lunedì 27 luglio 2015

Tra il giovane Lukács e Heidegger

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1. Accenni interessanti a possibili parentele filosofiche tra Heidegger e il marxismo si trovano nell’Introduzione del 1956 scritta da Lukács per la ripubblicazione dei suoi scritti marxisti giovanili raccolti in Storia e coscienza di classe.[1] Lukács lascia intendere, pur non affrontando direttamente la questione, che Essere e tempo sia stato scritto proprio contro Storia e coscienza di classe, utilizzandone tuttavia impropriamente numerosi concetti fondamentali. Detto brutalmente, Essere e tempo sarebbe stato una scopiazzatura, orientata filosoficamente a destra, degli scritti marxisti del giovane Lukács. Su questa strada interpretativa, Lucien Goldmann, che si dichiarava discepolo del giovane Lukács e di Heidegger, aveva iniziato un lavoro di comparazione tra i due autori e ne aveva enumerato un notevole elenco di analogie e punti in comune. Il lavoro di Goldmann fu interrotto dalla sua morte, anche se i suoi appunti sono stati pubblicati postumi. [2] La questione non è mai stata risolta, anche se va detto preliminarmente che molti dei punti in comune tra Marx / Lukács e Heidegger, segnalati da Goldmann, sono senz’altro dovuti ai comuni riferimenti hegeliani. Per esaminare un po’ più in dettaglio la questione, faremo qui un esercizio di lettura del primo saggio contenuto in Storia e coscienza di classe attraverso il quale cercheremo di mettere in luce gli elementi fondazionali della dialettica secondo Lukács e le eventuali analogie con i successivi sviluppi heideggeriani.
Si tratta di un lavoro meramente descrittivo ed esplorativo ma che potrebbe avere qualche interessante conseguenza a livello della comprensione di quel che è accaduto nella recente storia della filosofia italiana, ove il dissolvimento del paradigma neomarxista ha lasciato ben presto il posto al paradigma ermeneutico heideggeriano. La presenza di parentele antiche potrebbe spiegare la facilità estrema di questo passaggio che altrimenti resterebbe del tutto inspiegabile e misterioso.
 
2. Il primo saggio contenuto in Storia e coscienza di classe di Lukács si intitola Cos’è il marxismo ortodosso ed è stato scritto nel 1919. A dispetto del titolo, contiene una serie d’interessanti riflessioni di tipo metodologico. Esso rappresenta l’interpretazione che il giovane Lukács dava del marxismo poco tempo dopo la sua adesione al comunismo. Il contributo di Lukács è interessante perché l’Autore, prima di diventare marxista, aveva frequentato assai approfonditamente la cultura tedesca del primo Novecento. Il tratto fondamentale resta l’hegelismo, mescolato però con le filosofie della vita, con le riflessioni metodologiche di Windelband, Rikert, Dilthey e Weber. L’articolo rappresenta un tentativo di reagire alla crisi del marxismo, tornando da un lato alla fonte hegeliana e utilizzando dall’altro la riflessione metodologica tedesca sul rapporto tra le scienze della natura e le scienze umane. Esso riguarda fondamentalmente la dialettica. È noto che Marx non aveva mai trattato esplicitamente l’argomento. Dopo Marx, soprattutto per opera di Engels c’era stata la formulazione del diamat, che aveva assunto un carattere alquanto dogmatico e che, in un certo senso, accoglieva alcuni orientamenti positivistici. Nell’articolo di Lukács c’è il tentativo di formulare una concezione della dialettica che implica un forte ritorno a Hegel, ma che nello stesso tempo tiene in conto il dibattito che era stato sviluppato in Germania a proposito delle scienze storico sociali.
 
3. Per prima cosa Lukács precisa, contro la scolastica marxista dell’epoca, soprattutto quella di matrice socialdemocratica, il fatto che il marxismo, più che con specifici contenuti, coincide fondamentalmente con il metodo dialettico: «Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Essa è la convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si sia scoperto il corretto metodo della ricerca, che questo metodo possa essere potenziato, sviluppato e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori. Ma anche: che tutti i tentativi di superarlo o di «migliorarlo» hanno avuto e non possono avere altro effetto che quello di renderlo superficiale, banale ed eclettico».[3]
Da ciò ricaviamo, anzitutto, che il destino del marxismo è legato soprattutto a quello della dialettica. Se per qualsiasi motivo venisse invalidato il metodo dialettico, ne sarebbe dunque invalidato anche il marxismo. Lukács ribadisce poi che il marxismo è “scientifico”, in questo, si appresta a fare concorrenza e a sorpassare le metodologie positivistiche (che erano penetrate profondamente nel marxismo attraverso Engels e il diamat). Si noti tuttavia che i limiti del positivismo ormai erano materia comune delle discussioni accademiche non solo nell’ambito del marxismo. Siamo in un periodo in cui la filosofia sta cercando la sua rivincita, sta cioè tentando di inglobare le scienze della natura senza farsene troppo condizionare. Un esempio tipico di questa strategia è la distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello Spirito. Un altro esempio tipico di questo atteggiamento è La crisi delle scienze europee di Husserl.
È poi sicuramente interessante la concessione implicita fatta da Lukács alla nozione stessa di metodo. È bene ricordare che Hegel aveva negato la possibilità di un metodo e che Marx stesso aveva strettamente legato il metodo al suo oggetto. Cioè, l’idea di Marx era che non fosse possibile alcun metodo «in generale». Vediamo ora in Lukács che il carattere metodologico diventa il solo elemento basilare fondante l’ortodossia marxista. È questa probabilmente un’eredità delle ampie discussioni metodologiche che erano state condotte nella cultura del tempo, che avevano messo in luce l’ambiguo carattere filosofico e scientifico del “metodo”. È proprio nello spazio di quest’ambiguità che Lukács costruisce la sua immagine del metodo dialettico.
Va da sé che, se la dialettica è un metodo, dovrebbe come minimo essere intersoggettiva, cioè dovrebbe essere possibile mettersi d’accordo intorno ai suoi principi (anche se in proposito, come vedremo, possono sorgere delle difficoltà). È proprio quanto cerca di fare Lukács nel suo articolo ed è quanto cercheremo di esaminare nei prossimi paragrafi.
 
4. Lukács cerca anzitutto di dare al suo metodo una caratterizzazione pratica. Il “metodo” dialettico dunque non va ricondotto a qualcosa di limitato e relegato al campo conoscitivo. La prima cosa importante da fissare, per Lukács, è il carattere rivoluzionario della dialettica. «La dialettica materialistica è una dialettica rivoluzionaria. Questa determinazione è così importante e decisiva per comprendere la sua essenza che deve essere chiaramente afferrata prima ancora di poter trattare dello stesso metodo dialettico, per assumere un atteggiamento corretto verso il nostro problema. Si tratta del problema della teoria e della praxis».[4]
Si tratta dunque non di un metodo per conoscere, ma di un metodo per trasformare. È un metodo che può essere usato solo da chi agisce per il cambiamento e cioè dal proletariato organizzato. Non si tratta di un metodo che può usare individualmente chiunque (come ad esempio il metodo galileiano) per scopi di conoscenza della natura. Il rapporto che viene a instaurarsi tra la coscienza e l’azione storica del proletariato è immediato: «Solo se la presa di coscienza rappresenta il passo decisivo che il processo storico deve fare verso il suo proprio fine […]; se la funzione storica della teoria consiste nel rendere praticamente possibile questo passo; se è data una situazione storica nella quale la corretta conoscenza della società si converte, per una classe, in condizione immediata della propria affermazione nella lotta, se per questa classe la conoscenza che essa ha di significa al tempo stesso una corretta conoscenza della società nella sua interezza; se di conseguenza, per una simile conoscenza, questa classe è nello stesso tempo soggetto ed oggetto della conoscenza ed in questo modo la teoria interviene immediatamente ed adeguatamente nel processo di rivolgimento della società: solo allora diventa possibile l’unità di teoria e praxis, presupposto della funzione rivoluzionaria della teoria. Una tale situazione è sorta con la comparsa del proletariato nella storia».[5]
Come si può bene intendere, l’unità di teoria e praxis sarebbe l’aspetto più caratteristico della dialettica. C’è dunque in Lukács una funzione della teoria che è del tutto rivoluzionaria e che riposa non tanto sulla conoscenza dei meccanismi economici e sociali, bensì nella coscienza della classe che mette in grado il proletariato di agire come soggetto storico. «Nella misura in cui la teoria non è altro che la fissazione e la coscienza di un passo necessario, essa si trasforma al tempo stesso in premessa necessaria per il passo immediatamente successivo».[6] Di qui deriva una critica diretta nei confronti di Engels: la dialettica non è un metodo per conoscere la natura, bensì un metodo per fare la rivoluzione. In Engels «[…] l’interazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico non viene neppure menzionato, e tanto meno quindi posto – come si dovrebbe - al centro della considerazione metodica».[7] Per Lukács dunque è sbagliata ogni «separazione tra metodo e realtà, tra pensiero ed essere». Egli, di conseguenza, critica come opportunistica la rinuncia di Bernstein alla dialettica. Qui emerge con chiarezza la differenza tra la prospettiva socialdemocratica e la allora nuova prospettiva rivoluzionaria proposta da Lukács.
 
5. Per comprendere la dialettica, secondo Lukács occorre rivedere la visione elementare e basilare che comunemente abbiamo della realtà. Lukács si domanda cosa sia un fatto. «[…] l’empirismo più ottuso nega che i fatti siano in generale tali soltanto all’interno di una […] elaborazione metodologica - che può essere diversa secondo lo scopo che si persegue nella conoscenza. Esso crede di poter trovare un fatto importante in ogni dato, in ogni statistica, in ogni factum brutum della vita economica. Ed esso non si rende conto che l’enumerazione più semplice, la catalogazione di «fatti» più scarna di commenti è già un’«interpretazione»: che già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria, secondo un metodo, sono stati strappati al contesto della vita, nel quale in origine si trovavano, e inseriti nel contesto di una teoria».[8]
Si noti intanto en passant la qualificazione secca di «ottuso» per l’empirismo, abitudine linguistica che risale senz’altro a Marx. La violenza verbale contro gli oppositori è sempre assai intensa in tutto l’articolo. Per il resto, si propone la versione caricaturale dell’empirista che accumula dati bruti ritenendo che questi siano oggettivi e che costituiscano immediatamente la conoscenza. In realtà, avverte Lukács, i fatti sono sempre strappati al continuum della vita e sono carichi di teoria. La teoria del fatto che viene qui proposta è ante litteram ermeneutica e prospettivista. Si cerca insomma di andare altre la nozione immediata di oggettività. Si noti che i fatti sarebbero strappati dal «contesto della vita», termine quest’ultimo ripreso dalla Lebensphilosophie. Va riconosciuto che la polemica contro il «dato» privo di teoria era quasi un luogo comune dell’antipositivismo. Fin qui, dunque, nulla di eclatante, anche Nietzsche e Popper potrebbero concordare: la conoscenza non è mai un dato immediato, è sempre in qualche misura costruita.
 
6. Tuttavia, e qui sta la vera novità, secondo Lukács la presenza nella società di una prospettiva incentrata sul «dato» non è un semplice errore metodologico da correggere. È una situazione reale, necessaria, quanto mai diffusa e che è un effetto al capitalismo. Si sostiene qui che l’esistenza di fatti oggettivi, isolati gli uni dagli altri, separati dalle interpretazioni, è un risultato dello sviluppo economico sociale e, in ultima analisi, un effetto del capitalismo: «Ciò che colpisce a prima vista in un metodo di questo genere è il fatto che lo stesso sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero. Ma proprio a questo punto e proprio per questa ragione abbiamo bisogno del metodo dialettico per non soggiacere all’apparenza sociale che cosi si produce, per poter cogliere ancora l’essenza dietro questa apparenza. I fatti «puri» delle scienze della natura sorgono, cioè, trasponendo realmente o idealmente un certo fenomeno della vita in circostanze nelle quali i suoi caratteri conformi a legge possono essere indagati a fondo senza l’intervento perturbatore di altri fenomeni. Questo processo si estende ancor più nel momento in cui i fenomeni vengono ridotti alla loro essenza puramente quantitativa, espressa in numeri ed in rapporti numerici. Ora, gli opportunisti trascurano costantemente il fatto che è proprio dell’essenza del capitalismo produrre i fenomeni di questa forma».[9]
In questo brano viene proposta una teoria davvero assai impegnativa secondo la quale possono esserci diversi tipi di oggettività per così dire in competizione. C’è anzitutto l’oggettività dei dati delle scienze della natura, i quali sono strappati dalla “vita” e trasformati in fatti puri, esprimibili attraverso le leggi della natura. Senza questo processo, l’oggettività delle scienze naturali non ci sarebbe (e Lukács non la mette in dubbio). L’oggettività del «dato», quando invece sia applicata alle scienze storico sociali, rappresenterebbe un tipo specifico di oggettività che dipenderebbe dalla storia e in particolare dallo sviluppo capitalistico. Tolto il capitalismo, questo tipo di oggettività, che è «apparenza sociale» e che corrisponde al feticismo marxiano, non ci sarebbe più.[10] Soltanto se andiamo oltre l’apparenza sociale si potrà allora accedere a un altro tipo ancora di oggettività, che è l’unico autentico, si potrà cioè cogliere l’essenza.
Lukács non ha alcun dubbio che ci siano le essenze dietro le apparenze e dà la questione per scontata. Probabilmente dubbi simili non li avevano neppure i suoi lettori, sennò si sarebbe affannato a spiegare meglio la questione. Facendo lo stesso gioco di Lukács, ci potremmo domandare come mai, nella Germania del 1919, ci fosse un pubblico che considerava come reale un tipo di oggettività come le essenze. Come mai cioè ci fosse un mondo culturale in cui l’oggettività delle essenze era data per scontata. Difficile qui dare la colpa al capitalismo. Indubbiamente, possiamo desumere oggi col senno di poi, si trattava di categorie meramente scolastiche che provenivano da Hegel e che avevano inondato tutta la filosofia tedesca successiva. Si noti come ormai l’avvertenza kantiana circa la necessità di limitarsi all’apparenza (cioè ai fenomeni) fosse stata completamente dimenticata. Si noti anche che il programma di cogliere l’essenza dietro l’apparenza era compatibile con i più disparati orientamenti filosofici del tempo e che sarebbe andato bene anche a Schopenhauer.
 
7. Accanto alla polemica contro il «dato» fenomenico abbiamo poi la immancabile polemica contro la quantificazione. I fenomeni sono computabili solo se sono già stati isolati e separati, quindi si tratta soltanto di una conseguenza della precedente oggettività arbitraria e ingannevole. La diffusione della quantificazione dunque, per Lukács, seguendo Marx, ma arrivando anche fino a Max Weber, sarebbe dovuta anch’essa all’essenza stessa del capitalismo.[11] Val la pena di ricordare anche che il primato della qualità contro la quantità era stato uno dei motivi conduttori del diamat.
 
8. Non solo l’oggettivazione feticistica e la quantificazione ma anche la tendenza verso la specializzazione sarebbe una conseguenza dell’essenza del capitalismo. Infatti: «Il carattere feticistico delle forme economiche, la reificazione di tutti i rapporti umani, l’estensione costantemente crescente di una divisione del lavoro che scompone il processo di produzione in modo astrattamente razionale, senza preoccuparsi delle possibilità umane e della capacità dei produttori diretti, ecc., trasformano i fenomeni della società e contemporaneamente, insieme ad essi, la loro appercezione. Sorgono fatti «isolati», complessi isolati di fatti, settori parziali (economia, diritto, ecc.) con leggi proprie, che sembrano essere già ampiamente predisposti nelle loro forme fenomeniche immediate ad un’indagine scientifica di questo genere. Cosicché assume necessariamente un valore particolarmente «scientifico» sviluppare conseguentemente questa tendenza - che risiede nelle cose stesse - elevandola alla scienza».[12]
Il capitalismo dunque produce quel particolare tipo di oggettività che è il fatto isolato nonché i settori parziali di fatti con leggi proprie, che sarebbero le specializzazioni scientifiche. Questi settori specialistici ricordano splendidamente le ontologie regionali di Husserl, che non sono autonome e necessitano di un fondamento. È evidente che, invece, la dialettica «[…] sottolinea la concreta unità dell’intero di fronte a tutti questi sistemi parziali ed a questi fatti isolati ed isolanti».[13] Si presume dunque che le specializzazioni siano inessenziali, siano solo una forma di apparenza corrispondente a quel tipo di oggettività apparente prodotto dal capitalismo. Dunque, per tralasciare le scienze della natura, per Lukács non avrebbero senso specializzazioni come l’egittologia, l’economia, la filologia, la letteratura, la storiografia, il diritto, ecc…
Se non va bene la separazione dei fatti, c’è un solo oggetto essenziale con cui la dialettica ha a che fare. Qui vien chiamato intero, ma è chiaro che si tratta della famosa Totalità. La dialettica scientifica ha per oggetto niente di meno che la Totalità. Una scienza della totalità non può quindi avere specializzazioni o aree tra loro separate.
 
9. A questo punto si introduce un altro limite del «dato» empiristicamente inteso e cioè l’astoricità. «La non scientificità di questo metodo, apparentemente così scientifico, risiede dunque nel fatto che esso non tiene conto e trascura il carattere storico dei fatti che si trovano alla sua base. Ma in ciò non vi è soltanto una fonte di errori (cosa del resto costantemente ignorata da questa concezione), sulla quale Engels ha espressamente richiamato l’attenzione. L’essenza di questa fonte di errori consiste nel fatto che la statistica e la teoria economica «esatta» su di essa fondata non riesce mai a tenere il passo con lo sviluppo».[14]
Insomma, nel dominio dell’umano, le cose cambiano. Questo significa che una cosa non è mai esattamente quella che è. Non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume. Ciascuna cosa non è quel che è nel suo isolamento, ma è quel che è veramente soltanto nel suo sviluppo storico. Non ci sono due società uguali, due costituzioni uguali, due romanzi uguali, due guerre uguali. Ogni cosa, considerata storicamente, ha la sua peculiarità individuale. L’accusa riecheggia quella ricorrente nella riflessione sulle scienze storico sociali di non tenere un adeguato conto della individualità dei fatti storici.[15]
Il problema è che se i fatti individuali non sono separabili dalla Totalità allora avremo un solo fatto storico totale individuale che tiene dentro di sé tutto il resto. Questo è appunto l’oggetto di cui la dialettica si occupa e cioè la Totalità. Quindi è questo solo oggetto che può essere indagato storicamente, perché la storia non può essere altro che la storia della Totalità stessa. Riducendo invece la realtà storico sociale a «dato», non è possibile «tenere il passo con lo sviluppo», come la filosofia di Hegel, ci si occupa del mondo dopo che questo è bell’e fatto. Non si sarebbe in grado di prevedere lo sviluppo storico, di indirizzarlo, il segreto del quale risiede non nei particolari ma dentro il sistema totale. Come si vedrà è la contraddizione che sta dentro alla Totalità a determinare lo svolgimento o il movimento della Totalità.
 
10. La contrapposizione tra essenza e esistenza (che come s’è detto è di fonte puramente scolastica) a questo punto deve necessariamente intervenire a chiarire la costituzione interna di ogni singolo fatto individuale (il quale poi, come s’è visto, si riconduce autenticamente alla Totalità): «Perciò, se si vogliono comprendere correttamente i fatti, si deve anzitutto cogliere con chiarezza e precisione questa differenza tra la loro esistenza reale e il loro nucleo strutturale interno, tra le rappresentazioni che si formano in rapporto ad essi ed i loro concetti. Questa distinzione è il primo presupposto di una considerazione realmente scientifica che, secondo le parole di Marx, «sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente».[16]
Si noti qui lo sberleffo a Kant, fatto insieme da Marx e da Lukács: noi comunemente abbiamo i fenomeni, ma non basta, perché dietro i fenomeni ci sono le essenze. Il «concetto» coglie il nucleo strutturale interno, cioè l’essenza, in contrapposizione al «dato» che si ferma all’esistenza. «Ciò che importa è dunque, da un lato, liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, e, d’altro lato, ottenere la comprensione del loro carattere di fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica. Questa forma è necessaria a causa della loro essenza storica, per il fatto che essi si sono sviluppati sul terreno della società capitalistica».[17]
Alla base della dialettica marxiana, dice chiaramente Lukács, sta la differenza tra essenza e fenomeno, tra essenza e esistenza. Il fenomeno è solo datità immediata. Occorre invece individuare il nucleo strutturale interno, l’essenza. Non solo, occorre anche mostrare, partendo dall’essenza, come si generi l’apparire fenomenico (che evidentemente non è casuale e ha anch’esso una sua spiegazione necessaria in riferimento alla Totalità).[18]
 
 11. Sembra chiaro a questo punto che il mondo storico sociale va concepito come una Totalità organica[19] in sviluppo (esattamente nello stesso modo in cui Aristotele concepiva la società umana[20]). «Solo operando questa connessione, nella quale i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà».[21] La realtà storico sociale è dunque una Totalità. Se la totalità viene ignorata, viene cioè disgregata, si ottiene solo la conoscenza di parti senza senso. Insomma, il metodo dialettico di Lukács è un metodo olistico. Reale è solo ciò che è connesso con la Totalità. Ciò che è separato dalla totalità è solo manifestazione di irrealtà (costituisce cioè una oggettualità illusoria, prodotto di un mondo che è costitutivamente illusorio).
Dietro a tutto ciò, oltre che Hegel, ci sta Dilthey e la Lebensphilosophie. In particolare la nozione di Lebenswelt. Ma ci sta anche una certa interpretazione di Kierkegaard. Se consideriamo che un altro nome per il fenomeno apparente è quello di esistenza (anch’esso di provenienza scolastica) possiamo bene intendere le relazioni tra l’impostazione para hegeliana e l’esistenzialismo.[22] La nozione di esistenza inautentica che si trova in Essere e tempo di Heidegger è davvero molto simile alla oggettivazione illusoria di Lukács. Nelle filosofie essenzialiste dell’epoca, quel che viene spesso lamentato è la «perdita della Totalità» cioè la perdita del rapporto organico con l’essenza. Di qui la perdita dell’Essere, lo spaesamento, la reificazione, la decadenza, l’assenza del fondamento, e simili. Si presume che il singolo individuo (che vive nella società capitalistica), immerso nel fenomeno apparente, non abbia più alcuna nozione della totalità cui appartiene, cioè della vera realtà. Solo il rapporto con la totalità permette al singolo di diventare autentico, di recuperare dunque il contatto con la vera realtà.[23] In Marx / Lukács il singolo trova la sua realizzazione nella classe e nella coscienza di classe. In Heidegger l’autenticità coincide con la fine del singolo nell’essere per la morte e nella partecipazione al destino di un popolo (o di una civiltà). Quello che per Marx / Lukács è la Totalità da modificare, cioè il capitalismo, diventa in Heidegger la civiltà occidentale, cioè il terreno della mercificazione, della cosificazione, della reificazione, della quale si annuncia la fine, cui seguirà il nuovo inizio.
Sembra davvero chiaro a questo punto che anticapitalismo (Marx / Lukács) e antiebraismo (Heidegger) finiscano quasi sempre per coincidere (almeno nel periodo storico di cui ci stiamo occupando). La polemica contro la quantità e il denaro (che separano) sono sempre portate in difesa di totalità organiche (che invece uniscono). Non c’è evidentemente una strutturale differenza tra il comunismo di Marx e l’evento, il nuovo inizio, la nuova epoca della storia dell’Essere di Heidegger.
 
12. Abbiamo chiamato aristotelicamente «totalità organica» quella che Lukács chiama «totalità concreta», ma i due concetti si sovrappongono alla perfezione: «Questa considerazione dialettica della totalità, che in apparenza si allontana così nettamente dalla realtà immediata, che in apparenza costruisce la realtà in modo cosi «non scientifico», è l’unico metodo per cogliere la realtà e riprodurla nel pensiero. La totalità concreta è quindi la categoria autentica della realtà».[24] Occorre dunque abbandonare il senso comune della oggettività illusoria, prodotto dal capitalismo, per accedere alla vera realtà e riprodurla nel pensiero.
A questo punto si presenta però la questione del rapporto tra particolare e universale, che è tipico di tutti gli idealismi. Il punto di vista del singolo è sempre quello della particolarità (dell’esistenza o della deiezione, direbbe Heidegger). Come può il singolo individuo cogliere la totalità se egli stesso ne è soltanto una parte? La soluzione di Lukács è sbrigativa: l’essenza della totalità viene vien colta nel concetto e riprodotta nel pensiero. La Totalità dunque si presenta al singolo anzitutto come apparenza, come cosa capitalistica. Essa però possiede una sua essenza (il suo nucleo strutturale) che è la vera realtà. Questa vera realtà (che è già un’essenza, concreta fin che si vuole, ma essenza) è suscettibile di concettualizzazione (qui il concetto esprime l’essenza, la dice) e quindi di essere pensata, cioè riprodotta nel pensiero individuale. Nel momento in cui compare, nel pensiero individuale, il concetto della vera realtà, allora il pensiero individuale diventa pensiero collettivo (coscienza di classe) e comincia ad agire collettivamente per trasformare la vera realtà.
È interessante domandarsi cosa sia la Totalità (cioè la vera realtà) prima che questa venga pensata,[25] cioè concettualizzata nella mente di un individuo singolo. Sappiamo che essa è intera, individuale, che è essenziale e che non è fenomenica e tuttavia deve essere per definizione concreta. Nonostante sia detto anche che è pensabile, non è semplice immaginare una cosa del genere. Cosa vuol dire che la società capitalistica è una cosa intera e individuale, non fenomenica e però concreta? Che qualcosa sia concreto ma non fenomenico si direbbe una palese contradictio in adjecto. Tra le possibili soluzioni, saremmo tentati di usare il concetto di struttura. In effetti sono stati fatti molti tentativi per tradurre il capitalismo di Marx in termini di strutturalisti, ma senza alcun effettivo successo. Un’altra soluzione che sarà tentata è quella heideggeriana dell’uso del metodo fenomenologico e quindi dell individuazione di una Totalità precategoriale. A nostro giudizio, il concetto che si avvicina di più è quello del sinolo aristotelico che si realizza passando dalla potenza all’atto.[26]
Inutile dire che operativamente non si possano definire bene i confini di questa totalità concreta: come una bolla, questa totalità finisce per allargarsi e restringersi, per escludere o per ingoiare tutto, a seconda dei casi.
 
13. A questo punto, dopo avere esaminato gli elementi e la Totalità, si tratta per Lukács di render conto del movimento e quindi entra in scena la contraddizione. Si noti che Lukács accetta che nel campo delle scienze della natura non ci debbano essere contraddizioni. La conoscenza della natura deve essere non contradditoria, per cui l’avanzamento scientifico cancella le contraddizioni. Nel campo delle scienze “storico sociali” invece non abbiamo a che fare con un oggetti generici, ma con oggetti organici e totali come il capitalismo (che poi è un unico oggetto). Un aspetto fondamentale di questo oggetto è il movimento, cioè lo sviluppo, che avviene grazie alle contraddizioni interne. Le contraddizioni interne sono, in ultima analisi, dovute a soggetti collettivi, classi, che necessariamente si scontrano. Per Lukács la Totalità è autenticamente contradditoria: «[…] quando poniamo al centro della nostra attenzione il sostrato reale, materiale del nostro metodo, la società capitalistica, con l’antagonismo che le è immanente tra forze di produzione e rapporti di produzione […]in rapporto alla realtà sociale, invece, queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica della realtà ancora imperfetta, ma appartengono piuttosto inseparabilmente all’essenza della realtà stessa, alla essenza della società capitalistica. Nella conoscenza dell’intero esse non vengono superate al punto da cessare di essere contraddizioni. All’opposto: esse vengono comprese come contraddizioni necessarie, come fondamenti antagonistici di questo ordinamento della produzione. La teoria, come conoscenza della totalità, può mostrare una via per il superamento di queste contraddizioni, per la loro soppressione, solo in quanto indica quelle tendenze reali del processo di sviluppo sociale che, nel corso di questo sviluppo, sono destinate a sopprimere realmente queste contraddizioni nella realtà sociale».[27]
Esattamente come nel sinolo aristotelico si ha il passaggio dalla potenza all’atto, il capitalismo “si muove”, si sviluppa, e i protagonisti del movimento stanno dentro, tentando di far prevalere la loro prospettiva. Qui Lukács mostra di ritenere che la stessa differenza tra vero e falso che si instaura nelle scienze della natura e che colà deve essere superata, sia invece costitutiva della realtà organica del sistema capitalistico. La contraddizione dunque – come sottolineava Colletti – era reale.[28] Ne consegue che: «L’ideale conoscitivo delle scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo della lotta ideologica della borghesia. Per essa è una questione di vita, da un lato, apprendere il proprio ordinamento produttivo come se la sua forma fosse determinata da categorie valide al di fuori del tempo, quindi destinate dalle leggi eterne della natura e della ragione ad una eterna permanenza, dall’altro valutare come meri fenomeni di superficie, anziché come inerenti all’essenza di questo ordinamento della produzione, le contraddizioni che inevitabilmente riemergono».[29]
Lo scontro avverrebbe nel campo della battaglia ideologica tra borghesia e proletariato. Ne consegue il più totale prospettivismo: se vince la borghesia, ha ragione la borghesia e quel che dice la borghesia diventa vero (prevarrà l’oggettualità feticistica della borghesia). Se invece vince il proletariato, diventa vero il punto di vista del proletariato (prevarrà l’oggettualità essenzialistica del proletariato).
 
14. Si badi bene che la contraddizione non è in alcun modo riducibile a un semplice conflitto tra entità diverse. Tutto va sempre riferito alla Totalità. Nella contestazione che Lukács fa della teoria di Adler, egli mostra chiaramente di contestare la riduzione della contraddizione a semplice conflitto e di credere pertanto che il sistema capitalistico sia un oggetto in sé contradditorio.[30] «In questo modo, con il rifiuto o il dissolvimento del metodo dialettico va perduta al tempo stesso la conoscibilità della storia. Con ciò non si intende affermare che senza il metodo dialettico non possano essere descritte oppure possano essere descritte meno esattamente singole personalità o epoche della storia. Si tratta piuttosto del fatto che in questo modo diventa impossibile comprendere la storia come processo unitario».[31]
Qui si vede con chiarezza come il problema del rapporto tra la parte e il tutto metta continuamente di fronte a una sorta di principio di indeterminazione. Poiché la storia come principio unitario richiede che si tenga conto della verità del punto di vista proletario, senza dialettica non si conosce veramente l’oggetto storico. Ma nel momento in cui lo si conosce dialetticamente lo si sta già trasformando (cioè si sta agendo nella storia). La dialettica è un modo di conoscere e agire e non semplicemente di conoscere.
 
15. Lukács prova ulteriormente a chiarire in quale rapporto stiano le singole parti con l’intero: «[…] il rapporto con l’intero diventa la determinazione che definisce la forma di oggettualità di ogni oggetto della conoscenza; ogni modificazione essenziale, rilevante per la conoscenza, si esprime come modificazione del rapporto con l’intero e quindi come modificazione della stessa forma di oggettualità. […] Questa ininterrotta modificazione delle forme di oggettualità di tutti i fenomeni sociali nella loro interazione dialettica, l’origine della conoscibilità di un oggetto dalla sua funzione nella totalità determinata nel quale esso funge, tutto ciò fa sì che la considerazione dialettica della totalità ed essa sola! - sia in grado di comprendere la realtà come accadere sociale. […] le determinazioni riflessive delle forme feticistiche dell’oggettualità hanno appunto la funzione di far apparire i fenomeni della società capitalistica come essenze sovra-temporali. La conoscenza della reale oggettualità di un fenomeno, del suo carattere storico e della sua funzione reale nell’intero sociale formano dunque un atto indiviso della conoscenza».[32]
Si ribadisce dunque che le diverse forme di oggettualità sono un prodotto storico. Queste si definiscono per il rapporto che hanno con l’intero e possono benissimo essere in conflitto tra loro ed eventualmente sostituirsi le une alle altre nel corso della storia. Effettivamente in queste convinzioni è già contenuto molto Heidegger.
La questione del rapporto con l’intero crea una serie di paradossi assai interessanti. Uno è che è impossibile conoscere alcunché di preciso fin quando non si conosce l’intero completamente. Se si conoscesse l’intero solo parzialmente, ne deriverebbe che il rapporto della singola parte con l’intero potrebbe essere ancora ingannevole. Si badi bene che qui si parla della conoscenza dell’essenza dell’intero, e non dell’intero in tutta la sua esaustività. Comunque ciò non toglie che questa faccenda costituisca un problema: non ci può essere una conoscenza incrementale. La conoscenza dell’essenza delle parti e dell’intero c’è o non c’è.[33] Lukács inoltre sostiene esplicitamente (anche se la cosa può essere sorprendente) che i singoli elementi quando vengono rapportati all’intero (cui appartengono) mutano la loro natura oggettuale, la loro natura ontologica. In effetti va riconosciuto che solo così può stare in piedi la teoria marxiana del feticismo: il feticismo è possibile perché il capitalismo stesso produce l’ontologia/ oggettualità feticistica, cioè separa i singoli oggetti dalla totalità alla quale appartengono.
Volendo sviluppare però coerentemente il discorso, bisognerebbe pensare a una lotta tra due apparenze oggettuali che stiano sullo stesso piano: quella del proletariato e quella della borghesia. Se fosse così, dentro a una simile teoria ci sarebbe già tutto Foucault: solo il potere decide il tipo di oggettualità. In realtà per Lukács solo una delle due oggettualità è quella essenziale, mentre l’altra e fasulla (anche se non si sa più tanto bene perché: in Marx c’era il determinismo economico delle forze produttive che in Lukács resta in secondo piano).
Lukács comunque lo dice apertamente, a chiare lettere: quella feticistica è un tipo di oggettualità vero e proprio. Infatti: «Questa funzione occultante della realtà che è propria dell’apparenza feticistica che avviluppa tutti i fenomeni della società capitalistica non si limita tuttavia a celare il suo carattere storico, cioè la sua provvisorietà e transitorietà. O meglio: questo occultamento diventa possibile solo per il fatto che tutte le forme di oggettualità nelle quali immediatamente e necessariamente si manifesta all’uomo della società capitalistica il suo mondo circostante, e dunque in primo luogo le categorie economiche, occultano la loro propria essenza come forme di oggettualità, come categorie dei rapporti degli uomini tra loro, presentandosi come cose e come rapporti tra cose. Perciò, per aprire la via alla conoscenza della realtà, il metodo dialettico non deve soltanto lacerare i veli dell’eternità delle categorie, ma anche della loro cosalità».[34]
Insomma, le Totalità (di cui gli uomini fanno parte) determinano il tipo di oggettualità, cioè il tipo di cose nelle quali sono immersi, il tipo di cose che essi stessi sono. Determinano il tipo di relazione che essi instaurano con le cose: queste relazioni possono essere autentiche o inautentiche. A seconda del tipo di oggettualità in cui si è immersi, «la stessa cosa» può essere intesa come oggettualità feticistica prodotta dal capitalismo, oppure intesa correttamente in modo dialettico come rapporto tra gli uomini. Ne deriva che le «cose» mutano la loro essenza oggettuale a seconda del punto di vista.
Le analogie con Heidegger continuano a essere davvero sorprendenti.
 
16. È interessante, nel par. V conclusivo, la comparsa della nozione di essere, riferita addirittura a Marx: «Solo in questo contesto il punto di partenza del materialismo storico: «non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma all’inverso è il suo essere sociale che determina la sua coscienza», può andare al di là della sfera puramente teoretica e trasformarsi in problema della praxis. Infatti, solo qui dove il nucleo dell’essere si è scoperto come accadere sociale, l’essere può apparire come prodotto, finora rimasto certamente inconsapevole, dell’attività umana, e quest’attività può a sua volta apparire come l’elemento determinante della trasformazione dell’essere».[35] Che l’essere sia un essere sociale, che anzi sia l’accadere sociale, che l’essere possa essere un prodotto inconsapevole dell’attività umana, ma che l’attività umana sia anche in grado di trasformare l’essere sono tutti aspetti che gettano qualche lume sui rapporti tra il marxismo e l’esistenzialismo. L’ultima opera (di fatto incompiuta) di Lukács porta, com’è noto, il titolo di Ontologia dell’essere sociale.
 
17. Lukács ribadisce, alla fine del suo saggio, quel che era già stato dichiarato come fondamentale al principio e cioè che la dialettica non è un metodo per la conoscenza individuale della realtà, ma è un metodo per la trasformazione della realtà da parte di un soggetto collettivo che opera entro una formazione economico sociale: «[…]non bisogna separare l’essenza metodica del materialismo storico dalla «attività pratico-critica» del proletariato: entrambe sono momenti dello stesso processo di sviluppo della società. Ma per questo non bisogna neppure separare la conoscenza della realtà ottenuta mediante il metodo dialettico dal punto di vista classista del proletariato».[36]
Nel proletariato dunque avverrebbe definitivamente la coincidenza tra soggetto e oggetto: «Soltanto con l’apparire del proletariato giunge a compimento la conoscenza della realtà sociale. E questo proprio per il fatto che si è trovato nel punto di vista di classe del proletariato il punto a partire dal quale la società diventa visibile come intero. Solo perché per il proletariato è un bisogno di vita, una questione di esistenza, ottenere la massima chiarezza sulla propria situazione di classe; solo perché questa situazione diventa comprensibile unicamente nella conoscenza dell’intera società - conoscenza che è l’indispensabile premessa delle sue azioni, - nel materialismo storico è sorta ad un tempo la teoria delle «condizioni per la liberazione del proletariato» e la teoria della realtà del processo complessivo dello sviluppo sociale. L’unità tra la teoria e la praxis è quindi soltanto l’altro lato della situazione storico-sociale del proletariato: dal punto di vista del proletariato, vengono a coincidere la conoscenza di sé e la conoscenza della totalità, ed esso è, al tempo stesso, soggetto ed oggetto della propria conoscenza».[37]
Con la coincidenza di soggetto e oggetto abbiamo dunque la fine dell’esilio, dello spaesamento, della cosificazione, della quantificazione e di tutte le altre sordide brutture che Lukács aveva imputato al capitalismo e che Heidegger imputerà ben presto alla civiltà occidentale e alla sua razionalità.
 
18. Qui non si vuol entrare ovviamente nel merito della questione storica se davvero Heidegger abbia copiato Lukács, senza riconoscergliene il debito. Quel che ci basta sottolineare è che effettivamente tra le due filosofie ci sono analogie davvero notevoli. Se si pensa che l’operaismo italiano degli anni Sessanta era stato influenzato in maniera considerevole dal giovane Lukács, allora non stupisce che diversi ex operaisti abbiano poi sviluppato i loro interessi in direzione della ermeneutica heideggeriana. La popolarità del paradigma ermeneutico heideggeriano nella filosofia italiana degli ultimi quarant’anni sarebbe dunque in buona parte da ascriversi al neo marxismo degli anni Sessanta e Settanta. Più che a una sostituzione, possiamo cominciare a pensare a una sostanziale continuità. Molti marxisti degli anni sessanta, attraverso il giovane Lukács, sono stati, ante litteram, degli heideggeriani senza saperlo (e qualcuno lo è stato magari anche sapendolo). Dopo la fine dei movimenti, quando Heidegger è stato «riscoperto» ed è diventato ampiamente popolare, essi non hanno fatto altro che sperimentare una specie di altrettanto heideggeriano appaesamento, un vero e proprio ritorno a casa. Heidegger permetteva di mantenere più o meno esattamente la stessa visione della realtà, senza l’ingombro della ormai inutile classe operaia, poiché questa era stata sconfitta e non s’era dimostrata degna erede della filosofia tedesca.
 
25/07/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
1973 Goldmann, Lucien
Lukács e Heidegger, Éditions Denöel, Paris. Tr. it.: Lukács e Heidegger. Frammenti postumi a cura di Youssef Ishaghpour, Bertani Editore, Verona, 1976.
 
1922 Lukács, György
Geschichte und Klassenbewusstsein, Der Malik Verlag, Berlin. Tr. it.: Storia e coscienza di classe (a cura di Giovanni Piana), Sugar Editore, Milano, 1967.
 
 
 
NOTE
[1] Cfr. Lukács 1922.
[2] Cfr. Goldmann 1973. Il volume è stato pubblicato in italiano nel 1976.
[3] Cfr. Lukács 1922: 2.
[4] Cfr. Lukács 1922: 2.
[5] Cfr. Lukács 1922: 3. Questa prospettiva è esattamente la stessa descritta da Hegel a proposito dello Spirito oggettivo del popolo.
[6] Cfr. Lukács 1922: 4.
[7] Cfr. Lukács 1922: 4.
[8] Cfr. Lukács 1922: 7.
[9] Cfr. Lukács 1922: 8.
[10] Questa teoria è del tutto compatibile con Hegel, Nietzsche e Heidegger. Se il tipo di oggettività è storico, possiamo domandarci quale nuovo tipo di oggettività potrà esserci in un’altra epoca, in un’altra civiltà.
[11] Questa è la tradizionale accusa rivolta ai capitalisti – ebrei, volgari calcolatori. Come si vede, i “memi” viaggiano continuamente e sputano dove uno meno se li aspetta. Lukács era figlio di un Direttore di banca ebreo.
[12] Cfr. Lukács 1922: 8-9.
[13] Cfr. Lukács 1922: 9.
[14] Cfr. Lukács 1922: 9.
[15] Si noti che la soluzione più banale sarebbe quella per cui, se i fatti storici sono individuali, non c’è niente da prevedere. Quindi non c’è alcuna scienza dei fatti storici individuali. Al più ci può essere una scienza che ricostruisce l’individuale accaduto. La pretesa di Lukács e del marxismo è quella di possedere un metodo che possa operare con successo “scientifico” a proposito dell’individuale. Questo sarebbe il metodo dialettico.
[16] È una citazione di Marx dal Capitale.
[17] Cfr. Lukács 1922: 11.
[18] Qui non si fa altro che riprendere la nozione aristotelica di forma.
[19] Qui organico ha il senso anche di organismo vivente che si sviluppa secondo la propria forma interna.
[20] Cfr. il mio saggio L’ontologia sociale di Aristotele sul blog Finesterotte.
[21] Cfr. Lukács 1922: 12.
[22] Lukács era stato influenzato anche da certi aspetti di Kierkegaard.
[23] Questo trucco funziona anche in campo religioso. Ci si può sentire abbandonati da Dio. Si possono poi mettere in atto delle pratiche che ci mettano in contatto con Dio, la vera realtà che abbiamo perduto.
[24] Cfr. Lukács 1922: 14.
[25] Questa questione ha grande importanza in Essere e tempo di Heidegger: il metodo fenomenologico permetteva a Heidegger di scorrazzare per tutta la Totalità in maniera intuitiva, precategoriale.
[26] Abbiamo esposto questa nostra teoria nel saggio Contraddizioni del terzo tipo, pubblicato sul blog Finestrerotte.
[27] Cfr. Lukács 1922: 14-15.
[28] Si veda in proposito il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[29] Cfr. Lukács 1922: 14-15.
[30] Nella filosofia di Aristotele possono esserci forme contradditorie in senso ontologico. Vedi sempre il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[31] Cfr. Lukács 1922: 16.
[32] Cfr. Lukács 1922: 18-19.
[33] Hegel aveva tentato di risolvere questa questione con la sua fenomenologia. Un altro modo è quello degli esistenziali di Essere e Tempo.
[34] Cfr. Lukács 1922: 20.
[35] Cfr. Lukács 1922: 26.
[36] Cfr. Lukács 1922: 29.
[37] Cfr. Lukács 1922: 28.
 

domenica 19 luglio 2015

Dall’operaismo al “marxismo heideggeriano”

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1. Nel 1976 Massimo Cacciari, uno dei protagonisti dell’operaismo degli anni Sessanta, pubblicò su Rinascita, la rivista culturale del PCI, un articolo sui rapporti tra Heidegger e il marxismo. Lo stesso articolo, ampliato, venne poi raccolto nel volume Pensiero negativo e razionalizzazione, pubblicato nel 1977 da Marsilio.[1] Era quello il periodo in cui la stagione dei movimenti pareva conclusa e nella quale tuttavia ancora ci si domandava se fosse possibile un qualche recupero del decennio precedente in termini di spostamento verso sinistra dell’asse politico. Era comunque una stagione di bilanci e ripensamenti. Nel suo articolo, Cacciari avanzava l’opportunità, da parte dei marxisti e del movimento operaio, di aprire “finalmente” un confronto con la filosofia di Heidegger. L’obiettivo probabilmente era quella di dare vita a una qualche nuova forma di “marxismo heideggeriano”. L’articolo è interessante per il suo carattere divulgativo e per il pubblico cui si rivolgeva, i lettori di Rinascita. È interessante anche perché testimonia di un momento assai particolare nello sviluppo filosofico dello stesso Cacciari. Vale inoltre la pena di notare che, nello stesso periodo, Mario Tronti, altro esponente dell’operaismo degli anni Sessanta, stava elaborando la sua teoria dell’autonomia del politico.[2] Sia la proposta di un nuovo marxismo heideggeriano di Cacciari, sia la proposta dell’autonomia del politico di Tronti rappresentavano, in un certo senso, l’evoluzione filosofica (anche se qualcuno può ritenere si trattasse di una involuzione) di una parte significativa dell’operaismo italiano, come reazione al declino dei movimenti.
 
2. In realtà, anche se Cacciari non ne parla affatto, l’ipotesi di un marxismo heideggeriano non era nuova, anzi si può dire che, proprio negli ambienti marxisti, fosse già stata presa in considerazione e per lo più messa da parte. Il primo forse a elaborare questa ipotesi fu il giovane Herbert Marcuse, quando ancora era allievo di Heidegger e stava conducendo, sotto la sua guida, una dissertazione sull’Ontologia di Hegel. Il programma esplicito di Marcuse, all’epoca, era proprio quello di realizzare una sintesi tra l’esistenzialismo (allora così lo si definiva) di Essere e tempo e il marxismo. Anche se la faccenda non è stata ancora ben chiarita, si giunse infine a una rottura tra Marcuse e il suo maestro e la dissertazione non fu presentata. Nello stesso periodo poi Marcuse dovette lasciare il paese per sfuggire al nazismo. Marcuse ha in seguito dichiarato di avere ben presto compreso la reale portata antimarxista della filosofia di Heidegger (di cui non si conoscevano ancora gli sviluppi nazisti) e di essersene conseguentemente allontanato. Nel dopoguerra, quando Marcuse incontrò nuovamente Heidegger, gli chiese conto delle sue posizioni politiche durante il nazismo e ne ebbe una serie di risposte evasive, tanto che la rottura, anche personale, fu ulteriormente consolidata.[3] Alla netta presa di posizione di Marcuse possiamo ancora aggiungere il fatto che, più in generale, la Scuola di Francoforte, a partire da Hokheimer e Adorno, ha sempre dichiaratamente preso le distanze da Heidegger.
Accenni interessanti a parentele filosofiche tra Heidegger e il marxismo si trovano poi nell’Introduzione del 1956 scritta da Lukács per la pubblicazione dei suoi scritti giovanili raccolti in Storia e coscienza di classe. Lukács lascia intendere, pur non affrontando direttamente la questione, che Essere e tempo sia stato scritto proprio contro Storia e coscienza di classe, utilizzandone tuttavia impropriamente numerosi concetti fondamentali. Detto brutalmente, Essere e tempo sarebbe stato una scopiazzatura, orientata a destra, degli scritti del giovane Lukács. Su questa strada interpretativa, Lucien Goldmann, che si dichiarava discepolo del giovane Lukács e di Heidegger, aveva iniziato un lavoro di comparazione tra i due autori e ne aveva enumerato un impressionante elenco di analogie e punti in comune. Il lavoro di Goldmann fu interrotto dalla sua morte, anche se i suoi appunti sono stati pubblicati postumi. [4] La questione non è mai stata risolta, anche se va detto che molti dei punti in comune tra Marx / Lukács e Heidegger, segnalati da Goldmann, sono dovuti ai comuni riferimenti hegeliani.
Sul confronto tra marxismo e heideggerismo un altro ambito di ricerca importante erano stati i lavori di Kostas Axelos, che si considerava, appunto, marxista heideggeriano (forse più heideggeriano che marxista). Due suoi importanti lavori comparsi negli anni Sessanta hanno tentato di inquadrare in marxismo all’interno dello schema heideggeriano della fine della metafisica e della Tecnica come destino dell’Occidente.[5] Goldmann e Axelos, non a caso entrambi francesi, sono stati tra i più convinti sostenitori della possibilità di un marxismo heideggeriano.
Val comunque la pena di ricordare ancora che György Lukács, forse uno dei maggiori (involontari) responsabili dello scellerato connubio, dopo aver preso le distanze dai suoi trascorsi giovanili di Storia e coscienza di classe, ne La distruzione della ragione del 1954 aveva messo, correttamente, Heidegger tra i filosofi nazisti e ne aveva già additato le nefandezze teoriche e pratiche.[6] Scriveva allora Lukács: «Heidegger ha salutato in Hitler l’avvento di una nuova epoca screditandosi, così – per usare l’espressione meno forte – per sempre. Oggi, almeno nell’espressione, è più cauto, ma vuole ugualmente legarsi ai padroni di oggi e di domani come a suo tempo a Hitler».[7] Ma aggiungeva anche: «Mentre Essere e tempo era essenzialmente una sola grande polemica contro il marxismo, pur senza scoprire anche solo con una chiara allusione questo carattere, ora Heidegger si sente ormai costretto a parlare apertamente di Marx».[8] L’allusione andava proprio alla Lettera di Heidegger, citata da Cacciari come un’autentica apertura al dialogo verso il marxismo.
Questo dibattito sulla possibilità di un marxismo heideggeriano che abbiamo tratteggiato in sintesi, oltretutto, era avvenuto in tempi in cui il pensiero heideggeriano non era perfettamente noto e, soprattutto, non si conoscevano ancora bene, come ora, i risvolti nazisti dell’attività filosofica di Heidegger. Non ci si riferisce qui tanto alla ben nota questione del Rettorato, quanto alla sovrapposizione progressiva dell’ideologia nazista e della filosofia heideggeriana, che oggi è sempre più documentata, tanto da essere ormai inoppugnabile.[9] Ora che le compromissioni naziste dello stesso pensiero heideggeriano sono decisamente più chiare, lo spazio per un “marxismo heideggeriano” sembra progressivamente ridursi. Cacciari comunque, nel 1977 non dava ai suoi lettori alcun conto del dibattito precedente e presentava come una novità la proposta di un confronto tra marxismo e heideggerismo.
 
3. L’intento abbastanza palese dell’articolo di Cacciari del 1977 era quello di sdoganare Heidegger presso il pubblico del marxismo e del movimento operaio italiani. Cacciari lo dice piuttosto apertamente seppure in modo assai retorico: «È tempo di aprire da parte del movimento storico-politico che si definisce “marxismo” il confronto con il pensiero heideggeriano? È venuto il momento di tentare di rispondere ai problemi che Heidegger stesso, ed esplicitamente, pose al marxismo? […] Penso che questa domanda assuma oggi un rilievo politico diretto, che essa rivesta per il movimento operaio un peso teorico la cui importanza è pari soltanto alla ostinazione con la quale è stata fino a oggi rimossa».[10] Ci troveremmo dunque, secondo il Cacciari del 1977, in una situazione piuttosto grave, poiché il movimento operaio, nientemeno, sarebbe stato coinvolto in una rimozione del pensiero heideggeriano, fatto disdicevole che avrebbe una capitale importanza teorica, ma anche un rilievo politico diretto. È interessante che il riferimento non sia costituito soltanto dagli intellettuali marxisti (come quelli già citati) ma dallo stesso movimento operaio. Cacciari doveva avere preso molto sul serio la convinzione di Marx secondo la quale il movimento operaio sarebbe stato l’erede della filosofia tedesca.
 
4. A sostegno dell’impresa di sdoganamento, Cacciari cita l’apparente apertura verso il marxismo contenuta in alcuni noti passi della Lettera sull’umanismo di Heidegger, che è in realtà, come ben sa chi l’abbia appena letta, una lettera contro l’umanismo. Se il marxismo è un umanismo, come anzitutto e per lo più sembra vada considerato, il problema di Cacciari non avrebbe dovuto neppure essere posto. Non è chiaro, tra l’altro, se Heidegger conoscesse il marxismo in modo approfondito. Lukács ne sembra convinto, mentre Marcuse lo nega. Ad ogni modo, nella Lettera, subito dopo l’inqualificabile sproloquio sui giovani tedeschi che muoiono “diversamente” avendo conosciuto Hölderlin, Heidegger afferma che: «La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo, affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. Questa viene provocata dal destino dell’essere nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta come spaesatezza. Poiché Marx, nell’esperire l’alienazione, penetra in una dimensione essenziale della storia, la concezione marxista della storia è superiore a ogni altra «storiografia». Ma siccome né Husserl né, per quel che vedo finora, Sartre riconoscono l’essenzialità della dimensione storica nell’essere, né la fenomenologia né l’esistenzialismo pervengono in quella dimensione in cui soltanto diventa possibile un dialogo produttivo col marxismo».[11] Ma poi subito prosegue: «Ma a tal fine, evidentemente, è necessario liberarsi dalle ingenue rappresentazioni del materialismo e dalle critiche a buon mercato che intendono colpirlo. L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro. […] L’essenza del materialismo si nasconde nell’essenza della tecnica, su cui si scrive molto ma si pensa poco».[12]
A legger bene, si vedrà facilmente che l’apertura di Heidegger verso il marxismo non è affatto un’apertura, è piuttosto una chiusura: nel materialismo marxista, interpretato secondo Heidegger, l’ente appare come materiale da lavoro, quindi è esso stesso una espressione del predominio della Tecnica. In sostanza, il marxismo, secondo Heidegger, non si rende conto che l’alienazione, che esso correttamente denuncia, è correlativa alla sua stessa prospettiva metafisico /tecnica.[13] Il marxismo dunque dovrebbe uscire dalla sua fissazione tutta interna alla Tecnica e mettersi a riflettere – come Heidegger - sulle origini non tecniche della tecnica, cioè sul destino dell’Essere e sulla fine della metafisica. Un riconoscimento al marxismo per essere quasi giunto alla soglia della vera questione, ma nel contempo una stroncatura. Nell’articolo di Cacciari invece sembra risuonare un malcelato orgoglio per il fatto che Heidegger avrebbe dichiarato che il marxismo era l’unica filosofia con la quale poteva essere aperto un dialogo. Heidegger “filosofo del dialogo” è davvero una bella favoletta da raccontare solo a chi non conosce la biografia heideggeriana.
 
5. La parte iniziale dell’articolo contiene un’esposizione sintetica del pensiero heideggeriano, molto partecipata dall’Autore, tanto che spesso non si capisce se stia parlando Heidegger o Cacciari. Senza spiegare al suo pubblico chi fosse e cosa abbia rappresentato Heidegger, Cacciari inizia a parlare di Essere e tempo proponendone un’interpretazione storiografica che è alquanto discutibile e della quale peraltro non sono fornite le pezze giustificative. Secondo Cacciari, Heidegger sarebbe un perfetto emblema del suo tempo e nella sua opera Essere e tempo avrebbe problematizzato «tutta la grande Kultur tedesca guglielmina». In altri termini sarebbe un filosofo emblematico di una ipotetica “crisi” culturale della borghesia tedesca. La crisi culturale postbellica tedesca, che era dovuta essenzialmente al fatto di avere perso la guerra dopo averla provocata, viene però via via interpretata da Cacciari come una crisi culturale epocale del mondo borghese, che tuttavia si allarga sempre più, fino a diventare nientemeno che la crisi dell’intero Occidente.[14] Come ben si vede, il pensiero vago è sempre al lavoro.
5.1. Seguendo l’argomentazione di Cacciari: «Heidegger risale alle radici di questa crisi [...]. Esse vengono individuate nella forma logica interna delle correnti di pensiero decisive della Kultur guglielmina [...]. Heidegger parla in Essere e Tempo della costituzione formale in generale e delle aporie intrinseche della fenomenologia husserliana, della Politica weberiana, della sociologia e dello storicismo guglielmini — e della storia del movimento operaio tedesco, nella misura in cui essa è anche parte integrante di queste correnti spirituali. In Essere e Tempo Heidegger costruisce un «tipo ideale» per la comprensione di queste correnti».[15]
Heidegger sarebbe così rappresentativo perché avrebbe individuato una assenza di fondamenti nelle principali correnti filosofiche e culturali del suo tempo: «Esse si sono sviluppate lungo due tendenze fenomenologiche che non hanno pensato il proprio fondamento e la propria determinazione storica. [...] Heidegger, nel pieno della crisi sociale e culturale della Repubblica di Weimar, non rompe esplicitamente con queste tendenze, ma piuttosto ne interroga i fondamenti, le ripercorre dall’interno, ne assume radicalmente il progetto, per giungere a dimostrarne la problematicità, o, meglio, l’aporeticità fondamentale».[16] Insomma, Heidegger avrebbe mostrato al mondo quello che nessun altro aveva mai osato neppure pensare. È tipico di un certo tipo di filosofi del sospetto ritenere che quel che appare, quel che tutti credono, non sia la cosa vera. Secondo costoro, la genialità del filosofo sta proprio nel mostrare che, dietro l’apparenza, c’è ben altro.
5.2. A questo punto bisogna sapere, poiché non sono dette chiaramente, quali sono le due tendenze fenomenologiche che, secondo Cacciari, riassumono la cultura gugliemina e che sono state disvelate come prive di fondamento: una è la filosofia dei valori (mettendo insieme un po’ caoticamente tutti, da Dilthey fino a Weber) e l’altra è la fenomenologia di Husserl (del quale Heidegger era stato allievo assai ingrato).
I limiti del primo orientamento sarebbero stati disvelati in quanto: «[…]la sintesi tra funzionalità-relatività e normatività dei «valori» tentata dalla fenomenologia «ingenua» non ha trovato, né può trovare, fondamento ontologico — e in ciò consiste il destino della sua ineffettualità storica, del suo naufragio sociale e politico. La funzionalità-relatività del «valore» si incarna nell’alienazione del soggetto — nel suo spaesamento, nella sua «miseria» — invece che nella «norma» weberiana. L’estraneazione riappare come miseria fondamentale dell’Esserci, non come possibile forma politica della sua realizzazione, ciò che invece costituiva, per diverse vie, il fine della Rationalisierung weberiana (irriducibile a semplice liberalismo) e del Politico socialdemocratico».[17]
Mentre i limiti del secondo orientamento sarebbero il fatto che: «[…] la «salvezza» ontologica del fenomeno non interroga ancora il proprio unico possibile fondamento: la questione dell’Essere in quanto tale — né la possibilità dello «schema» tra la Seinsfrage e mondo dei «valori». (Solo per cenni, in Essere e Tempo, viene in primo piano la ragione fondamentale del naufragio di questa tendenza fenomenologica: il suo pensare la filosofia come fondamento fuori dal suo esistere unicamente nella storia delle forme della scienza moderna)».[18]
In tutti e due i casi, sostiene Cacciari, manca il fondamento: il politeismo dei valori (che in realtà è stata una delle fondamentali conquiste dell’epoca e che altrove non avrebbe proprio scandalizzato nessuno) è evidentemente inaccettabile, sia per Heidegger sia per Cacciari, e d’altro canto, il progetto husserliano di fondazione intuizionistica della filosofia e delle scienze, ahimè, non sta in piedi, a meno di non affrontare – è quel che tenterà di fare programmaticamente Heidegger – la questione dell’Essere. Cacciari non spiega perché mai un’epoca non possa vivere tranquillamente senza fondamenti[19] e condivide il fondamentalismo husserliano – heideggeriano (che però nei loro tardi epigoni debolisti si trasformerà in uno sfrenato relativismo). Dato che Heidegger ha scoperto che manca il fondamento allora si può concludere con Cacciari che: «Essere e Tempo è opera tragica fondamentale del pensiero contemporaneo».[20] Destino, naufragio, tragedia, queste sono le nuove categorie concettuali che Cacciari propone all’attenzione del movimento operaio, e che a noi comunque paiono sempre tipici esempi di pensiero vago.
5.3. A questo punto, quello che per la maggior parte dei critici rappresenta il fallimento di Essere e tempo, e cioè il fatto che si tratti di un’opera incompiuta, che, partita alla ricerca dell’Essere, è stata poi costretta a continuare a girare attorno all’Esserci, diventa per Cacciari il maggior punto di merito: «Il passaggio dal Tempo all’Essere che doveva concludere la parte teoretica di Essere e Tempo non viene compiuto. Non può esserlo. Parafrasando ciò che Heidegger dirà della teologia, in una conferenza che risale allo stesso ‘27, si può affermare che Essere e Tempo appare un’opera sistematica non perché costruisca un sistema ma perché lo evita. Il sistema non può più essere concepito, in quanto non appare più esprimibile l’oggetto della forma sistematica: lo «schema» di Essere e Esserci, la trasparenza dell’Esserci. Ciò costituisce l’alienazione fondamentale dell’Esserci. L’opera che per ultima si annuncia come grande sintesi metafisica, si interrompe problematicizzando la forma metafisica come tale, e non soltanto il suo oggetto, l’Essere».[21]
Curiosamente Cacciari prende sul serio la giustificazione fornita da Heidegger per il fatto di non avere portato a termine l’opera: ciò sarebbe avvenuto a causa di una difficoltà filosofica intrinseca. È stato invece ormai abbastanza chiarito che Heidegger non ha più continuato la sua opera perché aveva raggiunto il suo scopo accademico (che era quello di prendere la cattedra che era stata di Husserl) e perché era ormai diventato nazista convinto e si poneva ora altri obiettivi che non quello di studiare i rapporti tra tempo ed essere.[22]
5.4. Insomma, secondo Cacciari, in Essere e tempo necessariamente incompiuto ci sarebbe la rappresentazione più approfondita della crisi di un’epoca: «[...]le grandi utopie della Kultur guglielmina non danno più segnali. L’analitica dell’Esserci contenuta in Essere e Tempo [...]rappresenta in realtà questa crisi».[23] Cacciari sembra seriamente convinto che l’analitica dell’Esserci di Heidegger costituisca lo specchio della crisi della Germania guglielmina, e che tutto ciò ruoti attorno a una mancanza di fondamenti. La quale però ben lungi dal costituire un incidente filosofico contingente aprirebbe una serie di questioni che si potrebbero definire epocali: «Dunque, Essere e Tempo opera la dissoluzione dell’utopia sintetica della Kultur filosofica tedesca, o, meglio, mostra all’opera questa dissoluzione. Lo spirito che anima l’opera non solo è temporale, ma vive di quest’epoca determinata, della «miseria» di quest’epoca. Il suo problema si trasforma in un problema storico: quali sono le condizioni, quale è l’origine fondamentale di questa «miseria»? è « destino » la « miseria » di questa epoca?».[24]
A questo punto Cacciari ripropone la risposta heideggeriana, contenuta nella Introduzione alla Metafisica, incentrata intorno al «disorientamento», l’«insicurezza» dell’Europa, e il «depotenziamento dello Spirito» europeo.[25] In particolare precisa che: «Heidegger vede quel «depotenziamento dello Spirito» europeo come «fatale e senza rimedio» — come il prodotto delle forze proprie di questo Spirito stesso, non come un «tradimento» o un «deragliamento» della storia — e che il «nuovo cominciamento» è per Heidegger non più «filosofico, non più partecipe della «tradizione» dello Spirito europeo così come esso si è espresso nella sua «filosofia», ma, essenzialmente, ripetizione di quanto mai visto e mai detto lungo tutto l’arco del potenziamento del Geist europeo (nel suo significato essenziale: di sistema di dominio sul dato)».[26]
In sostanza, la crisi individuata da Heidegger non è una semplice crisi tedesca, non è accidentale, è qualcosa di assai più generale e necessario: ci troviamo di fronte alla fine dello Spirito europeo, oltre il quale dovrà esserci un nuovo inizio e questo non sarà più filosofico, perché la filosofia ha esaurito tutte le proprie possibilità. Questo significa che la crisi dei fondamenti individuata da Heidegger è in realtà la crisi finale della metafisica occidentale. In altri termini, siamo posti di fronte alla crisi dell’Occidente come civiltà. Tema peraltro assolutamente non nuovo e assai trattato a quel tempo dalla destra politico filosofica – si pensi al Tramonto dell’Occidente di Spengler.
5.5. Come si vede, partendo dalla tesi minimalista, comunque impegnativa e assolutamente non comprovata, secondo cui Heidegger rappresenterebbe la cultura tedesca del suo tempo, si giunge a delineare un Heidegger profeta di una crisi epocale, che costituisce nientemeno che la fine dell’Occidente, e che dovrebbe essere seguita da una successiva nuova epoca radicalmente diversa.[27]
Il tipo di diagnosi della decadenza dell’Occidente prodotta da Heidegger, com’è noto, si basa sulla filosofia della storia di Nietzsche, sugli effetti negativi della prevalenza progressiva in Occidente della razionalità di tipo socratico, del calcolo, della scienza e della tecnologia. Il male dell’Occidente sarebbe proprio la razionalità. Così argomenta Cacciari: «La «storia» heideggeriana della «filosofia» va diretta alle cose che le diverse epoche pensano, alla definizione delle soluzioni di continuità tra epoca e epoca. Il passaggio tra esse è sempre crisi, mai rappacificante continuità — è, come dicevamo, dislocazione dei problemi, loro ri-proposizione su nuovi e diversi terreni: il loro confronto con territori sconosciuti. Tra le svolte del tempo che caratterizzano questa «storia» della filosofia occidentale, quella decisiva riguarda la subordinazione dell’ontologia alla logica, che si compie a partire dalla dissoluzione dell’universo intellettuale scolastico».[28]
La subordinazione dell’ontologia alla logica, cioè dell’Essere alla razionalità, secondo Nietzsche e Heidegger (e secondo Cacciari), sarebbe dunque il peccato originale dell’Occidente, che avrebbe indirizzato la civiltà europea verso la conoscenza, la matematizzazione, il dominio della natura, avrebbe cioè costituito la divisione tra soggetto e oggetto. Avrebbe in altri termini reificato tutte le cose. Ora che questa finalità è stata raggiunta, ora che si è giunti al dominio totale della tecnica, l’epoca è finita e, tramite la crisi, si prepara un’altra epoca.
Spiega Cacciari dettagliatamente che: «Questa «svolta» per la quale «fondamento del fondamento» divengono le categorie della ragione soggettiva, è indistricabilmente connessa, […] allo sviluppo della scienza moderna. La metafisica moderna appare come il metodo della fondazione della scienza, la strada per cui la scienza, e la ricerca scientifica, giungono a fondarsi assolutamente. Il pensiero in se conversus, la cognitio reflexiva, il mente concipio del discorso sul metodo, rappresentano l’orizzonte trascendentale che fonda la matematica in quanto modo specifico di vedere-porre le cose da parte della scienza moderna. Il metodo fonda l’affermazione galileiana: la natura ci parla in lingua matematica. Noi, i Soggetti […], conosciamo cose soltanto in quanto matematizzabili. La «potenza dello Spirito» (come si esprime Hegel a proposito appunto di Cartesio) tiene la natura sub cogitatione: la determina matematicamente. La logica del conoscere (il metodo) fonda la matematizzazione del mondo fisico. E in ciò si manifesta la nuova potenza dello Spirito. La sussunzione matematica del mondo fisico è la forma universale dell’operari dello Spirito moderno come Soggettività».[29]
Normalmente si pensa che il pensiero scientifico si sia affermato contro la vecchia metafisica. Secondo questa nuova versione, il pensiero scientifico sarebbe proprio il risultato, lo scopo, il destino, della metafisica (anche se gli sciocchi metafisici non se ne sono mai accorti!). È un’altra mirabolante scoperta, a riprova che le cose non sono mai come sembra che siano.
5.6. Continua Cacciari: «Cosa comporta questo compimento nietzschiano della metafisica? Un’analitica dell’Esserci, da un lato, come ermeneutica antropologica delle forme della volontà — lo sviluppo della scienza, dall’altro, finalmente consapevole del proprio fondamento nihilistico, liberata da ogni problema riguardante l’Essere dell’Ente, compiutamente alienata nell’analisi dei territori dell’Ente. Questa alienazione, questo processo di alienazione, non è in alcun modo un deficere della scienza. La prospettiva heideggeriana è opposta al voler ridare centralità alla filosofia, al voler «liberare» dalla alienazione storicamente determinata che la ricerca scientifica esprime. Questa alienazione è il prodotto della stessa riflessione metafisica moderna. […]Nella misura in cui parla del Soggetto e annichilisce l’Essere, la metafisica è la storia del compimento della alienazione scientifica come forza produttiva caratteristica dell’epoca moderna».[30]
Insomma, invece di combattere la scienza in nome della metafisica, si ammette ora che la scienza sia il compimento della metafisica. L’oggettivazione/ alienazione era necessaria. Per cui ora abbiamo, come risultato, da un lato un soggetto che vuole, niccianamente, senza alcun fondamento e, dall’altro, un mondo oggettivato, reificato, su cui si esercita la volontà. Questo è il mondo della Tecnica. Si noti che eravamo partiti dalla crisi della Kultur guglielmina e ora, ridendo e scherzando, siamo giunti alla crisi della Tecnica come categoria universale dello Spirito. Di fronte alle svolte epocali, alla fine di una civiltà, il rigore storiografico può ben cedere il passo.
 
6. Dopo avere spiegato il senso della fine della filosofia secondo Heidegger, Cacciari sviluppa alcune precisazioni sul senso del rapporto tra filosofia e Tecnica (sempre maiuscolizzata). Chiarisce Cacciari: «La concezione heideggeriana del rapporto tra Tecnica e «fine della filosofia», […], approfondisce il significato e la portata storica di questa «svolta». La filosofia non «finisce» perché «tradita» o «dimenticata» dallo sviluppo della scienza, ma perché si è in questo sviluppo pienamente effettuata. La filosofia termina allorché ha compiuto il proprio destino fondamentale: annichilire l’Essere dell’Ente, traducendolo senza residui in soggettività, in valutato della soggettività. La filosofia finisce perché perfetta. Il fondamentale nihilismo della filosofia moderna non ha alcun carattere, perciò, nella concezione heideggeriana, ma ancor prima nietzschiana, «irrazionalistico». Non solo tale nihilismo non distrugge la ragione, ma ne costituisce il fondamento, il metodo. Né la fine della filosofia è il prodotto di un’epoca di «decadenza» (secondo un’ottica pessimistica spengleriana, che ritroviamo nella filosofia reazionaria tedesca della crisi, in Jünger, in Bäimler, ma non in Heidegger). All’opposto, la fine della filosofia si presenta in Heidegger come progetto: essa esiste «positivamente» come analisi delle forme storiche della volontà di potenza e della sua Tecnica».[31] Che la filosofia (che poi è la metafisica) avesse un compito, un progetto, o che avesse un destino, che quel progetto sia stato ormai compiuto, che essa dovesse sparire dopo avere realizzato il suo compito[32] è una favoletta per bambini che viene ripresa con fervore da Cacciari, senza avanzare la minima perplessità.
 
7. Quel che interessa a Cacciari è di proporre proprio la Tecnica come terreno di incontro tra Heidegger e il marxismo. Si noti che Marx non si era mai occupato in modo prioritario della questione della Tecnica. Al più se ne era occupato subordinatamente all’analisi economica del capitalismo, il quale però – secondo Marx - non era mosso dal progresso tecnico, men che mai dalla razionalità, bensì dall’esigenza della valorizzazione del capitale. Si ricordi che, per Marx, dietro alla tecnica e all’economia ci sono sempre i rapporti sociali. Per Marx, chi crede all’esistenza della Tecnica come qualcosa di autonomo va soggetto all’illusione del feticismo. Cioè considera ciò che è in realtà un rapporto sociale come una cosa.
Anche secondo Heidegger / Cacciari la Tecnica è qualcos’altro. La Tecnica è la metafisica che si fa oggetto, che diventa mondo. Secondo Cacciari, Heidegger: «[…] interroga, cioè, il fondamento non-tecnico della Tecnica, il suo fondo non meramente strumentale. La Tecnica non esiste come insieme tecnico-strumentale «neutrale» di funzioni e organismi che «tengono» unicamente al risultato, all’effetto pratico. La Tecnica contemporanea è concepibile soltanto come il compimento storico del progetto di matematizzazione della natura, coincidente col problema del metodo proprio della metafisica moderna. L’essenza della Tecnica riposa sulla storia della trasformazione dell’Essere in valore e del valore in valutato della volontà di potenza. Non è strumento neutrale la Tecnica, ma il risultato, anzi, del destino storico-culturale europeo. Essa non «mistifica» nessuna «origine». Il suo destino non si è conservato spazi vuoti alle spalle dove rifugiarsi, consolarsi, «liberarsi», dis-alienarsi».[33]
Il discorso di Marx e quello di Heidegger sono chiaramente opposti. Tuttavia è chiaro che un superficiale elemento comune si può ritrovare tra la Tecnica heideggeriana, così descritta, e la teoria della merce marxiana, seppure in una versione particolare che è quella della reificazione fornita del giovane Lukács. Il destino della metafisica è la cosa, e il destino del capitale è la merce. Insomma, per entrambi, saremmo immersi in un insopportabile mondo di cose.[34] Il nemico comune sarebbe costituito dall’oggettivazione. Già Lukács nella sua prefazione del 1956 a Storia e coscienza di classe aveva considerato come fosse stato un errore madornale, dal punto di vista marxiano, il fatto di scambiare l’alienazione con l’oggettivazione.[35]
 
8. Insomma, Cacciari propone ai marxisti di adottare la filosofia della storia e l’ontologia di Nietzsche – Heidegger. Una volta capito che siamo immersi in un mondo di cose che sono ostili, non resta che rifiutare la l’oggettivazione, la reificazione o alienazione. Secondo Cacciari / Heidegger «Dobbiamo sradicarci da questa «dimora». Anzi, dobbiamo comprendere che l’essenza della vicenda storica che abbiamo attraversato consiste nel produrre tale sradicamento». Cioè dobbiamo andare oltre l’impasto metafisico - tecnico che è caratteristico della nostra epoca o civiltà.[36]
È chiaro che per Cacciari, lo sradicamento è la stessa cosa dell’alienazione. «Questo [lo sradicamento] era il Kern tragico della Kultur classica, che è insieme intuizione della crisi di tale Cultura: anche in Goethe (nietzschianamente rivisitato), ma soprattutto in Hölderlin. La peculiarità tragica della poesia-pensiero hölderliniana non consiste tanto nell’intuizione del «nascondimento» dell’Essere, della «fuga degli Dei», ma nel fatto che tale sradicamento è concepito come destino dello stesso discorso sull’Essere — ed esso va sopportato fino alle sue conseguenze estreme: wir, die Zeichen — non vir, die Subjekte. E allora giungiamo finalmente alla domanda: perché qui il «dialogo produttivo» col marxismo? In Lettera sull’umanesimo Heidegger lo pone esplicitamente sotto il segno della hölderliniana «perdita di patria», come risultato di quel nascondimento dell’Essere che costituisce nello stesso tempo la forza produttiva intrinseca della riflessione metafisica occidentale sull’Essere stesso. Questo nascondimento è perciò storico — storico in senso essenziale».[37]
Cosa significhi storico in senso essenziale non è dato di capire al di là del virtuosismo verbale (poiché è una contraddizione in termini). Insomma, comunque par di capire che i marxisti dicono che siamo alienati, gli heideggeriani che, in quanto occidentali, siamo spaesati; per cui possiamo metterci d’accordo. Purtroppo per Cacciari, basta legger bene la Lettera per rendersi conto che la “perdita di patria” di cui parla Heidegger non è l’umanità perduta dell’operaio alienato ma è la comunità greco germanica arcaica cui Heidegger aspira di far ritorno grazie alla rivoluzione nazista. Il problema è che in Heidegger quella filosofia della fine della civiltà, che piace tanto a Cacciari, serviva a evocare una nuova civiltà, il nuovo ordine che poi era l’ordine nazista.
 
9. Dopo avere identificato nella Tecnica e nello spaesamento gli elementi di convergenza tra le due prospettive filosofiche, alla fine emerge la domanda chiave di Cacciari: «È necessario, allora, fare del marxismo un estremo tentativo di fondazione filosofica della scienza, di discorso sul metodo? O non è invece piuttosto a una nuova dimensione della politica che il marxismo può aprire — non intesa come filosofia della politica, ma «volontà di potenza» storicamente organizzata e in grado di esercitarsi concretamente sulla diversa molteplicità dei linguaggi della Tecnica?».[38] Scartata dunque con disprezzo l’ipotesi di un marxismo metodologico (che rimanga sul piano della scienza, cioè, heideggerianamente, della Tecnica) che poi era quella di Galvano della Volpe (e, se vogliamo, anche quella di Lukács), il marxismo dovrebbe inaugurare una nuova dimensione della politica, evidentemente sganciata da qualsiasi prospettiva limitatamente “culturale”, che sarà così “volontà di potenza storicamente organizzata” la quale dovrebbe esercitarsi proprio sul complesso della Tecnica. Una sorta di dittatura da parte della volontà (non si capisce di chi sia e come sia determinata questa volontà) sulla ragione strumentale e quindi sul “sistema” complessivo di tipo socio tecnico, economico, e indubbiamente anche politico, che ne deriva. Si tratta dunque di passare dall’orbita di Marx a quella di Nietzsche/ Heidegger, e di iniziare a praticare una sorta di volontarismo assoluto contro e sopra la Tecnica.
9.1. È chiaro che il confronto che si dovrebbe aprire comporterebbe una specie di risucchiamento del marxismo dentro l’heideggerismo. Secondo Cacciari, i marxisti non avrebbero fondate argomentazioni per dissentire da Heidegger,[39] essi semplicemente rimuovono. È davvero interessante questo uso della categoria psicoanalitica della rimozione. Afferma Cacciari che: «[…] anche storiograficamente, occorrerà che il marxismo — per usare ancora questo termine sovraccarico di «tradizioni» e di equivoci — comprenda finalmente quanto fino a oggi ha «rimosso»: i momenti fondamentali della crisi della metafisica, dalle aporie dello schematismo kantiano alla Vollendung nietzschiana. Questa dovrà sempre più essere la sua storia, strappandola definitivamente ai decadenti, ai nostalgici, ai letterati e ai dottori dell’anima che l’hanno finora monopolizzata. E questa impostazione non permetterà forse di cogliere sotto una luce completamente diversa anche i momenti «canonici» della storiografia marxista — Hegel, anzitutto —, liberandoli dalla piatta Historie delle «storie della filosofia», per coglierne le contraddizioni, i significati «innovativi», e non per esaltarne le presunte «sinteticità» all’interno di un universale teleologismo illuminista borghese?».[40] Insomma, Cacciari vorrebbe introdurre definitivamente nel marxismo la “favola” nicciano – heideggeriana della fine della metafisica, del nuovo inizio e, soprattutto, il volontarismo politico. Come dire: non lasciamo tutte queste preziosità al nemico. Vorrebbe anche reinterpretare Hegel e Marx alla luce di Heidegger: non è chiaro con quali risultati.
Cacciari ribadisce e chiarisce ulteriormente il suo punto di vista: «Il pensiero heideggeriano interroga (e sfida) qui il marxismo: è ancora ideologia il marxismo, una ideologia, per quanto storicamente decisiva, per quanto totalmente diversa dalle altre ideologie contemporanee, dagli «ismi» che devastano il linguaggio? o può attualmente esistere come una presenza, una «volontà», una forza storica completamente originale nei confronti della Tecnica come politica?».[41] Per capire l’uso del termine “ideologia” che qui vien fatto, occorre ancora riferirsi alla Lettera heideggeriana, dove le ideologie, chiamate appunto “ismi”, sono tutte condannate con disprezzo perché riduttivamente e stupidamente umanistiche.
9.2. Ma in questa proposta di Cacciari c’è qualcosa di assai più grave. Se non andiamo errati, sotto l’etichetta della “Tecnica come politica” ci stanno anche la democrazia e le istituzioni democratiche. Heidegger nella Lettera tratta come ideologie, come “ismi”, tutte le correnti filosofiche che non sono in grado di pensare l’Essere, compresa ovviamente la liberal democrazia. La volontà o la forza storica completamente originale in Heidegger era rappresentata dal nazismo. Esso avrebbe dovuto mettere la Tecnica al suo servizio per fondare una nuova epoca caratterizzata da un nuovo rapporto con l’Essere. È proprio questo il fallimento che Heidegger, da un certo punto in poi, aveva imputato ai nazisti. Heidegger in realtà era più nazista degli stessi nazisti. Ora, più o meno, lo stesso progetto, secondo Cacciari, dovrebbe essere assunto e realizzato da un nuovo marxismo heideggeriano, capace di concepirsi “non più come ideologia” ma in termini di volontà epocale. Peccato che Cacciari abbia tralasciato di dire se aveva già in mente chi avrebbe potuto impersonare il Führer.
Dal punto dei vista della democrazia, la volontà sovrana è quella che si forma, ahimè per Cacciari, attraverso un procedimento tecnico, che è quello della regola della maggioranza. La sottomissione della “Tecnica come politica” a una volontà di altro genere (la classe? il leader, il capo? il partito? il mito?) che si ponga addirittura come fondatrice di un nuovo rapporto (non tecnico!) con l’Essere non può che lasciare esterrefatti. Siamo a quanto pare in presenza di un tentativo di introduzione del Führerprinzip nel marxismo e nel movimento operaio. I concetti fondativi del marxismo vengono sovrapposti e scambiati con quelli del nazismo, con assoluta noncuranza. Era questo ciò a cui mirava il nuovo “marxismo heideggeriano” proposto da Cacciari?
9.3. Del resto, esattamente nello stesso periodo in cui Cacciari scriveva queste cose, l’operaista Mario Tronti “scopriva” e divulgava il nazista Schmitt e si faceva propugnatore di una accoppiata vincente tra Marx e Schmitt.[42] Anche Jünger era diventato piuttosto popolare nell’ambiente ex operaista ed era variamente citato e riproposto. Il men che si possa dire è che questa popolarità di autori dell’estrema destra presso gli ex operaisti dell’estrema sinistra lascia alquanto sconcertati. In proposito, ha affermato Preve in un suo studio sulla dissoluzione del paradigma operaista: «[…] in questi primi anni Ottanta, in Italia, si sta profilando ormai nettamente una nuova destra i cui connotati storici e teorici segnano una discontinuità con quella che era la tradizionale «vecchia destra» italiana; la dissoluzione della costellazione ideologica chiamata operaismo è ormai uno dei fattori principali (e comunque uno dei fattori più attivi) della costituzione del profilo della «nuova destra» in Italia».[43] E aggiunge poco oltre: «[…] i veicoli teorici del cinismo decisionistico e delle mitologie nicciane e schmittiane sono in gran parte ex-oracoli della cosiddetta cultura di «sinistra»».[44] Pur essendo doveroso precisare che non tutti gli ex operaisti hanno seguito questo percorso, va riconosciuto che questa, che siamo andati esaminando, è senz’altro la traiettoria più anomala, quella che richiede una qualche accurata spiegazione (al di là delle vicende personali dei singoli protagonisti).
La prima spiegazione, ancora poco esauriente, è che tra nazismo e comunismo sia sempre esistita una parentela di fondo (sempre rimossa, qui il termine s’impone davvero), pronta a emergere quando meno uno se lo aspetta. Del resto il nazismo si qualificò come nazional - socialismo e l’inventore del fascismo notoriamente proveniva dal Partito Socialista. È la vecchia tesi, a dire il vero un po’ grossolana, della coincidenza strutturale tra estrema destra e estrema sinistra. La seconda spiegazione, che è già un poco più precisa, attiene alle comuni origini hegeliane sia della cultura della destra, sia di quella della sinistra marxista. Non si tratterebbe dunque che di variazioni su temi comuni. Chi voglia convincersi dell’hegelismo di Heidegger, al di là degli aspetti pirotecnici del suo linguaggio, può utilmente consultare Philipse 1998. In particolare, il tratto filosofico che accomuna tutte queste correnti è senz’altro l’essenzialismo.[45]
La terza spiegazione, forse sociologicamente e culturalmente più convincente, quella che rende comprensibile anche l’adesione popolare a queste correnti pasticciate, è che, fondamentalmente, l’estrema destra e l’estrema sinistra abbiano, come profondo tratto comune, l’anti modernità. La polemica contro la tecnologia, la scienza, la logica, la razionalità, le istituzioni democratiche, l’Occidente, ma anche contro la merce e il denaro, contro la cosa, contro la reificazione, sono tutti tratti che estrema destra e estrema sinistra condividono profondamente. L’estrema destra ha imputato tutte queste caratteristiche all’eterno ebreo, l’estrema sinistra le ha imputate al capitalismo. Ma la sostanza è sempre la stessa poiché, in una certa, ahimè, fin troppo nota narrazione, l’ebreo e il capitalismo sarebbero del tutto intercambiabili. Per questo carattere anti moderno di fondo, questi mondi filosofici che si collocano all’opposto, ogni tanto guardandosi allo specchio, si riconoscono, si cercano e si trovano.
9.4. Il problema che stava dietro alle elucubrazioni di Cacciari e di Tronti alla metà degli anni Settanta era l’esigenza di dare una risposta al fallimento della stagione delle lotte operaie, all’incapacità di tradurre quelle lotte in risultati politici. Ebbene, c’erano due risposte principali: una era che ci fosse stato un difetto nella capacità di partecipazione, un difetto di democrazia, insomma; e ciò avrebbe comportato l’esigenza di inseguire, con qualche “tecnica” democratica, l’opinione, anzitutto e per lo più, di una qualche maggioranza, considerando a questo punto gli operai come cittadini ed elettori. Ciò avrebbe comportato una svolta socialdemocratica e riformista. L’altra era che al movimento operaio fosse mancata una soggettività collettiva capace di imporre la propria volontà alle grandi masse e di fare così, con successo, una rivoluzione epocale, dominando la Tecnica, democrazia compresa, anziché assoggettarvisi. Invece di propendere per una scelta socialdemocratica e riformista, Cacciari e Tronti si sono messi alla ricerca di una filosofia volontaristica della storia dove gli individui singoli sarebbero stati sublimati in un nebuloso soggetto collettivo, una specie di Principe nicciano, capace di agire in modo volontaristico e machiavellico. Si riteneva, insomma, che fosse mancato un soggetto e un momento machiavellico, capace di dominare la Tecnica.
 
10. Purtroppo, invece del soggetto collettivo capace di imporre la propria volontà alla Tecnica, quel che ci siamo ritrovati, quel che si può osservare anche oggi ovunque nel nostro Paese, è una sorta di via italiana al momento machiavellico, cioè quella squallida metamorfosi che ha visto la sinistra (e il movimento operaio) popolarsi di tanti piccoli ego - soggetti dotati soltanto di obiettivi personali da raggiungere, in lotta frenetica contro tutti gli altri, dove ogni narrazione è diventata soltanto retorica e strumento di persuasione. Da costoro sono nati lo strumentalismo, l’opportunismo, la personalizzazione della politica, la corruzione, il disprezzo per i valori, l’anti istituzionalismo e l’uso spregiudicato delle istituzioni. Solo in questo modo volgare, decisamente stravolto, i temi più popolari dell’operaismo sono stati finalmente riprodotti su scala allargata e hanno “penetrato le masse”. Così siamo diventati tutti alternativi, tutti soggetti autonomi, tutti corpi desideranti, possiamo farci i fatti nostri ma possiamo anche continuare felicemente a essere critici e creativi, volontaristi, cinici, tragici e machiavellici, anti istituzionali e antidemocratici, antitecnologici e antiscientifici, relativisti, fieri avversari della ragione e profeti della fine della verità, oppositori del capitalismo finanziario, della globalizzazione, della merce, della cosa e dell’alienazione; e - perché no? – nemici dell’Europa e dell’Occidente. Marx e Heidegger avranno sempre una buona parola per tutti.
 
 
10/07/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
1961 Axelos, Kostas
Marx penseur de la tecnique, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: Marx pensatore della tecnica, Sugar Editore, Milano, 1963.
 
1966 Axelos, Kostas
Einfuhrung in ein kunftiges Denken: Uber Marx und Heidegger. Tr. it.: Marx e Heidegger, Guida, Napoli, 1966.
 
1977 Cacciari, Massimo
Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia.
 
2014 Di Cesare, Donatella
Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati Boringhieri, Torino.
 
2005 Faye, Emmanuel
Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris. Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro edizioni, Roma, 2012.
 
1973 Goldmann, Lucien
Lukács e Heidegger, Éditions Denöel, Paris. Tr. it.: Lukács e Heidegger. Frammenti postumi a cura di Youssef Ishaghpour, Bertani Editore, Verona, 1976.
 
1976 Heidegger, Martin
Wegmarken, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.
 
1922 Lukács, György
Geschichte und Klassenbewusstsein, Der Malik Verlag, Berlin. Tr. it.: Storia e coscienza di classe (a cura di Giovanni Piana), Sugar Editore, Milano, 1967.
 
1954 Lukács, György
Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau-Verlag, Berlin. Tr. it.: La distruzione della ragione (2 voll.), Mimesis Edizioni, Milano, 2011.
 
1998 Philipse, Herman
Heidegger’s Philosophy of Being. A Critical Interpretation, Princeton University Press, Princeton N.J. .
 
1984 Preve, Costanzo
La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983), Dedalo, Bari.
 
1977 Tronti, Mario
Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano.
 
1998 Tronti, Mario
La politica al tramonto, Einaudi, Torino.
 
2005 Wolin, Richard & Abromeit, John (a cura di)
Heideggerian Marxism. Herbert Marcuse, University of Nebraska Press, Lincoln and London.
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Cacciari 1977.
[2] Cfr. Tronti 1977.
[3] Cfr. Wolin & Abromeit 2005.
[4] Cfr. Goldmann 1973. Il volume è stato pubblicato in italiano nel 1976.
[5] Cfr. Axelos 1961 e Axelos 1966.
[6] Cfr. Lukács 1954. La prima edizione italiana, presso Einaudi, è del 1959.
[7] Cfr. Lukács 1954: 843.
[8] Cfr. Lukács 1954: 844.
[9] Si veda Faye 2005. Per i più recenti sviluppi si veda Di Cesare 2014.
[10] Cfr. Confronto con Heidegger in Cacciari 1977.
[11] Cfr. Heidegger 1976: 292.
[12] Cfr. Heidegger 1976: 293.
[13] Questa, tra l’altro è l’interpretazione di Axelos. Cfr. Axelos 1961 e Axelos 1966.
[14] Secondo lo schema marxiano, non può mai darsi che la borghesia trionfi in campo economico e che, invece, si ritrovi in crisi dal punto di vista culturale. Si tratterebbe di un’anomalia capace di distruggere le fondamenta stesse del marxismo. La possibilità di una crisi culturale nel fulcro del mondo capitalistico sviluppato implicava un ribaltamento completo nella filosofia della storia, per cui l’elemento economico sarebbe solo una conseguenza dell’elemento culturale. Occorreva dunque andare in cerca di una “crisi della cultura” che fosse compatibile con la presenza di un ricco sviluppo economico. Questa teoria della storia non poteva che essere quella nicciano-heideggeriana, la quale contemplava che il massimo dello sviluppo tecnico comportasse il massimo della regressione culturale (o spirituale). L’adesione alla teoria implicava l’equiparazione tra tecnica ed economia, cosa che Marx non avrebbe mai fatto. O, meglio, implicava la riconduzione dell’economia a mera tecnica. Questo al più era quanto si poteva dire avesse fatto Weber con la sua teoria del capitalismo come razionalizzazione. Per Marx, dietro all’economia ci stanno i rapporti sociali; per la filosofia nicciano heideggeriana dietro all’economia ci sta solo l’oggettivazione, la reificazione.
[15] Cfr. Cacciari 1977: 71-72.
[16] Cfr. Cacciari 1977: 72.
[17] Cfr. Cacciari 1977: 72.
[18] Cfr. Cacciari 1977: 72-73.
[19] Costoro pensano che un’epoca non possa stare senza fondamenti perché ritengono che le epoche siano delle forme individuali, che hanno delle caratteristiche uniche (appunto il fondamento). Non ce la fanno a pensare che in una stessa epoca ci siano tanti singoli, ognuno dei quali si costruisce liberamente i fondamenti che vuole, rispettando un patto di convivenza con tutti gli altri, patto che assicura la libera ricerca di ciascuno della propria personale felicità. La concezione dell’epoca come forma è tipica di tutti gli organicismi, di tutti i nazionalismi, di tutti i razzismi. Hegel, Marx, Dilthey, Lukács (e ovviamente Heidegger) sono i profeti di questo essenzialismo che evidentemente Cacciari condivide.
[20] Cfr. Cacciari 1977: 73.
[21] Cfr. Cacciari 1977: 74.
[22] Su questo punto, si veda Faye 2005.
[23] Cfr. Cacciari 1977: 73.
[24] Cfr. Cacciari 1977: 74.
[25] Posizioni assai simili erano già contenute ne La crisi delle scienze europee di Husserl.
[26] Cfr. Cacciari 1977: 74-75.
[27] È fin troppo chiaro che, in questa prospettiva, la storia non è più concepita come successione di classi in lotta tra loro, ma come successione di civiltà che nascono e poi spariscono dopo avere esaurito il loro “destino” (o, il che è lo stesso, dopo avere sviluppato in pieno la loro “forma”).
[28] Cfr. Cacciari 1977: 75.
[29] Cfr. Cacciari 1977: 76.
[30] Cfr. Cacciari 1977: 76-77.
[31] Cfr. Cacciari 1977: 77.
[32] Le teorie della scuola hegeliana e post hegeliana sono piene di cose che spariscono dopo essersi realizzate (più o meno come le forme aristoteliche). Anche Marx non era da meno.
[33] Cfr. Cacciari 1977: 78.
[34] La polemica di Heidegger contro la cosa era di stampo tipicamente antisemita. A sua volta, la polemica di Marx contro il capitalismo, se non era coscientemente antisemita, comunque era erede della favola diffusa degli ebrei scarsamente spirituali e abili manipolatori di ricchezza. Si legga la Questione ebraica di Marx per avere un quadro sorprendente dell’antisemitismo marxiano. Tutte le filosofie della decadenza contrappongono lo Spirito (magari identificato con quello greco - germanico) alla materia, al calcolo, alla tecnica dei vili meccanici. Non è davvero ben chiaro cosa avrebbe avuto da imparare il movimento operaio dalla spiritualizzazione proposta da Cacciari. Magari sarebbero diventati tutti come l’operaio di Jünger.
[35] Cfr. Lukács 1922.
[36] Non si capisce perché: se abbiamo realizzato il nostro destino,… dovremmo solo essere contenti. Cacciari evita di introdurre l’elemento della nostalgia dell’Essere.
[37] Cfr. Cacciari 1977: 79.
[38] Cfr. Cacciari 1977: 81.
[39] Infatti Cacciari su guarda bene dal riportare il dibattito precedente sulla questione.
[40] Cfr. Cacciari 1977: 81-82.
[41] Cfr. Cacciari 1977: 82.
[42] Cfr. Tronti 1998.
[43] Cfr. Preve 1984: 6-7.
[44] Cfr. Preve 1984: 9.
[45] Su questo punto non posso che rinviare al mio articolo Contraddizioni del terzo tipo sul sito Finestrerotte.