martedì 19 marzo 2024

La sinistra italiana e l’arte di pettinare le bambole


 

 




 



 

1. Dopo[1] le elezioni regionali in Sardegna, presso molti osservatori e leader politici di sinistra[2] si erano accese grandi aspettative di un bis alle elezioni abruzzesi. Il ragionamento era più o meno il seguente: se abbiamo vinto in Sardegna dove ci siamo presentati divisi, allora in Abruzzo, dove ci presentiamo tutti uniti appassionatamente, con un candidato che non sfigura, non possiamo che stravincere.

Era abbastanza chiaro che si trattasse di pie illusioni. Intanto è vero che in Sardegna la sinistra si è presentata divisa come non mai. Grazie alle faide locali e al “compagno” Soru. La vittoria risicata è avvenuta per 1600 voti. Cioè, si è trattato di una vittoria sostanzialmente legata al caso. Se quel giorno fosse anche soltanto cambiata la situazione meteo, il risultato avrebbe potuto essere diverso. Com’è noto poi, il voto disgiunto ha occasionalmente permesso a una parte della destra di regolare i propri conti interni, favorendo così la Todde. Anche loro per fortuna hanno ogni tanto le loro faide locali. Le pie illusioni, così frequenti e diffuse, ci dicono che la sinistra vive di illusioni e che non cambia mai. Invece di ragionare sulle cause delle ripetute sconfitte, cause alquanto profonde e che vengono da lontano, si va in cerca di superficiali segni di cambiamento che possano annunciare strabilianti stagioni di crescita e di consenso. E puntualmente ci si deve poi rassegnare alla disillusione.

Il prossimo 21 e 22 aprile si voterà in Basilicata e, a quanto pare, lì la questione delle alleanze e delle candidature nell’ambito della sinistra (il famoso “campo largo”) sta attraversando un formidabile travaglio.[3] Come dire che la sinistra non sa che pesci pigliare. Avremo poi l’8 e 9 giugno le elezioni regionali in Piemonte (accoppiate alle elezioni europee). Anche in questo caso le alleanze e le candidature – discusse in ristretti e misteriosi circoli torinesi – sono ancora del tutto per aria. Prevedibilmente, per quel poco che se ne sa, la sinistra si presenterà divisa e molto probabilmente perderà.[4]

2. C’è una curiosa interpretazione circolante sui media. Le elezioni regionali di questo periodo sarebbero in qualche misura influenzate dalle prossime elezioni europee di giugno, dove si voterà con il proporzionale. Dunque, sussurrano quelli che la sanno lunga, i partiti tenderebbero attualmente “a contarsi” uti singuli, a non fare alleanze compromettenti, a presentarsi cioè ai propri elettori nella purezza delle proprie posizioni. Dunque questo non sarebbe senz’altro tempo di alleanze, anzi, sarebbe meglio andar divisi per contarsi. Le alleanze, se si faranno, diventeranno possibili solo dopo le elezioni europee. Non abbiamo dubbi che i dirigenti nazionali e locali dei vari partiti la pensino esattamente così. Si tratta, come ognun vede, di una posizione del tutto suicida, oltreché del tutto priva di senso.

La sinistra italiana, indipendentemente dalle elezioni europee, è in realtà profondamente spaccata e nulla sembra essere cambiato dalle ultime elezioni politiche, nelle quali, di fatto, la sinistra ha colpevolmente regalato la vittoria alla destra.[5] La memoria del 25 settembre 2022 è stata tranquillamente lavata via. Ora, è davvero demenziale che si perseveri a giustificare l’esigenza di marcare le divisioni per meglio presentarsi alle elezioni europee col proporzionale. Questo potrebbe avere un qualche minimo senso almeno se nella sinistra ci fossero diverse idee dell’Europa (ce ne dovrebbero essere almeno tre o quattro!) e se fosse in corso un acceso dibattito interno tra i diversi modelli di Europa da realizzare. Nulla di tutto ciò. Nessun dibattito approfondito e appassionato. Quel che circola nella sinistra a proposito di Europa è un programma dalle davvero grandi ambizioni: «Speriamo che non vinca la destra!».

3. Ma vediamole meglio queste tre (o quattro) sinistre e i loro cespugli. Per avere un’idea della sinistra italiana oggi sarà meglio partire dalla consistenza elettorale delle diverse formazioni. Useremo i sondaggi di You Trend, che producono una media di diversi sondaggi a distanza ravvicinata (detta “Supermedia”). Abbiamo (in data 8 marzo) il PD con il 20,1; il M5S con il 16,3; Azione col 4%; Alleanza Verdi e Sinistra con il 4,1%. Poi abbiamo Italia Viva col 3,2%; Più Europa con il 2,7% e Unione Popolare con l’1,3%. In tutto abbiamo il 51,7%, cioè più della metà di coloro che si sono espressi. È il caso di specificare che Alleanza Verdi e Sinistra è un cartello elettorale che comprende Europa Verde (di Bonelli) e Sinistra Italiana (di Fratoianni). Unione Popolare è invece un cartello elettorale, riunito sotto il nome di de Magistris,[6] che comprende ben sette formazioni politiche, tra le quali la più nota sembra essere Rifondazione Comunista.

A tutte queste formazioni già note, va aggiunta una nuova formazione, che a quanto pare si presenterà alle elezioni europee dell’8-9 giugno 2024, guidata da Michele Santoro. Collocabile si presume anch’essa nell’ambito della sinistra in senso lato. La nuova formazione sarà denominata “Pace, Terra, Dignità”. Essa pare presentarsi, come partito monotematico, nell’ambito del pacifismo, contro la guerra, l’invio di armi in Ucraina, le spese militari e quant’altro. Si presenta come partito del leader non scevro da uno stile populista, soprattutto nella comunicazione. Non è impossibile che rosicchi un certo spazio agli altri partiti della sinistra (e non certo a destra).

4.È davvero difficile dire cosa esprima sul piano dei contenuti questo coacervo di sigle e di leader, la cui preoccupazione principale non pare proprio essere quella dell’unità. A guardar le sigle e le denominazioni, la eterogeneità delle culture politiche è davvero elevata. Se poi appena un po’ si conosce la storia delle diverse formazioni si è effettivamente indotti a domandarsi cosa c’entrino le une con le altre. Il PD viene da lontano e vorrebbe essere una specie di sintesi della parte vagamente progressista delle ex culture politiche del PCI e della DC, culture ormai ampiamente defunte. La dizione “democratico” non è affatto un committment alla democrazia come cultura politica,[7] bensì una scimmiottatura veltroniana dei democratici americani e delle loro primarie, cosa dannosissima di cui il partito non riesce a liberarsi.[8] E non ha neppure capito di doverlo fare al più presto. Una caratteristica specifica del PD è quella poi di essere, al proprio interno, suddiviso in numerose correnti che risentono di marcati personalismi, che governano la distribuzione del potere nel partito, ma che tendono anche a riprodurre svariate contrapposizioni ideologiche che già si ritrovano tra i partiti esterni. Attualmente le correnti non compaiono in pubblico più di tanto ma sono ben presenti e senz’altro avranno un luminoso futuro.

Il M5S in origine era portatore di una concezione infantile della democrazia, il direttismo. Che avrebbe corretto tutti i mali della politica. Inoltre proclamava di essere un partito post ideologico. Meglio: un non partito con un non statuto. Teorizzavano il mandato imperativo. Per essere generosi, possiamo parlare di una cultura populista che aspirava presuntuosamente a superare la contrapposizione tra destra e sinistra. Il M5S si è presentato nel 2009 in termini di rottura e ha avuto una rapida ascesa, fino a giungere al governo Conte I nel 2018. È facile comprendere come il M5S abbia potuto affermarsi nel colossale vuoto lasciato dal PD, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Nel M5S c’era e c’è tuttora una forte componente di cultura generazionale delle ultime due generazioni che hanno avuto accesso al voto e cioè la Y e la Z. Il loro plateale analfabetismo politico è dovuto, oltre alla frattura generazionale, alla devastazione culturale intervenuta dopo la fine della Guerra fredda e in seguito alla affermazione dei nuovi media.[9] Indubbiamente il M5S odierno è oggi alquanto cambiato, sembra collocato ormai genericamente su posizioni di sinistra ma il patrimonio genetico sembra ancora esattamente lo stesso.

5. Questi sono dunque i due partiti principali della sinistra odierna, almeno sul piano numerico. Si tratta di prendere atto che sono due partiti incompatibili e in feroce concorrenza tra di loro. Le altre numerose formazioni non arrivano individualmente al 5%,[10] ma complessivamente contano per il 15,3% Hanno cioè il peso di un terzo partito di media taglia. E qui dentro c’è proprio di tutto. Azione e Italia Viva sono partiti che sono caratterizzati in senso populista soprattutto dai loro leader piuttosto che dalle loro ideologie. La loro intenzione sarebbe quella di una collocazione liberaldemocratica vicina al centro, ma sono costantemente impediti proprio da marcati tratti populistici e dal leaderismo dei capi. Non si capisce bene quali siano le differenze tra i due partitini. Hanno perfino provato a unificarsi senza successo, con episodi decisamente comici, da avanspettacolo.

L’Alleanza Verdi e Sinistra si rifà a due culture politiche abbastanza contrapposte: alla cultura politica dei Verdi, che in Italia non ha mai avuto fortuna e a una specie di socialdemocrazia radicale che, idem, in Italia non ha mai avuto grande fortuna. Entrambi i partiti comunque si comportano anche e soprattutto come partiti del leader. I verdi potrebbero esser considerati come un partito monotematico, ma svolgono comunque la funzione di partito generalista, prendendo posizione su qualsiasi cosa.

Più Europa è il partito che forse più si avvicina alla cultura liberaldemocratica, di matrice liberale e radicale, ma ha il problema di essere un partito elitario, incentrato su problemi che suonano per di più estranei a molti elettori. È questo il vecchio antico difetto dei liberaldemocratici azionisti. In effetti stanno da soli perché non avrebbero gran posto dove andare, perché quella cultura negli altri partiti (soprattutto PD e M5S) proprio non c’è.

Unione Popolare è un’incredibile accozzaglia di sigle (ben sette formazioni, molte delle quali sconosciute al grande pubblico) che, pur marcando la loro irriducibile diversità, stanno insieme principalmente per il vantaggio del cartello elettorale e per un certo radicalismo antisistema. Anche loro risentono marcatamente di tendenze populiste. Tranne forse il partito annunciato di Santoro, tutti gli altri – Verdi compresi – tendono a presentarsi come partiti generalisti, cioè partiti che hanno (o dicono di avere) una linea più o meno su tutte le questioni di pubblico interesse. Come effetto di questa varietà, ci dovrebbe essere a sinistra un formidabile dibattito. Invece non si discute seriamente proprio di nulla e ci si contrappone però volentieri sulle questioni più occasionali e disparate. E le “linee” non collimano quasi mai. Quando poi si passa alle questioni regionali o decisamente alle questioni locali, le ragioni di differenziazione spesso aumentano anziché diminuire. Il tempo di una più facile collaborazione a livello locale sembra finito. Non di rado le direzioni nazionali richiamano i livelli locali desiderosi di fare qualche alleanza poco ortodossa.

Ci sono degli spiritosi che sostengono che tutta questa rissosa diversità sarebbe in realtà una ricchezza. Sì, sarebbe una ricchezza se ci fosse un autentico dibattito, se ci fosse la capacità di creare degli amalgami. In realtà questa supposta ricchezza serve solo a creare spaccature, ostilità, veti incrociati e particolarismi. La cosa è quanto mai evidente. Stanti così le cose, un’unità operativa di qualche tipo sembra davvero impossibile.

6. La politica della sinistra in senso lato tuttavia non è tutta qui. Vale la pena, tanto per avere chiare le idee fino in fondo, di dare un’occhiata anche alle associazioni, ai movimenti e ai partitini monotematici che popolano la cosiddetta società civile, spesso di taglio locale ma talora anche con ambizioni internazionali, quelli cioè che non si presentano alle elezioni ma che intenderebbero essere la base delle elaborazioni, delle novità, della domanda politica più spontanea, originale e autentica. Può essere interessante, per i nostri scopi, produrre una sintetica tassonomia di questi movimenti. Possiamo identificare per lo meno i seguenti ambiti: movimenti per l’ampliamento dei diritti costituzionali; movimenti ecologisti; movimenti delle donne ad ampio spettro e movimenti gender; movimenti antirazzisti e anti discriminazione; movimenti per la riforma dei codici linguistici; movimenti relativi ai migranti e alle migrazioni; movimenti animalisti; movimenti di volontariato a loro volta suddivisi in una miriade di settori di intervento; movimenti contro la guerra e pacifisti; movimenti religiosi e di spiritualità (diversi dalle religioni tradizionali); movimenti a sfondo localistico per la difesa, valorizzazione e promozione del territorio e dell’arte; movimenti giovanili e/o studenteschi; movimenti per la salvaguardia dei beni ambientali e del patrimonio storico; movimenti per la difesa degli interessi di singole categorie economiche; movimenti per la difesa di popolazioni minacciate e di tradizioni, usi e costumi. Movimenti europeisti. Movimenti autonomistici e financo nazionalisti a sostegno delle patrie oppresse. L’elenco non è esaustivo e, ovviamente, non è possibile produrre una rigorosa separazione tra i diversi tipi. La considerazione che si può fare è che tutto questo impegno e fermento, oltremodo ricco e interessante, non diventa mai capitale politico spendibile a vantaggio di una sinistra complessiva, non si traduce mai in mobilitazione politica organizzata e finisce per disperdersi in mille rivoli. C’è un’obiettiva spaccatura tra questo mondo e quello dei partiti generalisti. Gli attivisti raramente si trasformano in dirigenti politici. Spesso tutta questa movimentazione non si traduce neppure in un arricchimento del capitale sociale a livello locale.

7. Come risulta abbastanza chiaro dalle argomentazioni che abbiamo fin qui accumulato, le differenze interne al mondo della sinistra sono fomentate e alimentate da due diverse componenti: in primis la condivisione e propagazione di elementi fortemente identitari (come nel caso del M5S o dei Verdi). Le tematiche identitarie della sinistra italiana si configurano variamente e vanno dalla condivisione di precise ideologie, magari del secolo scorso (ad esempio Sinistra italiana, oppure il PRC che sta dentro a Unione popolare) che sono ormai solo più ritualizzate. Oppure fino alla fissazione su obiettivi specifici di carattere pragmatico, che divengono elementi discriminanti per distinguere amici e nemici (ad esempio il “reddito di cittadinanza” per il M5S). Secondariamente, abbiamo la presenza di leader tossici divisivi che legano il loro stesso destino politico alla frammentazione del campo. Inoltre, se andiamo a ben vedere, ci sono delle formazioni che soffrono di entrambe le problematiche. Sono fortemente identitarie e guidate da leader tossici divisivi. Che usano cioè gli elementi identitari in senso divisivo. E questo è davvero il massimo! Lo stesso discorso si può fare per i numerosi movimenti monotematici citati che pure non si presentano alle elezioni ma che si piccano di influire sugli orientamenti delle diverse formazioni politiche, puntando correttamente sui contenuti. Capita spesso che certe iniziative locali siano sottoscritte da una gran quantità di sigle e che i partecipanti effettivi siano di meno delle sigle firmatarie. Viva il pluralismo.

I caratteri strettamente identitari e i leader tossici sono gli elementi dunque che avventurosamente tengono insieme e aggregano i rispettivi elettorati, molti dei quali ridotti ormai a cifre davvero esigue. Quando il capitale politico è tutto lì, allora è chiaro che la situazione non può che fossilizzarsi. Ciascuno cercherà di massimizzare il proprio ambito ristretto e lascerà andare in malora l’interesse comune a mettere in piedi una sinistra forte e determinata.

8. Ci sono un altro paio di elementi da aggiungere, che valgono come quadro di sfondo, come condizione sufficiente per spiegare queste divisioni perpetue. Si tratta anzitutto del deterioramento della qualità della classe politica. I leader e i comprimari sono sempre più superficiali, impreparati, vaghi e generici, adusi a un dibattito politico fatto di tweet, di talk show, di richieste di dimissioni altrui, di slogan passeggeri. Totalmente incapaci di studiare e approfondire i problemi. Incapaci financo di scrivere da soli un articolo di media lunghezza, che sia dotato di senso compiuto. Sempre in giro a stringer mani e a fare dichiarazioni. Oppure spesso rinchiusi nelle loro sedi a discutere di contrapposizioni personali e di spartizione della quota sempre più esigua di poltrone e poltroncine a disposizione. Morti di fame.

In secondo luogo abbiamo il deterioramento dello spazio pubblico di discorso. Qui l’analisi si farebbe lunga. Non ci sono più nemmeno le sedi nelle quali possa realizzarsi un dibattito politico approfondito. Non ci sono più le sedi fisiche (sezioni locali, convegni, congressi, centri studi, scuole di partito), non ci sono più le sedi comunicative ad alto valore aggiunto (come giornali o case editrici), tutte soppiantate dalla comunicazione social di basso livello, non ci sono più le sedi deputate alla riflessione e alla elaborazione: mi riferisco qui al ruolo degli intellettuali,[11] anch’essi sempre meno numerosi e più deteriorati, prezzolati, ridotti a fare le comparse televisive, del tutto incapaci e/o poco interessati a studiare i problemi e a formulare teorie, a elaborare proposte. Sono del tutto spariti gli intellettuali a livello locale che nella Prima Repubblica costituivano un importante riferimento. Ormai è del tutto chiaro che i media e le nuove tecnologie non sono stati in grado di costituire un nuovo spazio pubblico di discorso adatto a far crescere i corpi intermedi e la democrazia. Il risultato è quello noto: il trionfo della semplificazione, la riduzione della politica a meri slogan privi di spessore e di analisi. Il populismo che avanza. Le tendenze populiste sono presenti in una gran parte delle formazioni politiche della sinistra che abbiamo esaminato.

9. Per così com’è oggi, dobbiamo prendere atto del fatto che la sinistra italiana è del tutto inemendabile. Sta andando incontro a una sconfitta dopo l’altra, non per la forza degli avversari ma per le sue intrinseche debolezze. Continua a girare a vuoto, senza neanche più domandarsi perché. Avendo del tutto smarrito i fini continua ad arrabattarsi con i mezzi sempre più vecchi e stantii. Siamo senz’altro in presenza del ritualismo, ben descritto da Robert K. Merton. Tutti vedono ormai i limiti grossolani di questa sinistra. Anche nei talk show più sguaiati, le battutine da parte dei giornalisti e dei conduttori sulle divisioni della sinistra e i sorrisetti di sufficienza sui colpi di testa dei vari leader e leaderini sono all’ordine del giorno. Quei dirigenti politici della sinistra che, in questi giorni, stanno nel chiuso delle loro stanze a studiare gli algoritmi per il “campo largo”, stanno a discettare di candidature, alleanze, gradimenti di questo o di quello, danno l’impressione di guidatori di una locomotiva suicida ormai instradata verso il baratro, che nessuno tuttavia vuol fermare. Rubando la battuta a Bersani, è da un bel po’ che qui, a sinistra, stiamo a pettinare le bambole! Felici e contenti, come se nulla fosse.

Dobbiamo allora necessariamente concludere che una sinistra così non serve a niente e fa solo dei danni. Rappresenta un insulto morale quotidiano per quei pochi che ancora si sentono e sono di sinistra e condividono effettivamente una cultura politica di sinistra. Non resta che augurare a questa sinistra, colpevolmente smarrita e sbardellata, una sconfitta pesante e definitiva che faccia finalmente un po’ di pulizia, e nel più breve tempo possibile. Ormai è chiaro che qualunque accanimento terapeutico potrebbe servire soltanto a prolungare una dolorosa quanto inutile agonia. E per il futuro, possiamo solo invocare l’intervento della distruzione creatrice schumpeteriana. Così sia.

 Giuseppe Rinaldi (12/03/2024).

 

 

 NOTE

[1] Scrivo queste note appena dopo le elezioni regionali abruzzesi.

[2] Intendo qui la sinistra in senso ampio e generico. Diciamo pure un campo larghissimo.

[3] Al momento in cui scriviamo, in Basilicata pare che PD e M5S abbiano trovato l’accordo su un candidato suscitando tuttavia la rottura da parte di Azione. La storia forse non è finita qui.

[4] Anche nel caso del Piemonte, le ultime notizie danno per certa una spaccatura tra M5S e PD e, forse, l’appoggio da parte di Azione per il centro destra.

[5] Si veda la mia analisi, rivelatasi del tutto profetica, contenuta in Finestre rotte: Il Centro Sinistra Disunito e la sfida elettorale  .

[6] Il quale de Magistris ha tuttavia recentemente dichiarato di rinunciare all’incarico.

[7] Non sto dicendo che il PD è antidemocratico. Sto dicendo che il PD non è l’erede, in Italia, della cultura liberaldemocratica che fu del Partito d’Azione. In tutta l’abbondanza dell’offerta della “sinistra”, la cultura liberaldemocratica semplicemente non c’è.

[8] Si vedano in proposito i due documentatissimi studi di Antonio Floridia. Si veda: 2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019] e anche 2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, Roma. Ma sono ancora capaci a leggere, quelli del PD?

[9] La cosa vale particolarmente per il M5S, ma vale anche per i giovani di altre formazioni politiche.

[10] E sarebbero giustamente escluse da ogni peso politico qualora il nostro sistema elettorale avesse un provvidenziale sbarramento al 5%.

[11] Si veda in proposito l’interessante analisi in 2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari.





giovedì 29 febbraio 2024

Ingambarati e contenti. Noterelle metodologico - filosofiche









1. Purtroppo[1] capita ancora spesso di sentire il ritornello secondo cui il capitalismo sarebbe la spiegazione ultima dei fenomeni più svariati che accadono ovunque, sia nella quotidianità, sia sul piano nazionale e internazionale. I sostenitori di queste teorie, solitamente, dopo avere proclamato che «È colpa del capitalismo!», sembrano piuttosto soddisfatti. L’idea loro è che con questa costatazione abbiano fatto un salto di qualità, abbiano finalmente attinto a una verità a lungo attesa e sospirata. Abbiano finalmente “spiegato” un qualcosa che, fino a un momento prima, appariva oscuro e impenetrabile.

Tradotto in un linguaggio più accessibile, secondo costoro, una variabile[2] come il capitalismo (cioè la sua presenza o assenza) sarebbe in grado di spiegare praticamente tutto. I dissesti idrogeologici, la diminuzione delle nascite, le aggressioni ai Presidi da parte dei genitori degli allievi, la tossicodipendenza, il tasso degli incidenti stradali, l’inquinamento atmosferico. Naturalmente poi il capitalismo sarebbe in grado di spiegare le guerre che imperversano sul pianeta, le diseguaglianze economiche e sociali, la fame nel mondo e il sottosviluppo, ma anche le innumerevoli distorsioni dello sviluppo. Il capitalismo poi è invocato per spiegare pressoché tutti i fenomeni politici, compresi il populismo, l’estrema destra, i neofascismi e i neonazismi. Ma anche i licenziamenti, i servizi sanitari scadenti, l’inflazione. Tutti i fallimenti aziendali sarebbero colpa del capitalismo. Dopo che è entrata di moda la terminologia della globalizzazione, il vezzo di attribuire tutto quel che avviene nel Mondo al capitalismo globale e al capitalismo finanziario è divenuto sempre più forte. Il capitalismo, insomma, continua a essere considerato come la macro causa che fa girare il mondo. Aristotele, che se ne intendeva, avrebbe parlato di una causa prima, o giù di lì.

2. Suscita tuttavia qualche sospetto il fatto che questa spiegazione causale sia solo e sempre utilizzata quando l’explanandum (ciò che di volta in volta s’intende spiegare) possiede, per qualche motivo, caratteristiche decisamente negative. Il capitalismo è invocato per spiegare solo aspetti negativi. Solo le cosiddette “contraddizioni” sono un effetto del capitalismo. Mai sentito uno di costoro che, a proposito di qualche ipotetico effetto, dica «È merito del capitalismo». Evidentemente, il capitalismo non può meritare alcunché, per definizione. Se oggi siamo meglio nutriti, meglio curati e più istruiti di un tempo, non può essere merito del capitalismo. Se mediamente i tassi di violenza stanno diminuendo non può essere merito del capitalismo. Se la democrazia politica, nonostante gli inciampi, si sta diffondendo come non mai nella storia umana, non c’entra il capitalismo. Tutti i progressi scientifici che ci stanno liberando dalla superstizione e dall’ignoranza non possono essere certo meriti del capitalismo. Ugualmente, i ritrovati tecnici e scientifici – quelli che utilizziamo tutti i giorni (dai telefonini, ai motori, all’energia) – non possono essere riconosciuti come un merito del capitalismo. La frontiera della conoscenza e della conquista dello spazio, come pure le frontiere della AI e delle neuroscienze, per costoro non hanno nulla a che fare col capitalismo. Sia ben chiaro. Non è che noi pretendiamo che, quando facciamo una telefonata o quando prendiamo un caffè, o quando ci facciamo vaccinare, ci inginocchiamo e facciamo una giaculatoria di ringraziamento al capitalismo. Semplicemente notiamo qui che il capitalismo è solo e sempre invocato - spesso a vanvera - come la fonte di ogni male. Evidentemente siamo all’interno della plurisecolare tradizione marxiana e marxista. Si noti che i nostri, se interrogati, vi diranno per lo più di non essere marxisti. Il fatto è che spesso lo sono stati. Passato il marxismo, però è rimasta l’abitudine.

Quando questa strana asimmetria valutativa vien fatta notare, di solito si riconosce obtorto collo che il capitalismo abbia anche prodotto qualche elemento di progresso, ma si fa subito notare come questi elementi siano sempre accompagnati dalle famose “contraddizioni”[3] che fanno sì che gli eventuali aspetti di progresso generino comunque sempre mali ben più gravi. Il bilancio del capitalismo è dunque necessariamente sempre negativo. Il capitalismo sembra essere, per definizione, inemendabile. Come stavamo bene quando stavamo peggio! Più in generale, si tratta, questa, di un’argomentazione ben nota, relativa al «lato oscuro del progresso». Dal punto di vista della storia delle idee questa è catalogabile come una reazione antimoderna, tipica del romanticismo. Non ho spazio qui per entrare nel merito.[4]

3. Penserà qualcuno che questo anti capitalismo di maniera sia solo folklore da vecchi Boomer sinistroidi che hanno perso il pelo ma non il vizio. Sì, forse, ma quello del capitalismo è un caso unico? Proviamo a domandarci se non siano diffusi in giro meccanismi esplicativi analoghi. Meccanismi esplicativi cioè che impropriamente e, soprattutto, inutilmente, facciano risalire quasi tutto quel che accade nel Mondo (soprattutto in termini negativi) a un’unica causa, collocata a un livello assai elevato di generalità. Cioè a una specie di aristotelica causa prima.

C’è solo l’imbarazzo della scelta. Il caso più eclatante è naturalmente quello del pensiero religioso. Se, secondo la credenza religiosa, Dio (qualsiasi Dio) interviene attivamente in tutto quel che accade nella storia,[5] è chiaro che dappertutto si vedrà lo zampino di Dio. Quanto sia pronunciato e pervasivo l’intervento del divino è da sempre materia di dibattito tra i seguaci delle diverse religioni. Dio è forse responsabile del terremoto di Lisbona del 1755, si domandavano i contemporanei di Voltaire. E, oggi, come la mettiamo col COVID? Se qualcuno stermina gli ebrei, corrisponde questo alla volontà di Dio? Se cade una pagliuzza, ciò è dovuto alla volontà di Dio? Non possiamo qui entrare nel merito filosofico di questa interessante questione, tuttavia è innegabile che il determinismo della volontà divina è uno dei modelli arcaici più diffusi del pensiero causale onniesplicativo. Il Papa invita a pregare per le situazioni più diverse. La preghiera si suppone dunque abbia un qualche effetto causale. Sennò pregare non avrebbe senso. Se tuttavia le nostre preghiere non sono esaudite, come capita quasi sempre, occorre trovare altre spiegazioni e le cose si fanno davvero complicate. Dio è distratto? Non ci meritiamo quello che chiediamo? Oppure vale la teodicea di Leibniz? La fede dunque non può fare a meno delle spiegazioni causali. Ma nello stesso tempo le spiegazioni causali possono mettere in serio imbarazzo la fede.

Si noti poi che anche il ricorso a un eventuale Dio insensibile o malvagio, o a un angelo cattivo (che poi dalle nostre parti si chiama Satana) non cambia le cose. Del resto un Dio che autorizza uno sterminio o manda terremoti non deve essere tanto diverso da un diavolo. Si tratterebbe di semplici variazioni sul tema.

4. Un altro caso, ben noto, di simili spiegazioni è quello relativo alla tecnica. Poiché la tecnica – fin dal mondo antico – influenza da vicino la nostra vita, più o meno in quasi tutti i particolari, allora è facile manifestare la convinzione che tutto quel che accade (soprattutto in senso negativo) sia un effetto della tecnica. Chissà perché, anche qui, gli effetti della tecnica sono sempre quelli negativi. L’Accademia di tutti i tempi è piena di filosofi che hanno predicato contro la tecnica, a partire da Socrate che predicava contro la scrittura. Tesi simili, notoriamente, sono state più recentemente elaborate, approfondite e divulgate, oltre che da molti pensatori romantici, dalla Scuola di Francoforte e dai seguaci di Nietzsche e Heidegger e dai cosiddetti filosofi continentali.

Il sociologo Bauman, tanto per fare un esempio, ha sostenuto che la tecnica (quella occidentale, naturalmente) è stata la causa della Shoah, perché, senza la tecnica, i nazisti non avrebbero materialmente potuto compiere lo sterminio.[6] Per arrivare fino ai filosofi No-vax dei giorni nostri, dei quali in Italia abbiamo un discreto e prosperoso allevamento.

Purtroppo, la logica vuole - in tutti questi casi - che se vogliamo sopprimere l’effetto, dobbiamo togliere la causa. Poniamo pure che la parte fondamentale della nostra infelicità sia dovuta alla perfida tecnica. Ebbene, in tal caso per essere finalmente felici dovremmo, conseguentemente, eliminare la tecnica. Qui non è in discussione il dirigente bancario che, stufo del suo lavoro, va in baita ad allevar capre e a fare il formaggio. È in discussione la possibilità di una civiltà umana senza la tecnica. Purtroppo, la prima pietra scheggiata dall’uomo primitivo è riconducibile alla tecnica. Le culture preistoriche sono per consuetudine designate proprio in base ai loro ritrovati tecnici. Financo il linguaggio e la scrittura sono tecnica. Tutti abbiamo in mente quei celebri fotogrammi di Kubrick, quando lo scimmione lancia verso il cielo il suo bastone e questo si trasforma in un’astronave. Poiché la stessa civiltà umana è tecnica, se tutto è colpa della tecnica dovremmo rinunciare alla civiltà umana tout court.

5. Un’altra variante di causa onniesplicativa – del tutto analoga a quella del capitalismo – è quella che riguarda il denaro. Ebbene, il denaro, considerato nella tradizione nientemeno che lo sterco del diavolo, è spesso invocato come l’agente causale di tutte le atrocità che avvengono sul pianeta. La auri sacra fames tende a essere usata come elemento esplicativo universale, come se fosse la motivazione principale dei comportamenti umani. Che costituisca una motivazione assai presente nei comportamenti non può essere negato, ma ciò è dovuto soprattutto al fatto banale che il denaro si può scambiare quasi con tutto. Tuttavia è altrettanto banale riconoscere che ogni tanto “ci sono delle cose che non si comprano” e che quindi il potere esplicativo del denaro, rispetto alle vicende umane, è comunque limitato. Coloro che spiegano tutto col denaro, di fronte alle cose che non si comprano non sanno cosa dire. Fanno finta che non ci siano.

Se non si tratta del capitale e/o del denaro, allora assai facilmente si finisce per evocare il potere. Spesso tuttavia combinato in forme del tipo: il potere del capitale, oppure il potere del denaro. Ma si trova anche come potere puro. Qui non stiamo parlando di studi seri e circostanziati come per esempio L’élite del potere di Wright Mills. Ci riferiamo a formulazioni nelle quali il potere diventa la struttura ultima che regge e governa la realtà. Secondo queste teorie non c’è solo il potere economico, il potere politico, il potere militare, ma abbiamo anche cose come il potere delle istituzioni scientifiche, il potere delle regole grammaticali, il potere del linguaggio, oppure il potere della razionalizzazione, della ragione strumentale (che poi è affine alla tecnica). Per costoro, qualsiasi tipo di ordine è per definizione oppressivo. In campo politico l’anarchismo, in una infinità di versioni, esprime bene queste posizioni. Poiché il potere viene spesso identificato con lo Stato, allora la scommessa politica del movimento anarchico è stata spesso quella della eliminazione dello Stato. In campo filosofico, l’esempio più tipico è costituito dalla filosofia di Foucault.[7]

Ci sono poi svariate altre cause prime che sono spesso invocate nelle spiegazioni più diffuse. I fabbricanti di armi, la violenza, la globalizzazione. Ma anche cose più prosaiche come la odiatissima burocrazia. Possiamo aggiungere anche il predominio maschile, che secondo taluni/e sarebbe capace di spiegare buona parte delle ingiustizie del mondo, comprese la violenza e le guerre. Invocare tutte queste macro cause, spesso a sproposito, conferisce l’impressione immediata di avere spiegato le cose più svariate. Di avere capito tutto. Di possedere la risposta. Invece il più delle volte si rischia solo di non avere capito niente.

Sia ben chiaro: qui non si sta proponendo di proibire l’uso di elementi esplicativi causali di questo tipo. In taluni casi (invero davvero pochi!) possono anche essere utili. Il fatto è che il più delle volte finiscono per essere fuorvianti. Evidentemente sono per lo più spiegazioni di comodo, alimentate solo dalla pigrizia e dalla esplicita o implicita volontà di semplificazione. Ma con le semplificazioni delle questioni complesse non si va lontano.[8]

6. Se ragionare per macro cause o per cause prime produce simili indesiderate conseguenze, il buon senso consiglierebbe di andarci piano. Perché facciamo allora pervicacemente simili errori? Perché continuiamo imperterriti a ripeterli, nonostante l’esperienza empirica ci induca quotidianamente a ben più miti consigli? Evidentemente è all’opera qualche tipo di bias sistematico che distorce la nostra mente e la fa lavorare in modo perverso. La cosa ha evidentemente a che fare con l’uso selvaggio delle imputazioni causali, soprattutto quando queste hanno a che fare con le discipline storico sociali. Se si preferisce, possiamo parlare di un uso improprio delle spiegazioni causali, quando sono applicate al mondo sociale. È forse allora il caso di esaminare con qualche maggior dettaglio queste distorsioni sistematiche che si annidano nella nostra testa e rendono decisamente imbarazzanti taluni nostri ragionamenti. Non si tratta evidentemente solo di turbe da vecchi Boomer sinistrorsi.   

7. In tutti i casi che abbiamo citato, si tratta evidentemente di un uso malaccorto delle spiegazioni. Si tratta allora di capire dove sta l’inghippo. Vediamo meglio di che si tratta. Spiegare vien dal latino explicāre e ha il senso di aprire il plico, aprire ciò che è piegato e dunque non visibile, cioè rendere manifesto ciò che è nascosto. Nella nostra vita quotidiana non potremmo fare a meno delle spiegazioni. Piaget ha elucidato con chiarezza come facciamo, nell’età evolutiva, a impadronirci dei meccanismi basilari della spiegazione. Se però facciamo continuamente degli errori in questo campo, allora quel che abbiamo imparato da bambini evidentemente non basta. Ci vuole qualche competenza in più. Di cose simili si occupano da sempre la metafisica, l’epistemologia, la metodologia della ricerca.

In realtà ci sono diversi tipi di spiegazione.[9] Abbiamo ad esempio spiegazioni in base alla funzione o teleologiche. Sono quelle spiegazioni che spiegano indicando a cosa serve qualcosa. Abbiamo poi spiegazioni in base alle intenzioni. Sono spiegazioni che riguardano solo gli esseri animati superiori che spiegano il loro agire in base alle intenzioni, cioè in base al progetto che si suppone abbiano in mente. Non ci occuperemo di queste spiegazioni, se non marginalmente. Abbiamo poi le spiegazioni causali. Sono spiegazioni che spiegano attraverso il ricorso a una causa, cioè il ricorso a un antecedente. Ci occuperemo particolarmente di questo tipo di spiegazioni, visto che corrispondono proprio al caso delle argomentazioni contro il capitalismo da cui abbiamo preso le mosse.

In generale, un fenomeno è spiegato causalmente quando ne conosciamo l’antecedente. Ciò che l’ha provocato o generato.[10] La genealogia degli Dei di Esiodo è il prototipo arcaico più semplice della concatenazione delle spiegazioni causali. Poiché la causalità è antisimmetrica, le spiegazioni causali implicano lo scorrere del tempo e la messa in relazione di un antecedente con un conseguente. Tuttavia, affinché una relazione causale abbia un valore conoscitivo effettivo, occorre che entrambi i termini della relazione siano ben definiti. Si tratta di un requisito indispensabile, che sta alla base di molti dei nostri errori. Se l’antecedente e/o il conseguente sono mal definiti o vaghi, non si può parlare di relazione causale.[11] E allora la spiegazione non spiega. Se Esiodo avesse detto: «Qualcuno generò qualcun altro, e poi qualcun altro ancora. E da questi altri ne vennero ancora generati, …» avrebbe fornito una ben misera spiegazione genealogica. E forse non sarebbe stato neanche tramandato. Se dico che “Le condizioni climatiche hanno prodotto un cambiamento del tempo” sto menando il can per l’aia.

Conoscere le cause è importante in una svariatissima serie di precisi contesti. In campo forense possiamo essere interessati a sapere chi ha causato un omicidio. In campo storico vogliamo sapere chi o cosa ha causato un certo avvenimento. In campo medico vogliamo sapere cosa ha causato un certo disturbo. In geologia ci interessa la causa delle eruzioni vulcaniche, e così via. Erroneamente si pensa che le spiegazioni causali siano tipiche delle scienze naturali. E che solo in quell’ambito possano funzionare. In realtà le spiegazioni causali sono fondamentalmente utilizzate nelle scienze umane. Storicamente, le spiegazioni causali hanno avuto il loro esordio e il loro sviluppo soprattutto nell’ambito del mondo sociale. L’esempio di Esiodo (e di Aristotele) parla chiaro. L’applicazione sistematica della causalità alle scienze naturali è invero piuttosto recente. E ha potuto godere di secoli di precedente esperienza.

8. Max Weber, seguendo l’andazzo del suo tempo, metteva nello stesso mucchio le diverse scienze “storico – sociali”.[12] Per quel che riguarda i meccanismi della spiegazione ci sono tuttavia delle differenze tra le scienze storiche e quelle sociali. La spiegazione in campo storico è sempre retrospettiva. Serve a identificare la causa (il responsabile) di un effetto che è già stato generato. Quando Esiodo scrive la genealogia, gli Dei sono già stati generati. Dunque la spiegazione storica non è mai predittiva e, soprattutto, non è facilmente utilizzabile per produrre un effetto pratico che eventualmente si desideri ottenere. E questo accade perché, intuitivamente, le situazioni storiche non sono mai ripetibili, sono sempre diverse. Gavrilo Prinzip, con il suo attentato del 1914, ha dato il via a un corso d’azione che ha prodotto la Guerra Mondiale I. Abbiamo qui una spiegazione storica in termini causali, ma questa si riferisce a un effetto unico e irripetibile già consumato. Se volessi produrre di nuovo una Guerra mondiale non avrei a disposizione un’altra Sarajevo, un altro Gavrilo, un altro Arciduca e via di seguito. Il terreno della storia è sempre nuovo. Gavrilo Prinzip in quanto causa ha agito una volta sola. Certo, dalla conoscenza storica dei fatti accaduti possiamo arguire che, qualora volessimo scatenare una guerra, possiamo provare a produrre una crisi internazionale, magari mediante un attentato. Ma una simile illazione non offre alcuna certezza, non funziona proprio come nel caso delle scienze naturali, dove la natura è ripetibile e prevedibile e alle stesse cause succedono sempre gli stessi effetti. Quando ci imbarchiamo in spiegazioni storiche, sappiamo bene che non potremo cambiar nulla. Semplicemente ci dobbiamo accontentare di conoscere come è andata. Dobbiamo soltanto accertare una connessione tra una causa e un effetto passati, con i metodi tipici della storiografia.

9. Nel campo delle altre scienze sociali (sociologia, politica, economia, …) la spiegazione causale può riguardare anche e soprattutto fenomeni che sono in corso di svolgimento. Si può prospettare dunque la possibilità di un intervento causale per modificare quanto sta avvenendo. Oppure ancora, addirittura, quando la relazione causale sia in certa misura ripetibile, si tratta di attivare una causa ripetibile perché produca il suo effetto ripetibile.

Questi procedimenti sono comuni in svariati ambiti disciplinari. Se voglio diminuire gli incidenti automobilistici in città posso pensare che mettere il limite di velocità a 30 km all’ora sia una buona soluzione. Se, in generale, un aumento dei salari produce un aumento dei consumi, allora, avendo l’obiettivo di aumentare i consumi, cercherò di realizzare un aumento dei salari.

10. Fin qui è tutto chiaro. Ma allora perché ci sbagliamo così volentieri? Proviamo a capirci qualcosa. Affinché sia possibile intervenire per modificare il corso degli eventi, o per generare un nuovo corso di eventi, occorre che la causa e l’effetto siano ben determinati, bene individuati. Non mescolati ad altro. In termini tecnici, le variabili prese in considerazione devono essere isolate e controllate. Non basta scrivere nel codice stradale: «Vai piano!». Si deve prescrivere con precisione: «Non puoi superare i 30 Km all’ora!». Spesso in laboratorio, nel caso delle scienze naturali, si lavora esplicitamente, con grande dispendio di mezzi, per isolare, per tenere sotto controllo le variabili che sono poste nella relazione causale. Se le variabili non sono bene definite e controllate, non ci sarà relazione certa, dunque la possibilità di intervenire per modificare quanto sta avvenendo sarà impedita. Le variabili indesiderate che fanno confusione sono dette solitamente variabili spurie. Ad esempio, di solito accade che le multe riducano le infrazioni. È questa una relazione causale ben nota. Se però il sindaco, dopo avere aumentato l’importo delle multe, si accorgesse che il fenomeno delle soste selvagge continua imperterrito, potrebbe rendersi conto che in realtà a determinare la sosta selvaggia è la inesistente sorveglianza dei suoi Vigili Urbani. Molti dei problemi che incontriamo derivano dal fatto che nel mondo storico e in quello sociale è notoriamente piuttosto difficile isolare le variabili, individuare bene, circoscrivere la causa e l’effetto. Questo è il motivo per cui, in questo particolare ambito, operare con le spiegazioni causali richiede una certa accortezza. E spesso ci sbagliamo.

11. In generale, si può dire che la scala di generalità delle variabili sia importante per precostituire la loro capacità di funzionare in una relazione di causa ed effetto. Vediamo meglio di che si tratta.[13] In termini teorici, i concetti [14] di cui ci serviamo per le nostre spiegazioni causali possono essere ordinati secondo una scala di generalità che va dalla maggiore alla minore estensione, oppure dalla minore alla maggiore intensione. L’estensione di un concetto è l’ampiezza del suo riferimento. L’intensione invece è la intensità o specificità del suo riferimento. L’estensione minima l’abbiamo quando un predicato si riferisce solo a un individuo (specie infima) che è unico e perciò diverso da tutti gli altri. L’estensione massima è costituita dal genere più ampio (genere generalissimo). Dovrebbe essere chiaro che l’intensione e l’estensione sono sempre fra loro in rapporto inverso.

Intuitivamente comprendiamo come un predicato che abbia elevata estensione debba essere piuttosto vago: ad esempio “figura” in geometria ha una elevata estensione, poiché si riferisce a tutte le figure possibili. Ma dire “figura” è assai generico. A sua volta “figura piana” ha minore estensione di “figura” e una maggiore estensione di “quadrilatero”, che a sua volta ha maggiore estensione di “triangolo”. Viceversa, “triangolo rettangolo” avrà maggiore intensione di “triangolo”, il quale a sua volta avrà maggiore intensione di “figura piana” e così via. Nella classificazione degli esseri viventi, “animale” è più esteso di “mammifero”, che a sua volta è più esteso di “felino”, che a sua volta è più esteso di “gatto”. Il gatto Felix avrà la massima intensione e la minima estensione.

In politica, ad esempio, “cittadino” avrà maggiore estensione di “cittadino con diritto di voto”, il quale avrà maggiore estensione di “cittadino votante”, il quale avrà maggiore estensione di “cittadino votante che decide all’ultimo momento cosa votare”. È chiaro che, per un sondaggista, quest’ultimo concetto, dotato di maggior intensione, sarà di gran lunga il più interessante.

 Quando l’estensione del concetto è ampia, conosciamo poche cose, quasi nulla. Quando l’intensione è massima, conosciamo un sacco di dettagli. Ma non possiamo troppo generalizzare. Questi sono gli autentici motivi per cui una variabile come “capitalismo” funziona poco o nulla nelle spiegazioni causali. Di un concetto come “capitalismo” possiamo conoscere al più una definizione generica. E poi sappiamo bene che proprio sulle definizioni di capitalismo non c’è affatto accordo tra gli studiosi. Per cui si tratterà sempre di un concetto mal definito. Possiamo aumentare l’intensione e trovare delle specie più precise, come il capitalismo mafioso, il capitalismo di ventura, il capitalismo di Stato, il capitalismo finanziario, il capitalismo assistito, il capitalismo imprenditoriale, quello mercantile e quant’altro. Se dico che il capitalismo causa i licenziamenti, non spiego un gran che. Se dico invece che la crisi del settore auto in Italia ha causato molti licenziamenti cominciamo a ragionare. Ma non possiamo sostenere che “la crisi del settore auto in Italia” sia la stessa cosa del capitalismo. A cosa mi serve concludere che il capitalismo ha causato i licenziamenti nel settore auto italiano? Se ci fermiamo al capitalismo in senso generico, sarà difficile sostenere delle spiegazioni del tipo “Il capitalismo causa l’aumento degli incidenti stradali”, oppure “Il capitalismo causa la guerra in Ucraina”, oppure “Il capitalismo causa l’assenteismo elettorale in Sardegna”. Ma anche una spiegazione del tipo “Il capitalismo causa la crisi della democrazia in Occidente” non sarebbe così facile da sostenere. E forse non sarebbe neppure utile.

12. Vediamo un caso specifico al lavoro, a mo’ di esempio, ad usum delphini. Poniamo che ci vogliamo occupare di un fenomeno piuttosto circoscritto (effetto) come l’incremento dell’obesità nei bambini dai 6 ai 10 anni, in Italia. Si tratta allora di trovare un explanans che stia operando come fattore causale, agendo sul quale si potrà sperare di contrastare l’obesità infantile. Posso considerare come ipotesi esplicative legittime alcune variabili di un livello di generalità prossimo a quello dell’effetto, ad esempio l’ansia di prestazione genitoriale che tende a ipernutrire i figli, la propensione delle famiglie ad accontentare la gola dei figli per tenerli buoni, la ampia disponibilità nei negozi di cibi trash, i bombardamenti pubblicitari, gli espedienti delle industrie alimentari che mettono nei cibi sostanze che stimolano il consumo, i disturbi alimentari dovuti alla diffusione di problemi psicologici, la scarsa attività fisica dovuta ai video giochi e alla televisione. Già da questo elenco improvvisato appare bene che l’effetto “obesità infantile” potrebbe avere diverse cause. In termini tecnici, ci sono cioè più variabili concomitanti. Queste variabili possono avere tra loro un peso diverso che sarebbe accertabile solo attraverso una complessa ricerca empirica. Dopo avere raccolto i dati, potremmo accertare che è la pubblicità a farla da padrona, oppure magari che sono le famiglie più in difficoltà che cadono nella trappola del sovrappeso infantile. Oppure che l’eccesso di cibo funziona come compensazione per relazioni sociali insoddisfacenti. E così via.

Poniamo a questo punto che, non volendo o non potendo imbarcarci in una ricerca empirica (in Italia nessuno fa più ricerca empirica!), considerando poi come un fastidio la complessità della questione e volendo però avere ugualmente una risposta commestibile e twittabile, si finisca per ragionare nella maniera seguente. Il sovrappeso è una questione legata al consumo esagerato e soprattutto al consumismo. Nella nostra società il consumismo è un effetto del mercato. A sua volta il mercato è un effetto del capitalismo. Possiamo così concludere che senz’altro il capitalismo, in ultima analisi, è la causa ultima della obesità infantile dei bambini tra 6 e 10 anni. Se abbiamo così tanti bambini obesi, ciò è causato in definitiva dal capitalismo. Finalmente! Abbiamo così trovato in un batter d’occhio la nostra spiegazione causale universale e ci godiamo l’illusione di aver fatto un gran passo avanti. Peccato che non siamo avanzati di un millimetro sulla questione del “che fare” eventualmente di fronte all’obesità infantile. A meno che, se volessimo seriamente intervenire per eliminare la obesità infantile, non intendiamo prendere seriamente in considerazione l’ipotesi operativa di eliminare il capitalismo. Vasto programma!

Possiamo dire con assoluta certezza che il capitalismo non c’entri proprio nulla con l’obesità infantile? Naturalmente no! Il capitalismo è un ampio contesto istituzionale (peraltro assai generico e difficile da definire) e praticamente per forza c’entra un po’ con quasi tutto. Il capitalismo, per le vie più traverse, sarà sicuramente associabile anche all’obesità infantile. Tuttavia sapere che il capitalismo può avere qualche vaga connessione con l’obesità infantile ci può aiutare anche solo minimamente a risolvere il problema dei nostri bambini? Il livello di generalità della causa qui è esageratamente elevato rispetto a quello dell’effetto e cosi la connessione causale può anche essere certa ma sarà del tutto inutile. Crediamo di sapere, in realtà non sappiamo un bel niente.

13. L’esempio precedente permette di comprendere appieno il concetto popperiano del riformismo piecemeal, per come è presentato ne La miseria dello storicismo.[15] Il termine usato da Popper vorrebbe significare un riformismo “a tratti”, “a bocconi”, cioè “un pezzo per volta”. Questo tipo di riformismo si contrappone a quelle teorie ingegneristiche della rivoluzione sociale totale che per risolvere i problemi sociali intenderebbero cambiare la società, sovvertendola e ridisegnandola completamente ex novo. Chi tende a utilizzare allegramente una terminologia a elevati livelli di generalità, concetti cioè di troppo elevata estensione, non potrà che propendere per una rivoluzione totale applicando alla società stessa, dall’esterno, una serie di trattamenti in maniera del tutto generale. In altri termini, abbiamo qui l’imposizione di un modello di società disegnato a tavolino dalle ideologie utopistiche. Manco a dirlo, questo è il metodo che – alla  prova dei fatti – tra Ottocento e Novecento ha prodotto disastri inenarrabili. Non mi riferisco solo alle ideologie di sinistra. Anche le ideologie di destra hanno fatto la loro bella ingegneria sociale totale!).

Chi invece non intende correre i rischi evidenti del sovvertimento sociale totale ma ritiene, come Popper, che la società si possa cambiare solo “un pezzo per volta” (questo è il solo vero significato possibile del riformismo!) rifuggirà dalle spiegazioni causali onniesplicative che non spiegano un accidente e cercherà di affrontare gli specifici e molteplici problemi in maniera pragmatica, attraverso aggiustamenti successivi. Manterrà cioè le proprie pretese di cambiamento a un livello di generalità medio basso, senza voli pindarici, facendosi carico del complesso gioco delle spiegazioni specifiche, delle specifiche cause e degli specifici effetti.

I problemi politici e sociali, per essere affrontati efficacemente, non possono mai essere affrontati ai livelli mega complessivi. Vanno affrontati a livelli di generalità limitati, ove si possa definire con cura le relazioni causali coinvolte e dunque intervenire con cognizione, controllando di ottenere gli effetti desiderati, consentendo eventualmente di correggere il tiro. Non sembra così difficile. Il metodo ha avuto anche una sua tipica denominazione nel campo psicologico: trial and error, prova ed errore. Popper, fallibilista in epistemologia, sostiene ovviamente che l’unico modo di realizzare un riformismo efficace è quello di farci guidare dagli errori. Ma per fare questo, bisogna che i nostri errori siano circoscritti, siano ben definiti. Gli errori specifici, dopo che li abbiamo rilevati, ci devono dire con chiarezza e precisione ciò che dovremmo evitare di fare, di modo che siano rimediabili. Si tratta di imparare dalla nostra esperienza. È così difficile? Una grande pretesa di cambiamento potrebbe invece generare un grande errore, il quale potrebbe essere irrimediabile. Anche perché, nel caso di una grande pretesa, le variabili che potrebbero sfuggire al nostro controllo aumentano a dismisura. La storia del Novecento dovrebbe averci insegnato qualcosa. Invece pare proprio di no.

Purtroppo, nell’attuale situazione, sembra che ci siano molti sconsiderati che sono ancora disposti a fare grandi errori, per fortuna soprattutto a parole (per quel che costano le parole). Ma che poi, in pratica, non si sforzino neppure di portare avanti quei piccoli esperimenti di cambiamento cui sono connessi i piccoli errori i quali ci permetterebbero però – alla prova dei fatti – di aggiustare il tiro nella maggior parte delle situazioni specifiche. A dispetto dell’uso dei paroloni e della retorica, nella nostra politica quotidiana non c’è la minima capacità di imparare dagli errori commessi. Motivo per cui l’efficacia dei nostri interventi di cambiamento si approssima allo zero.

14. Finisco queste noterelle con un’applicazione al campo filosofico di quanto ho appena sostenuto. Da quel che precede, dovremmo avere capito che, quanto più aumenta il livello di generalità, tanto più i concetti che adoperiamo diventano semanticamente vuoti. Fino alla parola forse più vuota di significato di tutte che è la parola “essere”. Disgraziatamente è questa una delle parole più usate, almeno nella nostra filosofia continentale.

Dovremmo esserci però procurati – a questo punto del nostro ragionamento – la cassetta degli attrezzi che serve per fare un piccolo salto di qualità filosofico e dire qualcosa di risolutivo proprio sull’uso della parola “essere” con finalità esplicative. Secondo Heidegger, la causa della nostra triste umana condizione sarebbe dovuta al fatto che avremmo nientemeno che smarrito il nostro rapporto con l’essere. Oppure – non è sempre ben chiaro quel che Heidegger intende – al fatto che l’essere stesso si sia a un certo punto occultato, nascosto. La domanda banale che qui s’impone è come si faccia a smarrire il rapporto con una “cosa” che è tanto generale da essere priva di qualsiasi contenuto semantico. E come possa cotale smarrimento determinare (e così spiegare causalmente) la nostra triste umana condizione.

15. Siamo, qui come nei casi precedenti, chiaramente in presenza di un abuso di generalità dei concetti che impieghiamo. Di questo specifico abuso dell’essere, che avviene costantemente nel linguaggio corrente, nelle mode culturali e nella filosofia continentale contemporanea, sono responsabili Husserl e soprattutto il suo allievo, peraltro del tutto irriconoscente, Heidegger. Non è difficile ricostruire i passaggi che hanno portato a questo abuso. Husserl da parte sua, a partire dalle Ricerche logiche, ha dato il via, ipotizzando che i termini sincategorematici[16] (tra cui “essere”), che non sono categoriali per definizione, fossero invece degli oggetti categoriali, coglibili attraverso una fantomatica percezione categoriale, inventata di sana pianta.[17] L’allievo Heidegger, che guardava con una certa sufficienza il lavoro del maestro, di tutti i termini sincategorematici di cui Husserl trattava nella Ricerca VI, si è occupato – per motivi suoi che qui non stiamo a indagare – solo dell’essere, cui ha attribuito una specie di funzione trascendentale universale.[18] L’essere, dunque, continuerebbe a non avere alcuna intensione (cioè a non significare da sé proprio nulla!) ma sarebbe – trascendentalmente – la condizione ultima di ogni significazione, di ogni manifestazione di realtà e dunque di ogni conoscenza.

Dopo questa strana e pretestuosa entificazione trascendentale, l’essere heideggeriano è divenuto una realtà a sé stante, capace di apparire, sparire e riapparire, agire e produrre degli effetti, magari sotto la forma del Führer, oppure del nuovo inizio o di quant’altro. Se l’essere heideggeriano fosse rimasto puramente trascendentale, sarebbe diventato un armamentario concettuale scolastico o barocco ma piuttosto privo di conseguenze e al più sottoponibile al benefico rasoio di Ockham. Ma con lo sviluppo ondivago e contorto del pensiero heideggeriano, l’essere entificato ha cominciato a intrattenere degli strani e del tutto improbabili rapporti causali con noi e con le cose di questo mondo. Ha cominciato misteriosamente a governare la storia umana. Fino a determinare nientemeno che il nostro destino. Il destino dell’Occidente.[19] Un tipico bias legato all’abuso delle spiegazioni causali.

16. Se l’essere heideggeriano fosse effettivamente soltanto una categoria trascendentale simil kantiana, allora, perdendo il nostro rapporto con l’essere, noi non saremmo più in grado di comprendere tutto ciò di cui solitamente diciamo che “è”. Cioè, sparirebbe la cognizione di qualsiasi cosa, noi stessi compresi. Nel linguaggio fenomenologico husserliano - heideggeriano, nulla più si mostrerebbe a noi. Saremmo in un bel pasticcio! Invece – buon per noi – almeno il verbo essere continua a funzionare per attualizzare la nostra infelice deiezione quotidiana nell’epoca della tecnica. Non si sa come, tuttavia, ci sarà (prima o poi) una specie di nuova epoca dell’essere – ma come fa Heidegger a saperlo? – nella quale l’essere si mostrerà a noi in una maniera aurorale completamente diversa.[20] Il compito nostro sarebbe unicamente quello dell’attesa fiduciosa di questo evento. Nonostante il fatto che, nella nostra condizione deietta, non dovremmo saperne proprio nulla, Heidegger dice molte cose su questa nuova futura epoca. Forse troppe. Spariranno, finalmente, la vecchia metafisica, le lingue troppo rozze per cogliere l’essere e spariranno anche la scienza e la tecnica disumanizzanti. Senz’altro sparirà il capitalismo, ci libereremo così anche dalla deiezione del Dasein e si affermerà (forse, magari tra le luci dello stadio di Norimberga) un nuovo mondo poetante, dove il soggetto e l’oggetto saranno finalmente congiunti e così potremo parlare la lingua dell’essere. Anzi, meglio, sarà l’essere stesso a mostrarsi a noi tramite il nostro linguaggio. Ci faremo parlare dall’essere stesso. Amen.[21] Come ognun vede, si tratta per lo più di parole in libertà. Purtroppo, nel caso di Heidegger, l’uso sibillino e profetico delle parole non compensa il loro vuoto di capacità esplicativa. Lo maschera soltanto.

17. Come ben si vede, anche in filosofia l’errore esecrando è sempre lo stesso. E cioè il fatto di impiegare termini a elevatissima generalità – o talvolta addirittura a intensione nulla – come cause in una relazione causale e dunque in una spiegazione. Ciò evidentemente è dovuto a una serie interconnessa di atteggiamenti da cui ci lasciamo condizionare. E cioè la tendenza a semplificare, la pigrizia intellettuale e l’assoluta mancanza di sorveglianza critica sul linguaggio che adoperiamo. Magari con l’aggiunta, cosa tipica per Heidegger, di un poco di sfrontatezza e di presunzione. Si tratta di un bias capace di minare le nostre prestazioni discorsive e di farci costantemente ingambarare – come si dice da noi – ogni qual volta cerchiamo di spiegare quel che ci succede intorno. Ciò produce inevitabilmente un peggioramento del livello del nostro discorso pubblico e della nostra capacità di affrontare i problemi che ci riguardano e che ci stanno a cuore. Se vogliamo riuscire a sconfiggere la chiacchiera a da cui siamo inondati e se vogliamo davvero cercare di ridare una qualche dignità alla politica, occorrerà anzitutto partire da una rigorosa analisi critica del linguaggio, che ci metta in grado di rapportarci nuovamente con quel mondo storico sociale del quale parliamo tanto ma con il quale abbiamo perso ogni autentica e realistica relazione.

 Giuseppe Rinaldi (29/02/2024)

 


OPERE CITATE

 1989 Bauman, Zygmunt, Modernity and the Holocaust, Basil Blackwell, London. Tr. it.: Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992.

 1965 Berlin, Isaiah, The Roots of Romanticism, The National Gallery of Art, Washington, DC. Tr. it.: Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano, 2001.

 2004 Ferraris, Maurizio, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.

 1922 Husserl, Edmund, Logische Untersuchungen (III ed.), Niemeyer, Halle. Tr. it.: Ricerche logiche. 2 voll., Il Saggiatore, Milano, 2015. [1901-1902]

 2007 Marradi, Alberto, Metodologia delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna.

 1961 Popper, Karl R., The Poverty of Historicism, Lowe and Brydone Ltd., London. Tr. it.: Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 1975. [1957]

 2002 Psillos, Stathis, Causation and Explanation, Acumen Publishing Limited, Stocksfield.

 1922 Weber, Max, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, J. C. B. Mohr, Tübingen. Tr. it.: Il metodo delle scienze storico-sociali, Mondadori, Milano, 1974.

 

NOTE

[1] Queste noterelle, che nelle mie intenzioni hanno anche un risvolto divertente, mi sono state suggerite da alcuni spezzoni di conversazione con diversi amici, nei quali (spezzoni) ahimè ho ravvisato taluni secondo me notevoli vizi logici di fondo. I vizi logici di fondo, purtroppo, sono un po’ come il DNA. Te li porti dietro, sono inemendabili. Se tu dovessi rinascere, ripartiresti proprio da lì. Scherzi a parte, le pubblico poiché forse potrebbero avere qualche interesse anche per i miei dieci lettori. Ma non ne sono del tutto sicuro.

[2] Uso qui una nozione intuitiva di variabile. Chi volesse sapere tutto quel che serve sui rapporti tra concetti, proprietà e variabili può consultare Marradi 2007.

[3] In termini filosofici, questa terminologia – inconsapevolmente hegeliana – è semplicemente sbagliata!

[4] Consiglio in proposito l’ottimo Berlin 1965.

[5] C’è chi sostiene che Dio si guarda bene dall’intervenire nella storia. Può darsi, ma allora ci possiamo legittimamente domandare a cosa serva un simile Dio.

[6] Ho confutato queste argomentazioni nel mio saggio: Finestre rotte: Novax. Gli ultimi eredi della filosofia occidentale. Bauman tra l’altro confonde platealmente le condizioni sufficienti e le condizioni necessarie. Cfr. Bauman 1989.

[7] Si troverà un mio ampio resoconto critico nel mio saggio Finestre rotte: Novax. Gli ultimi eredi della filosofia occidentale .

[8] Qui non c’entra nulla quel tipo di semplificazione (che è solo apparente!) che deriva dalle cosiddette leggi scientifiche. Semplicemente, le leggi scientifiche non sono semplificazioni!

[9] In italiano non esistono buoni manuali che spieghino con qualche accuratezza le complesse questioni connesse alle spiegazioni e alla causalità. Quelli che ci sono, sono decisamente datati. Segno, questo, che ormai, nella nostra cultura nazionale abbiamo rinunciato del tutto a porci le domande fondamentali e ci accontentiamo solo più di chiacchiere. Per chi volesse approfondire, consiglio un testo elementare ma già di buon livello, in lingua inglese: si veda Psillos 2002.

[10] Non pretendo di definire con ciò la causalità.

[11] L’antecedente e il conseguente possono anche essere espressi in chiave probabilistica, ma ciò non toglie che devono essere probabilisticamente definiti con precisione, secondo le leggi della statistica.

[12] Cfr. Weber 1922.

[13] La scala di generalità (ladder of generality) è conosciuta anche come scala di astrazione. La prima espressione è tuttavia oggi senz’altro preferibile. È una nozione conosciuta fin da Platone. Aristotele ne ha trattato diffusamente. Le nozioni connesse di intensione e estensione hanno trovato applicazione nella logica fino ai giorni nostri. Nell’ambito delle scienze sociali, il politologo Giovanni Sartori si è occupato particolarmente della questione della scala di generalità, in numerosi suoi contributi metodologici. Della sua applicazione nell’ambito della ricerca empirica si tratta ormai diffusamente nei manuali dedicati alla ricerca nell’ambito delle scienze sociali. Cfr., ad esempio, Marradi 2007.

[14] Sono costretto qui a usare in modo intuitivo la nozione di concetto, la quale non è per nulla intuitiva. Si veda sempre Marradi 2007.

[15] Il traduttore italiano de Miseria dello storicismo ha fatto dei casini così grossi che preferisco lasciare il termine in inglese. Cfr. comunque Popper 1961 [1957].

[16] Sono quei termini del linguaggio naturale che non sono ascrivibili a una precisa categoria. In altre parole, termini che da soli non sono in grado di dire nulla. Che non hanno cioè un significato loro proprio. Riporto dalla Enciclopedia Treccani: “Nella logica formale, si dice di termine che preso isolatamente non ha un significato suo proprio ma lo acquista solo in unione ad altri termini, detti categorematici (cioè tali che di per sé significano qualcosa), e agisce sul significato di questi ultimi dando luogo a una nuova espressione”.

[17] La percezione categoriale (da notare la contraddizione in termini!) è una nozione affine alla tanto famosa intuizione intellettuale. Nel sistema kantiano, già l’intuizione intellettuale era considerata impossibile. I filosofi post kantiani che hanno cercato di reintrodurre, per vie traverse, l’intuizione intellettuale si sono cacciati in vicoli ciechi. Cfr. Husserl 1922: Ricerca VI.

[18] Il termine trascendentale – di cui si abusa facilmente – deriva espressamente dalla filosofia kantiana, ma risale assai più indietro, fino alla filosofia scolastica medievale. Oggi non ha più alcun senso seguire Kant alla lettera. Si veda in proposito la critica radicale contenuta in Ferraris 2004. Tuttavia la terminologia “trascendentale” kantiana continua a essere usata pedissequamente. È uno di quei termini dalla intensione risicata che viene applicato in maniera sconsiderata, generando mostri filosofici. Chi non sia addentro alle cose di filosofia, può assumere che il termine significhi qualcosa come “strutturante”, “configurante”, oppure “condizione di una possibilità”. Allude al conferimento di una forma a qc. Ad esempio, per un miope, un buon paio di occhiali è la condizione della possibilità di vedere qualsiasi cosa. Il mondo visto dal miope attraverso gli occhiali si giova della funzione correttiva delle lenti le quali, mentre agiscono, mentre assolvono cioè alla loro funzione, non fanno parte del mondo visivo che è da esse configurato. In tale situazione, si può dire che le lenti svolgano una funzione, appunto, “trascendentale”. Per Heidegger, noi viviamo immersi continuamente in cose che sono, noi stessi siamo, ma ci dimentichiamo costantemente che tutto il nostro mondo è reso possibile dalla lente trascendentale dell’essere. Gulp! 

[19] Dell’Oriente Heidegger non si preoccupa più di tanto. Probabilmente l’essere ha avuto una predilezione per l’Occidente.

[20] Il mondo di Heidegger è un mondo in cui la categoria trascendentale dell’essere (ammesso che sia possibile considerare l’essere in tal modo!) cambia a suo piacimento, determinando così nientemeno che le epoche della storia umana. Una davvero curiosa filosofia della storia.

[21] Mi è capitato si studiare Husserl e Heidegger a più riprese. Per chi fosse interessato, sul mio sito in homepage è presente, in PDF, un mio ampio e analitico commento della Lettera sull’umanesimo di Heidegger: La “Lettera” di Heidegger. Nel saggio è contenuta una mia critica e valutazione complessiva del pensiero heideggeriano.