso. Sembra proprio che non ci sia altra strada. Prima accadrà, meglio sarà per tutti. Gli ultimi baluardi su cui si regge questo sindacato sono ormai soltanto le stesse sacche d’inefficienza e d’immobilismo che rischiano di distruggere il Paese. Se vorremo rimettere in moto il Paese, quelle sacche d’inefficienza e d’immobilismo dovranno essere travolte e con esse il sindacato attuale che rifiuta testardamente il cambiamento. La prossima riforma da fare – se la politica fosse davvero lungimirante – sarebbe quella di dar seguito all’articolo 39 della Costituzione e di produrre una coraggiosa legge sui sindacati che ci dia finalmente un sindacato moderno, possibilmente uno solo, unitario, democratico al proprio interno, radicato nei luoghi di lavoro, centrato sui delegati, europeo, non ideologico, capace di stare all’altezza delle sfide del futuro e di difendere autenticamente il lavoro, di sviluppare una cultura del lavoro e non soltanto di difendere la propria comoda e futile autoreferenzialità. Staremo a vedere.

 

24/09/2014

03/10/2014 (rev.)

Giuseppe Rinaldi

 

 

 

NOTE

 

[1] Il riferimento va alla nota analisi di Scoppola.

[2] Con ciò non voglio intendere che il sindacato debba ritornare a essere un sindacato di classe. Nella società democratica i sindacati rappresentano gli interessi delle categorie economiche.

[3] Recentemente il governo Renzi ha dimezzato i distacchi sindacali. Perché non eliminarli del tutto? Qualcuno l’ha spiegato? Evidentemente anche il governo Renzi deve pagare il suo tributo. Si vada a vedere chi sono coloro che normalmente vengono distaccati. Sono coloro che rappresentano effettivamente i lavoratori, oppure sono i più fedeli al sindacato?

[4] L’art. 39 recita: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

[5] Settembre 2014

[6] Il reddito minimo garantito è una forma di reddito minimo che viene dato a tutti coloro che sono in età lavorativa e il cui reddito sia inferiore a una determinata soglia di povertà. Può variare in funzione dell’età. L’obiettivo è di combattere la povertà (di abolirla, almeno statisticamente). Può essere definito anche reddito di garanzia. Può essere compatibile anche con un reddito da lavoro se questo non raggiunge la soglia minima. Nell’individuazione dei beneficiari può essere tenuto conto dei redditi dell’intero gruppo familiare. Di solito si chiedono al beneficiario delle contropartite, come l’accertamento dell’effettiva situazione economica e la ricerca attiva di un lavoro. È un istituto assai diffuso nei paesi della UE, tipico del modello sociale europeo. Non va confuso con il salario minimo garantito che è per legge la paga oraria minima che il datore di lavoro deve corrispondere. Non va neanche confuso con il reddito di base (anche reddito di cittadinanza o reddito universale) che è, invece, nella sua forma più pura, un reddito concesso a tutti i cittadini in quanto cittadini, indipendentemente dal reddito o dalla condizione lavorativa. In tal caso il reddito di base va ad aggiungersi agli altri eventuali redditi. Questa è una forma assai meno frequente del reddito minimo garantito. La grande confusione terminologica che circola in Italia deriva anche dal fatto che il M5S ha elaborato una sua proposta di legge che porta come titolo «Reddito di cittadinanza» ma che è in realtà una proposta di reddito minimo garantito, unita a un salario minimo garantito.

[7] In questa battaglia di retroguardia, i sindacati sono spalleggiati da alcune correnti di minoranza del PD, le quali continuano a fare una opposizione ostruzionistica in parlamento – contro la stessa maggioranza del PD. Tutto ciò se non altro mostra che il recente Congresso del PD non ha deciso assolutamente nulla, che il PD è un partito allo sbando che deve decidere la linea di volta in volta, sulla base di una conflittualità interna infinita. Un Congresso continuo, infinito, a suon di risse, insulti, dichiarazioni. È di questo che hanno bisogno i lavoratori e i disoccupati?

 

lunedì 22 settembre 2014

Non è Francesca…

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Nella trasmissione «Piazza pulita» di venerdì 15 settembre si discuteva, tra le altre cose, di politica estera e, in particolare, dell’atteggiamento da tenere, nei confronti dell’Isis, il sedicente Stato islamico che sta allargando la sua presenza nel Medio Oriente, si sta macchiando di varie atrocità nei confronti di cittadini occidentali tenuti in ostaggio e sta praticando una politica di genocidio nei confronti di varie minoranze locali. A un certo punto è stata affrontata la questione del silenzio sulla questione finora mostrato da parte delle comunità islamiche italiane, di una loro presunta reticenza a prendere un’esplicita posizione di condanna nei confronti dell’Isis. Una giovane italiana intervistata, presentata come una convertita all’Islam, ha risolto elegantemente e sbrigativamente la questione dichiarando che quelli dell’Isis non hanno nulla a che fare con l’Islam. Sottintendendo che, insomma, l’Isis non è una questione che riguardi in modo particolare gli islamici. Ben diverso è stato invece l’atteggiamento di un giornalista curdo presente, anch’egli di fede islamica, il quale, invece, riconosceva la matrice islamica dell’Isis e, proprio per questo, invitava tutti gli islamici a prendere posizione, a scendere in Piazza contro l’Isis per combattere, nell’Isis, una pericolosa deviazione sviluppatasi sul terreno stesso dell’Islam. Le due posizioni non potrebbero essere più diverse: secondo la giovane, i musulmani non fanno certe cose, se qualcuno le fa, questo non può essere un musulmano; secondo il giornalista ci possono essere dei musulmani che fanno certe cose e questi vanno combattuti. Per la giovane l’Islam non può che essere puro e integro, mentre per il giornalista l’Islam può anche degenerare e, proprio per questo bisogna impegnarsi per mantenerlo integro.
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Questo micro dibattito solleva una serie di questioni molto interessanti. I musulmani in generale sono in qualche misura chiamati in causa da quel che sta facendo, in nome dell’Islam, la scheggia impazzita dell’Isis? Sono in qualche misura responsabili? Sono tenuti in qualche modo a dissociarsi? Sono tenuti in prima persona a combattere l’Isis? Qualora non si dissocino, dobbiamo considerarli complici? E che dire delle dissociazioni a metà, quelle accompagnate da tanti «se» e da tanti «ma»? Problemi simili non sono del tutto nuovi. Proprio nella nostra storia recente abbiamo vissuto qualcosa di simile. Negli anni del terrorismo, molti ricorderanno le ambigue prese di posizione di certi ambienti della sinistra nei confronti dei «compagni che sbagliano», a fronte di coloro che si sono sacrificati di persona per combattere esplicitamente il fenomeno e di altri ancora che invece l’hanno di fatto fiancheggiato.
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La questione comunque è assai ingarbugliata. In primo luogo si deve affrontare un problema assai generale, e cioè se le idee (siano esse ideologie, religioni o, più semplicemente, mode e/o modi di pensare) portino una qualche responsabilità morale per i comportamenti che vengono perpetrati in loro nome. In termini di principio le idee, di per sé, non agiscono, non fanno proprio nulla. Le idee, in quanto idee sono perfettamente inoffensive. Tra l’idea e la sua effettiva messa in pratica c’è sempre – come si esprime Searle – un gap, un salto. Perché le idee possano avere effetti pratici, hanno bisogno di una scelta esplicita da parte di un soggetto e di un altrettanto esplicito atto di volontà. La responsabilità della scelta e dell’atto di volontà va completamente attribuita al soggetto e non certo all’idea che può essere stata presa in considerazione nel determinare la scelta. Ciò vale anche nel caso (seppur problematico) in cui ci siano dei soggetti collettivi.[1] Possiamo esprimerci in generale sostenendo che le idee di per sé non sono dei soggetti che possano essere considerati colpevoli dal punto di vista morale. Se le cose stessero soltanto così, allora dovremmo permettere la circolazione delle idee più efferate e più mostruose e dovremmo perseguire soltanto coloro che scelgono di metterle in pratica, ma soltanto nel momento in cui lo fanno effettivamente.[2] Alcuni estremi difensori della libertà di pensiero la pensano esattamente così.
D’altro canto, se ci concentriamo strettamente nel campo dell’etica, intesa come disciplina filosofica, un’idea può essere valutata come moralmente cattiva, cioè contraria a determinate regole morali che siano state assunte. E’ importante considerare che il giudizio di immoralità nei confronti di un’idea è un giudizio puramente logico, che non può essere tradotto in una attribuzione di colpa. Dunque si possono condividere idee immorali senza avere alcuna colpa. Solo in culture arretrate si considera la condivisione di un’idea come una colpa. Un po’ di tempo fa, in Occidente, si poteva essere perseguitati per essere eretici, oppure per il fatto di credere nella magia.
Abbiamo però un’ulteriore casistica: ci possono essere delle idee che, indipendentemente dalla loro moralità, possono essere, di fatto, idee pericolose.  Il problema nasce poiché il rapporto tra le idee che circolano e le decisioni che i soggetti prendono nei fatti è diverso dallo schema della totale separazione e della totale autonomia morale del soggetto. Il soggetto autenticamente autonomo è un’approssimazione teorica, che può avere anche applicazione in filosofia ma che si riscontra raramente in concreto. Gli elementi ambientali sono spesso determinanti agli effetti della decisione, tendono cioè a condizionare le decisioni dei soggetti, tendono cioè a far sì che i soggetti scelgano, seppure liberamente, proprio ciò che l’ambiente suggerisce loro. Tra gli elementi ambientali ci sono proprio le idee. Idee che spesso costituiscono delle prescrizioni di comportamento (soprattutto nel caso delle religioni e delle ideologie). Le idee dunque possono essere delle circostanze che influenzano le decisioni, poiché è un dato di fatto che gli umani sono animali culturali influenzabili, si lasciano cioè deliberatamente influenzare.[3] Per fare questa asserzione non abbiamo dunque bisogno di risolvere uno dei problemi tipici della filosofia analitica e cioè quello di determinare quale sia la causa effettiva della volontà, oppure quale sia la natura del gap.
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Senza considerare la questione della colpa personale, senza considerare la moralità o l’immoralità dell’idea rispetto a certi sistemi etici, dunque dal punto di vista dei loro possibili effetti pratici nelle situazioni specifiche non tutte le idee sono perfettamente uguali tra loro. Dobbiamo rassegnarci al fatto che possono esserci delle idee pericolose.[4] Non perché esse possano direttamente in quanto idee causare qualche tipo di danno, ma perché possono costituire l’ambiente affinché qualcuno, prendendole in considerazione, decida, magari anche in piena autonomia, di causare qualche danno. Le idee quindi, pur non avendo, in quanto idee, una responsabilità morale, possono stare nella catena causale che può produrre il danno. Naturalmente si tratta di una catena probabilistica, ma non per questo priva di effetti. Se si tolgono certe idee pericolose dalla circolazione, s’indebolisce la catena causale e quindi si rende meno probabile il danno conseguente.
D’altro canto, chi condivide idee pericolose, finché non le mette in pratica, non è ovviamente personalmente responsabile, anche se può essere legittimamente considerato come una persona pericolosa. Costui può avere infatti maggiori probabilità di altri di decidere positivamente e di passare alla pratica dell’idea pericolosa. Insomma, la condivisione di idee pericolose aumenta sensibilmente la probabilità di diventare un tipo pericoloso. Si obietterà che qui siamo nel campo del pregiudizio, ma se il pregiudizio ha un qualche fondamento, non è più un pregiudizio gratuito, ma una forma d’intelligenza sociale. Sarà discutibile quanto si vuole, ma sempre di intelligenza sociale si tratta.
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Accade spesso che ci si rifiuti – probabilmente per una sorta di cecità emotiva – di considerare responsabilmente le possibili conseguenze pratiche di certi costrutti ideologici o religiosi. La questione delle idee pericolose è complicata dal fatto che le idee non sono atomi isolati, entrano spesso in relazione tra di loro costituendo ampie conglomerazioni, sistemi più o meno coerenti, possono riprodursi e generare una copiosa discendenza. Ci possono essere così delle catene di implicazioni che possono venire anche molto da lontano. Ad esempio Karl Popper ha mostrato come in alcune filosofie del passato possano nascondersi conseguenze di tipo totalitario.
E non vale neppure la convinzione di taluni che, essendo magari tradizionalmente portatori di idee pericolose, o di idee che sono state pericolose in passato, ritengono che queste si possano  riconoscere, circoscrivere e tenere sotto controllo senza troppa difficoltà. Può facilmente accadere che questi contenuti obsoleti riprendano vita tanto da trovarseli davanti come dei fantasmi del passato da dover combattere. È proprio il caso della guerra santa. Ma è anche il caso del mito della lotta armata rivoluzionaria, oppure dell’invasamento da parte dello Spirito Santo. La pericolosità di certe idee non sta tanto nel contenuto assoluto delle idee (il quale può essere valutato in termini etici) ma negli effetti che la disseminazione di certe idee può produrre in certi ambienti.[5]
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Un discorso del tutto diverso va fatto per l’atto soggettivo di produrre e diffondere idee pericolose. È questo un tipo di responsabilità morale che riguarda soprattutto gli operatori della cultura, quelli che genericamente si chiamano intellettuali . Usiamo qui il termine in senso ampio, comprendendo propagandisti, giornalisti, scrittori, vignettisti, imam, opinionisti, uomini politici e così via. Per estensione, la cosa può riguardare anche gruppi organizzati, di carattere ideologico, religioso o quant’altro. Questo tipo di responsabilità è conosciuto come responsabilità intellettuale. Da un lato abbiamo la libertà di opinione e di espressione, per cui in teoria ciascuno avrebbe il diritto di produrre e diffondere qualsiasi idea. Dall’altro lato abbiamo tuttavia la considerazione per cui alcune idee – come è stato detto - possono essere idee pericolose. Le idee pericolose vanno commisurate non tanto sulla base del diritto di espressione quanto sulla base di un’etica della responsabilità. Occorre cioè pensare soprattutto alle conseguenze della loro diffusione. Impedire all’imam di predicare la guerra santa è una questione di responsabilità. Lo stesso vale per il fatto di impedire i cori razzisti negli stadi, di proibire l’espressione dell’odio antisemita, oppure di perseguire la negazione dello sterminio degli ebrei.
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Finora abbiamo parlato genericamente di idee pericolose. È chiaro che i ragionamenti fatti valgono solo se le idee in questione sono davvero pericolose. Certo non è sempre facile decidere della pericolosità di certe idee, ma non è neppure impossibile. Non vale neppure la considerazione che un’idea debba essere considerata pericolosa e condannata solo dopo che abbia concretamente mostrato la sua pericolosità. La cosa importante è che non si confonda il giudizio morale con il giudizio di pericolosità.
A chi spetta decidere se un’idea è pericolosa? È chiaro che nelle società democratiche la pericolosità di certe idee in primo luogo dovrebbe emergere dal dibattito pluralistico. Certe idee pericolose dovrebbero essere individuate e messe al bando sulla base di un comune sentire. Sono in effetti all’opera dei meccanismi di controllo sociale per cui accade spesso che certe idee pericolose si auto emarginino e si auto estinguano. Accade tuttavia che ci siano idee pericolose che sembrano invece godere di una vitalità inconsueta, che mostrano di avere una enorme capacità di presa e di espansione. Una parte del pericolo sta proprio nella loro capacità virale. Di fronte alla capacità virale di certe idee pericolose può diventare allora necessario un intervento esplicito, in termini di contrasto, attraverso strumenti persuasivi, strumenti educativi. Non si esclude comunque che uno Stato democratico non possa, attraverso le sue istituzioni, decidere di limitare, impedire la diffusione di idee considerate pericolose. O Addirittura di condannare coloro che formulano e diffondono simili idee. Molti stati hanno adottato leggi che perseguono il negazionismo.
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La questione del trattamento delle idee pericolose è resa più complicata dal fatto che quelle che abbiamo chiamato semplicemente idee tendono a non stare soltanto nelle menti fuggevoli degli individui, ma tendono spesso a consolidarsi in vere e proprie cose e, soprattutto, in vere e proprie istituzioni: libri, manuali di istruzioni, chiese, moschee, scuole di indottrinamento, partiti politici, gruppi organizzati e quant’altro. In questi casi, la prescrizione ad agire (a tradurre l’idea in pratica) si basa su un percorso formativo che mira proprio a sopprimere la differenza tra la mera componente ideale e la componente pratica.
Il problema può poi assumere una certa complessità nel caso di religioni o ideologie dal carattere piuttosto vago, oppure dal carattere intrinsecamente contradditorio. Insomma, certi testi ideologici o religiosi possono prescrivere tutto e il contrario di tutto, possono rappresentare dei comodi ricettacoli da cui trarre, di volta in volta, quello che fa comodo. I testi possono essere invocati per sostenere le più diverse nefandezze. Di fronte a testi di questo genere, nessuno può dire quale sia la corretta interpretazione. E spesso l’appello al buon senso non basta. In più, le interpretazioni fondamentaliste, spesso, hanno dalla loro il fatto di basarsi sulla lettera del testo.[6] In questi casi nessuno può dire in astratto quale sia la vera religione, oppure la vera versione di una certa ideologia. Gli attentatori delle Torri Gemelle erano convinti di andare in Paradiso ed erano sicuramente islamici come milioni di onestissime persone che non farebbero male a una mosca.
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Quando complessi religiosi o ideologici, per quanto vaghi siano, producono, sul loro stesso terreno, delle idee pericolose, esponendo così la società intera al rischio che qualcuno le metta in pratica, oppure addirittura spingendo a che vengano messe in pratica, allora è tutto il complesso religioso o ideologico che viene messo in discussione. Le pratiche orrende commesse in nome di un’idea, siano esse a proposito o a sproposito, chiamano in causa tutti quelli che condividono quell’idea, anche coloro che individualmente non produrrebbero mai quelle pratiche. Nel caso specifico dell’Isis, è chiaro che il taglio della gola spettacolare delle loro vittime non è principalmente rivolto a noi occidentali, è rivolto soprattutto agli islamici, e rappresenta una sorta di chiamata all’azione, di arruolamento. E’ come se dicessero: «Noi facciamo questo in nome di tutti gli islamici. E’ questo ciò che tutti gli islamici dovrebbero fare. Ecco, è questo che dovete fare!». In questo caso, è davvero troppo facile sostenere che quelli dell’Isis non siano appartenenti in qualche modo alla famiglia islamica. In casi simili, un nazionalista in buona fede potrebbe dire che «i nazisti non erano davvero nazionalisti», un marxista in buona fede potrebbe sostenere che i Khmer rossi non erano davvero marxisti, un cristiano in buona fede potrebbe affermare che i pellegrini con la spada delle crociate non erano davvero cristiani, un comunista in buona fede potrebbe dire che le Brigate Rosse non erano davvero comuniste, e così via. Si tratta ahimè di risposte miopi, autoassolutorie, che hanno la gravissima conseguenza di non produrre alcun chiarimento, di non spiegare come mai in un certo ambito religioso o ideologico si è sviluppata ed è stata coltivata una idea pericolosa. L’espurgazione delle idee pericolose può essere assai utile a migliorare le religioni e le ideologie, ma perché ciò avvenga occorre riconoscere il terreno che ha incubato l’idea pericolosa stessa.
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Molti della generazione di chi scrive ricordano, l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il 9 maggio 1978, come un profondo trauma morale. Nessuno di noi era fautore della lotta armata, ma avevamo la netta percezione che comunque le Brigate Rosse, seppure sbagliando completamente, seppure comportandosi da emeriti sconsiderati, fossero in qualche modo appartenenti alla famiglia della sinistra.[7] Le parole che dicevano, le espressioni che usavano erano inequivoche, non potevano non essere considerate come appartenenti alla cultura politica della sinistra. Ebbene, l’assassinio di Moro, compiuto in nome di una sedicente «giustizia» popolare, compiuto in nome di una sedicente rivoluzione proletaria, era come se fosse stato compiuto nel nome di tutti noi, di tutta la sinistra. Era come se qualcuno, da lontano, tentasse di coinvolgere tutta la sinistra in quel volgare assassinio politico. È stato in quel momento che chi scrive ha capito, non solo in teoria (il che era già avvenuto da un pezzo) ma anche in pratica, che un’idea capace di generare quella mostruosità non poteva che essere un’idea pericolosa. Era dunque un’idea da cui ci si doveva dissociare, un’idea che doveva essere combattuta apertamente. E a maggior ragione dovevano essere combattuti i loro sostenitori e diffusori. A chi scrive non è mai passata per la testa, neppure per un istante, la troppo comoda giustificazione che i Brigatisti Rossi non appartenessero, più o meno lontanamente, alla variegata famiglia dei comunisti.
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Dopo queste tristezze, proverò a chiudere con una nota buffa che, comunque, è piuttosto attinente al nostro argomento. Nel 1969 il cantautore Battisti era diventato celebre con una canzonetta molto orecchiabile, il cui testo esemplificava esattamente la cecità emotiva di coloro che preferiscono sempre stare dalla parte dei puri e che non vogliono fare i conti con le evidenze spiacevoli. Il testo è piuttosto noto e rappresenta, in presa diretta, la beata reazione d’incredulità di un giovane mentre gli veniva riferito, con dovizia di particolari, che Francesca, la sua ragazza, era stata vista in giro insieme a un altro. Nonostante una sfilza di prove addotte dal volonteroso testimone del fattaccio, il poveretto continuava a sostenere che quella non poteva essere la sua ragazza. «Non è Francesca» era il ritornello rassicurante che era più volte ripetuto.
 
22/09/2014
Giuseppe Rinaldi
 
[1] Per le decisioni prese, un partito può essere sciolto, uno stato può essere condannato, un gruppo politico può essere messo fuori legge, un gruppo industriale può essere condannato per avere inquinato, e così via.
[2] Infatti è sempre possibile una situazione di debolezza della volontà per cui un’azione che è stata deliberata non viene effettivamente messa in opera.
[3] Questo tipo d’influenza dunque non attenua minimamente la responsabilità soggettiva, poiché c’è pur sempre il gap e la possibilità di non fare quel che l’ambiente suggerisce sussiste sempre.
[4] Questa nozione di idee pericolose è vicina per certi aspetti alle teorie di K. Popper.
[5] In una biblioteca di studio della storia contemporanea non è pericoloso che ci stia anche il Mein Kampf di Hitler. È assai più pericoloso il fatto che la stessa pubblicazione si trovi nella biblioteca di un centro sociale di estrema destra. La pubblicazione è la stessa, gli effetti possono essere molto diversi.
[6] Nel caso del marxismo, ad esempio, è indubbio che il rovesciamento dello Stato e la dittatura del proletariato faccia parte del programma marxista. Coloro che vogliono abbattere lo Stato sono marxisti, c’è poco da dire. Se poi qualcuno di fede democratica abbraccia il marxismo, saranno problemi suoi distinguersi dagli abbattitori dello Stato. Di fonte a un gruppo politico marxista che abbia dichiarato guerra allo Stato non è sufficiente dire loro «non siete marxisti». Non è neppure sufficiente dire che sono «marxisti che sbagliano».
[7] C’era, in effetti, qualcuno che sosteneva che erano dei fascisti, oppure degli infiltrati provocatori, ma queste tesi non hanno mai avuto grande popolarità.
 

venerdì 12 settembre 2014

La foresta dei simboli

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Generalmente[1] si ritiene che sia molto difficile definire che cosa sia un simbolo. Esistono molte diverse accezioni, corrispondenti ad altrettanti punti di vista disciplinari o specialistici. Ciascun settore culturale ha prodotto le proprie definizioni e i propri usi, senza preoccuparsi di operare gli opportuni collegamenti con gli ambiti confinanti. Il risultato è che il concetto di simbolo vive in una specie di limbo pieno di fraintendimenti e, soprattutto, di sovraccarichi.
Uno degli approcci preliminari, molto ripetuti nella letteratura, riguarda l’origine storica e filologica del termine. È stato spesso raccontato che “simbolo” deriva dal latino symbolus e symbolum, derivante a sua volta dal greco σμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo». Questo sostantivo proviene dal verbo συμβλλω «mettere insieme, far coincidere» (composto di σν «insieme» e βλλω «gettare»). Per spiegare questa curiosa etimologia, altrettanto spesso viene riportato che, secondo un antico uso greco, il termine designava uno strumento di controllo o di riconoscimento, ottenuto spezzando irregolarmente in due parti un oggetto rigido (per es., una moneta, un coccio, una medaglia), in modo che chi ne avesse una, il segno, potesse farsi riconoscere facendola coincidere con l’altra, il contrassegno.
Un passo avanti decisivo è stato realizzato quando la definizione del simbolo è stata ricondotta nell’ambito di una teoria generale dei segni, o semiotica. Il simbolo rientrerebbe nella categoria dei segni, ma avrebbe, dal canto suo, alcune caratteristiche del tutto particolari. Così recita, infatti, la Treccani: «Nell’uso moderno il termine designa qualsiasi cosa (segno, gesto, oggetto, animale, persona), la cui percezione susciti un’idea diversa dal suo immediato aspetto sensibile. L’originaria funzione pratica, prevalente ma non esclusiva (anche la già ricordata medaglia spezzata «sta in luogo di»), è sostituita dalla funzione rappresentativa e simbolo si identifica con segno. Ma in certi usi (come in quello comune) simbolo tende a significare qualcosa di non tanto facilmente interpretabile come un segno, qualcosa di più vago e ambiguo, ricco di una pluralità di riferimenti indeterminati ed eterogenei, e anche come qualcosa di più complesso che rinvia a realtà importanti o remote».[2]
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Come è stato ampiamente chiarito dalla semiotica, un segno non è una cosa in sé, bensì un rapporto, istituito da un codice, tra un significante e un significato.[3] In quanto codificato, il segno è intelligibile, pur con qualche indeterminazione, a patto di conoscere le regole di codifica utilizzate per produrlo. I significati dei segni sono dunque istituzioni culturali del tutto convenzionali. Sui significati dei segni ci si può dunque accordare; il significato può sempre essere disambiguato, purché si abbia la voglia di farlo e si disponga delle risorse necessarie. Gran parte della comune attività culturale consiste proprio nel chiarimento dei significati. Secondo Wittgenstein, ad esempio, l’intera filosofia ha a che fare con il chiarimento dei significati, la filosofia sarebbe così una sorta di “terapia del linguaggio”.
Il simbolo appartiene indubbiamente al mondo dei segni, ma esso possiede, come suggerisce la definizione riportata, alcune caratteristiche sue particolari che lo collocano in una terra di confine. Come il segno non è una cosa ma è in realtà un rapporto, una funzione segnica, così anche il simbolo è concepibile come un analogo rapporto, che potremmo definire come funzione simbolica. La specificità del simbolo rispetto al segno sta nel suo particolare tipo di codificazione, nel particolare tipo di legame che collega il significante al significato. Non si tratta di un vero e proprio codice, si tratta piuttosto di una connessione di tipo vago, di una connessione che non è esplicitata, di tipo enigmatico, che non può essere chiarita o definita più di tanto, e dunque che non può essere compiutamente de-codificata e comunicata in termini razionali. Esso è dunque il risultato di una codifica poco precisa, poco rigorosa. Per questo, per intendere il simbolo spesso si ritiene di dover fare uso di particolari facoltà, diverse dalla ragione. Ha osservato Zagrebelsky che il simbolo «rinvia a qualcosa che non possiamo costatare ma solo intuire».[4]
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Il carattere vago della connessione tra significante e significato costituisce dunque una debolezza dal punto di vista del segno codificato, tipico della semiotica. Eppure sembra essere decisamente questa la caratteristica propria del simbolo e dunque, se così ci possiamo esprimere, la sua specificità in termini di funzione simbolica. Si potrebbe dunque anche avanzare l’ipotesi che i segni, semioticamente intesi, abbiano dalla loro una serie indiscutibile di vantaggi e che quindi siano destinati alla lunga a sopravanzare i simboli, a metterli da parte. I simboli potrebbero così apparire come il retaggio di epoche primitive, in cui la cultura umana non aveva alcuna consapevolezza e alcuna padronanza dei propri procedimenti. Il fatto che si continui a ricorrere ai simboli vuol dire evidentemente che, in talune circostanze, siamo disposti a rinunciare alla chiarezza del rapporto tra significante e significato per istituire una connessione tra un significante e qualcosa di poco noto, d’indefinito, qualcosa che c’è e non c’è, qualcosa di enigmatico e misterioso. Si tratta di capire quali vantaggi (o svantaggi) possiamo ottenere da questa rinuncia.
Se la semiosi è stata considerata come il regno delle cose che possono essere usate per mentire,[5] il simbolico può essere analogamente concepito come il regno delle cose che possono essere usate per evocare degli elementi indefiniti, degli oggetti dalla natura incerta. Per apprezzare la differenza, si consideri che una menzogna, per avere successo, deve essere comunque precisa e circostanziata; un simbolo, per essere efficace, deve invece evocare significati che siano fuzzy, sfumati, indeterminati. In simbolo non denota, bensì connota, ma lo fa in modo vago, insolito, sorprendente, misterioso.
Se questa è la situazione, non sarebbe meglio allora fare a meno dei simboli e concentrarci sui segni che sono dotati di regole di codifica relativamente chiare? Non sono forse i simboli forme di comunicazione ingannevoli da cui è meglio guardarsi? A cosa servono? Entro quali limiti possono essere utili?
Di un comune segno sappiamo dire se e come esso significhi o non significhi qualcosa. Possiamo ad esempio dire con certezza che “csxmzerfgh” non significa nulla in lingua italiana. Poiché i simboli invece non abitano in un universo codificato trasparente, di qualcosa che funzioni come simbolo siamo anzitutto sfidati a scoprire cosa significhi, siamo cioè invitati a scoprire (o a inventare) il tipo di codice che può chiarire il riferimento del simbolo.
Così spiega Zagrebelsky: «Il segno simbolico, rinviando a qualcosa che è al di là della sua materialità, non è né vero né falso, nel senso delle scienze esatte. Si sottrae a qualunque prova di verità o di verificazione […]. Per questo, nella distanza che separa il “qui e ora” del segno dal “non ancora qui e ora” del segnato che ci s’accinge a decifrare s’apre lo spazio vertiginoso per la libera intuizione, per l’immaginazione poetica, per l’esperienza estetica, per l’estasi mistica, per il contatto con Dio o con la natura, per l’immedesimazione essenziale dell’individuo nel tutto, e quindi per il suo annichilamento nella percezione della propria nullità, ovvero per la sua assolutizzazione attraverso il trascendimento di sé nell’universale. Nulla è deciso a priori. Tutto è indefinitamente possibile».[6]
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Il simbolo dunque rinvia a qualcosa di vago che deve essere ricostruito, cioè riempito di contenuto, attraverso strumenti prevalentemente intuitivi, o comunque non logici. Insomma, mentre il comune segno può essere facilmente decodificato – si pensi alla rapidità con cui comprendiamo il linguaggio o leggiamo i numeri – il simbolo richiede un supplemento di lavoro interpretativo che deve essere profuso utilizzando svariati strumenti mentali che non sono definiti a priori. Tra gli strumenti mentali che vengono usati per interpretare il simbolo giocano un ruolo molto importante le marche emotive.[7] La funzione simbolica può infatti operare nell’ambito di forti investimenti emotivi (come del resto qualsiasi contenuto della coscienza). Ciò indubbiamente rende l’attività interpretativa ancora più incontrollabile. Si badi bene che il fatto che un simbolo implichi un investimento emotivo non significa minimamente che esso corrisponda a qualcosa di reale.[8] Possiamo investire emotivamente simboli che sono falsi, cui non corrisponde proprio nulla. Questa capacità è necessaria, poiché altrimenti non saremmo animali culturali.
Abbiamo detto che il segno dispone di un codice che ne permette la disambiguazione. Il simbolo non dispone di un codice, molto più vagamente il simbolo si materializza, come simbolo, in un contesto. Solo il contesto culturale (che può tuttavia essere qualsiasi cosa) permette di produrre il rinvio tipico della funzione simbolica a qualche significato (anche se taluni simboli possono avere una dimensione privata).
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Accade tuttavia che il riferimento cui punta il simbolo possa essere oggettivato, cioè trattato come una cosa realmente esistente, soprattutto quando il simbolo è condiviso. Infatti: «… il simbolo può diventare oggettivo, quando i suoi significati sono codificati in una norma significante generalmente accettata o subita. Ecco come, dunque, il segno assume il valore di un simbolo nell’esperienza comune. Il passaggio attraverso il quale dal segno inteso singolarmente si passa alla medesima percezione di ciò a cui esso allude da parte di due persone, di più persone, di tutte le persone, quello è il momento in cui il segno diventa veramente simbolo, come fatto psichico di natura sociale. L’esperienza individuale di significato è scesa in un’esperienza collettiva che supera gli individui come tali e gli lega in un rapporto di per sé invisibile, ma reso visibile nel segno simbolico. Il simbolo è il punto di passaggio dalla soggettività all’oggettività dei significati. Attraverso il simbolo, il singolo dischiude la visuale a un mondo che è suo, ma non soltanto suo: è comune, crea e riflette comunanza di credenze e comunità di esperienze. Diventa un potente fattore spirituale di integrazione sociale…».[9]
Sempre secondo Zagrebelsky, l’elemento simbolico è importante per la costruzione delle rappresentazioni collettive: “Siamo in presenza di fatti in realtà immateriali, ma con quest’espressione non dobbiamo intendere l’abbaglio, illusione, inganno. I simboli non ci parlano di verità, ma di credenze collettive e queste credenze sono fatti e realtà essenziali per la vita in comune, cioè per qualsivoglia società”.[10] La spiegazione di Zagrebelsky è di tipo funzionale: «... l’umanità ne ha bisogno come di un’esigenza primaria della sua esistenza e persistenza nella forma di una vita in comune. “Tutto ciò che è sociale consiste in rappresentazioni collettive”, cioè in simboli: non è necessario essere un Émile Durkheim per concordare con questa affermazione. Si deve sottolineare questo punto: il “sociale” e il “politico” non esisterebbero senza rappresentazione. Se le società fossero fatte di materia empirica o razionale, non ci sarebbe posto per il linguaggio simbolico».[11]
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Spesso è stato sottolineato un legame assai stretto tra il simbolo e il mistero. Il mistero è ciò che non deve essere detto, ma può anche essere considerato come “qualcosa d’indicibile”, qualcosa che si colloca oltre il linguaggio consuetudinario, qualcosa per la cui comprensione occorre costruire ex novo un codice, che può essere un codice così personale e privato da non essere comunicabile ad altri. Una funzione simbolica, appunto. Un altro legame assai stretto è quello tra il simbolo e il sacro. Il sacro è lo straordinario, ciò che è opposto all’ordinario o al profano. Lo straordinario spesso possiede le caratteristiche degli oggetti evocati attraverso i simboli: è indefinito, misterioso, inafferrabile, enigmatico. È chiaro che il simbolo ha molto a che fare con ciò che comunemente chiamiamo sacro.
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Le diverse teorie che si occupano del simbolismo vanno soggette a oscillazioni decisamente preoccupanti per chi voglia comprendere questo fenomeno con un po’ di chiarezza. Può accadere che tutti i simboli siano ridotti a segni e quindi non trovino più alcuna loro specificità, oppure può accadere che pressoché tutti i segni (intesi come contenuti culturali) siano ridotti a simboli, per cui tutta la cultura sarebbe da considerarsi come eminentemente simbolica. In tal caso la nozione di segno rimarrebbe riservata solo alle espressioni meramente tecniche e utilitaristiche. Ci troviamo dunque di fronte a una situazione imbarazzante, per cui tutto è simbolo, oppure nulla è simbolo.
Un tentativo teorico interessante che permette di definire con qualche precisione il rispettivo ambito di competenza del semiotico e del simbolico è stato compiuto dall’antropologo Dan Sperber nella sua opera Le symbolisme en général del 1974. L’originalità della teoria di Sperber sta nel considerare il simbolismo non tanto a partire dall’infinita varietà dei prodotti culturali che possono essere considerati simbolici o non simbolici, quanto a partire dai meccanismi cognitivi attraverso cui i simboli vengono generati. Secondo Sperber, infatti, la capacità umana di produzione dei simboli sarebbe riconducibile a uno specifico meccanismo cognitivo, di carattere piuttosto basilare ed elementare.
Secondo la descrizione cognitivista, la mente non è un blocco unitario, ma va piuttosto considerata come un insieme di processi funzionalmente differenziati. Il processo mentale più immediato, in cui ci imbattiamo più direttamente, è quello costituito dalla memoria di lavoro: si tratta di una memoria a breve termine di carattere non specifico dal punto di vista contenutistico (può accedere a tipi assai svariati di informazioni, da quelle sensoriali, alle emozioni, fino ai costrutti linguistici e simbolici,…), che opera molto velocemente, ma che ha una ridotta portata, ed è in grado di focalizzare solo poche informazioni per volta, quelle che di volta in volta ricadono nel campo della nostra attenzione. Entro la memoria di lavoro si sviluppa la nostra attività mentale qui e ora. Dati i limiti di portata della memoria di lavoro, essa si serve, come deposito, della memoria a lungo termine, in cui vengono continuamente riposti e ripescati i contenuti che sono utilizzati di volta in volta.
Se le cose stanno così, è chiaro che le modalità di strutturazione e di accesso della memoria a lungo termine sono oltremodo rilevanti. L’accesso ai contenuti della memoria a lungo termine può avvenire essenzialmente in due modi: in modo semiotico e in modo non semiotico. L’accesso semiotico è quello che avviene tramite un codice preciso: si pensi a quando interpretiamo i termini del linguaggio, oppure quando ci fermiamo di fronte al semaforo rosso. L’interpretazione in base a un codice è di norma veloce, sicura e precisa; in questi casi siamo sicuri di avere ben capito il significato dell’informazione che stiamo elaborando. Può accadere però che la decodifica di tipo semiotico non abbia successo, allora abbiamo a disposizione un accesso alternativo, di tipo non semiotico, molto più lento, molto più insicuro e aleatorio. Quando un input, dopo una prima scansione della nostra memoria, non corrisponde assolutamente nulla di preciso, non appartiene cioè al tipo di comunicazione codificata, esso viene messo tra parentesi, cioè viene fatto diventare esso stesso un oggetto di interpretazione. In questo caso riconosciamo implicitamente di non possedere alcun codice per quel tipo di input e proviamo allora a cercare tra i contenuti della memoria a lungo termine qualcosa che possa avere con esso qualche tipo di legame, un legame di qualsiasi tipo, al fine di sciogliere l’incongruenza. Veniamo così a trovarci in una situazione abbastanza indeterminata, dove possono nascere associazioni insolite, si possono fare scoperte, formulare ipotesi azzardate, tenere le soluzioni in sospeso.
I contenuti depositati nella nostra memoria a lungo termine sono a loro volta fondamentalmente strutturati in due modi. Sperber ha proposto la distinzione tra il sapere semantico e il sapere enciclopedico. Il sapere semantico è costituito di proposizioni di carattere analitico (“ il leone è un animale”) e sono governate fondamentalmente dalla logica deduttiva; il sapere enciclopedico invece si fonda sulla varietà del mondo e può quindi esprimersi solo in forma di un insieme di proposizioni di carattere sintetico, nel senso che producono una qualche conoscenza nuova.[12] Esse sono governate dalle regole dell’induzione. Si tratta di proposizioni che sono vere o false a seconda dello stato del mondo e nessuna regola semantica permette di valutarne la veridicità. Si tratta di una distinzione che funziona nella maggior parte dei casi, anche se possono esistere casi dubbi. I contenuti enciclopedici che possediamo possono essere connessi alle nostre esperienze in generale, ai nostri apprendimenti, alle nostre esperienze strettamente autobiografiche, alle nostre fantasie, ai nostri desideri, ai nostri sogni. In ciò dovremmo includere anche materiale simbolico già elaborato che abbiamo appreso dalla nostra cultura.[13]
In genere attribuiamo a questi oggetti presenti nella nostra memoria certe marche di realtà: questa cosa l’ho vista in sogno; questa esiste davvero nel mondo sensibile e possono costatarlo tutti direttamente; questa cosa so che esiste, ma per verificarla dovrei avere un microscopio elettronico; quest’altra è stata inventata in un romanzo e può essere condivisa con chi ha letto il romanzo; questa cosa non è verificabile ed esiste solo per quelli che ci credono (ad esempio l’anima). Non sono escluse neppure le narrazioni, di qualunque tipo. Non sono escluse, anzi, sembra abbiano un ruolo importante, le marche emotive, le quali hanno la caratteristica di essere in grande misura private, cioè vissute in prima persona e difficilmente comunicabili.
Ebbene, l’esplorazione della memoria a lungo termine, alla ricerca di qualche interpretazione per l’input che abbiamo messo tra parentesi, può portarci a evocare qualcuno dei molteplici materiali che possediamo in memoria (nelle forme più svariate). Alcune evocazioni saranno subito scartate, mentre altre si presenteranno con qualche plausibilità. Queste evocazioni plausibili diventeranno per noi il significato dell’input misterioso che avevamo ricevuto. Si tratta dunque, solo a questo punto, di istituire ipoteticamente una nuova codifica. Se farà storia, se si affermerà in noi e attorno a noi, nella nostra cultura, a quell’input faremo poi sempre corrispondere questo nuovo significato simbolico, a questo punto senza pensarci troppo, diventerà una interpretazione simbolica cui attribuiremo una qualche marca di realtà.[14]
Insomma, il simbolo punta a dei significati che, in mancanza di meglio, abbiamo costruito fortunosamente con i materiali sparsi della nostra memoria a lungo termine e, quindi anche, con i materiali che la nostra cultura ci mette a disposizione. Spesso il legame tra l’input e il significato attribuito è destinato tuttavia a restare piuttosto vago e indeterminato, o comunque è destinato a essere messo spesso tra parentesi. È chiaro che il simbolismo difetta nel campo della codifica e che esso può essere proprio considerato come un modo per aggirare i problemi della codifica.
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Secondo la teoria di Sperber i fenomeni simbolici non sarebbero dunque dei segni a pieno titolo e non seguirebbero dunque le regole della significazione. Le caratteristiche proprie del simbolismo vanno ricavate per differenza nei confronti dei meccanismi della significazione. Si tratta anzitutto di capire quali tipi di dati vengano utilizzati nei processi simbolici. Nel simbolismo l’informazione in input può giungere attraverso tutti i sensi, separatamente o congiuntamente, motivo per cui si tratta di informazione che non ha proprietà sistematiche. Si tratta addirittura di informazione che può assumere valore soltanto per chi è in grado di riconoscerla. Non esistono criteri rigorosi di inclusione o di esclusione. Per questo motivo, non ci può essere nulla di generale nel simbolismo; vi sono anche dei dati idiosincrasici, legati all’esperienza individuale che non appartengono a un patrimonio comune e che influenzano la costruzione del dispositivo simbolico.
«Il simbolismo è in massima parte individuale e ciò, nell’ambito di una concezione semiologica del simbolismo, è doppiamente incomprensibile: in primo luogo, un sistema di comunicazione funziona solo nella misura in cui il codice che lo sottende sia essenzialmente identico per tutti; in secondo luogo, un codice definisce tutti i suoi messaggi in modo esauriente. Il simbolismo, che è un sistema conoscitivo non semiologico, non è sottomesso alla restrizione di questo tipo».[15] «I dispositivi simbolici possono dunque variare da individuo a individuo molto più di quanto non avvenga nel caso del linguaggio, benché i dati di partenza varino forse meno».[16]
È interessante l’osservazione di Sperber secondo cui, di conseguenza, non possono esistere lingue simboliche. «Un individuo che impara una seconda lingua interiorizza una seconda grammatica, e anche se si possono rilevare certe interferenze, è sorprendente quanto esse siano limitate. I dati simbolici, invece, qualunque sia la loro origine, si integrano nello stesso individuo».[17] È come se ciascun simbolo costituisse e istituisse un linguaggio a se stante, il che è come dire che non c’è alcun linguaggio: «Si costruisce sempre un solo dispositivo simbolico, che l’esperienza può modificare ma non duplicare».[18]
Ugualmente, non si impara il simbolismo nello stesso modo in cui si impara a parlare. Non si può mai affermare di avere imparato un dispositivo simbolico, come si può affermare di avere imparato una lingua. «Essendo conoscitivo, il simbolismo resta per tutta la vita un dispositivo di apprendimento».[19] Insomma, nell’ambito del simbolismo, c’è un apprendimento continuo e si rende necessario un continuo cambiamento, anche se molte società tradizionali tendono a fissare il simbolismo per impedire qualunque cambiamento. «Il dispositivo simbolico,... non può operare su nuovi dati senza esserne modificato: esso non è soltanto l’oggetto di un apprendimento, ma uno dei suoi oggetti è precisamente l’apprendimento continuo».[20]
Dunque il sapere simbolico non è un sapere linguistico codificato. Ma non è neppure un sapere enciclopedico. Il sapere simbolico assomiglia a prima vista al sapere enciclopedico (e utilizza proposizioni che sono indubbiamente proposizioni sintetiche). Tuttavia, mentre nell’ambito del sapere enciclopedico si tenta in ogni modo di evitare le contraddizioni, «Le proposizioni simboliche non sono articolate in eguale maniera e non sono oggetto di uno sforzo analogo; non per questo sono incoerenti tra loro, ma la loro coerenza è d’altra natura ed esse coesistono senza difficoltà accanto proposizioni enciclopediche che le contraddicono, direttamente o per implicazione».[21]
La conoscenza simbolica e la conoscenza enciclopedica vengono a trovarsi giustapposte, ma non vengono mai messe a confronto. È come se la conoscenza simbolica vivesse in un suo mondo a parte. Chi è portatore di entrambi i tipi di conoscenza ritiene che possano essere entrambe vere e che in qualche modo - anche se non si sa come - l’incongruenza possa essere risolta.
Posso sapere che qualcosa è vero senza sapere nulla di questo qualcosa. Dunque il dispositivo simbolico usa proposizioni che appartengono all’enciclopedia, ma queste vengono messe tra parentesi, sono ritenute vere o valide di per sé, cioè non vengono mai confrontate effettivamente con il resto dell’enciclopedia. «... dire che le rappresentazioni simboliche sono tra virgolette, è anche dire che il sapere simbolico non verte sull’oggetto di quelle rappresentazioni, ma ha invece quelle rappresentazioni come oggetto».[22] L’enciclopedia non viene usata in quanto tale, ma viene soltanto evocata, oltretutto in modo parziale. Per gli scopi del simbolismo, è sufficiente che l’aspetto enciclopedico specifico che viene evocato riesca a riempire la lacuna avvertita al momento dell’input.[23]
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Prenderemo ora in considerazione alcuni aspetti specifici del procedimento che avviene quando riceviamo un input che dà origine a un processo di simbolizzazione. «Il trattamento simbolico sembrerebbe […] comportare due aspetti: da un lato, uno spostamento dell’attenzione o focalizzazione; dall’altro, una ricerca nella memoria o evocazione».[24] Sperber ha fornito una descrizione del meccanismo psicologico che interviene nella simbolizzazione. Quando focalizziamo la nostra attenzione su un’informazione nuova e questa informazione viene trasferita nella memoria di lavoro, cerchiamo di produrre una connessione tra la nuova informazione e quanto è già contenuto nella memoria a lungo termine. Se la connessione riesce, i contenuti connessi nella memoria a lungo termine vengono trasferiti nella memoria di lavoro e si crea una connessione tra la nuova informazione e le informazioni precedenti. «Può tuttavia accadere che il lavoro del dispositivo concettuale non riesca a rendere in tal modo pertinente la nuova informazione […] ciò che rimane è una rappresentazione concettuale non assimilabile, che viene messo tra virgolette per divenire oggetto di una seconda rappresentazione, simbolica questa volta».[25]
Quando la focalizzazione non viene soddisfatta (perché non si trova nulla nella memoria a lungo termine che la soddisfi), l’attenzione si concentra allora sulla stessa condizione di non soddisfazione (al vuoto che abbiamo trovato nella memoria) e questo stesso vuoto diventa un nuovo punto focale. Questo nuovo punto focale diventa il centro di un nuovo tentativo di esplorazione della nostra memoria a lungo termine per tentare di trovare qualche connessione. «L’evocazione consiste nel passare in rassegna e nel verificare le informazioni contenute in quel campo […] se l’impiego di un concetto in una rappresentazione concettuale permette di convocare direttamente la voce enciclopedica che adesso si riferisce, una rappresentazione messa tra virgolette e la focalizzazione che l’accompagna permettono, per parte loro, di delimitare un campo nel quale può trovarsi l’informazione richiesta. Il simbolismo dà luogo quindi a un secondo modo d’accesso alla memoria: un’evocazione che si adatta là dove la convocazione fallisce […]. Nella terminologia della psicologia cognitiva moderna, il fallimento di un processo sequenziale dà l’avvio a un processo parallelo, invertendo così l’ordine normale dei processi cognitivi. […] È essenziale capire che una rappresentazione simbolica determina una condizione focale e un campo di evocazione, ma non determina i percorsi dell’evocazione».[26] Questo è il motivo per cui l’interpretazione del simbolo sembra avvalersi di facoltà non razionali.
«Le rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite valutate, costituiscono l’input del dispositivo simbolico. In altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l’output difettoso del dispositivo concettuale. L’elaborazione delle rappresentazioni concettuali difettose da parte del dispositivo simbolico avviene in due tappe: in primo luogo, esso ne modifica la struttura focale, facendo passare il centro dell’attenzione dalle proposizioni che descrivono la nuova informazione alle condizioni non soddisfatte che hanno reso difettoso alla rappresentazione; quindi esplora la memoria passiva alla ricerca di informazioni in grado di ristabilire la condizione non soddisfatta. Quando questo processo d’evocazione riesce, le informazioni così trovate sono sottoposte al dispositivo concettuale che ricostruisce, in base a esse e alla condizione precedentemente non soddisfatta, una nuova rappresentazione concettuale. Questa è l’interpretazione della rappresentazione simbolica iniziale».[27]
In sintesi, «Si hanno quindi tre operazioni: collocazione tra virgolette di una rappresentazione concettuale difettosa - focalizzazione sulla condizione soggiacente responsabile del difetto iniziale - evocazione in un campo della memoria delimitato dalla focalizzazione».[28] Ugualmente, sempre a sostegno dello stesso argomento, scrive Sperber: «... malgrado l’eterogeneità e la differenza, ricompare […] un’identica struttura generale: messa tra virgolette di una rappresentazione concettuale insufficiente; focalizzazione sulla condizione responsabile di quell’insufficienza; evocazione di un campo delimitato mediante la focalizzazione. Il dispositivo simbolico si rivela quindi come un meccanismo molto generale, sotteso ad attività intellettuali estremamente diverse».[29]
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Il modello proposto da Sperber autorizza a interpretare le elaborazioni simboliche a livello individuale. Tuttavia, come l’antropologia continuamente ci avverte, accade che i simboli siano spesso condivisi da gruppi di individui, comunità, culture. Si tratta dunque di comprendere come il processo cognitivo della simbolizzazione individuale possa produrre simboli collettivi condivisi, come possa cioè costruire delle rappresentazioni collettive di carattere simbolico. Ciò può avvenire, secondo Sperber, attraverso il processo dell’apprendimento.
«Restano due ipotesi possibili: o gli individui sono per natura forniti di molteplici condizionamenti universali, di “archetipi” che consentono loro di interpretare ogni informazione simbolica indipendentemente dalle altre e sempre allo stesso modo; oppure - ed è l’ipotesi che io sostengo - gli individui sono dotati solo di un dispositivo simbolico generico e di una strategia di apprendimento. Tale strategia consiste nel cercare mediante quei meccanismi di cui sopra il trattamento più coerente e sistematico per le diverse informazioni con le quali essi si trovano a doversi confrontare. Nell’ambito di questa ipotesi, la diversità delle credenze, dei riti, ecc., e la loro ripetizione, lungi dall’apparire assurda o contingente, si rivela necessaria poiché essa soltanto permette - in mancanza di istruzioni esplicite o di schemi innati - di comprendere in che modo l’esperienza del simbolismo culturale possa condurre, almeno parzialmente, a un orientamento comune dei membri di una stessa società».[30]
Dunque, gli input che scatenano il processo della simbolizzazione possono essere comunemente diffusi, possono appartenere a quegli “universali della condizione umana” che spesso sono stati sottolineati. Tuttavia le singole comunità, le singole culture godono di una grande autonomia nell’elaborazione cognitiva che avviene sulla base degli specifici contenuti enciclopedici della cultura comune.
«Le forme universali del simbolismo si presentano quindi in condizioni critiche universali e con una focalizzazione universale; invece, i campi di evocazione determinati dalla focalizzazione differiscono in larga misura da una società all’altra, divergono a seconda del punto di vista particolare adottato in una società e variano quando quella società cambia».[31]
«Le manifestazioni del simbolismo culturale, violano sistematicamente gli stessi principi universali del sapere enciclopedico e, di conseguenza, proprio là dove esse appaiono opposte e in contraddizione, ancora meglio mettono a fuoco nella stessa direzione e illuminano, attraverso i loro stessi paradossi, i campi d’evocazione dai contorni simili, campi nei quali ogni cultura mette ciò che sa; campi che ogni individuo percorre guidato dal suo timore e dal suo desiderio. Nessuna significazione nei miti universali, ma, grosso modo, una focalizzazione universale, un campo d’evocazione culturale e un’evocazione individuale».[32]
«Lo studio transculturale del simbolismo ha quindi come oggetto le rappresentazioni simboliche reperibili in culture diverse, le loro condizioni critiche, le loro convergenze, gli elementi universali (o comuni a un’area culturale) del sapere enciclopedico che rientrano nel campo dell’evocazione. Lo studio del simbolismo in una particolare cultura può basarsi su questi primi risultati parziali per poi completarli con una descrizione degli elementi idiosincrasici del campo dell’evocazione. Concepiti in questi termini, i due metodi operativi, anziché entrare in conflitto, devono necessariamente procedere di pari passo. I fenomeni simbolici universali non hanno due interpretazioni contraddittorie - una costante e universale, l’altra variabile e specifica per ciascuna società -, ma piuttosto una struttura focale universale e un campo d’evocazione variabile».[33]
La teoria del simbolismo di Sperber dunque rende conto sia delle analogie transculturali di certi materiali simbolici, sia delle loro irriducibili specificità; rende conto sia della tendenza di certi materiali a conservarsi e a diffondersi, oppure della tendenza a produrre, su questi stessi materiali, delle innovazioni anche profonde. Si può dunque fare a meno dell’ipotesi di strutture ontologiche profonde, come gli archetipi (come in Jung), oppure di codici generativi del materiale simbolico e mitologico (come in Lévi-Strauss).
 
(*) Questo articolo deriva dalla fusione di due miei precedenti interventi sull’argomento del simbolismo.
 
12/09/2014
                                                                                 Giuseppe Rinaldi
 
 
OPERE CITATE
 
1975 Eco, Umberto
A theory of Semiotics, Indiana University Press. Tr. it.: Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975.
 
1974 Sperber, Dan
Le symbolisme en général, Hermann, Paris. Tr. it.: Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino, 1981.
 
1967 Turner, Victor
The Forest of Symbols. Aspects of Ndembu Ritual, Cornell University Press, Ithaca. Tr. it.: La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia, 1976.
 
2012 Zagrebelsky, Gustavo
Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino.
 
 
NOTE
 
[1] Il titolo riprende ovviamente, come metafora, il noto Turner (1967). Presento qui i primissimi passi di un approfondimento sulla tematica del simbolismo in relazione alle rappresentazioni collettive e alla cultura.
[2] Cfr. Enciclopedia Treccani di filosofia.
[3] Cfr. U. Eco 1975.
[4] Cfr. Zagrebelsky 2012: 4.
[5] Cfr. Eco 1975.
[6] Zagrebelsky 2012:11-12.
[7] È quel che s’intende quando si dice che il simbolo viene esperito o vissuto.
[8] Anche se tendiamo facilmente a conferire un senso di realtà a ciò a cui abbiamo associato una forte emozione.
[9] Zagrebelsky 2012: 13.
[10] Zagrebelsky 2012: 15.
[11] Zagrebelsky 2012: 16.
[12] La distinzione tra analitico e sintetico che qui si usa è quella kantiana.
[13] I piccoli nella nostra cultura, fino a una certa, età possono essere convinti che esistano davvero esseri come la Befana o Babbo Natale. In una certa fase possono vivere in entrambi i mondi, sia come se esistessero, sia come non esistessero. Anche gli adulti possono fare molte concessioni sull’esistenza di questi esseri, come in occasione delle feste.
[14] Ad esempio, si consideri un essere che intervenga e si faccia presente solo in sogno. Possiamo ritenere fermamente che esista, ma il fatto che si presenti solo in sogno lo mette al riparo da qualsiasi esame di realtà.
[15] Sperber 1974: 86.
[16] Sperber 1974: 86.
[17] Sperber 1974: 87
[18] Sperber 1974: 87.
[19] Sperber 1974: 88.
[20] Sperber 1974: 89.
[21] Sperber 1974: 93.
[22] Sperber 1974: 107.
[23] Un bambino intervistato disse a Piaget che le montagne servono a far tramontare la luna. Il fatto che simili espressioni possano sembrarci espressioni poetiche la dice lunga anche sui legami tra il simbolismo e la poesia.
[24] Sperber 1974: 116.
[25] Sperber 1974: 117.
[26] Sperber 1974: 118.
[27] Sperber 1974: 137.
[28] Sperber 1974: 119.
[29] Sperber 1974: 186.
[30] Sperber 1974: 132.
[31] Sperber 1974: 134.
[32] Sperber 1974: 136.
[33] Sperber 1974: 135.